Titolo: Potere e contropotere
Sottotitolo: Seconda edizione con l’aggiunta di sette studi preparatori
Data: 2003
Note: Prima edizione: La Fiaccola, aprile 1971
Seconda edizione: maggio 2003
Pensiero e azione n. 2
SKU: pensiero-000002
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Nota (anche metodologica) per il lettore

Per certi aspetti Potere e contropotere, titolo infausto che non ebbe mai a incontrare fortuna presso i lettori, costituisce un avanzamento nei riguardi de La distruzione necessaria.

Pur restando prigioniera di alcune ottusità di fondo, che il lettore individuerà facilmente, l’analisi si sviluppa più ampia e determinata. La preoccupazione principale permane quella di fornire elementi organizzativi alla spinta rivoluzionaria e insurrezionale di base, spinta che negli anni immediatamente successivi al Sessantotto sembrava quasi stesse per arrivare alle sue conseguenze estreme.

Un altro elemento di riflessione è costituito dall’insieme dei dubbi avanzati in merito alla possibile costituzione immediata di una società libera, libera in modo definitivo, cioè di una società anarchica. In quegli anni ormai lontani non si faceva nessuna, o quasi, attenzione ai pericoli di un veloce recupero da parte della repressione. Insistendo negli accorgimenti di difesa e di recupero di una rivoluzione libertaria la si può inavvertitamente indirizzare verso una terribile reazione, magari sotto lo stesso nome di anarchia, e le esperienze spagnole qualcosa avrebbero dovuto insegnare agli organizzatori rivoluzionari di ieri e di oggi.

Anche qui, come di già nella seconda edizione de La distruzione necessaria, pubblico alcuni “Studi preparatori” scelti col medesimo criterio.

Il potere della fisica è stato pubblicato su “Studi e ricerche”, 1965, pp. 30-32 col titolo La conquista dello spazio. Ideologia e utopia è stato scritto nel 1970 e rivisto solo oggi per la pubblicazione. Lavoro manuale e lavoro intellettuale è l’Introduzione all’opuscolo di Michail Bakunin dallo stesso titolo pubblicato dalle Edizioni La Fiaccola di Ragusa nel 1975. Il sistema rappresentativo e l’ideale anarchico è l’Introduzione all’opuscolo di Max Sartin dallo stesso titolo pubblicato sempre nel 1975 dalle stesse edizioni. Saint-Simon e Marx è stato scritto nel 1970 e rivisto nel 1978. Il Saggio su Proudhon incorpora l’Introduzione al Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della Miseria, pubblicato dalle Edizioni Anarchismo di Catania nel 1975. La parte più consistente del saggio, scritta nel 1970 e rivista nel 1982, utilizza parzialmente il mio libro: Dio e lo Stato nel pensiero di Proudhon, Edizioni La Fiaccola, 1976.

Nota alla prima edizione

Una raccolta di pensieri era proprio l’ultimo dei miei programmi di lavoro. Sia per una certa quale mia incompatibilità con la struttura di una raccolta del genere, tutta affermazioni categoriche, sia perché preferisco la maggiore articolazione del discorso di ricerca e di riflessione, alla necessaria stringatezza e lapidarietà dei pensieri.

Il presente lavoro, che pure porta il sottotitolo di Pensieri sul governo, si presenta invece, mi auguro di essere nel vero, con alcune pretese di originalità. La prima, di natura formale, è che ogni pensiero è collegato agli altri da una numerazione progressiva, composta da non più di tre numeri separati da un punto. Il significato deve intendersi come segue: il primo numero indica il tema del gruppo di pensieri contrassegnati col numero stesso, il secondo indica le singole parti in cui si divide la trattazione del tema, il terzo la sequenza dei pensieri che compongono la trattazione della parte. In questo modo si è cercato di raggiungere una contestualità ragionativa tale da garantire il passaggio da un pensiero all’altro (passaggio che in genere nelle tradizionali raccolte di pensieri è quasi sempre gratuito), senza che il lettore di un qualsiasi pensiero debba far riferimento a cose o dottrine o affermazioni istituzionali che non siano state prima fatte. In questo modo si potrebbe quasi affermare che la sequenza dei pensieri presentata possegga una deducibilità immediata ed assoluta, come avviene nelle dimostrazioni geometriche. Ciò ovviamente non corrisponde alla sostanza del mio lavoro e non corrisponde neppure agli intendimenti prefissi. Una deducibilità del genere non è possibile in materia di scienza sociale, in quanto ci troviamo nel campo dei giudizi sintetici, per usare un termine assai trito e scarsamente indicativo, comunque, diciamo meglio, ci troviamo nel campo della ricerca, mentre quel genere di deducibilità è possibile solo nel campo dei giudizi analitici, cioè nel campo meramente tautologico o esplicativo.

Un’altra pretesa di originalità nell’ampiezza data al tema, non rinchiuso nella normativa della critica istituzionale al governo, ma allargato, sempre in forma concatenata, alle possibilità di contrasto dell’azione governativa, alle possibilità di una vera e propria rivoluzione popolare. In questo modo non si è voluto ottenere una trattazione completa, ovviamente impossibile in tanto poco spazio, ma si è voluto approfittare dello strumento tecnico ottenuto col raggruppamento numerico, per allargare il campo della ricerca senza cadere nella gratuità e nella vanificazione tipica delle tradizionali raccolte di pensieri.

Dopo l’aspetto tecnico, necessariamente marginale, uno sguardo più approfondito deve essere indirizzato al contenuto sostanziale. Il lettore troverà una trattazione tipicamente libertaria del problema del governo, dei rapporti tra potere e contropotere, dello sfruttamento e della repressione, delle speranze di una rivoluzione popolare. Tutto ciò costituisce un punto di partenza facilmente individuabile ma deve poter dar vita a una serie di riflessioni non riconducibili più alla volontà dell’autore. Solo in questo modo il lavoro fatto può avere un significato e non scadere al livello dell’inutile congerie di pubblicazioni fatte sull’argomento. I pensieri, più ancora per la loro forma succinta e per la loro concatenabilità, devono essere rettamente intesi non nel senso apparente a volte di affermazioni, ma nel senso sempre presente, sebbene qualche volta sottinteso, di suggerimenti e di proposte per un approfondimento.

La mia affermazione della necessità di revocare in dubbio la possibilità di una rivoluzione popolare priva di un’organizzazione determinata e via via modificata da una direzione rivoluzionaria avente come fondamento la caratteristica della funzionalità, mi rendo conto, sarà da molti non condivisa. Voglio solo sperare che non venga travisata. L’ipotesi di lavoro gettata sul tavolo delle ricerche che vengono condotte in questo senso, proprio in questi anni di preparazione fervida e di attesa snervante, deve essere intesa per quella che in effetti è: un avviso del pericolo di lasciare a sé stessa un’eventuale rivoluzione popolare, un avviso del pericolo di trovarci un domani impreparati, come è avvenuto a esempio in occasione del maggio francese. Questo, in proporzioni più ampie, potrebbe avere conseguenze funeste e imprevedibili nella loro portata.

Lo stesso deve dirsi in merito ai miei dubbi sulla possibilità di concretizzare, all’indomani della rivoluzione popolare, una società libertaria. Ho sempre considerato questo punto come una prospettiva, da tenere continuamente presente onde mitigare l’autoritarismo delle forze rivoluzionarie, ma non da imporsi a strutture sociali non ancora mature per l’anarchia. In caso contrario l’imposizione andrebbe fatta con la forza, mantenuta con la repressione e il controllo poliziesco, avrebbe la debolezza di tutte le coartazioni politiche e sarebbe un’espressione della più terribile reazione, pur continuando magari a chiamarsi anarchia.

Ho voluto condurre il lettore su di un piano di ricerca quanto mai accessibile, privo sempre di appesantimenti bibliografici. Il più delle volte si tratta di suggerimenti e teorie nati da dubbi sorti durante l’esame delle soluzioni programmatiche correnti, qualche volta si tratta di teorie originali proposte se non in forma alternativa almeno in forma dubitativa. Quello che conta, comunque, è la reazione positiva del lettore e la sua disposizione alla riflessione. In materia di dottrina politica è tanto facile costruire fantastici palazzi privi di fondamenta. Qui non si è voluto fare niente di simile. Se qualche volta ho lasciato inesplicate le deduzioni legittime l’ho fatto almeno per due buoni motivi, oltre quello più che naturale delle limitazioni che la preparazione di ognuno di noi presenta. Il primo di questi motivi è per me quello dell’ostacolo che un pensatore libertario trova davanti alle ipotesi estreme della sua stessa riflessione, spingendosi troppo oltre nel dettaglio corre il rischio di smarrire la componente principale del movimento rivoluzionario di rottura e di ricostruzione: la spontaneità. Sono convinto che nessuno potrà mai prevedere, e quindi studiare, tutte le conseguenze positive e costruttive della spontaneità resa operante nel campo sociale. Il secondo motivo è dato dall’oggetto della ricerca che non si prefiggeva l’esame di una organizzazione libertaria post rivoluzionaria, ma lo studio di una struttura tipicamente borghese e reazionaria: il governo, e delle possibilità di contrasto nei riguardi dell’azione condotta da questa struttura.

Ma un altro traguardo non mi nascondo con questo lavoro, un traguardo forse non raggiungibile subito, comunque costituente per me una meta continuamente tenuta presente: la lettura fuori delle stantie cerchie degli intellettuali. Le forze vive che stanno oltre, le vere forze proletarie sono ormai mature per una lettura a un certo livello di penetrazione critica, ben oltre comunque dei soliti panegirici o delle solite autocommiserazioni. Questo traguardo non è soltanto mio ma anche dell’editore che si è assunto il non trascurabile impegno di dare alle stampe questo libro.


Catania, 17 gennaio 1971

Potere e contropotere

1. Il governo è costituito da un certo numero di persone fisiche investite di particolari poteri decisionali e singolarmente legate a certi compromessi politici.

1.1 Il governo non può identificarsi con una o più funzioni.

1.1.1 Il governo non può considerarsi come un simbolo o un’etichetta politica.

1.1.2 Nessun sentimento collettivo può consolidarsi nel governo.

1.1.3 Affermare che il governo dà iniziativa, indirizzo, propulsione alla vita dello Stato non significa assegnare delle vere e proprie funzioni a quel gruppo di uomini che abbiamo visto prendere il nome di governo.

1.1.4 Anche la coordinazione di tutte le attività statali non può essere considerata una funzione.

1.2.1 Mancando di una funzione il governo si prefigge però uno scopo. Lo scopo del governo è innanzi tutto quello simile a tutti gli organismi esistenti: la sopravvivenza.

1.2.2 La sopravvivenza degli organismi sociali è essenzialmente legata alla produttività.

1.2.3 La produttività del governo si identifica colla maggiore o minore possibilità di sfruttare i gruppi più lontani da quello immediatamente afferente al ristretto gruppo che costituisce il governo.

1.2.4 In forma indiretta scopo del governo è quindi lo sfruttamento di questi gruppi.

1.3.1 L’esistenza del governo non è “necessaria”. La “necessità” del governo è stata avanzata come semplice ipotesi, mentre dalla diuturna fatica del gruppo detentore del potere governativo è stata trasformata in “verità assoluta” e “necessaria”.

1.3.2 Naturalmente la “necessità” del governo si rivela in tutta la sua realtà nel caso si vogliano mantenere quegli scopi di sfruttamento cui i governi sono diretti. In questo caso parlare di “non necessità” del governo diventa assurdo.

1.3.3 Finché non si comprenderà l’effettiva direzione dell’attività governativa non si vedrà quali sono i limiti del governo e quanto facilmente questi limiti vengono giornalmente superati.

1.4.1 Non è possibile stabilire a priori quale tipo di governo sia più utile per una data società. È possibile, però, fissare dei gradi di dannosità.

1.4.2 Nessuno di questi gradi è però tanto basso da giustificare il sacrificio “volontario” dell’accettazione di un governo.

1.4.3 Dire che la nostra scienza sociale, oggi, al presente stato di sviluppo, può affrontare un problema del genere, significa affermare qualche cosa di sbagliato. In effetti un problema come quello che abbiamo esposto non potrà mai essere risolto dalla scienza sociale.

1.4.4 Il tipo ideale di governo, per una data società, in pratica non esiste. Un solo tipo di governo – in assoluto – è adatto a un dato tipo di società: la ragione dei singoli in una società di singoli.

1.4.5 Questa conclusione, dichiaratamente negativa, non deve però farci arrivare alle dichiarazioni che leggiamo tanto frequentemente nelle opere di filosofi anche contrari al regime costituito. Cioè il fatto di non potere individuare un governo ottimale e la conseguente condanna del governo in se stesso, come sede di autorità istituzionalmente costituita, non ci devono fare ammettere che data l’impossibilità di ottenere organizzazioni statali migliori delle presenti, tanto vale lasciare stare le stesse organizzazioni e tentare di migliorarle.

1.4.6 Nessun miglioramento in questo senso è possibile. La distruzione si impone come fase conclusiva e dichiarativa d’apertura.

1.4.7 La pesantezza della legge di conservazione impedisce qualsiasi tipo di riforma della struttura. Viceversa le modificazioni, anche attuate, della struttura non intaccano i valori che sono a fondamento della struttura stessa. Non rivoluzione ma riforma.

1.4.8 Ridurre allo stretto necessario il lavoro compiuto dalla macchina governativa è quanto è stato da sempre proposto dalle dottrine della libera concorrenza, aderenti al “grandioso” valore sociale del capitale. Una limitazione invocata in difesa della facoltà di sfruttamento privata.

1.4.9 Aumentare il lavoro compiuto dalla macchina governativa è stata da sempre la proposta delle dottrine collettivistiche, afferenti all’altrettanto “grandioso” progetto di limitazione della libertà del singolo, dei singoli gruppi, delle singole ricerche, delle singole idee.

1.4.10 Il miglior governo è quello che non esiste. L’essenza di strutture dirette allo sfruttamento non ha nulla a che vedere con una eventuale contemporanea disorganizzazione. Tutto consiste nello studiare e, di volta in volta, nel risolvere problemi organizzativi non più diretti allo scopo principale, voluto dalla visione politica generale, dello sfruttamento e dello sfruttamento per la sopravvivenza, ma allo scopo del miglioramento delle condizioni obiettive di vita dei singoli appartenenti ai vari gruppi.

2.5.1 Vediamo adesso i vari modi di attuazione dello sfruttamento. Innanzi tutto lo sfruttamento presuppone un’educazione a essere sfruttati. Di questo s’incarica il governo tramite i mezzi a sua disposizione.

2.5.2 L’opinione pubblica è da considerarsi come un’entità a parte, separata e quasi sempre contrastante con l’opinione dei singoli soggetti passivi dello sfruttamento.

2.5.3 La costruzione dell’opinione pubblica è compito assai delicato del governo. Essa viene attuata, di regola, con mezzi comunicativi in cui il rapporto fondamentale del dialogo è snaturato fin dalle fondamenta. La fede e la fiducia che dovrebbero essere le basi del rapporto dialogico vengono accantonate e sostituite con l’inganno deliberato o con la copertura provvisoria e allettante che preludia al compromesso finale. Questi mezzi comunicativi sono assai svariati e possono andare dalla scuola al discorso propagandistico, ai giornali, alla radio, alla televisione, ai libri, al cinema, ecc.

2.5.4 Le possibilità della moderna tecnica delle comunicazioni vengono a rendere grandissime le prospettive di sfruttamento che il governo si pone. Tra la potenza che queste possibilità forniscono al governo e, mettiamo, la potenza che quest’ultimo ricava dall’uso delle sue forze armate o dalla sua polizia, non è nemmeno il caso di fare paragoni: la prima è incommensurabilmente più grande. Basta pensare che l’esercito o la polizia sono costituiti da uomini che devono essere addestrati a coadiuvare l’opera di sfruttamento pur restando, per quanto strano possa sembrare, nella posizione comune di sfruttati. È naturale, pertanto, l’intervento massiccio della propaganda, aiutata da tutti quegli espedienti (spirito di corpo, di bandiera, emulazione, carriera, simbolistica particolare, nastri, nastrini, medaglie, riconoscimenti ufficiali, ecc.).

2.5.5 Il governo ha nell’azione di sfruttamento gli stessi limiti che nel campo economico incontra il monopolista. Infatti non esiste possibilità alcuna che accanto al governo si delinei la figura di un altro sfruttatore autorizzato. Esiste, però, il comportamento dello sfruttato che – come vedremo – cercherà in tutti i modi di ridurre al minimo lo sfruttamento. In questo caso l’azione di sfruttamento non si intensificherà nel momento in cui il risultato marginale ottenuto sarà uguale al costo organizzativo marginale sostenuto per ottenere quel risultato.

2.5.6 Lo studio del comportamento dello sfruttato, o studio dell’evasione fiscale, per utilizzare il nome che prende limitatamente al tentativo compiuto dallo sfruttato di sfuggire alle imposizioni dirette in denaro, cerca di determinare il grado di elasticità dei movimenti di alleggerimento compiuti da quest’ultimo. L’azione di sfruttamento sarà tanto più ampia numericamente quanto più alta è questa elasticità, cioè cercherà di colpire un maggior numero di soggetti, viceversa sarà tanto più bassa come entità singola di sfruttamento quanto più alta è l’elasticità dei movimenti di alleggerimento compiuti dallo sfruttato.

2.5.7 Teoricamente non si può parlare di sfruttamento in senso assoluto. Il soggetto passivo oltre ai vari modi di alleggerire l’azione di sfruttamento, modi che col tempo è riuscito sempre di più ad affinare, ha anche dalla sua l’impossibilità del governo che detiene il potere di portare avanti indefinitamente il processo di sfruttamento in ogni settore. Poniamo: ogni sforzo diretto a favorire lo sfruttamento tramite un abbassamento del livello qualitativo dell’istruzione si ritorce contro lo sfruttatore stesso in quanto renderà sempre più difficile la penetrazione delle formule propagandistiche. E più ancora, la stessa presenza di strutture collaterali, create per favorire ed estendere lo sfruttamento, finisce per costituire limite ai programmi di estensione del governo in quanto queste strutture lotteranno per salvaguardare se stesse dall’ondata sfruttatrice.

2.5.8 Questa situazione ha consentito che coloro i quali si affannano a illustrare il sistema e a mantenerlo, riuscissero a dimostrare l’utilità del governo, se non in tutti i casi, almeno in alcuni e tra i più importanti.

2.5.9 In realtà, però, non è tanto importante provare lo sfruttamento nella totalità delle azioni governative, quanto è importante provarne l’intensità in alcune di esse.

2.5.10 La scelta dei modi di attuazione dello sfruttamento dipende dalle conoscenze che il governo ricava dai sondaggi diretti ad accertare la pubblica opinione. Tanto più profondi e dettagliati sono questi sondaggi tanto più perfezionata risulta essere l’applicazione delle tecniche di sfruttamento. In effetti la pubblica opinione è sempre un’incognita, cioè si presenta sempre sotto forma di proposizione ipotetica. Certo, determinati uomini di governo possono affermare, con un notevole margine di sicurezza, che conoscono a sufficienza la pubblica opinione per adottare un dato sistema di sfruttamento anziché un altro, ma assai difficilmente questa affermazione potrebbe prendere la forma di un’espressione scientificamente comprovabile.

2.5.11 Le difficoltà inerenti alla misurazione delle tendenze della pubblica opinione si riflettono sulla difficoltà, sempre presente, di prevedere l’azione governativa a non breve scadenza. In ultima analisi si tratta di guide indirette e assai imprecise.

2.5.12 Come ostacolo limite lo sfruttamento trova la rivoluzione. Come ostacoli intermedi trova da un lato gli enti istituzionali creati dal governo stesso a salvaguardia del sistema di sfruttamento e dall’altro gli enti creati dagli sfruttati – e istituzionalizzati prontamente dal governo – intesi a limitare lo sfruttamento.

2.5.13 Ponendo da canto, per il momento, l’ostacolo limite, ci restano i due gruppi di ostacoli intermedi. Il primo gruppo giuoca un ruolo indiretto, in quanto, originariamente creato per regolamentare i processi di sfruttamento, finisce per costituire un limite alla possibilità di sfruttamento stesso. Per esempio, il meccanismo istituzionale delle leggi risulta creato per coordinare nel migliore dei modi e rendere inattaccabile alle critiche esterne il sistema di sfruttamento. Questa coordinazione va dalla difesa dell’integrità della proprietà privata, alla difesa della persona fisica del singolo sfruttato, alle regole dello sfruttamento finanziario, alla istituzionalizzazione degli espedienti atti a perpetuare il predominio del gruppo di governo. Non si può negare, però, che questo stesso meccanismo impedisca uno sfruttamento più libero e quindi più rapace e imprevedibile. Almeno prima di potersi approvare un processo di sfruttamento occorre che si adempiano determinate procedure che possono anche essere complesse e lunghe e che possono smuovere le organizzazioni che costituiscono il secondo gruppo di ostacoli intermedi. Questo secondo gruppo presenta gli ostacoli più efficienti, costituiti dalle organizzazioni degli sfruttati. Queste organizzazioni si propongono sempre delle riforme, cioè prendono in considerazione la possibilità di agire sulle norme che regolano il processo di sfruttamento. Naturalmente è compito del governo di attutire le remore che queste organizzazioni pongono all’attività di sfruttamento. In genere questo viene posto in atto con l’istituzionalizzazione di queste organizzazioni (vedi partiti politici). Si possono avere, e di fatto esistono, organizzazioni di sfruttati che resistono all’istituzionalizzazione, e sono in pratica le più pericolose e le più controllate da parte del governo.

2.5.14 I modi e l’intensità dello sfruttamento sono funzioni non solo dell’esistenza di questi ostacoli ma anche – e potremmo dire principalmente – della possibilità del governo di pervenire a un certo grado di conoscenza sia dell’azione condotta da questi ostacoli come della loro estensione e importanza numerica.

2.5.15 Abbiamo il caso in cui la presenza di ostacoli del primo gruppo (ostacoli creati per regolamentare i processi di sfruttamento) influisce positivamente sull’importanza e l’estensione, come pure sulla stessa possibilità di esistenza, degli ostacoli del secondo gruppo. Per esempio, la presenza di un ordinamento costituzionale (ostacolo del primo gruppo) può essere garanzia di esistenza per un’associazione politica di tendenze antigovernative (ostacolo del secondo gruppo), la quale nell’assenza del primo ostacolo non avrebbe vita legale.

2.5.16 Ogni tipo di sfruttamento governativo si fonda parimenti sul consenso e sulla forza, ma non è mai possibile determinare il grado di intervento di questi due elementi.

2.5.17 Lo sfruttamento si spiega in prima analisi con la violenza governativa, cioè con la forza. In pratica, però, non è comprensibile come il gruppo governativo, deciso un dato tipo di sfruttamento, possa ricorrere brutalmente alla forza, ottenendo quel consenso di cui si è detto prima che, se non è sempre spontaneo, consente almeno di mettere sul tappeto della violenza, di volta in volta, ogni tentativo di sfruttamento. Ma la domanda resta la stessa: perché il popolo si lascia sfruttare?

2.5.18 Il motivo principale è l’ignoranza. I fenomeni economici e sociali sono quasi sempre troppo complessi per essere conosciuti da tutti. Non solo ma, anche conoscendoli, il meccanismo stesso della vita in comune, l’impossibilità di operare disintegrazioni parziali, individuo per individuo, rendono quasi impossibile ogni tentativo di ostacolare seriamente lo sfruttamento. Parlando, a esempio, di premio all’esportazione saranno ben pochi i consumatori di un determinato prodotto che comprenderanno come quel premio si traduca in una forma di prelevamento coattivo della loro ricchezza.

2.5.19 Quanti sono coloro che conoscono l’entità, sia pure approssimativa, della spesa pubblica per mantenere in piedi il meccanismo coattivo del governo, quello stesso meccanismo che permette di realizzare il processo di sfruttamento? Certamente molto pochi. Oggi [1969] il Portogallo manda nelle sue tre colonie un esercito di 200.000 uomini per consentirne lo sfruttamento in base a processi medievali di lavoro forzato, questo costa al Portogallo circa il 46% del bilancio nazionale. Le entrate provenienti da quelle colonie costituiscono circa la metà e forse più del bilancio predetto. In altri termini le popolazioni di quei territori oppressi lavorano per pagare i propri guardiani e per mantenere intatto il sistema di sfruttamento.

2.5.20 Altro elemento, da non trascurare, e che potrebbe spiegare la facile raccolta del consenso è quello dello sfruttamento lento e progressivo. Un uomo si ribella più facilmente a un prelievo di 1.000 lire e assai meno a un prelievo distribuito in dieci soluzioni delle stesse 1.000 lire. Il suo istinto di ribellione viene eliminato del tutto se accanto alla esiguità del prelievo gli si prospetta una qualsiasi giustificazione, meglio se di genere etico. In questo caso anche quel residuo di equità, insito in ogni uomo, finisce per scomparire e tutti accettano il prelievo, perché cosa relativamente poco onerosa e perché ha una giustificazione.

2.5.21 Il governo ha tutta una sua struttura per fabbricare queste giustificazioni. L’alimentazione delle idee che servono di volta in volta come giustificazione è curata dalla scuola. Il resto degli organi di informazione, diretti precipuamente a determinare in un dato senso la pubblica opinione, vi dedica meno tempo, ricorrendo a questa attività, di solito, in determinate occasioni o quando un avvenimento nazionale, di particolare importanza (alluvioni, disastri, sommosse, guerre), minaccia di mettere sul tappeto della discussione qualcuna di quelle idee.

2.5.22 Il limite allo sfruttamento non è dato soltanto da ostacoli oggettivi ma anche da un calcolo preventivo – di natura economica – condotto dallo stesso governo. Con questo calcolo si vuole evitare che le perdite inflitte all’intero paese possano risultare dannose al punto da mettere a repentaglio le possibilità di sfruttamento future.

2.5.23 Possiamo concludere che non è mai la forza brutale che mantiene il popolo sotto il gioco degli sfruttatori. La forza è soltanto uno degli elementi del sistema. Importanti sono pure l’ignoranza, l’indolenza, la credulità, l’avidità e tutta quella serie di vizi che tanto facilmente trova alimento nel senso indicato dalla propaganda governativa e che concorre a limitare e a distruggere il residuo di quel poco di spirito critico posseduto.

2.5.24 Abbiamo visto come il consenso e la forza intervengano ambedue nell’azione di sfruttamento. Abbiamo visto pure come il consenso giuochi un ruolo più determinante della forza. Vediamo adesso come il governo procede, in pratica, per ottenere il primo e mettere in atto la seconda.

2.5.25 Il modo di ottenere il consenso è un’arte vera e propria. In quest’arte eccellono i cosiddetti governanti sommi. Sfruttatori dotati di grandi doti personali possono assumere vesti e rappresentare forme differentissime. Dalla dittatura alla democrazia le forme specifiche di sfruttamento sono innumerevoli e in tutte può darsi il caso che eccella il genio personale di uno sfruttatore, intensificando il processo di sfruttamento.

2.5.26 L’antica Roma, la Roma dei pretoriani, si può indicare come un esempio forse eguagliato ma non superato di sfruttamento fondato sulla forza. Gli Stati Uniti di oggi sono senz’altro l’esempio più impressionante di sfruttamento fondato sul consenso, oltre che, ovviamente, sulla forza.

2.5.27 L’arte del consenso e la pratica della forza, come abbiamo visto, si devono ben contemperare ma è nel primo senso che si possono ottenere i processi di sfruttamento più intensivi e più duraturi.

2.5.28 La corruzione non assume più, negli Stati moderni, le forme che invece aveva negli antichi. Le figure dei cortigiani, delle favorite, ecc., sono state soppiantate da quelle degli uomini politici, dei burocrati, dei docenti, ecc. Il mezzo della corruzione, come anticamera dello sfruttamento, ha tutta una storia. Da Atene fino a oggi si tratta di una conseguenza naturale dell’esistenza stessa di un governo. Da ciò l’inutilità di tutti i discorsi etici diretti contro la corruzione.

2.5.29 La corruzione non avviene sempre col denaro. Anzi questa è meno comune. Il più delle volte avviene con la concessione di particolari cariche o particolari onorificenze.

2.5.30 In ogni caso si tratta di compromessi con la propria coscienza che il burocrate accetta assai facilmente proprio perché la controparte è quell’astratto meccanismo statale che non si identifica tanto facilmente con un determinato gruppo.

2.5.31 Una persona che non si sognerebbe mai di compiere un furto altera con tutta tranquillità la propria denuncia dei redditi. Il motivo è da ricercarsi nel fatto che in quel modo, frodando lo Stato, ha coscienza di non compiere un vero e proprio furto. Allo stesso modo, una persona che non si sognerebbe mai di accettare danaro o altre contropartite da un’altra persona fisica, per la cessione di propri servigi, accetta volentieri questo genere di compromessi quando dall’altro lato c’è lo Stato. La corruzione operata dal governo è, quindi, tanto più facile quanto più diffusa è l’opinione che “rubare allo Stato” non è un vero e proprio furto.

2.5.32 I modi di sfruttamento sono attuati in funzione delle possibilità di reperimento della ricchezza. Questa affermazione è importante per capire che la scelta teorica del consenso o della forza, o più precisamente della dose relativa di queste due componenti, è sempre in funzione della reperibilità della ricchezza da impiegare in questa scelta.

2.5.33 In linea generale la forza dovrebbe costare di meno del consenso, specie quando questo è strappato con una larga premessa di corruzione e di compromessi. Ma questa affermazione non è sufficiente a dar conto del problema.

2.5.34 Il fatto che il mondo presenti moltissime democrazie potrebbe significare che il consenso (e quindi la corruzione e il compromesso) siano la soluzione comunemente scelta. D’altro canto non bisogna dimenticare che anche nei casi di dittatura il consenso non è assente del tutto, come nei casi di democrazia la forza è sempre presente.

2.5.35 Dire quale di queste due soluzioni sia la migliore è completamente tempo sprecato. In effetti l’eventualità che una democrazia esista senza brighe, senza compromessi, senza furti, senza corruzioni è assolutamente remota. Le stesse possibilità sussistono quando si pensa a una dittatura esente dalle esasperazioni della forza bruta o dalle stesse pecche delle corruzioni e dei compromessi tipiche dei consensi.

2.6.1 I processi attivi dell’azione governativa tendono a ottenere una sempre maggiore efficienza nell’attività di sfruttamento. Si tratta di un generale indirizzo verso una sempre maggiore perfezione che è contrastato soltanto dalla tendenza contraria della burocratizzazione. Per burocrazia deve intendersi quel processo di deterioramento dell’iniziale spinta governativa verso un più genuino e immediato sfruttamento, che si solidifica in un accrescimento a dismisura del potere degli “uffici”.

2.6.2 La burocrazia finisce, in uno Stato evoluto, per condizionare l’azione stessa del governo e quindi i modi concreti della rapina.

2.6.3 In effetti la burocrazia è il solo potere dominante con una certa continuità in quanto essa è il solo potere stabile di tutto il meccanismo politico.

2.6.4 In definitiva la burocrazia si traduce in una vera e propria alimentazione della plutocrazia.

2.6.5 La burocrazia si alimenta con quella corrente di ingiustizie e di favoritismi su cui si fonda tutto il clientelismo che consente il reperimento del consenso all’azione governativa di rapina.

2.6.6 Mentre il governo ha nella sua azione la regola economica della massima produttività del processo di sfruttamento, la burocrazia ha solo la regola sociale della sopravvivenza a qualsiasi costo. La stessa struttura burocratica si può dire che preveda questo fatto, consentendo e anzi facilitando l’avanzamento dei meno capaci, dei più inetti negli studi, dei più compromessi dal punto di vista politico. Quasi una cernita viene effettuata per sostenere la candidatura dell’incapacità sostenuta dal favoritismo, dell’intrigo nascosto, della improntitudine più aperta.

2.6.7 La burocrazia è una conseguenza dell’azione governativa. Nasce con l’organizzazione dello Stato, non muore con la sua semplice trasformazione. Il fatto che lo Stato venga sommerso dalla rivoluzione proletaria non significa, di per sé, l’abolizione della burocrazia e dei mali consequenziali. Anche lo stesso semplice passaggio dei mezzi di produzione dai privati allo Stato non significa abolizione della burocrazia. Infatti questa manifesta proprio in quel momento tanto delicato tutta la sua importanza e viene lasciata al suo posto per garantire il funzionamento di tutta la struttura. Solo successivamente, quando la lotta di classe dovrebbe essere solo un ricordo, ci si accorge che una nuova classe è sorta: quella burocratica, pronta a difendere i propri privilegi con i denti contro lo stesso proletariato.

2.6.8 Se l’azione del governo – ammettiamo pure per amore di discussione – non risultasse più diretta allo sfruttamento, come dovrebbe essere nel caso di una rivoluzione proletaria, si avrebbe sempre l’ostacolo della burocrazia la quale, per pensare alla propria stessa sopravvivenza, dovrebbe sostituirsi al governo nell’opera di sfruttamento.

2.6.9 Lo Stato può estinguersi, e con esso il governo (cosa non chiara nella dottrina marxista), ma la burocrazia deve immediatamente abolirsi.

2.6.10 Penso che la tanto decantata distanza tra marxismo e anarchismo sia solo una questione di particolare terminologia, amplificata a forza da quegli interpreti marxisti che hanno avuto cura di allargare taluni particolari della dottrina trasformandola da una dottrina rivoluzionaria in una dottrina borghese. Per esempio Marx non ha quasi mai fatto cenno a una rivoluzione operaia capace di impossessarsi della macchina statale e di assoggettarla ai propri usi, ma ha spesso inteso riferirsi a una rivoluzione operaia diretta a spezzare e a demolire la macchina statale in atto.

2.6.11 La burocrazia pur agendo da freno alla rapacità del governo in ultima analisi si presenta come uno ostacolo supplementare alle forze di liberazione e, in concreto, come l’ostacolo più solido e difficile da abbattere.

2.7.1 Il modo più importante dello sfruttamento è quello finanziario. Il prelievo e l’impiego dei mezzi finanziari dà vita a tutta un’ampia attività di carattere amministrativo ed economico. Questa attività costituisce la finanza pubblica.

2.7.2 Per attuare con maggiore penetrazione lo sfruttamento il governo ha avuto bisogno di spersonalizzare il soggetto attivo della finanza pubblica. Infatti lo Stato, come soggetto attivo, è più una astrazione che una realtà in quanto, in definitiva, le azioni che esso compie come realizzatore dei dettami governativi di rapina sono di volta in volta assolte dalla burocrazia nelle sue varie branche.

2.7.3 Oggi si assiste, infatti, alla rinascita di una vera e propria autonomia finanziaria della burocrazia nella sua specificazione di gruppo territoriale o locale. Si hanno oggi finanze locali, minori o ausiliarie.

2.7.4 Che poi queste finanze inferiori ricevano assistenza giuridica dall’esistenza dello Stato è argomento che potrà appassionare i cultori del diritto pubblico, ma che dal nostro punto di vista può essere preso in considerazione solo per indicare un nuovo modo di autorizzare lo sfruttamento.

2.7.5 Siccome lo sfruttamento che stiamo esaminando ha carattere puramente pecuniario è sorta la necessità di una giustificazione di natura economica. Infatti, chi sostiene una spesa, in ogni settore dell’economia produttiva, sa di ottenere in contropartita un determinato introito – di natura patrimoniale o numeraria non ha qui importanza – per cui lo stesso è da aspettarsi per le erogazioni in denaro che vengono fatte allo Stato. Da qui la favola che provvedendo lo Stato alla soddisfazione di alcuni bisogni dei cittadini ha necessità di reperire i fondi bastevoli ad attuare quanto necessario a quella soddisfazione di bisogni.

2.7.6 In questo modo l’attività di sfruttamento nel suo aspetto finanziario viene spacciata come una vera e propria attività di trasformazione di beni in servizi di natura pubblica.

2.7.7 La giustificazione dello sfruttamento si presenta grosso modo in duplice forma. Da un lato si pretende di assicurare la possibilità di determinati atti dei singoli sfruttati, dall’altro si assume in proprio la gestione economica di determinate attività produttive.

2.7.8 In ambedue i casi l’essenza stessa del principio unico della scienza economica dovrebbe reggere l’azione del governo. In concreto questo non può avvenire. Infatti scopo del governo non è tanto quello di assicurare la sicurezza dei cittadini, quanto quello di consentire quel processo spontaneo di traslazione dello sfruttamento che consente che l’effettivo peso di questa dura realtà sociale venga sostenuto dalle classi più povere e indifese. Con la sicurezza delle persone, dei contratti, della proprietà, il governo si dirige a tutelare gli interessi dei ricchi nei confronti dei poveri, e in questo i suoi fini sono più che evidenti: consentire l’ottenimento di quell’adesione più o meno spontanea dei gruppi più ricchi allo scopo di salvaguardare l’unità del processo di sfruttamento nella sua molteplicità di diramazioni. A rendere ancora più anacronistico il sistema – naturalmente dal punto di vista economico, che da quello etico più che di anacronismo bisognerebbe parlare di dramma e di lacrime – concorre la bardatura burocratica con tutta la sua lentezza e ottusità. Dall’altro lato, la gestione in proprio di determinate attività produttive è perseguita dal governo per motivi svariatissimi che possono andare da quelli demagogici a quelli squisitamente politici, da quelli economici di vero e proprio reperimento di fondi a quelli propagandistici, ecc.

2.7.9 Che la scienza delle finanze possa giungere a conclusioni teoriche di notevole interesse per la logica è cosa possibile e, in gran parte, dimostrata dai risultati, ma che queste costruzioni possano avere una qualsiasi utilità per l’azione concreta di coloro che verranno chiamati in futuro a contrastare le sempre maggiori pretese governative di sfruttamento, è cosa assai dubbia. In questo possiamo dirci d’accordo con quelle che furono le chiarificazioni fornite da Vilfredo Pareto e con le non infrequenti rilevazioni “scomode” di economisti come Borgatta, Fasiani e Fanno.

2.7.10 Sull’esempio della Costituzione francese del 1793 tutte le costituzioni moderne s’ingegnano di fissare delle garanzie per il singolo contro il potere coercitivo di sfruttamento del governo. Le preoccupazioni sono più lampanti in questo e non negli altri settori di sfruttamento in quanto l’uomo è stato sempre più sensibile dalla parte del portafoglio. È ovvio che si tratta di panacee di assai dubbia efficacia.

2.7.11 Una dichiarazione come la seguente dovrebbe fare meditare molti seguaci delle teorie filostatali: “Tutti i cittadini hanno diritto di constatare da sé medesimi, o mediante loro rappresentanti, la necessità della contribuzione pubblica, di consentirla liberamente, di seguirne l’impiego, di determinarne la qualità, l’assetto, la riscossione e la durata”. Come mai per secoli gli uomini hanno potuto credere a simili assurdità? Psicologicamente sarebbe un mistero degno di essere studiato.

2.7.12 È certo che la nostra posizione critica nei confronti della struttura governativa ci dispone male verso qualsiasi osservazione positiva diretta ad accertare procedimenti o regole del processo di accaparramento delle risorse individuali. In ogni modo è altrettanto certo che non può parlarsi di una forma finanziaria data la grande mutevolezza della realtà economica sottostante. L’attività finanziaria è eminentemente basata sul giorno per giorno, su quella tecnica dell’espediente che resta legata spesso alla improntitudine del singolo e del gruppo politico. Lo scopo è palesemente la ricerca del punto più debole, della cosiddetta “linea di minor resistenza”, cioè del punto in cui risulta più facile e meno pregiudizievole dal punto di vista politico colpire il contribuente.

2.7.13 Per attuare lo sfruttamento occorre, come si è detto, più che la forza, in misura maggiore il consenso. Elemento fondamentale dei processi propagandistici per ottenere questo consenso è – specie in materia finanziaria – l’illusoria identificazione di un interesse generale. Niente spinge di più gli uomini a lasciarsi spremere, di un aumento – sia pure illusorio – della propria sicurezza personale, della possibilità di potere pensare indisturbati a come trasferire sui propri simili lo sfruttamento subito, della possibilità di accumulare ricchezze e onori. Quando poi la tassazione non è ben visibile a causa delle molte ripartizioni e dei complessi accorgimenti economici, è facile che essa passi indisturbata. È ovvio, però, che questo sfruttamento risulta tanto più gravoso quanto minore è la possibilità di trasferirlo su altre persone, per cui tenendo presente come il trasferimento predetto si arresti nelle classi più povere, si comprende facilmente la spiacevole situazione di queste ultime.

2.7.14 Ora, l’individuazione dell’interesse generale è tale non perché sia un’emanazione istituzionale del governo a indicarlo e a provvedere al suo soddisfacimento, ma solo perché avvertito dalla collettività. Questa affermazione, quasi pacifica in materia finanziaria, sembrerebbe eludere il principio che veniamo illustrando. Infatti si potrebbe pensare che l’azione governativa, da sola, non sia sufficiente a stabilire la validità di una tassazione, se questa, da per sé stessa, non corrisponde alle caratteristiche del soddisfacimento di un interesse generale avvertito dalla collettività. Bisogna, però, prestare attenzione alla sottigliezza dell’affermazione predetta. Spostando il centro del discorso dalla persona giuridica dello Stato all’essenza astratta di un “interesse generale”, si è voluto trasformare un atto impositivo gratuito in qualche cosa di ineluttabilmente “giusta” in quanto voluta dal popolo: e su questo tutti sappiamo che non si ammettono discussioni. Che in pratica si tratti di una assurdità non ha importanza, che in fondo il popolo non ha interessi di ordine generale ai quali non possa e di fatto non provveda da solo, non ha importanza, che il gruppo di potere condizioni secondo proprie direttive quello che si continua a definire “interesse generale”, non ha importanza. Conta solo che si riesca a ottenere il consenso della collettività addormentata e sempre meglio addormentabile.

2.7.15 Non è possibile definire scientificamente il concetto di “ interesse generale ”. Da qualsiasi punto di vista si consideri resta sempre una entità arbitraria identificabile solo attraverso la lente deformante di una determinata direttiva politica.

2.7.16 Allo stesso genere di obiezioni si può assoggettare il concetto di “bisogno pubblico”.

2.7.17 Tanto più la scienza delle finanze si avvicina all’economia accettandone i metodi di ricerca, tanto più si nasconde l’effettiva realtà di una condotta irrazionale dell’autorità governativa. Viceversa tanto più la scienza delle finanze si avvicina alla sociologia accettandone i metodi di ricerca, tanto più si riesce a fare luce sulle arbitrarie decisioni dei gruppi che detengono il potere. Naturalmente si tratta di un’affermazione che può sembrare troppo generica e gratuita, però come piano operativo può risultare utile a coloro che si indirizzano allo studio della scienza che indaga i fenomeni finanziari dello Stato.

3.8.1 Abbiamo visto i processi di sfruttamento in atto e abbiamo anche dato un fugace cenno sulle modeste possibilità di difesa del singolo. Vediamo adesso in concreto queste possibilità in che cosa consistono. Diciamo subito, riprendendo quanto detto prima ai punti 2.6 e sgg., che il governo trasferisce e consolida in enti e strutture non più precisamente attinenti al governo stesso le direttive e gli scopi dello sfruttamento. Ciò causa, ovviamente, nello sfruttato una necessità di difesa su diversi fronti e una minore possibilità di ottenere risultati positivi.

3.8.2 Teoricamente il singolo possiede determinate possibilità di difesa contro l’azione di sfruttamento operata dal governo. La stessa dottrina democratica, tra l’altro, afferma che tutta l’organizzazione della magistratura e l’organizzazione parlamentare, cioè tutto il potere giurisdizionale e tutto il potere legislativo stanno a guardia dell’operato del potere esecutivo, cioè del governo. Che poi in concreto questa guardia è attuata in modo deficiente è faccenda di difetto delle concretizzazioni umane e non della bontà della teoria. Naturalmente questa tesi non solleva qui alcun interesse. Sappiamo tutti che contro l’azione governativa di sfruttamento il singolo non ha alcun valido strumento di difesa nella legge e nei tribunali in quanto quell’azione non è mai attuata in forma irrazionale ma segue i canoni del diritto positivo, cioè si fonda su di una norma di legge (senza legge infatti non può esistere nessuna imposizione governativa), per cui diventa impossibile l’intervento del potere giurisdizionale o legislativo diretto ad alleviare le pene del singolo.

3.8.3 Ma la presenza dell’organo legislativo non deve essere intesa in questo senso, cioè nel senso di smuovere quell’immenso apparato per ovviare alle ingiustizie perpetrate dal governo. Giustissimo, diciamo noi, voltiamo allora il problema. Il singolo è rappresentato direttamente nell’organo legislativo, donde l’apparenza del sistema di democrazia popolare, quindi non è possibile che qualche cosa venga posta in pratica contro di lui in quanto si avrebbe l’opposizione del suo rappresentante. Da qui si deduce che essendo la somma dei rappresentanti rappresentativa della somma dei rappresentati, contro questi ultimi non potrebbe essere posto in atto nulla da parte della cricca governativa. Ed allora? Come mai la realtà smentisce radicalmente queste affermazioni della teoria?

3.8.4 La soluzione è semplice: l’istituzionalizzazione assoluta delle forze parlamentari rende impossibile un’efficace difesa del singolo dalle mire di sfruttamento della cricca di potere. Infatti è quest’ultima che rende possibile l’istituzionalizzazione delle prime, il che è come dire che alimenta la loro stessa forza vitale rendendole partecipi della partizione della torta. Finché una forza rivoluzionaria resta tale è sempre al di fuori della cricca di potere, quindi anche al di fuori delle forze parlamentari, una volta che accetta il compromesso cessa di essere una forza rivoluzionaria e lavorerà con le altre componenti alle riforme dei sistemi di repressione e allo sfruttamento sistematico delle classi più miserabili.

3.8.5 La giustificazione teorica di questo compromesso verte su due fronti. Il primo riguarda la pretesa di una maggiore possibilità di penetrazione all’interno del sistema e quindi, in definitiva, di una maggiore possibilità di “rottura”. La seconda riguarda una curiosa differenziazione tra tutela degli interessi del singolo e tutela degli interessi della collettività. Vediamo, adesso, come questa duplice giustificazione nasconde un grossolano errore pratico anche se, dobbiamo ammetterlo, qualche volta parte da ingenuità teorica e non da malafede.

3.8.6 In teoria potrebbe essere giusto che una presenza rivoluzionaria all’interno della struttura parlamentare tragga maggiori frutti a favore del proletario. In pratica il ruolo dell’opposizione viene ridotto a un contenuto meramente retorico, mentre il lato positivo, costituito dal fatto indubitabile che la campagna elettorale contribuisce a una diffusione delle idee rivoluzionarie, viene annullato dall’integrazione dei candidati e dal loro compromesso con la cricca che manipola il potere.

3.8.7 La differenziazione tra tutela degli interessi del singolo e tutela degli interessi della collettività sussiste perché quest’ultima viene avvolta nelle nubi ideologiche che servono tanto bene a nascondere le mire di sfruttamento di chi sta al potere. Infatti se è possibile pensare a un raggio di interessi specifico per la collettività, esistente in forma diversa e più semplice nel singolo individuo, ciò non significa che tutto quello che il governo spaccia per interesse della collettività sia veramente tale. Spesso questo preteso interesse della collettività è tanto in contrasto con l’interesse del singolo da risultare palese la presenza della cortina fumogena della mistificazione e dell’inganno allo scopo di raggiungere determinati fini. Il singolo risponderà irrazionalmente davanti a sollecitazioni di questo genere, correrà alla guerra, darà la propria vita in combattimento senza chiedersi il perché di quella guerra, i motivi che l’hanno determinata, l’interesse personale che ne ricaverà, la sua azione sarà soltanto determinata dallo stimolo sovrastrutturale dell’ideologia fornita dal governo. In sostanza, però, la differenza tra interessi del singolo e interessi della collettività è soltanto di natura quantitativa o di intensità. Gli interessi che sono spacciati come tipici della collettività sono soltanto creazioni del potere.

3.8.8 Un altro strumento di difesa contro lo sfruttamento il singolo lo vede nel sindacato. Questo tradizionale strumento di lotta dei lavoratori ha adesso perduto molto della sua originaria forza di rottura presentandosi sotto la forma di grosse organizzazioni sclerotizzate dalla burocrazia, per la maggior parte strumentalizzate dalle strutture parlamentari e decisamente in mano al governo. L’opposizione sindacale ai padroni è diretta in modo da non intaccare gli interessi di questi padroni a livello governativo. In altri termini, finché il gruppo padronale contro cui si trova a lottare il sindacato non è veramente in diretto rapporto con la cricca che detiene il potere – o per propria debolezza, rappresentando una piccola parte della categoria padronale, o per generale tendenza politica del momento – allora la lotta sindacale viene condotta efficacemente, sempre però sul piano tradizionale delle riforme. Nel caso, invece, che il gruppo padronale sia lo stesso che indirettamente costituisce e sovvenziona la cricca di potere, allora l’azione del sindacato è praticamente nulla. Un esempio del primo caso l’abbiamo oggi in Italia dove l’azione del sindacato è stata più efficiente nel campo farmaceutico e meno efficiente in quello metal-meccanico perché il primo settore è politicamente avversato dalla stessa cricca di potere, che lo indica – fondatamente – come uno dei settori a maggiore reddito di tutta la produzione industriale. Un esempio del secondo caso è dato dalle industrie che negli Stati Uniti provvedono alle forniture per l’esercito. Qui i sindacati svolgono il compito di danneggiare inizialmente i produttori con gli scioperi perché questi possano aumentare i costi delle forniture e quindi, in ultima analisi, guadagnare lo stesso se non di più in quanto nei contratti con lo Stato è previsto un tanto di utile oltre il costo. In questo modo il lavoratore sciopera per fare spendere di più allo Stato e quindi per sostenere lui stesso una imposizione fiscale più grave.

3.8.9 Inutilizzabile il sindacato come strumento di lotta contro i padroni lo è ancor di più inutilizzabile come strumento di difesa contro lo sfruttamento del governo. Essendo questo potere il fulcro centrale su cui ruota tutto il meccanismo capitalistico, si spiega chiaramente come il sindacato giochi un ruolo favorevole al capitalismo stesso malgrado le origini proletarie e quasi rivoluzionarie. Infatti il sindacato provvede a difendere i lavoratori dai capitalisti più rapaci consentendo così che a disposizione del capitale resti sempre una determinata forza lavoro, in quanto in caso contrario l’operaio scenderebbe al di sotto del limite di sussistenza o verrebbe spinto a una lotta pazza e senza speranza contro il potere predominante del capitale. Inoltre essendo il sindacato una struttura organizzata in forma burocratica ha propri dirigenti che finiscono per smarrire il loro compito di rottura del sistema e si lasciano irretire dalla smania della carriera e dell’arrivismo, anche se all’interno della stessa struttura sindacale. Si assiste così a un perfetto adeguamento dell’organizzazione sindacale alla struttura capitalistica, i singoli lavoratori sono sempre più lontani dal centro, riescono sempre di meno a farsi sentire dall’organizzazione che fu la loro. Proprio per questo si sono verificati, ultimo il caso del maggio francese, scioperi voluti su propria iniziativa dai lavoratori senza la preventiva decisione dei sindacati.

3.8.10 È ovvio che se il lavoratore accetta il sindacato perché bene o male si convince che non è ancora in grado di darsi un’organizzazione più efficiente che lo garantisca veramente nella lotta contro il capitale, resta il fatto che il sindacato non è assolutamente un mezzo idoneo di difesa contro il potere governativo.

3.8.11 Sembrerebbe, a questo punto, e qualche lettore potrà averci di già rimproverato di parzialità, che il singolo di cui tanto ci preoccupiamo, il singolo che denunciamo all’attenzione di quanti ci seguono come il più esposto alle mire di sfruttamento poste in atto dal governo sia soltanto il lavoratore, l’operaio, l’appartenente alle classi più povere, colui che non ha avuto la possibilità di farsi avanti nella vita verso la conquista di posizioni di privilegio e di comodità. E gli altri? Non sono forse anche gli altri sottoposti allo sfruttamento da parte del governo? Non pagano anche loro le imposte? Non sottostanno a tutte le altre limitazioni della libertà che il governo pone in atto? All’estremo anche i grossi complessi di produzione, i grossi monopoli di settore pagano le imposte e sottostanno a delle limitazioni di libertà. Ma è ovvio che la situazione è assai differente. Mentre il lavoratore non può scrollarsi di dosso lo sfruttamento, l’appartenente al ceto più abbiente, e via via fino al grande complesso produttivo, tutti gli altri possono trasferire lo sfruttamento, giù giù, fino alle classi più povere o, comunque, fino alle classi meno difese. Queste non potendo operare la traslazione dell’onere lo sopportano in pieno, perciò è di queste che ci preoccupiamo.

3.8.12 Ora nella contrapposizione tra ricchi e poveri, tra classi dominanti e classi dominate, tra sfruttatori e sfruttati, non si può avere una distinzione netta. Infatti nei ceti inferiori, dove non è più possibile operare una traslazione dei carichi di sfruttamento, esistono molti strati ambientali. I più alti sono in genere gli strati che alimentano la burocrazia statale e parastatale e godono di particolari privilegi che compensano, almeno in parte, l’impossibilità della traslazione del carico: per esempio stabilità del rapporto di lavoro, minore gravosità della prestazione lavorativa, maggior tempo libero a disposizione, maggior periodo di ferie, ecc. Ciò spiega perché la preoccupazione maggiore di uno studioso di questi problemi debba andare proprio agli strati ultimi delle classi meno abbienti.

3.8.13 Altro strumento di resistenza, connesso storicamente al sindacato, è lo sciopero. Si tratta di una forma di lotta che il lavoratore intraprende su direttiva del suo sindacato e può prendere forma politica quindi di aperta resistenza alle mire repressive della cricca governativa. Anche qui vale quanto si è detto a proposito del sindacato in generale. Lo sciopero come strumento di lotta per ottenere sempre maggiori integrazioni al sistema è validissimo ma è decisamente superato come strumento di lotta rivoluzionaria. L’integrazione totale del sindacato ha fatto scadere questo modulo di resistenza. Resta pur sempre lo sciopero spontaneo, non organizzato, l’azione diretta, scaturita dalla profonda convinzione degli operai che non esiste altro mezzo per contrastare lo sfruttamento sempre crescente. Allora i dirigenti sindacali si accorgono di quanto precaria sia la loro posizione. I lavoratori non ubbidiscono più a direttive che provengono dall’alto, continuano o intraprendono la lotta anche quando i capi sindacali hanno concluso le trattative. È ovvio che in questi ultimi casi ci troviamo di fronte a sistemi di lotta diretta che non hanno quasi nulla a spartire con le forme tradizionali di sciopero.

3.8.14 Resta un ultimo mezzo di resistenza allo sfruttamento: l’uso della violenza. Niente garantisce nell’uso di questo strumento l’assoluta efficienza.

3.8.15 Le società sussistono perché al loro interno sono presenti stimoli indiscussi di solidarietà. Purtroppo gli stimoli a cui è sottoposta la società moderna anziché produrre un aumento di questa solidarietà, logicamente prevedibile con l’abbattimento delle antiche ripartizioni classiste e con l’avvento delle idee democratiche, ha prodotto una progressiva alienazione degli antichi valori rivoluzionari borghesi. Su questi valori che avrebbero dovuto garantire la costruzione della futura società utopisticamente sognata, si è determinatamente eretta una società di rigide divisioni in classi – all’apparenza meno rigide del passato ma non per questo meno chiuse –, una società che persegue miti insensati, una società che lascia vivere accanto alla ricchezza violentemente smodata i ghetti, una società che ha eretto a proprio simbolo il consumo.

3.8.16 In questa situazione i vecchi residui antisociali, gli istinti primordiali di contrasto e di prevalenza degli stimoli più insensati, i desideri dettati dalla più pura megalomania, i sogni di grandezza e di gloria, i nazionalismi, le chiusure autarchiche, i campanilismi e tutta quella roba che uno sviluppo graduale e organico della solidarietà avrebbe fatto presto a relegare in soffitta, hanno finito per svilupparsi in forma abnorme. Oggi affrontiamo una società malata che usa la repressione per ingigantire lo sfruttamento, che adotta con sistematica brutalità la violenza organizzata per coprire gli errori del governo e il mancato consenso. Ecco perché i sistemi di difesa visti prima non possono essere usati con risultati concreti. Resta, come si è detto, l’uso della violenza.

3.8.17 Non è vero che l’uso della violenza sia condannabile in assoluto nelle contese politiche (vedi, per esempio, le affermazioni in merito fatte da Paolo VI nel settembre del 1970). La violenza dà origine, in sede politica, a due tipi di conseguenze: da un lato determina lo sviluppo civile, dall’altro reprime le forze vitali che procurano il primo. Nell’ipotesi di assenza di queste istituzioni di repressione la violenza che concretizza il progredire civile sarebbe soltanto una violenza intellettuale diretta a sovvertire vecchie idee e pregiudizi. Facciamo un esempio. Nel Seicento puritano, in un clima di caccia alle streghe, si svilupparono notevoli forze intellettuali dirette a scongiurare quel tipo di aberrazione, queste forze avrebbero potuto, limitandosi alla sola violenza intellettuale, eliminare quelle condanne e quelle esecuzioni contro tante povere disgraziate vittime della superstizione popolare. Ma ciò non fu possibile, si dovette ricorrere alla violenza armata per eliminare non tanto la credenza popolare quanto le cricche di coloro che su quella credenza avevano costruito i loro interessi concreti, in altri termini per sconfiggere una vera e propria burocrazia giuridica creatasi sulla superstizione popolare.

3.8.18 Quindi non essendo pensabile una scomparsa dell’attuale stato di repressione politica, la violenza si giustifica e resta, anzi, come lo strumento più valido in mano degli sfruttati. A proposito del problema della violenza, che tante discussioni ha fatto sorgere e tante inutili polemiche ha fomentato, si deve dire che esso, in pratica, non sussiste. Quando diciamo che l’uso della violenza non è soltanto legittimo ma utile e necessario ci riferiamo, ovviamente, alla violenza che contrattacca e distrugge la repressione, in quanto se ci riferissimo alla violenza dello Stato saremmo non solo degli imbecilli ma anche degli ingenui, non avendo quest’ultimo tipo di violenza bisogno della nostra approvazione per essere messa in pratica. È alla violenza degli sfruttati che ci riferiamo, cioè alla violenza di coloro che non hanno possibilità di porre in atto che un solo tipo di violenza: quello appunto della difesa contro un processo di sfruttamento che li dissangua a poco a poco.

3.8.19 In pratica, e qui s’impone una riflessione, può sorgere il problema di che cosa autorizzi moralmente l’uso della violenza per imporre un determinato senso alla società che sia, però, decisamente contrario al senso voluto dal governo. Posto in questi termini, trattandosi di due generi di uniformità opposti ma ugualmente gratuiti, il problema non è facilmente risolvibile. Bisogna tenere presente i punti di partenza del nostro discorso. Infatti è proprio l’essenza stessa del governo, e quindi di tutte le organizzazioni statali che ne derivano, che serve da illuminazione. Essendo il governo eminentemente diretto allo sfruttamento del singolo, ed essendo gli strumenti di difesa di quest’ultimo assolutamente inefficienti, resta provata non solo la legittimità dell’uso della violenza, ma la sua necessità.

3.8.20 Qui occorre fare una distinzione tra due ulteriori tipi di violenza di difesa: il primo tipo, di natura inconsulta, irrefrenabile, spontanea, parte dai singoli e si determina a seguito di difetti nel sistema di sfruttamento governativo. Il secondo parte sempre dai singoli ma è più maturato, ha una natura più sistematica, frutto di una intima convinzione dei singoli della necessità dell’atto violento che, in questo modo, diventa assai spesso di natura collettiva. Nel primo caso abbiamo l’esplosione imprevedibile della rivolta, nel secondo, la rivoluzione.

3.9.21 Il primo tipo di violenza, quello che sbocca quasi sempre nella rivolta, pur presentandosi come manifestazione collettiva, è caratterizzato da un intrinseco individualismo per cui i partecipanti alla manifestazione violenta, pur riuscendo qualche volta a diventare folla, non diventano mai, o quasi mai, gruppo significativo di una determinata contrapposizione al processo di sfruttamento. Ciò toglie alla rivolta le sue poche possibilità di riuscita. Il governo si accorge con facilità degli errori commessi nello sfruttamento e corre ai ripari. Il consenso viene reperito in breve tempo con opportune concessioni che perfezionano il processo integrativo. Apparentemente la classe governante china il capo davanti alla violenza, ordina alla polizia di non sparare sulla folla, di ritirarsi nelle caserme (vedere i recenti fatti di Reggio Calabria – ottobre 1970), concede qualche piccola cosa, un aumento di paga, la promessa di un investimento governativo nella zona, la promessa di un’università o di adeguati servizi igienici, ecc. In questo modo l’arte del governo si rivela per quella che in effetti è: un’arte fondata sul trasformismo: i leoni si camuffano da volpi. Ormai è da molto tempo che le volpi sono accettate sempre più apertamente nella classe governante, mentre i vecchi leoni sono messi da parte. Come abbiamo più volte detto ai vecchi metodi di repressione si susseguono ora i metodi della tolleranza, del “dialogo molle”, dell’accordo sotterraneo, del compromesso, dell’inganno, della concussione, del peculato, in una parola della corruzione che tutti coinvolge e tutti mette in condizione di non nuocere.

3.9.22 La rivolta è prevista dal sistema. Restando nell’àmbito della parzialità dell’impiego della violenza il sistema non può essere assolutamente scosso.

3.9.23 D’altro canto adottare questa politica di compromessi e di accordi sotterranei conduce la classe governante alla impossibilità di programmare su basi solide il proprio avvenire. Gli uomini della repressione, quelli su cui si poteva contare per assicurare ai padroni un avvenire sicuro su cui formulare piani di sfruttamento sempre più ampi e perfezionati, sono stati messi da canto. Restano le volpi, animali deboli che tirano per lo più a campare, che non si curano di programmi a lunga gittata ma si accontentano di sfruttare al massimo la situazione presente e di ricavare il massimo utile personale. Questa situazione di instabilità o di debolezza governativa induce i singoli sfruttati alla facile considerazione che insistendo sulle manovre istituzionali della resistenza sindacale si possa ottenere molto di più di quanto non si ottenga con una azione collettiva violenta di portata generale, cioè con una rivoluzione capace di sovvertire l’ordine costituito. Agli estremi, quando costoro si accorgono della totale inutilizzabilità dei sindacati e delle altre forme istituzionali di lotta, ripiegano sulla rivolta parziale, forma di violenza di indubbia efficacia ma sempre con mire parziali di natura circoscritta. I risultati concreti che in questo modo vengono strappati al debole governo sembrano parlare a favore di queste tecniche di resistenza, ma non si deve dimenticare che se le volpi sono assai più deboli dei leoni, in compenso sono molto più astute. Padroni della tecnica del mercato le volpi fanno presto a ridurre in briciole gli illusori vantaggi ottenuti dagli sfruttati.

3.9.24 La debolezza del governo delle volpi si presenta, pertanto, come una remora, non indifferente, all’impiego della violenza decisiva, della violenza rivoluzionaria.

3.9.25 A questo si deve aggiungere che oggettivamente è più difficile spodestare una classe governante che si basi sull’astuzia invece che sulla forza. Infatti contro la seconda si potrebbe predicare una rivoluzione dell’acredine e dell’odio, contro la prima soltanto una rivoluzione del dissenso che, se da un lato si presenta come rivoluzione più adulta, richiede una più profonda maturazione delle masse a livello di coscienza.

3.9.26 È la rivoluzione l’unico vero strumento di cui dispongono le classi governate contro lo sfruttamento sistematico delle classi governanti.

3.9.27 Molti governi attuali sono di origine rivoluzionaria. Eppure contrastano con la tesi della rivoluzione popolare come arma contro la loro azione di sfruttamento. Il motivo è evidente in quanto in questo modo lo sfruttamento verrebbe a cessare. Restano da vedere le forme fantastiche che vengono utilizzate per giustificare questa strana modificazione dell’assunto rivoluzionario di partenza.

3.9.28 La rivoluzione era legittima contro il precedente governo perché si fondava sul diritto del re, non contro il presente che si fonda sul diritto del popolo. Fantastica affermazione che non è nemmeno il caso di controbattere, salvo che non si voglia parlare di uno strano diritto del popolo a essere sfruttato. Qui la parola “popolo” è usata nel consuetudinario senso traslato e indica una entità non ben definita, forse non definibile, adatta comunque a gettare polvere negli occhi a chi non conosce bene questi giochetti di parole.

3.9.29 La rivoluzione era legittima contro la dittatura, non più in uno Stato dove esiste il suffragio universale. Altra fantastica affermazione, altro mito, quello del “suffragio universale”, stante a indicare la possibilità da parte del popolo di esprimere la propria volontà. Altro banale ma efficace giochetto di parole.

3.9.30 La vera rivoluzione non ha bisogno di teologie o fini fantastici, non ha bisogno di strane parole dall’oscuro significato, non ha bisogno di metafisiche costruzioni intese a fare apparire fondato ciò che non lo è, la vera rivoluzione viene dal singolo, dalla coscienza del singolo, che si accosta ai problemi degli altri singoli, che comprende le coscienze degli altri singoli, in una simbiosi di necessità e di dolore, di amarezze e di disillusioni. L’insieme dei singoli produce la premessa rivoluzionaria, la guida tecnica di questi singoli sarà funzionalmente affidata ad altri singoli, non capi o miti immaginari da seguire, ma semplicemente altri singoli in grado di svolgere una specifica funzione: il coordinamento dei processi spontanei di rivoluzione contro lo sfruttamento.

3.9.31 Una situazione rivoluzionaria è matura quando alla stabilità delle coscienze corrisponde una sufficiente instabilità del contesto sociale dove la stessa azione andrà a concretizzarsi.

3.9.32 Infatti il sistema, per mantenersi, data la intrinseca debolezza manifestatasi nel corso del suo storico viaggio dalla repressione alla tolleranza, necessita di tutta una dettagliata struttura di miti e figurazioni, di simboli e fini immaginari. In una parola necessita di un’accurata e continua revisione delle fonti di produzione dell’ideologia sostenitrice. Quando questa produzione di fondo subisce arresti, o comunque vacillamenti, si aprono falle nel sistema e si compromette la sua stabilità. È allora che la rivoluzione deve saper cogliere il suo momento propizio, trovandosi di già pronta al livello di coscienza. Una impreparazione in quel momento compromette qualsiasi tipo di rivoluzione popolare, a maggior ragione il tipo specifico di rivoluzione libertaria che abbiamo sopra descritto.

3.9.33 Sebbene, in linea di principio, sia possibile stendere tutta una sequenza di dimostrazioni teoriche dirette a capovolgere i vecchi convincimenti relativi alla dinamica delle rivoluzioni, non ci pare opportuno, almeno in questa sede, dilungarci sull’argomento. Ci basta avere accennato alla specifica forma rivoluzionaria che riflette qui il nostro interesse di indagatori e di averla segnalata come strumento valido per l’azione contro lo sfruttamento governativo.

3.10.34 Abbiamo visto l’insieme dei mezzi a disposizione delle classi sfruttate per reagire e ne abbiamo criticato alcuni, indicando, di volta in volta, i motivi intrinseci che li rendevano inefficaci, pur nella loro antica validità di mezzi di rottura. L’unico di questi mezzi che abbiamo individuato come veramente efficace, la rivoluzione popolare, rivela caratteristiche interne tali da farci pensare che un suo impiego possa davvero costituire un passo verso la disintegrazione totale del sistema. Ci resta da vedere, adesso, come la cricca di potere reagisce davanti a questi mezzi di resistenza allo sfruttamento.

3.10.35 Sappiamo quali sono i difetti del parlamentarismo, del sindacalismo, delle tecniche concrete dello sciopero, ecc., sappiamo pure con quali mezzi il governo delle volpi, assai più del governo dei leoni, riesce ad acutizzare questi difetti e a rendere inefficace l’originario stimolo di rottura e di tutela delle classi più povere. Non abbiamo ancora visto, invece, come il governo reagisce davanti all’impiego della forza su scala rivoluzionaria. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’impiego della violenza su scala limitata e con programmi di natura riformistica è perfettamente catalogato dalla cricca di potere che integra immediatamente le forze che assumono quella specifica veste di rottura parziale.

3.10.36 Il governo è impotente contro la violenza rivoluzionaria.

3.10.37 L’affermazione che precede ha bisogno di molti chiarimenti. In linea teorica si può dire che l’istituzione organizzata dello Stato essendo diretta allo sfruttamento delle classi più povere si adegua, via via, alle sempre nuove situazioni, donde l’esistenza stessa del meccanismo legislativo, ma non può adeguarsi a una situazione “veramente” nuova. Infatti le nuove situazioni sono soltanto modificazioni, più o meno grandi, di situazioni precedenti, lasciano intatti determinati valori, non mettono in discussione specifici dogmi ideologici e specifiche uniformità sociali. La situazione “veramente” nuova, cioè la situazione rivoluzionaria, non consente l’adeguamento delle strutture causandone immediatamente il crollo.

3.10.38 Purtroppo, vedendo in vicinanza le cose, fuori dall’astrazione teorica, la realtà si presenta meno precisa. In effetti il governo non solo dispone via via, nel gioco alterno delle fortune della cricca al potere, gli intrighi delle volpi, ma utilizza – mascherando il tutto sotto il simbolo dell’interesse generale – la forza bruta, quella stessa forza a cui gli sfruttati debbono far ricorso se vogliono svincolarsi dall’azione di sfruttamento. Si potrebbe dire che il governo delle volpi, proprio perché tale, cioè proprio perché eminentemente fondato sull’astuzia, ha la possibilità di far ricorso ai leoni, utilizzandoli non più in fase decisionale, cioè in fase di governo, ma soltanto in fase esecutiva, come mera forza repressiva. Ciò ci chiarisce come il governo, per quanto astuto e debole, ha sempre la possibilità di ricorrere alla forza organizzata, per quanto decida in continuazione di ordinare alla polizia di non far fuoco sulla folla durante le manifestazioni del lavoro, ha sempre la possibilità di cambiare idea e di ordinare il massacro. Questo non deve essere dimenticato.

3.10.39 Ma le volpi sono pur sempre degli animali astuti, anche se poco coraggiosi. Nella prassi normale della loro vita governativa mascherano l’impiego sistematico della violenza sotto varie cortine fumogene. Le guardie di finanza, vigilando i “sacri” confini, sono pronte a muovere contro i contrabbandieri, poniamo di orologi, impiegando la forza dell’ordine costituito, se occorre facendo fuoco e uccidendo, senza che nessuno per questo si prenda pena del contrabbandiere ucciso, il tutto sotto l’apparente insegna della difesa degli interessi della collettività. In pratica, qui, nessuna remora politica vieta l’uso della forza più spietata e repressiva, anche se, come è evidente, gli interessi della collettività sono un bellissimo miraggio, essendo la realtà ben diversa, trattandosi di interessi specifici dei gruppi industriali del settore, dei monopoli governativi, del livello degli introiti fiscali, in una parola del complesso e multiforme sistema di sfruttamento.

3.10.40 In altre parole le volpi, quando non ci sono remore politiche o opportunistiche, sono animali ferocissimi.

3.10.41 Ecco allora il grande dubbio. Perché la violenza adoperata dai padroni è violenza legale mentre quella adoperata dagli sfruttati è illegale? Il problema è difficilissimo. In generale si può dire che la violenza legale si fonda sulla legge e quindi ha una base positiva, cioè deve avere per forza una utilità maggiore che gli proviene proprio dal suo fondamento. Infatti la legge esiste proprio per difendere i diritti dei singoli, anzi per costituirli. Viceversa la violenza illegale, rivoluzionaria, è fuorilegge, quindi deve per forza avere un’utilità sociale minore non potendo rinviare alla positività della legge che serviva da fondamento al primo tipo di violenza. Ma tutto ciò è semplicemente assurdo. La legge non è altro che l’espressione di una modificazione in corso, il momento puntuale di uno svolgimento che in assoluto non può essere più giusto o meno giusto di altri momenti puntuali, di altri attimi dello svolgimento storico. In questo modo si assolutizzano le vicende umane fermandole in una dimensione fuori del tempo e, proprio per questo, fuori dell’interesse che l’uomo prova per le cose che gli appartengono. Pertanto la legge, in se stessa, non può mai costituire fondamento positivo per giustificare la violenza in senso repressivo: nell’interesse della cricca di potere e delle sue tecniche di sfruttamento è posta in atto la legge (anche quando appare diretta nell’esclusivo interesse delle classi meno abbienti, lo scopo recondito è sempre quello di una migliore applicazione dei processi di sfruttamento – non dimentichiamo che il pastore nutre e protegge dal freddo il proprio gregge ma soltanto allo scopo di poterlo tosare al momento opportuno ed evitare di vederselo morire prima), nell’interesse della cricca di potere e delle sue tecniche di sfruttamento è applicata la teoria della violenza legale. Soltanto in questo modo tra violenza legale e legge che la fonda si può ricavare una relazione, sotto qualsiasi altro aspetto tra i due termini non c’è compatibilità. Resta l’altro tipo di violenza, quella illegale. Qui il problema è più complesso. Intervengono selezioni sociali di gruppo contrarie a quelle che avevano trasformato l’antico governo dei leoni nell’attuale governo delle volpi. Quanto più da un lato aumentano le volpi, tanto più dall’altro si raccolgono uomini disposti a usare la violenza per distruggere il predominio dell’astuzia e dell’inganno posto in atto dalle volpi. Costoro non si pongono questioni di fondamento del loro diritto a usare la violenza in quanto, partendo da una posizione rivoluzionaria, propongono nuovi valori e non tengono conto delle norme (leggi) che regolano le precedenti uniformità. Per loro il momento puntuale della legge non esiste, restando legato a un mondo retto da norme che vengono condannate in blocco come espressione di valori scaduti. I nuovi valori sono in perfetta antitesi con i precedenti: non si tratta di modificazione ma di distruzione, non si tratta di riforme ma di rivoluzione.

3.10.42 Quando in passato si è affrontato questo problema ci si è sempre trovati divisi in due generi di considerazioni. Da un lato i sociologi più vicini alla realtà indicavano come presenti in essa forze estranee alle sovrastrutture ideologiche, dirette a uno sfruttamento spietato e sistematico delle classi povere. Non è affatto vero che queste considerazioni sono state fatte soltanto da sociologi marxisti, anche uomini di formazione diversa, ma non ottusi o compromessi, come a esempio Pareto, hanno denunciato questo stato di cose. Dall’altro lato i sociologi più lontani dalla realtà, smarriti in un mondo di figurazioni e di emblemi, incapaci di pervenire a una indagine serena e obiettiva, legati mani e piedi a strutture di sistema ripetute all’infinito. Anche qui troviamo, purtroppo, non pochi uomini della cosiddetta sinistra, definitivamente compromessi da un accordo sotterraneo o ingenuamente caduti in difetti grossolani di interpretazione. Da queste due sorgenti, due tipi di valutazione dell’impiego della violenza rivoluzionaria. La seconda corrente ha impostato in definitiva un discorso di quantità, invocando quel particolare potere carismatico che oggi sembra di moda rinvenire nelle scienze matematiche. Da ciò il vezzo di considerare la sociologia una scienza quantitativa e di intraprendere profonde elucubrazioni dirette a determinare il quantitativo di utilità derivante dall’impiego della violenza rivoluzionaria o dall’impiego della violenza repressiva, a favore o contro un certo quale ordine costituito. In questo modo l’uniformità proposta da un determinato “ordine” sociale viene indicata come punto di partenza per giudicare l’utilità o meno dell’azione rivoluzionaria. Ma, tutto ciò, ove fosse possibile, sarebbe estremamente inutile e tristemente “accademico”. La rivoluzione non aspetta l’avallo dei soloni della sociologia per scatenarsi, come pure non saranno le teorie filosofiche che la renderanno possibile. In sottofondo a questa corrente di pensiero si colloca la strana chiusura mentale che vuole più utile per l’uniformità prestabilita la volontà dei molti e meno utile la volontà dei pochi. In altri termini, la violenza rivoluzionaria si rivela tanto più utile all’uniformità di base quanto più ampia è la massa che l’impiega: ingenuità manifesta che non mette conto dimostrare errata. La prima corrente ha invece individuato moventi oggettivi agenti all’interno delle uniformità sociali, irreversibilmente diretti a produrre effetti particolari, non ultimo l’effetto della reazione ai processi di sfruttamento. L’escussione sistematica degli strumenti di cui le classi governate sono in possesso per contrastare lo sfruttamento porta in breve queste ultime a rendersi conto della invalidità di questi strumenti a esclusione della violenza rivoluzionaria. In questo modo non si intraprende un discorso di utilità ma solo di oggettiva mancanza di utilità di ogni azione governativa diretta al mantenimento dell’uniformità costituita per una determinata classe: quella degli sfruttati. Qui scompare il dubbio tra utilità e non utilità per tutti di una qualsiasi costruzione governativa o di potere, resta la verità di sempre, l’antica legge ferrea che fa gravare sulle spalle delle masse meno abbienti il benessere e la prosperità di una ristretta cricca di potere. Il resto è pura metafisica.

4.11.1 L’opera di sfruttamento del governo non sarebbe possibile senza il sostegno di una classe privilegiata, necessariamente più ampia della ristretta classe di potere. Non solo non sarebbe possibile ma anche non avrebbe fondamento economico.

4.11.2 Studiare i rapporti tra governo e classe privilegiata in favore della quale il governo agisce è fondamentale per capire la stessa dinamica di sfruttamento.

4.11.3 A stretto rigore col termine classe governante non si può indicare che la sola, ristretta, classe nelle cui mani risiedono tutti i poteri dello Stato. Ma questa definizione non soddisfa. In pratica dietro le figure rappresentative, dietro i vari ministri, dietro il parlamento e tutte le altre bardature burocratiche ad alto livello, dietro tutte le supreme corti dai nomi variopinti, dietro tutti i più elevati consigli, ecc., si colloca una nutrita schiera di intelligenti manovratori di questo vasto nugolo di pedine. Sono costoro che in ultima analisi costituiscono la vera e propria classe governante.

4.11.4 Indicare la composizione di questa classe non è agevole. Non vale ricorrere alla componente patrimoniale in quanto grosso modo il risultato che ne conseguirebbe non sarebbe esatto. Infatti esistono individui proprietari di vasti patrimoni che non possono farsi rientrare nella classe di cui discutiamo perché privi di altre caratteristiche. Queste costituiscono gli elementi determinanti e sono: capacità di vasta produzione di ricchezza, tendenza alle combinazioni sociali, assoluta mancanza di pregiudizi morali, notevole abilità tecnica nella conduzione e nella formazione di uno staff dirigenziale, ecc. Si tratta di quella classe che anticamente serviva a provvedere ai fasti dei re e che ora serve a tenere in piedi il governo. Naturalmente questo, a sua volta, deve pagarsi il sostentamento che riceve attuando in pieno tutte le direttive.

4.11.5 Ma la caratteristica essenziale di questa classe non è affatto la ricerca di una uniformità. Apparentemente siamo di fronte a una classe conservatrice, diretta a difendere uno stato di cose determinato dalle proprie decisioni, in pratica la classe di cui discutiamo è del tutto incapace di desiderare uno stato di cose fisso. La sua caratteristica principale è la spinta verso la speculazione, con tutti i presupposti di aleatorietà, di gioco, di avventura, di rischio che comporta. A questa classe si contrappone quella dei portatori di risparmio, certe volte dotati anche di patrimoni considerevoli ma incapaci di assumere la veste di speculatori. Questi sono timorosi, quieti, intimamente conservatori, portati alla parsimonia e all’accumulo, di facile contentatura davanti a una modesta rendita del loro patrimonio. Ma quest’ultima classe non ha ingerenza diretta sul governo, anzi viene facilmente strumentalizzata, quasi sempre attraverso il gioco delle sottoscrizioni dei titoli e quindi grazie all’intervento delle banche, dalla classe degli speculatori.

4.11.6 Ora la speciale dinamica che regola la classe degli speculatori comporta pressioni sul governo che si traducono in un ondeggiare delle tecniche di sfruttamento a seconda dei programmi che la classe direttiva ha formulato. Abbiamo quindi una grave instabilità nella politica governativa e la necessità che il governo stesso sia formato da volpi e non da leoni. Viceversa un governo non sollecitato in questo modo, un governo che – per esempio – avesse soltanto davanti a sé una classe di quieti risparmiatori diventerebbe via via sempre più statico e repressivo.

4.11.7 Da questo sembrerebbe doversi concludere per una funzione positiva della classe degli speculatori. Infatti non sono pochi coloro che hanno ammesso questa funzione positiva, solo che, in sociologia, le cose non sono mai bianche o nere, ma presentano sempre diverse sfumature di colore.

4.11.8 Primo, la classe degli speculatori è una classe perniciosa perché determina lo sfruttamento governativo nel senso della massima produttività. Infatti, questa classe applica all’attività governativa, intesa come semplice attuazione dei suoi dettami sotterranei, le stesse tecniche di massimizzazione dei profitti che essa applica all’attività imprenditoriale. In questo modo lo sfruttamento raggiunge indici di perfezione veramente impensabili se paragonati a quelli che si sarebbero raggiunti con la grave, lenta, impacciata sistematicità attuabile con il conservatorismo statico della classe dei risparmiatori. Se questo è un peccato poco evidente lo si deve alla rara abilità della classe degli speculatori che frequentemente maschera la propria attività chiamando le classi meno abbienti – quasi mai la classe dei risparmiatori – a godere delle briciole del banchetto, purché queste si impegnino a partecipare al giuoco produttivo e consumistico. Finché non si comprenderà appieno la grande arte nascosta sotto queste manovre non si darà giustizia all’intelligenza di questa classe e le sue attuazioni non si potranno combattere con tutta l’efficienza che invece richiedono.

4.11.9 Secondo, la classe degli speculatori causa indirettamente una maggiore difficoltà di attuazione dell’unica difesa valida delle classi povere, la violenza. Infatti, determinando la composizione del governo e impedendo la formazione di un governo statico e repressivo, l’intima componente dinamica della classe stessa favorisce il nascere di forme governative meno rigide, dominate dalle volpi, capaci di contrastare efficacemente le azioni di difesa non fondate sulla violenza, attuanti quella tecnica della tolleranza che impedisce allo sfruttato di vedere con chiarezza dove risiede il giusto e l’ingiusto. Se questo tipo di governo, quello delle volpi, è il più adatto a condurre in porto tutti quegli accordi sotterranei e tutte quelle sollecitazioni indirette che la classe degli speculatori via via mette sul tappeto, d’altro canto è il meno adatto a contrastare una vera e propria azione decisa da parte degli sfruttati. Qui tutto si risolve sulla maggiore o minore integrazione nel sistema, sul maggiore o minore consenso ottenuto dal governo e, indirettamente dalla classe dominante. Se questi elementi sono diffusi la sorte delle classi sfruttate sarà segnata negativamente: soltanto un momento di particolare indecisione nel meccanismo di integrazione o di reperimento del consenso, un momento di titubanza nei programmi di sfruttamento della classe dominante, potranno dare qualche possibilità, ma quei momenti non dovranno essere banalmente sfruttati.

4.11.10 L’azione di questa classe governante si interpreta attraverso il comportamento di chi sta sul palcoscenico. Se il reggimento è una monarchia il sovrano recita la sua parte, se è una democrazia a recitare questa parte è il parlamento: nessuna cosa cambia. Può capitare a volte che il colpo di testa di un despota o l’azione inconsulta di parlamentari ignoranti della loro vera situazione, impediscano le attuazioni delle disposizioni date dalla classe dominante, ma si tratta di situazioni limite assai trascurabili.

5.12.1 Nel corso di questo lavoro abbiamo avuto più volte occasione di parlare degli accorgimenti che il potere mette in atto nel corso dei suoi processi di sfruttamento. Abbiamo anche visto come la diretta programmazione di questi processi sia dovuta a una classe specifica che abbiamo definito come classe governante. Infine abbiamo studiato i mezzi di difesa che restano a disposizione della classe oppressa. Tutto ciò ci ha consentito di descrivere una posizione “classica” del rapporto di forze che si viene a determinare ineluttabilmente all’interno del sistema. Ci restano ancora da esaminare le prospettive che la componente rivoluzionaria, nata all’interno della classe sfruttata, si pone.

5.12.2 La ricerca passata di quelle occasioni di potere che caratterizza una determinata politica di lotta delle classi sottostanti è andata a cozzare, via via in forma sempre più macroscopica, contro una logica del sistema che non solo si è rivelata incapace di tollerare una ricerca dell’uguaglianza dei redditi, ma si è rivelata espressamente diretta a rendere impossibile quel progressivo capovolgimento dell’incidenza del consumo privato su quello sociale. Le prospettive utopistiche di una istruzione e di una cultura largamente di massa, di una eliminazione dei residui di sottosviluppo, di una disalienazione del lavoro, ecc., si sono confermate tali.

5.12.3 Le cause di questi amari fallimenti sono tante che sarebbe troppo lungo inventariarle tutte. Se l’inquinamento clientelare delle istituzioni risultava previsto dalla teoria e scontato dalla pratica politica della classe degli speculatori, la crescita abnorme degli investimenti e la conseguente integrazione di ogni forma di ricerca scientifica, le fasi della degenerazione internazionale della tradizionale caratterizzazione dei mercati, la comparsa di curiose relazioni settoriali dominate da sotterranei accordi tra classe tecnocratica e classe speculativa, hanno finito per sorprendere anche i piani di sfruttamento meglio organizzati. Forse, in tanto caos, l’unica cosa che resta ferma è la definitiva clientelizzazione della sovranità popolare. Non bisogna dimenticare, infatti, che è proprio questo strumento che viene impiegato quando il processo di sfruttamento si inceppa per difetto di esecuzione del governo o per difetto di programmazione della classe dominante.

5.12.4 Ma a che vale ricercare le cause di uno stato oggettivo quando questo, indipendentemente da ciò che costa in moneta di vite umane e di sacrifici, faceva parte del gioco stesso, faceva parte della stessa struttura del processo socialdemocratico o riformistico. Non dobbiamo dimenticare che anche quando quei livelli oggi definibili come ottimali di consumi sociali fossero raggiunti in un futuro determinato dallo sviluppo riformistico, il sistema avrebbe di già aggravato talmente la situazione dei vari aggregati da rendere non solo superfluo il raggiungimento di quei livelli, ma definitivamente insolubile il problema.

5.12.5 Ecco da tutto ciò la nascita impensata di curiose degenerazioni. Il nazionalismo riprende cittadinanza, addirittura il razzismo e il fascismo tradizionali fanno la loro ricomparsa. Tutto ciò ci consente di trasferire a carico del capitalismo avanzato quello che i teorici socialdemocratici avevano formulato come attribuibile in esclusiva al capitalismo arretrato e reazionario.

5.13.1 Veniamo quindi alle prospettive. La prima è quella tradizionale della crisi economica, dell’attesa paziente, ma viva e organizzata, del crollo del sistema, minato da una logica interna diretta irreversibilmente alla distruzione. Purtroppo oggi questa attesa risulta alquanto fuori del tempo in quanto dimensionata su di un profetismo contraddetto dalla possibilità di adattamento dimostrata dal sistema.

5.13.2 Le origini di questo adattamento sono lontane e si sogliono indicare in quegli anni Venti che segnano non solo il debutto in Europa di alcune forme virulente di fascismo ma anche, e sotto certi aspetti principalmente, del passaggio dal vecchio al nuovo capitalismo. Gli aspetti tipicamente reazionari del vecchio capitalismo vennero sostituiti dalle nuove forme più raffinate di “partecipazione”, dettate dalla classe governante nel preciso intento di introdurre all’interno del cerchio consumistico anche le classi inferiori, onde utilizzarle come componente del sistema non più, e soltanto, dal lato passivo, ma anche, e principalmente, dal lato attivo, cioè di guida alla intensità del consumo.

5.13.3 Un grande processo di sviluppo segnò questo passaggio dalle vecchie alle nuove forme di capitalismo. L’influenza della concentrazione capitalista dette vita a tutte quelle forme di impiego del governo che condizionano il processo produttivo e tutta la vita di uno Stato in senso favorevole alla classe degli speculatori. Queste inaspettate diramazioni capitalistiche fecero in modo che l’attesa dell’evento favorevole alla rivoluzione, la crisi, si trasferisse troppo a lungo per diventare accettabile come programma di fondo di un piano concreto di lotta. La classe intermedia dei risparmiatori è stata definitivamente attirata all’interno del ciclo dello sviluppo monopolistico cessando la sua tradizionale forza di freno alle avventure della classe degli speculatori. Un’altra classe vedeva nel frattempo la luce, quella in diretto contatto con la struttura burocratica più elevata, la classe dirigenziale, capace adesso di condizionare non solo le forme della produzione ma anche gli stessi indirizzi della classe dominante. La vasta potenza tecnocratica di questa classe ha finito per rendere veramente gigantesco e pericoloso lo sforzo tradizionale della antica classe dominante e ha reso difficile stabilire con esattezza dove una classe finisce e l’altra comincia.

5.13.4 Disillusione dell’attesa. Necessità di nuove prospettive. Il vecchio modello rivoluzionario, fondato appunto sull’attesa del momento favorevole, risultava inadatto. Per altro quand’anche questa crisi si potesse sollecitare non si avrebbero sufficienti certezze sulla possibilità di un movimento unitario delle classi sfruttate in quanto le componenti disponibili all’interno di queste classi sono sempre in diminuzione.

5.14.1 Accanto a questa attesa, sostenuta con ammirevole fede per decenni, si andava sviluppando tutta una nuova dimensione della realtà politica, non ultima la configurazione definitiva della sconfitta del fascismo europeo più importante e la nascita di un modello statale comunista a largo respiro. A sua volta, i compromessi storici a cui questo modello è andato incontro hanno fatto sì che l’azione delle attese si dirigesse sempre di più verso una dimensione socialdemocratica e riformista. Un nuovo mondo sociale veniva a sostituirsi a quello teorizzato dal comunismo e a quello concretizzato dalle necessità storiche di una lotta contro il fascismo e contro il virulento capitalismo reazionario: un mondo che poteva dirigersi sempre di più verso il capitalismo pur insistendo a volersi chiamare socialista.

5.14.2 Da tutto ciò la nascita della prospettiva riformista. Momento storico veramente infelice per le prospettive rivoluzionarie, venne caratterizzato dall’America di Kennedy e dalla Russia di Krusciov: una messa da parte dei vecchi antagonismi, una interruzione della guerra fredda, una prospettiva di sviluppo in comune, armonico e idilliaco. In questo clima di disgelo sembrava inconcepibile la possibilità che terribili mostri come la repressione e il razzismo, il nazionalismo e il militarismo potessero rinascere. Invece tutto ciò è puntualmente accaduto.

5.14.3 È nella dinamica stessa del capitalismo lasciar sussistere, anzi incrementare, le disuguaglianze sociali, le sacche di miseria e di sottosviluppo, gli sprechi produttivi, il parassitismo, il clientelismo. Tutto ciò non conduce al ristagno ma a una crisi molto più complessa e difficile da risolvere: una crisi di valori.

5.14.4 È ovvio che l’attesa dell’avverarsi di una crisi di valori è senz’altro fondata in quanto questo genere di crisi non solo si attuerà in misura maggiore via via nel tempo, ma possiamo dire che si è già attuata in gran parte, solo però che una simile attesa diventa in pratica impossibile. Infatti, trattandosi proprio della messa in discussione dei valori che reggono il precedente sistema sociale, si corre il rischio, restando su di una posizione riformista, di non comprendere il nuovo messaggio suggerito dalla crisi e di lasciarlo passare inascoltato. In questo modo le forze di attesa devono essere forze rivoluzionarie e non più riformiste. Ecco perché l’attesa di una crisi di valori diventa un vero controsenso, in quanto le forze rivoluzionarie non sono mai in attesa, ma sono sempre in perenne movimento.

5.14.5 Fuori comunque dalle precisazioni teoriche, la crisi presenta non la rottura di un sistema ma, essendo crisi di valori, soltanto l’acutizzarsi di determinati scompensi. D’altro canto il sistema capitalistico ha una logica di sviluppo che determina una modificazione della classe dominante con l’accettazione all’interno della vecchia classe di speculatori della classe di risparmiatori, ciò causa un’accelerazione delle pressioni di natura repressiva sul governo e quindi uno sfruttamento più ampio e organizzato delle classi minori. Si crea in questo modo una nuova linea di borghesia nazionale capace di svilupparsi in modo da inglobare, via via, residui non più significativi ma lo stesso apportanti un contributo di potenza, come la vecchia classe dei proprietari agrari. Altro che liquidazione delle classi. La crisi presenta tali caratteristiche di recrudescenza, che in definitiva lo stesso potere guida del passato risulta meno pericoloso.

5.14.6 Questo nuovo diametro compositivo della struttura portante conduce la realtà economica del sistema a rivedere le formulazioni tipiche del precedente sfruttamento, allo scopo di perpetuare quel processo di accumulazione cui ogni capitalismo risulta diretto. Il fatto che la disparità delle decisioni relative agli investimenti si sia ridotta, determina la caduta di un classico tipo di contraddizioni intrinseche al sistema capitalistico tradizionale. Non siamo ancora nella effettiva situazione di capovolgimento di una programmazione inesistente in una programmazione totale, ma siamo in una struttura di mercato assai differente. Il processo di accumulazione può essere assicurato ancora per un tempo più lungo grazie alla possibilità di attuazione di uno sfruttamento più ampio e particolareggiato, solo che la crisi dei valori giunge a frastornare il tutto. Infatti la possibilità di ottenere un’accumulazione più veloce, frutto di uno sfruttamento più ampio, non significa ancora nulla per il sistema, nulla almeno dal punto di vista del valore, del perché le masse si debbano fare sfruttare, cioè non significa nulla per quell’azione di reperimento del consenso che è tanto importante, come abbiamo visto, per attuare lo sfruttamento. È proprio la difficoltà nell’ottenere questo consenso che contribuisce a delineare la crisi di valore. In altri termini – come sappiamo dalla stessa economia borghese – l’accumulazione costituisce un mezzo non un fine.

5.14.7 La dimensione borghese aveva suggerito un fine al processo di sfruttamento e quindi all’accumulazione: il consumo. Perché la scelta di questo fine? Perché non poteva scegliersene uno diverso. Infatti il gioco stesso di inserire all’interno del sistema le classi non privilegiate – allo scopo di meglio sfruttarle – poteva essere compiuto solo invitandole a un consumo sempre maggiore, non solo, ma essendo la fonte di produzione degli investimenti borghesi una fonte retta dalle leggi del mercato, è ovvio che solo un fine di natura non programmata, come quello cieco e assurdo del consumo, poteva scaturire. Ma questo fine non è stato sufficiente a scongiurare la crisi dei valori. Una crisi economica, di squilibrio della produzione, determinata da insufficienza della domanda complessiva, poté essere superata con facilità allargando a dismisura la domanda per consumi, ma una crisi dei valori no.

5.14.8 Nel superamento stesso della crisi di inefficienza produttiva, sempre davanti agli occhi del capitalismo e sempre superata, si vede l’intrinseca modificazione apportata al vecchio schema posto in essere dall’antica, solitaria, classe di speculatori. Il nuovo capitalismo, quello appunto che oggi vive e cerca di arginare la crisi dei valori, ha dovuto inevitabilmente venire alla resa dei conti con le classi soggette. Purtroppo questa resa, se da un lato ha modificato le condizioni di esistenza del vecchio capitalismo, dall’altro non si può definire una vera e propria conquista per il proletariato. Ed è proprio su questa base che il discorso riformista ha trovato il proprio fondamento. Il proletariato, chiamato a godere dei benefici della civiltà dei consumi, ha salvato il capitalismo dalla catastrofe, ma nello stesso tempo ha aperto una falla all’interno del vecchio schema: una falla attraverso la quale si è fatta pressante la crisi di valori.

5.14.9 Si potrebbe pensare, e di fatto lo si è anche pensato, che l’allargamento del processo consumista conduca sempre di più le classi soggette a un superamento dell’antica partecipazione al consumo solo nei limiti della ricostituzione della forza lavoro. Su questa strada si è illustrato il compito storico del sindacato e si è visto che la sua azione è stata decisamente positiva. Su questa strada si è voluto vedere un primo e importante cedimento del capitalismo. Tutto ciò è anche vero, solo che non è che un banale trasformismo, un semplice cambiamento di programma nell’organizzazione dello sfruttamento. Alla vecchia e stantia considerazione del proletariato come elemento tecnico della produzione, come componente interna del processo, si è oggi sostituita la considerazione del proletariato come elemento autonomo nella distribuzione del reddito con una larga partecipazione al consumo improduttivo. Infatti, a dimostrare che la sostanza delle cose non è affatto modificata, resta il puntuale ripresentarsi di tutte quelle caratteristiche sociali tipiche del più reazionario dei capitalismi: nazionalismo, razzismo, clientelismo, oppressione, ecc. Se una delle componenti del capitalismo ha subito una trasformazione, l’altra, costituita dal sistematico processo di riduzione del lavoro a capitale, è rimasta intatta: ed è quanto basta.

5.14.10 Eccoci quindi alle considerazioni sulle attese che il proletariato si aspetta da queste nuove posizioni conquistate. Eccoci alle decisive battute di condanna del riformismo politico che su quelle nuove basi economiche aveva ritrovato nuova vita. Ovviamente, sotto certi aspetti, il fatto che adesso le classi soggette possono partecipare più largamente ai consumi improduttivi si può considerare una grande conquista, il fatto che siano state chiamate a recitare un ruolo esterno al sistema produttivo e non una banale attività meramente tecnica può considerarsi una conquista, ma non bisogna dimenticare che i termini dello sfruttamento restano stabiliti soltanto da una parte, ed è proprio per questo che il processo stesso di sfruttamento sussiste. Come ci si può illudere sugli effetti veramente positivi di questo fenomeno? Abbiamo avuto una rottura all’interno del vecchio schema di consumo signorile, abbiamo avuto un maggior potere decisionale dato al proletariato, va bene. Ma di tutto questo che cosa ce ne facciamo quando tutto concorre a ottenere una più facile integrazione delle classi soggette e quindi più inquiete? Il benessere nuovo che queste classi godono, i bisogni nuovi che soddisfano, le prospettive di sempre nuovi livelli di benessere da raggiungere e di sempre nuovi bisogni da soddisfare, non fanno parte che di un grande, diverso gioco instaurato dal capitalismo, un gioco che per quest’ultimo, a un momento ben determinato della sua vita, divenne vitale e necessario, ma che non è mai stato tale per il proletariato, salvo che non si riconosca validità alla strada del riformismo o che si voglia chiudere gli occhi alla rivelante verità che deduciamo dalle conseguenze più recenti del nuovo capitalismo. Le attese in questo senso, nel caso che la grave crisi di valori resti non abbastanza illuminante per taluni, sarebbero ben presto smascherate dalla logica degli eventi, interna al sistema stesso, inevitabile come il destino e come la morte.

5.14.11 In questo modo le classi soggette hanno raggiunto un curioso simulacro di potere, e finiscono per compiacersi di questo nuovo ruolo storico, non accorgendosi che hanno fatto non solo il gioco del sistema, ma che lo hanno salvato dalla catastrofe, allontanando chissà per quanto tempo ancora l’avvento della rivoluzione. A fianco di queste classi soggette troviamo un nugolo di filistei, adoratori accaniti del simbolo del denaro e della carriera, che indorano il nuovo dio dei destini grandiosi del proletariato. Costoro lavorano a convincere gli sfruttati che l’avvento della nuova era è vicino, che bisogna lasciare ancora campo libero al capitalismo fin quando non esaurisca tutta la sua carica positiva, fino a quando non cessi di dare benefici, per poi aspettare il verificarsi dell’evento conclusivo, il grandioso salto di qualità che faccia cessare il punto di forza su cui ruota ogni tipo di capitalismo: la trasformazione del lavoro a capitale. Per fare questo bisogna sottomettersi ai consigli capitalisti, seguirli nella loro civiltà dei consumi, attutire gli immancabili contrasti derivanti dalla crisi di valori, illudersi che l’accumulazione per l’accumulazione – il vecchio valore che giustificava il capitalismo – possa essere un valore accettabile anche per il proletariato. Fandonie ridicole, se non fossero mostruose mistificazioni di una realtà gravemente malata.

5.14.12 Qui potrebbe trovare posto un problema nel problema di non trascurabile momento. Vogliamo affrontarlo in breve perché indicativo di due tipi di mentalità: quella del proletariato nuovo, cosciente della sua posizione storica, ma tradito dalla lezione riformista, che vede nella partecipazione all’antico consumo signorile la concretizzazione di un’opulenza mai raggiunta e di un potere mai posseduto, quella del capitalismo vecchio che conosce benissimo le conseguenze limitative di questa corsa al consumo per il consumo e l’impossibilità che ne consegue del passaggio dal consumo privato a un sempre maggiore consumo pubblico. Qui un capitalismo conseguente, effettivamente preoccupato dello stimolo sociale che spaccia di possedere ma che non possiede, dovrebbe avvertire che la sua funzione storica è definitivamente esautorata perché la strada dove tutto conduce oggi, la strada per la socializzazione, gli è interdetta per la sua logica interna. Ma ciò non avviene perché il capitalismo gioca sull’equivoco e sul compromesso delle classi dirigenziali e tecnocratiche che lo sostengono, e sull’ignoranza del proletariato.

5.14.13 Ecco quindi la vera realtà del nuovo potere conquistato. Le classi soggette sono nell’impossibilità concreta di esercitare un vero e proprio potere, non potendo incidere sul sistema che in senso rivoluzionario e quindi distruttivo. Volendo restare all’interno delle aspettative di sviluppo e di modificazione programmata, queste classi finiscono per restare irrimediabilmente imbrigliate nelle fila complesse del gioco capitalista.

5.14.14 Se poi lo sguardo si sposta, come deve per forza spostarsi data l’indole della nostra posizione antinazionalista, su di un orizzonte più ampio, i problemi restano decisamente più aggravati. Il processo di sviluppo di cui abbiamo detto, se appare da un lato alquanto frazionato nello spazio, non riesce a nascondere la concentrazione in determinate aree di influenza squisitamente economica o meramente politica. Di contro, una serie di sacche di miseria e di sottosviluppo, non solo a livello nazionale ma anche a livello internazionale. Da questo punto di vista il mondo presenta un blocco monolitico di aree sviluppate che fanno riscontro ad aree sottosviluppate, non contando in questo gli squilibri che esistono all’interno di molti paesi. Nelle aree dove regna l’opulenza il cerchio dell’integrazione viene via via a chiudersi attorno al proletariato e rende inutilizzabili i tradizionali schemi di lotta. Nelle aree sottosviluppate la fame fa considerare quasi irraggiungibile la condizione del proletariato delle aree sviluppate e fa considerare il governo di quelle aree come il migliore dei governi possibili. In questo modo l’aspettativa di base diventa sterile: un’aspettativa di migliorare non di cambiare per migliorare.

5.15.1 Il rifiuto di una divisione ineliminabile tra sviluppo e sottosviluppo, tra opulenza e fame, è un’alternativa che il mondo oggi si pone, almeno nelle sue componenti ancora disponibili. L’attesa che se ne ricava è di natura completamente diversa dalla tradizionale critica al capitalismo fin qui condotta dal socialismo riformista.

5.15.2 Sono le tappe a essere decisamente fuori di luogo. Un’aggressione ai rapporti di equilibrio preludia una tesi che trova il suo compimento in una nuova formulazione del concetto di uguaglianza. Da ciò la lotta contro ogni forma di divisione, di ripartizione, di gerarchia, di preminenza di un settore produttivo sull’altro. Da ciò la tesi di una coordinazione tra processi produttivi e processi formativi. Da ciò l’impiego della lotta di massa.

5.15.3 La prima importante conseguenza è il rifiuto della divisione del mondo tra grandi gruppi di forza e la conseguente discriminazione voluta dalla coesistenza. Qui è bene fare cenno al fatto che gli esclusi, coloro che vivono ai margini non solo dell’opulenza ma del benessere, non sono solo coloro che si trovano nelle sacche o nelle aree di sottosviluppo, anche dove esiste il pieno sviluppo esistono figure e zone che possono considerarsi escluse. La situazione di questa categoria di esclusi è più pesante di quanto non sembri, basta pensare all’impossibilità di arrivare a una esatta valutazione del lavoro delle donne che ancora oggi in gran parte assumono la veste di casalinghe. Ciò causa l’impossibilità concreta di una visione del problema. D’altro canto il sistema ha ben chiari i limiti di rottura di queste vaste categorie di esclusi, la loro debolezza, la loro mancanza di possibilità organizzativa, e di questo se ne fa una forza.

5.15.4 Se a questo si pone accanto il problema macroscopico del sottosviluppo vero e proprio ci si accorge come i poveri non sono, come oggi crede lo stesso proletariato dell’opulenza, argomento di oleografia ormai superato dal tempo, ma sono una vera realtà tangibile che colpisce chiunque, anche se per breve tempo, pone mente al problema. Da ciò il rifiuto di un compromesso che ha condotto fino a oggi il frontalismo tradizionale tra imperialismo e socialismo a un compromesso senza soluzioni. Da ciò l’ammissione che l’uscita dall’esclusione non potrà avvenire che con la guerra popolare e non attraverso un ulteriore trascendimento del processo capitalistico, essendo questo non soltanto impossibile ma anche meno probabile ad attuarsi con una certa percentuale di possibilità di riuscita. Non si tratta qui, è naturale, di sostenere un determinato tipo di estremismo di sinistra fondato su di un’organizzazione militare o paramilitare. Ciò sarebbe possibile soltanto in alcune specie di zone sottosviluppate ma non in tutte. Si tratta, invece, di indicare una via di scelte politiche alle organizzazioni di massa decisamente contrarie ai processi di sfruttamento del sistema. Da ciò il rifiuto, per i paesi a capitalismo sviluppato, dell’alternativa di una progressiva maturazione, di un trascendimento, come si è detto, allo scopo di superare la fase dell’opulenza e iniziare la fase del benessere sociale. Tutto ciò non è concretamente possibile essendo sclerotizzato il processo di trasformazione dell’altro caposaldo del capitalismo: la modificazione del lavoro in capitale. Nessuna forza potrà mai modificare questo punto del rapporto, per cui tutto resterà sterile se viene basato sulla condizione data da questo tipo di superamento. Resta, ovviamente, l’alternativa della modificazione globale del sistema.

5.15.5 Nata dalla considerazione dell’assenza dell’uguaglianza, sostenuta dalla delusione ricavata dal riformismo o dalle soluzioni pacifiche del vecchio contrasto tra imperialismo e socialismo, affermata dalla approfondita analisi dell’impossibilità del trascendimento del nuovo capitalismo, sorge l’attesa definitiva e significativa delle classi soggette: l’attesa della rivoluzione.

5.15.6 Quest’attesa è la prova massima dell’assenza negli assetti opulenti del capitalismo di una vera e propria forza sociale capace di attuare la rivoluzione. Il sogno degli ex partiti rivoluzionari, ormai definitivamente integrati, di giungere alla rivoluzione attraverso uno sviluppo organico e con l’ausilio di una prassi burocratica, l’illusione di trascendimento del sistema, sono componenti di un clima che diventa di giorno in giorno più chiaro e che fa contrapposizione al clima dichiaratamente di rottura che si diffonde sempre di più nei paesi sottosviluppati.

5.16.1 I mali che affliggono oggi l’assetto deforme del mondo sono mali che soltanto una strada verso il comunismo potrà risolvere, un’apertura decisa che sia quanto più possibile diretta ai princìpi dell’autogestione e dell’antiautoritarismo, sebbene, per motivi che abbiamo detto in altro luogo, non vediamo possibile un’attuazione diretta di un’apertura verso l’anarchismo nel senso tradizionale della parola. Questa strada verso il comunismo assume, fin dall’inizio, una chiara impronta rivoluzionaria. Non si tratta più di attendere gli avvenimenti incerti di un equilibrio internazionale tra due superpotenze che minacciano continuamente di gettare il mondo in una guerra definitiva. Non si tratta di dividere il mondo in zone di competenza, o di pascolo, e di continuare le operazioni di disgelo come se nulla fosse accaduto, come se gli stessi nomi di comunismo e di fratellanza non fossero che segni privi di significato appartenenti a un contesto sintattico fuori del tempo. Non si tratta di sprecare le grandissime risorse tecniche accumulate dall’umanità in una pazza corsa all’opulenza e al consumo improduttivo allo scopo di mantenere, o instaurare, l’impianto del capitalismo avanzato. Il rivoluzionarismo di sinistra, nell’unione di tutte le forze vive di sinistra, cioè di tutte quelle forze che non hanno fatto omaggio al potere della loro spinta iniziale di rottura rivoluzionaria, è un fatto, ancora una volta, di valore determinante. Ma in questo senso, a esempio, l’Unione Sovietica non può più essere considerata un paese da collocarsi nella linea di lotta al capitalismo e nella dirittura rivoluzionaria, con essa i vari partiti comunisti, agenti nei paesi capitalisti a sviluppo avanzato, non possono definirsi partiti, o comunque organizzazioni rivoluzionarie. Per non parlare poi di quelle organizzazioni che si allontanano via via verso destra all’interno dello stesso schieramento di sinistra.

5.16.2 In questo modo la stessa concezione della rivoluzione subisce un profondo cambiamento. Il processo si intende come un tutto continuo in elaborazione temporale, quasi precaria, da controllarsi continuamente onde evitare l’imborghesimento degli stimoli iniziali o le allettanti possibilità della conquista del potere.

5.16.3 La rivoluzione si pone ancora come movimento strutturale di rottura e come proposizione di una nuova prospettiva di valore. L’organizzazione strutturale si determina non come la ricerca di un potere modificato ma come la costituzione di un antipotere, capace di modificarsi ulteriormente in forma antiautoritaria essendo per costituzione non diretto dall’alto ma autodiretto. Il sostegno di questo movimento strutturale diventa quindi più che una concreta prospettiva ideologica da tradurre in pratica una disposizione critica e costruttiva, un terreno concreto da utilizzare per la lotta, una serie di punti nevralgici da sfruttare (scuola media, università, settori di lavoro subordinato, settori di lavoro dirigenziale). L’azione strutturale rivive quindi una nuova condizione del contatto comunicativo tra classi contrastanti, davanti al responso definitivo della rivoluzione, codificazione ovviamente fondata sui nuovi valori proposti.

5.16.4 Oggi una rivoluzione schematizzata come al punto precedente non è possibile in assoluto. Gli stimoli eterodiretti sono ancora tanto pressanti da determinare un forte contingente rivoluzionario verso proposizioni ideologiche da attuarsi al di là e, certe volte, contro lo spirito critico che dovrebbe sostenere e giustificare una rivoluzione popolare. Il fatto che lo svilupparsi di una sovrastruttura industriale abbia consentito, in paesi come l’Italia, il sorgere di massicci fenomeni politici di distacco dai partiti, non significa la presenza di una garanzia in senso contrario. Naturalmente non bisogna per questo alzare le braccia e affidarsi alla buona sorte nella speranza che il futuro contingente rivoluzionario di potere si dimostri alquanto favorevole all’antiautoritarismo. Sarebbe come attendersi l’attuazione del mondo delle fate. L’azione diretta di preparazione a livello personale e collettivo di gruppo deve essere intensificata perché i risultati possano controbilanciare la necessaria disparità delle forze.

5.16.5 Abbiamo quindi la prospettiva di una rivoluzione proletaria diretta alla conquista del potere. La componente antiautoritaria, presente in questo movimento di rottura e di ristrutturazione, si pone in un ruolo ben definito e produttivo in quanto questa rivoluzione è molto differente dalla rivoluzione borghese. Infatti non può considerarsi in alcun modo una continuazione, quasi una maturazione del capitalismo. Ogni prospettiva evoluzionistica o neokautskiana come alcuni l’hanno definita, deve essere accantonata. Trattandosi quindi della vera “distruzione” della precedente società, non più nelle sue sole componenti esteriori, ma anche nelle componenti più intime – tra le quali appunto si colloca in un posto di maggiore spicco la graduazione del potere – la presenza dell’antiautoritarismo è non solo possibile ma necessaria e altamente significativa.

5.17.6 La rivoluzione proletaria diventa quindi un capovolgimento storico, al di là del quale si colloca la definitiva distruzione del Governo come classe dominante e dello Stato come struttura portante.

5.17.7 Ma il passato ci parla chiaramente della impossibilità di una conclusione del genere. I tentativi di rivoluzione proletaria a fondamento anarchico, come per esempio il movimento macknovista, non sono mai andati al di là di un tentativo. Ciò significherebbe che nel concetto stesso di rivoluzione proletaria è insita una contraddizione che rende impossibile lo sbocco naturale teorizzato? Alcuni studiosi hanno finito per concludere in questo senso. A noi non sembra necessaria una chiusura così catastrofica.

5.18.1 Vediamo di chiarire il concetto di potere nella struttura tradizionale borghese. Ogni struttura sociale, in questa dimensione, presenta la caratteristica di essere destinata a esercitare un potere. Qui non occorre precisare la distinzione tra potere (forma di autorità che consente di imporre un determinato comportamento agli altri) e influenza (forma di capacità che consente di suggerire e, in definitiva, ottenere dagli altri un determinato comportamento). Ci interessa solo il principio istituzionale della presenza della struttura sociale come organizzazione di potere. Dalla famiglia (struttura semplice) allo Stato (struttura complessa) siamo davanti a organizzazioni di questo tipo. Anzi esiste un altro modo, forse più chiaro, di vedere il problema, ed è quello di considerare tutte le strutture sociali in relazione tra loro proprio in forza del maggiore o minore grado di potere, essendo appunto questo lo scopo comune e quindi il fondamento comune.

5.18.2 Tutto il complesso giuoco di forze che abbiamo esaminato in questo nostro lavoro, dalle mire repressive e di sfruttamento del governo alle istanze di resistenza e di liberazione delle classi sfruttate, si traduce una continua lotta di potere e contropotere. Da un lato le strutture decisionali, dall’altro le organizzazioni che dovrebbero avere il compito di spostare queste decisioni dal generico fine del profitto a fini di contenuto sociale determinato.

5.18.3 La presenza di una forza rivoluzionaria capace di proporre un nuovo valore da sostituire al tradizionale potere, un valore che trovi fondamento semplicemente sulla funzionalità, se, come abbiamo detto, al momento non può avere speranze di avocare a sé tutta la linea rivoluzionaria, può avere la possibilità concreta di modificare in senso libertario tutta la direzione di sviluppo della rivoluzione.

5.18.4 Se la rivoluzione propone un superamento definitivo della stantia forma di democrazia parlamentare borghese o, peggio ancora, della forma di dittatura repressiva fascista, deve porsi nello stesso tempo la prospettiva di una immediata liquidazione di ogni forma di struttura statale che non risulti basata sulla funzionalità. In questo modo avremmo la scomparsa di una distinzione tra politica ed economia, la scomparsa di ogni forma di discriminazione sociale, l’eliminazione del carattere classista della scuola, il superamento dell’etica capitalistica del guadagno. Tutti questi punti, assai importanti, sarebbero però subitamente sommersi dalla reazione o dalla burocratizzazione delle stesse forze proletarie, se non intervenisse in tempo la presenza libertaria del concetto di funzione.

5.18.5 Se la rivoluzione elimina il processo all’infinito del tecnologismo organizzativo che si chiude all’interno della prospettiva capitalista del profitto come fine ultimo da conseguirsi per tutti, ma nello stesso tempo lascia aperta la porta alla pesantezza discriminante della burocrazia, ha tutte le carte in regola per avviarsi fatalmente verso il proprio fallimento. Lo stesso si può dire se l’eliminazione della discriminazione dei redditi non si accompagna a una vera e propria politica monetaria nuova, capace di abolire tutti i vecchi trucchi che l’economia borghese riesce a imbastire con la moneta: la rivoluzione vedrebbe in questo modo la prospettiva immediata della propria negazione.

5.18.6 Bisogna avere il coraggio di ammettere che al di là dell’immediata prospettiva rivoluzionaria, fermamente convinta di uscire fuori dal ginepraio inoperante delle riforme, esiste una più ampia e coraggiosa prospettiva di distruzione. Solo in questo modo si può consentire alla nascita di un rapporto di valore nuovo e tradurre in realtà il movimento rivoluzionario. Bisogna avere il coraggio di gridare che la vecchia piovra burocratica non deve mettere i suoi tentacoli, che anticamente riservava solo all’esercito, alla polizia, ai monopoli interni, al commercio con l’estero, alla scuola e ad altre poche attività, anche sulle officine, sulle industrie, sulle banche e su tutte le altre attività economiche: in questo modo la piovra, ingigantita a dismisura, finirebbe per controllare tutto con le sue braccia immense, il capitalismo di Stato farebbe morire per soffocamento la rivoluzione. Bisogna avere il coraggio di affermare che se non si vuole gettare in pasto tutto questo alla burocrazia bisogna uccidere questa e sfoltire delle bardature non necessarie ogni altra forma di organizzazione. Come si vede un programma ben più ampio della più ampia prospettiva rivoluzionaria comunista, un programma non facilmente determinabile a priori – se non nelle sue grandi linee, come abbiamo cercato di fare – ma un programma necessario e improrogabile.

5.18.7 Ma tutto ciò può sembrare difficilmente riconducibile all’interno di un’alternativa al sistema intesa concretamente sia dal punto di vista politico sociale che dal punto di vista economico. È proprio questa necessità improrogabile di chiarezza programmatica che rende affannosi molti tentativi di rottura, che turba i sogni dei borghesi benpensanti, ma con vaghe tendenze di sinistra – ormai in alcuni casi divenute di moda – ma fermi nei princìpi conservatori, che rende apparentemente solida la politica dei partiti popolari o pseudoproletari.

5.18.8 Una critica di questa portata è stata avanzata alle agitazioni studentesche, accusando i teorici dei vari movimenti di scarsa aderenza alla realtà, impossibilità di una visione concreta dei programmi futuri e altre amenità borghesi. Ma queste accuse dimenticavano sia l’elevata politicizzazione di buona parte dei movimenti degli studenti, sia il grado massimo di estensione che essi hanno avuto in questi ultimi anni. Anche a volersi fermare alla situazione italiana siamo davanti a fenomeni di globale mutamento di una situazione stagnante che durava da sempre. Un’altra cosa importante, taciuta da coloro che intendono gettare il discredito sulla lotta condotta dagli studenti, è il frequente e tuttora in corso raccordo con le masse operaie. Se quest’ultimo punto ancora non ha dato i risultati che si speravano in un primo momento, ciò è dipeso dal fatto che mentre gli studenti fanno parte di una struttura che ha subito lo scontro con una grave contraddizione di fondo, gli operai hanno da tempo l’illusione di appartenere sì a una struttura colpita dalle stesse gravi contraddizioni, ma capace di superare il momento critico grazie al meccanismo sindacale. Cadendo del tutto, come è destino che accada data la situazione presente di insostenibile clientelizzazione, la copertura sindacale, gli operai si troveranno nella stessa identica situazione degli studenti di oggi e decideranno con grande fermezza sulle sorti del loro avvenire.

5.18.9 Se oggi gli studenti non propongono una riforma della scuola ma contestano in blocco la scuola stessa, negandone il compito storico, dipende dal fatto che essendo giovani hanno un grado d’integrazione assai modesto e quindi possono operare scelte, anche decisive, anche estreme, assolutamente impensabili in altri settori sociali. Gli operai, pur trovandosi – in modo diverso nei diversi frazionamenti della classe operati dalla tecnica capitalistica – assai compromessi, pur barricandosi spesso dietro l’illusoria forza del sindacato, pur aspettando fiduciosamente, ormai da decenni, che il livello dei consumi sociali si alzi e venga a pareggiare se non a superare il livello dei consumi individuali, una volta posti davanti all’ineluttabilità delle loro responsabilità storiche, la qual cosa sarebbe come dire posti davanti all’impossibilità di continuare a sfamare i propri figli, opererebbero scelte assai simili a quelle di oggi fatte dagli studenti.

5.18.10 Restano naturalmente altri problemi di fondo: salute, inquinamento, congestione delle città, divisione del mondo in zone di pascolo per i grossi complessi capitalistici, agricoltura, disoccupazione, trasporti, sviluppo tecnologico, ecc., problemi che rendono pressante la precedente obiezione alla soluzione rivoluzionaria della mancanza di un’alternativa al sistema. È su questo cavallo di battaglia che si sono battute le forze riformiste, gettando sul tappeto la soluzione “mitigata” di una serie di aggiustamenti progressivi, in modo che tutto torni a essere come prima per uno sfruttamento sempre maggiore ma sempre meno appariscente. Una vera e propria “restaurazione” al canto dell’Internazionale. Ma allora perché il solo punto di forza vitale, il solo pungolo veramente pericoloso del sistema, il movimento studentesco, è nato fuori dalle dottrine e dai partiti riformisti? A questo sarebbe bene rispondere con franchezza, cosa che non è logico attendersi da chi è ormai intasato fino al collo nel fango dei compromessi e del carrierismo, anche se legge Marx o si professa di sinistra.

5.18.11 La gestione comunitaria coinvolge quindi una modificazione del concetto di potere, non solo nel senso di eliminazione del sistema di potere unico, ma anche nel senso della eliminazione di una molteplicità di poteri. Questo vuol dire che esistono veri e propri “poteri potenziali” difficilmente identificabili a priori, ma che trovano modo di farsi strada con facilità nel corpo sociale nel caso del permanere di date strutture prerivoluzionarie dopo l’attuazione della rivoluzione.

5.19.1 Scarse sono le speranze che la maggior parte degli studiosi autoritari assegnano alla concreta possibilità di una rivoluzione proponente, in pieno, un programma libertario. In senso assoluto non possiamo dirci in disaccordo con queste affermazioni. Come abbiamo più volte ricordato, la rivoluzione popolare partirà in futuro da punti ineliminabili che coinvoglieranno per forza di cose strutture autoritarie frutto delle passate gestioni e li riproporranno come sottofondo dell’organizzazione post rivoluzionaria, magari suggerendo opportune modifiche, nell’illusorio tentativo di imbavagliare quelle antiche strutture impedendo loro di nuocere ma facendole agire nel senso positivo per cui furono se non create, almeno teorizzate. Le strutture dell’economia capitalista, le organizzazioni tecniche della produzione, l’esperienza scientifica asservita alla tecnica, saranno tra le prime strutture pre rivoluzionarie a essere suggerite come candidate alla sopravvivenza.

5.19.2 A questo si deve aggiungere la presenza di altre strutture, sempre fondate sull’autoritarismo, nate con la rivoluzione stessa, o comunque prendenti forma concretamente definita con la rivoluzione. Sono questi i centri di potere più temibili in quanto scaturiscono dalla stessa forza vitale rivoluzionaria. I gruppi di combattimento, le risultanti immediate della delegazione del potere operativo nelle singole frazioni dello schieramento rivoluzionario e ogni degenere forma di accentuazione dell’energia liberatasi con l’atto definitivo, in se stesso libertario al sommo grado. Per queste organizzazioni non sarà quasi necessario suggerire una candidatura alla sopravvivenza, il loro attestarsi potrebbe prendere la piega dell’ineluttabilità sociale ed economica.

5.19.3 Un altro punto che troviamo negli studiosi cosiddetti autoritari è una vera e propria paura delle masse. Lo strumento di potere diventa se non proprio uno strumento di repressione e di discriminazione, trattandosi di studiosi non fascisti, uno strumento di controllo e di freno. Le vecchie favole dell’uomo cattivo – non importa per quale motivo, per nascita o per i lunghi secoli di oppressione – si ripresentano puntualmente in tutte le loro varietà.

5.19.4 Da ciò la necessità di guidare le masse e di far permanere questa guida anche dopo l’avvenimento rivoluzionario.

5.19.5 Anche studiosi libertari hanno avuto parecchi tentennamenti, come Proudhon e lo stesso Bakunin, ondeggiando qualche volta tra il concetto di rivoluzione dal basso in senso teorico e il concetto assai pratico di rivoluzione sempre dal basso ma guidata da una ristretta élite di specialisti. In effetti più che tentennamenti si deve avere il coraggio di ammettere che si tratta di due soluzioni che non si annientano a vicenda ma che si completano. L’élite rivoluzionaria ha dalla sua la capacità tecnica che consente l’organizzazione in forma altamente produttiva degli stimoli rivoluzionari che, e questo è il punto indiscutibile, devono manifestarsi sempre spontaneamente e mai essere predeterminati dalla stessa élite rivoluzionaria. Ciò consente l’attuazione della rivoluzione nella forma più efficiente, sfruttando la coscienza rivoluzionaria. Affermare questo non significa avere paura delle conseguenze che l’attività di rottura rivoluzionaria iniziata spontaneamente dalle masse possa sboccare in qualche disastro per la struttura che si vuole far permanere o che si decide a priori di costituire dopo la rivoluzione, significa piuttosto aver paura delle sorti della stessa rivoluzione, che potrebbe trovare una sanguinosa fine prematura.

5.19.6 Qui si deve dare il massimo sviluppo al concetto di specializzazione dell’élite rivoluzionaria, nel senso proprio che questa parola ha comunemente, cioè nel senso di funzionalità. Ogni altro concetto sostituitivo, come quello di persistenza in relazione a pericoli futuri prospettati ma non chiaramente indicati, deve intendersi al pari di qualsiasi altra burocratizzazione. Il principio della spontaneità rivoluzionaria deve essere salvaguardato a qualunque costo, qui si richiama solo l’attenzione sull’utilità di incanalare questa spontaneità all’interno di un’organizzazione di natura tecnica fissata da specialisti.

5.19.7 Taluno ha voluto vedere, in relazione alle mie ricerche condotte intorno al principio di distruzione, principio fondamentale di ogni rivoluzione, una forma residua di “cospiratismo”, di “quarantottismo” o di “pessimismo libertario”. Non posso qui, data l’indole del presente lavoro, intavolare una polemica, voglio ricordare solo due cose. Personalmente non sono convinto della possibilità di una rivoluzione di massa fondata sulla semplice spontaneità, se una rivoluzione del genere può prendere l’abbrivio (vedere il maggio francese di recente memoria) ben difficilmente può giungere a risultati concretamente favorevoli per le classi non privilegiate. L’altra cosa di cui voglio parlare è che non sono convinto della stessa possibilità che la rivoluzione popolare, anche se spontanea e soltanto indirizzata dall’élite rivoluzionaria, anche se improntata a princìpi libertari, possa dare vita, dall’oggi al domani, a una società libertaria in senso pieno. Il cammino verso questo traguardo è ancora assai lungo e difficoltoso. Queste due premesse non mi impediscono però di vedere la necessità di un lavoro in senso libertario da condursi sul contesto rivoluzionario, non mi impediscono di vedere la saldezza dei princìpi della teoria libertaria, non mi impediscono di agire concretamente in questo senso.

5.19.8 Il vecchio antagonismo dell’anarchia per l’organizzazione ha finito per mostrare una certa inadeguatezza ai tempi. Da ciò è sorta la nuova dottrina anarchica che riduce l’organizzazione alla struttura funzionale e rilancia l’anarchia sul piano operativo concreto nella struttura politica mondiale. Ciò non può venire considerato un passo indietro, un tradimento dei princìpi di chiusura a qualsiasi forma esterna alla volontà dell’uomo. L’antico volontarismo ha ceduto il passo, giustamente, al nuovo strutturalismo funzionale. Allo stesso modo il concetto di rivoluzione, primamente formulato in forma di pura spontaneità, deve cedere il passo a un concetto nuovo comprendente anche l’azione modellatrice di un’élite rivoluzionaria. Ciò non può considerarsi un tradimento della teoria libertaria.

5.19.9 Sorge subito dopo, e non poteva essere altrimenti, il grande pericolo del potere che questa élite rivoluzionaria, pur all’interno della sua caratteristica funzionalità, non potrà fare a meno di accumulare. Illudersi che ciò non avvenga significa costruire allegre utopie sulla natura degli uomini. Ecco perché abbiamo sempre affermato che non è nella natura degli uomini che bisogna esclusivamente cercare i princìpi che garantiscono l’assenza o la presenza della possibilità di nascita di una struttura di potere. Mantenendosi a questo livello si può solo dire che nella natura umana c’è quanto basta di cupidigia e di legge della giungla da giustificare la presenza del potere, ma c’è anche quanto basta di solidarietà e di fratellanza per giustificare la formazione di una società libertaria. È invece nelle strutture concrete della società che bisogna gettare lo sguardo. Se queste sono fondate sull’ineguaglianza, sulla prevaricazione, sul compromesso, sulla legge del profitto, sulla proprietà, sulla schiavitù dei salariati e su tante altre amenità, non è possibile pensare che tutto questo si possa eliminare di colpo facendo sorgere la società libertaria. Qualcosa resterà e di questo qualcosa la natura umana si farà forte per riprendere la solita strada verso la diseguaglianza e l’ingiustizia. Viceversa se le condizioni oggettive su cui si fondava quella situazione di ingiustizia vengono a mancare, verranno a mancare pure le conseguenze che quelle situazioni causavano sulla natura umana e questa farà prevalere la parte buona sulla cattiva, non per particolare virtù ma perché all’uomo non sarà più utile il compromesso, l’ineguaglianza, la prevaricazione, la proprietà, ecc., quanto invece sarà utile la solidarietà e l’uguaglianza. Il calcolo utilitaristico, vero fondamento della natura umana, sposterà in questo caso la tendenza verso princìpi diversi da quelli tradizionali.

6.20.1 Il presente lavoro, che qui concludiamo, ha avuto essenzialmente tre scopi. Per prima cosa fornire un chiarimento istituzionale sulla natura parassitaria e sfruttatrice del governo. Su questo punto ci siamo lungamente fermati studiando non solo le strutture di potere centralizzato ma anche quelle del potere delegato, studiando le degenerazioni burocratiche e ogni attività di sfruttamento e di repressione. In secondo luogo abbiamo studiato le possibilità di difesa riservate al singolo come componente di una struttura politico amministrativa, possibilità che abbiamo individuato nella loro vera essenza di sovrastrutture del potere medesimo, fonti dell’azione repressiva e di sfruttamento. La conclusione della ricerca sulle forme di difesa è stata che soltanto la rivoluzione di massa può considerarsi uno strumento valido, mentre tutto il resto, dai sindacati alle rivolte parziali, deve considerarsi definitivamente inglobato. Infine abbiamo esaminato la strada che la classe dominata e sfruttata ha percorso fino all’alternativa estrema della rivoluzione o dell’adeguamento indiscusso alle leggi del sistema. Questa strada è passata attraverso il riformismo, attraverso l’apparato pseudo-rivoluzionario parlamentare di sinistra, attraverso reazioni popolari ma di limitata efficienza e portata. Questa strada è passata pure dalla necessaria degenerazione degli antichi mezzi di difesa e offesa, come il sindacato, per cui oggi si trova davanti alla decisione di superare qualitativamente una mentalità che minaccia di trasformare tutti gli sforzi della classe sfruttata in inutili baloccamenti. Chiamati all’interno dell’antico consumo signorile i reietti di una volta hanno ricevuto un aiuto dal sistema, ma solo per venire più efficacemente sfruttati e per consentire la stessa messa a punto della macchina di sfruttamento. Tutte queste considerazioni ci hanno condotto alla disanima finale del concetto di potere e del concetto di rivoluzione popolare o spontanea. Il nostro lavoro, partendo dalla prospettiva istituzionale del governo, si è concluso con la prospettiva operante del momento rivoluzionario che è, nello stesso tempo, superamento e negazione dell’azione di sfruttamento del governo.

Studi preparatori

I. Il potere della fisica

Max Born, premio Nobel per la fisica 1954, è da considerarsi uno dei “padri” della fisica atomica, essendo appartenuto a quel trio – Hilbert, Born, Franck – che dal 1921 in poi fece di Göttingen il centro da cui uscirono i maggiori interpreti della nuova scienza. Il suo lungo insegnamento e la sua attività sperimentale di ricercatore lo hanno fatto conoscere in tutto il mondo e reso un’autorità indiscussa nel suo campo.

Nato a Breslavia nel 1882, Born è morto nel 1970. Si forma culturalmente nell’Università di Göttingen, dove ha maestri famosi come i matematici Hilbert, Klein e Minkowski. Si laurea nel 1906 e insegna per alcuni anni a Berlino e a Francoforte, è quindi chiamato a dirigere l’Istituto di fisica di Göttingen che, sotto la sua guida, diviene un importante centro di ricerche teoriche e sperimentali degli anni Venti. I più famosi allievi di Born sono: Jordan, Delbruck, Maria Goppert-Mayer, Oppenheimer, Weisskoff. Fra i numerosi scienziati che per periodi più o meno lunghi lavorano nel suo istituto sono da ricordare: Compton, Blackett, Pauli, Heisenberg, Fermi, von Neumann, Wigner, Dirac e tanti altri. Nel 1933, a causa delle leggi razziali dei nazisti, si trasferisce in Inghilterra insegnando per circa vent’anni nelle Università di Cambridge ed Edimburgo. Gli studi fondamentali di Born, condotti quasi sempre in collaborazione con Heisenberg e Jordan, riguardano, oltre al nuovo formalismo matematico (meccanica delle matrici) della teoria dei quanti, anche l’introduzione dei metodi statistici nell’interpretazione dei fenomeni atomici. Born è non solo un protagonista di considerevole spessore nella creazione della meccanica quantistica, ma deve considerarsi uno dei più validi propugnatori delle idee e della logica filosofica della nuova teoria. Atomic Physics, del 1935, fondamentale testo di fisica atomica e di fisica quantistica studiato in tutto il mondo, è forse il suo contributo scientifico e di ricerca meglio conosciuto, insieme a Natural Philosophy of Cause and Chance, del 1949.

«C’è un ramo della ricerca scientifica – egli scrive – ancora più costoso della fisica nucleare: quello delle ricerche spaziali, i cui strumenti principali sono i missili. Con essi si è riusciti a vincere la gravità, a trasformare un oggetto terrestre in un oggetto celeste, e a dimostrare con ciò sperimentalmente le leggi di Newton della meccanica celeste. Si è raggiunta la Luna e presto anche gli uomini vi arriveranno. Forse si raggiungeranno altri pianeti. Vi sono gli entusiasti dei missili che ritengono possibile perfino un viaggio nell’universo, al di là del sistema planetario. Si sono fatte scoperte d’ogni sorta sullo spazio che circonda la terra, che sono di qualche interesse per la scienza, ma che per il grosso degli uomini non hanno quasi nessuna importanza. La perfezione tecnica raggiunta in questo è grandissima e merita l’ammirazione che le è tributata. Ma altrettanto grande è il costo degli apparecchi. Secondo Saenger le spese annuali per lo sviluppo dei missili negli Stati Uniti ammontavano a circa 4 miliardi di dollari, e nell’Unione Sovietica a circa il doppio. (Per confronto sono date alcune cifre sugli aiuti concessi ai paesi sottosviluppati negli anni 1955-58 dagli Stati Uniti complessivamente 4,4 miliardi di dollari, di cui circa un quarto per scopi militari e il resto per aiuti economici. Dal blocco orientale complessivamente 2,8 miliardi di dollari, di cui un terzo per scopi militari e il resto per aiuto economico; e inoltre una piccola quota annuale per missili e ricerche spaziali).

«Perché somme di quest’ordine di grandezza vengono approvate per tali studi? In primo luogo perché i missili sono importanti militarmente. Se possono raggiungere la Luna, possono anche portare bombe atomiche da un continente a un altro. Sono un elemento nella gara di potenza dei grandi Stati, forse il più importante. I viaggi spaziali hanno poi un grande valore di propaganda. Alcuni anni fa ho partecipato a una riunione di esperti spaziali, in cui non si è discusso solo di problemi di fisica, di tecnica o di medicina, ma anche di teologia e di diritto. Molti erano avvincenti, altri assurdi, così assurdi che mi sono lasciato andare a un breve discorso in cui esprimevo le mie osservazioni e i miei dubbi. Poiché essi nel frattempo non si sono attenuati, vorrei riportare qui alcune frasi di quel mio vecchio discorso, che mi sembrano decisive:

«Il viaggio spaziale è una manifestazione del desiderio di avventura degli uomini, dell’istinto di cercare lo sconfinato, di oltrepassare i confini riconosciuti, come la scalata del Monte Everest o le spedizioni al Polo Nord o al Polo Sud. In breve è uno sport, che oggi è militarmente importante, e perciò è incoraggiato da chi detiene il potere politico. Non ci posso vedere alcun altro significato. Ma è uno sport immensamente costoso, un lusso stravagante, tranne che per grossi affaristi che ci guadagnano. Io non vedo come i viaggi spaziali possano in alcun modo contribuire al benessere dell’umanità, per non parlare della sua vera felicità, della sua sicurezza e della sua gioia.

«Non credo che parole come queste arresteranno il corso degli eventi. Ma ritengo che esse devono essere dette, affinché le generazioni future, se ce ne saranno, non giudichino pazza la nostra epoca. Io appartengo alla generazione che ha dovuto distinguere tra comprendere e ragionare. Da questo punto di vista i viaggi spaziali sono un trionfo dell’intelligenza, ma una tragica negazione della ragione». (Il potere della fisica [1961], tr. it., Torino 1962, pp. 120-122).

Si tratta di parole che vanno meditate. Specie in un momento di esaltazione generale, come quello che è seguito alla prima “passeggiata spaziale”. I rapporti tra politica e scienza sono di una tale complessità che non risulterebbe agevole chiarirli in questa sede. Fin dai tempi di Galilei, si sono sempre più acuiti. Oggi [1965] gli scienziati atomici, da Oppenheimer a Bohr, da Heisenberg a Born, da Teller a Schrödinger, si pongono il problema che diventa via via sempre più urgente.

La politica ha proprie necessità che difficilmente si potrebbero far connettere con quelle della scienza. Il fatto che organismi politici promuovano iniziative scientifiche assume soltanto esteriormente un aspetto filantropico di sovvenzione alla libera ricerca. La realtà incontrovertibile è che oggi la fisica non potrebbe sussistere se affidata agli sforzi e alle possibilità dei singoli scienziati. Senza la messa a punto di un complesso di vaste proporzioni, tale che solo un grande capitalista come uno Stato può permettersi, non giocherebbe un solo punto a favore della stessa ricerca fisica se le direttive politiche venissero a cambiare direzione. Nel senso che se, per ipotesi, l’interesse militare insito nella ricerca atomica e quindi anche in quella spaziale, venisse a cadere, cadrebbe pure l’interesse pseudofilantropico per le medesime ricerche da parte degli Stati.

Uno scienziato ben strano. Max Born è sempre stato al centro dei più importanti e innovativi sviluppi della fisica del Novecento, ma raramente il suo ruolo è stato riconosciuto appieno. La lobby di dominio non poteva accettare le sue posizioni politiche. È stato lui l’autore della interpretazione statistica della funzione d’onda, che è ancora oggi la base concettuale della meccanica quantistica, ma la teoria è conosciuta non come “interpretazione di Göttingen”, ma come “interpretazione di Copenaghen”.

Il lavoro di Born ha contribuito più di ogni altro a mettere da parte il determinismo e la causalità classica della fisica precedente e a specificare in modo indeterministico la “nuova fisica” quantistica, realizzando una delle più radicali svolte nella teoria fisica e nella filosofia della natura di tutti i tempi, ma lui non ha mai raggiunto la fama di Heisenberg o Bohr. Ma la vera importanza la si deve cercare nella sua attività di maestro e anche per il suo indiscutibile antinazismo e antimilitarismo. Non escludendo il suo ruolo di coscienza segreta esercitato nei riguardi di Albert Einstein.

Max Born, insieme a James Franck, intuisce l’importanza della nuova fisica quantistica e crea nei primi anni Venti a Göttingen, come abbiamo detto, un centro di ricerca di grande valore teorico. A Göttingen, con Born e Franck, e a Copenaghen, con Niels Bohr, si fa la ricerca più avanzata nella nuova e sfuggente fisica dei quanti. Born si trova maestro di una nuova generazione di fisici, fra i quali: Werner Heisenberg, Wolfgang Pauli, Pascual Jordan, Enrico Fermi.

Il lavoro di questa squadra è quello di cercare una teoria completa e coerente riguardo i fatti incomprensibili emersi nella fisica degli ultimi venti anni. Agli inizi del secolo, Max Planck scopre il quanto di energia. A livello microscopico l’energia non viene emessa e assorbita secondo quantità continue, ma in pacchetti discreti. Nel 1905 Albert Einstein dichiara che la luce ha una doppia natura: non si modula solo come un’onda, ma anche come un corpuscolo. La radiazione luminosa è trasportata da particelle prive di massa: i quanti di luce. Nel 1913 Niels Bohr afferma che gli elettroni non ruotano intorno al nucleo, come pianeti intorno al Sole, ma possono ruotare solo in orbite quantizzate: cioè a energia ben definita.

Malgrado tutti gli sforzi, in particolare a Copenaghen e a Göttingen, la spiegazione appare inattingibile. Ma, nel 1925, un allievo di Born, Werner Heisenberg, elabora la “meccanica delle matrici”, un formalismo matematico in grado di spiegare il bizzarro comportamento del mondo a livello microscopico. Il formalismo è molto efficace ma impone di rinunciare alla possibilità di immaginare e visualizzare i protagonisti del mondo quantistico. Ogni descrizione in termini classici è priva di senso. Il mondo dei quanti può essere descritto solo da astratte matrici di numeri. Alcuni mesi dopo il lavoro di Heisenberg, un altro giovane fisico, Erwin Schrödinger, fa conoscere la sua “funzione d’onda”, un altro formalismo matematico in grado di descrivere il comportamento quantistico. L’equazione di Schrödinger restituisce la piena realtà fisica al mondo dei quanti. Nella sua “meccanica ondulatoria”, gli elettroni non solo possono essere visualizzati, ma possono essere considerati in modo classico, come pacchetti d’onda che si muovono in modo continuo, come gli oggetti del mondo macroscopico.

Le due teorie sono in contrasto fra loro. Nel 1926 però è proprio Max Born a dimostrare che i formalismi di Heisenberg e Schrödinger si equivalgono, e che l’equazione di Schrödinger pur essendo corretta non può essere interpretata come una funzione classica. L’onda di cui parla Schrödinger che viene attribuita al comportamento degli elettroni e di ogni altra particella quantistica non è un’onda fisica ma “un’onda di probabilità”. In altri termini la funzione non misura lo stato classico di una particella in un dato istante (ovvero la posizione e la velocità della particella) come avviene nel mondo macroscopico, ma misura solo la “probabilità” che quell’elettrone si trovi in quello stato in quel dato istante.

L’interpretazione statistica della meccanica quantistica, dovuta a Born, sancisce la separazione, forse definitiva, tra fisica classica e fisica dei quanti. Nel mondo dei quanti non ci sono più le regole della rigorosa causalità tipiche della fisica classica.

Contrario a questa interpretazione è Albert Einstein. Egli è convinto che la realtà fisica sia una realtà continua e rigorosamente causale. Per cui la meccanica quantistica è una teoria utile e precisa, ma provvisoria.

Quando negli anni Trenta in Germania si affermano Hitler e i nazisti, Einstein e Born, ebrei, lasciano il paese. Max Born ripara in Inghilterra. Nel 1939 Einstein scrive la famosa lettera a Roosevelt, nella quale ricorda al presidente americano che gli sviluppi della fisica dei quanti consentono di liberare l’energia contenuta nel nucleo degli atomi e di produrre bombe di inusitata potenza. I fisici rimasti in Germania hanno tutte le conoscenze per realizzare l’arma atomica. È bene che anche gli Stati Uniti se ne dotino, quale deterrente contro Hitler. Negli anni successivi molti dei grandi protagonisti della vicenda quantistica parteciperanno alla realizzazione della bomba atomica. Uno solo, benché sollecitato, rifiuterà di partecipare a quella corsa: Max Born. Per lui la bomba atomica è un’invenzione da non realizzare. Malgrado Hitler, malgrado l’istinto del ricercatore, quella è un’invenzione distruttiva per l’intera umanità.

Esiste un libro di Robert Jungk, tradotto in italiano per i tipi della Einaudi, col titolo Gli apprendisti stregoni [1958], che racconta in forma brillante le vicende della nuova fisica. Da questo libro, e anche dal suo titolo, si può apprendere come gli scienziati atomici si siano addentrati in un campo che sempre di più sfugge loro dalle mani, per cadere in quelle più adunche dei reggitori di Stati.

Marx Born, e si badi bene non è che un esempio dei più rappresentativi, ha sentito questo progressivo allentarsi della possibilità di dirigere le forze atomiche da parte degli scienziati, e ne ha denunciato al mondo la tremenda verità.


[“Studi e ricerche”, 1965, pp. 30-32]

[1970]

II. Ideologia e utopia

Dal punto di vista sociologico, l’ideologia è costituita da qualsiasi sistema di idee capace di fondare e indirizzare l’azione sociale e politica. Nello specifico, l’ideologia serve a giustificare, attraverso il ricorso a simboli e valori, rapporti di dominio. Essa presenta, quindi, una stretta correlazione con il potere e i tentativi di legittimazione che quest’ultimo continuamente porta avanti. Nella sua formulazione originaria – quella dell’Illuminismo francese: Destutt de Tracy – si indicava più genericamente una combinazione di idee indirizzata alla riforma dei costumi e alla lotta filosofica contro il pregiudizio.

Marx ed Engels (Ideologia tedesca, 1846 e inizio del Capitale, 1867) considerano l’ideologia come “falsa coscienza”, caratterizzandola in quanto rappresentazione del mondo dal punto di vista delle classi dominanti e come tentativo, più o meno consapevole, di dare a essa il significato voluto dal senso comune, allo scopo di sostenere l’illusione della fondatezza naturale dei processi di dominio politico e di subordinazione sociale, celando il carattere di prodotto contingente del dominio e quindi la relativa possibilità di rovesciarli o modificarli attraverso l’azione rivoluzionaria.

Karl Mannheim (Ideologia e Utopia, 1929) critica l’approccio marxiano. Per lui tutte le ideologie, comprese quelle rivoluzionarie, sono il prodotto di un sistema di credenze orientato verso gli interessi di un determinato gruppo o classe sociale. All’ideologia che comunque giustifica un sistema di potere oppone, rivalutandone le potenzialità, l’utopia, che si scontra con le logiche di dominio e consente la preservazione di aspettative e valori orientati alla trasformazione (funzione sociale dell’utopia). Mannheim identifica e studia, come vedremo, quattro tipologie di ideologia: chiliastica, liberal-umanitaria, conservatrice e socialistica.

Durante tutto il XX secolo importanti teorie definibili come orientate verso il pensiero radicale – più o meno influenzate da Marx – hanno contribuito a modificare o allargare la nozione di ideologia. La “Teoria critica della Scuola di Francoforte” è una di queste. Il lavoro di Gramsci intorno al concetto di egemonia si può ricollegare a questo approccio. Seguono la nozione di apparato ideologico di Stato secondo come è stata sviluppata da Althusser e le tesi dei sociologi nordamericani, fra gli altri Daniel Bell e Seymour Martin Lipset, che teorizzano la fine delle ideologie a causa di una crescente convergenza dei sistemi di valore.

Altre ipotesi sono state avanzate più recentemente da Raimond Boudon [1985] che ha parlato di due diversi tipi di spiegazione dell’ideologia (razionale e irrazionale), e da Raimond Aron che ha visto nella ideologia il prodotto del fanatismo e delle passioni. Per Clifford Geertz l’ideologia è una sorta di carta stradale utile per trovare la strada in un mondo troppo complicato.

Per Jon Elster [1983], sociologo norvergese, l’ideologia è rappresentata dalla metafora dell’uva acerba, una forma di razionalizzazione dell’invidia sociale che possiede una potente funzione di mobilitazione ma che è ispirata dal bisogno di superare la difficoltà di capire.

Di fondamentale importanza il lavoro di Karl Mannheim sull’ideologia e sull’utopia. Secondo questo studioso il pensiero vero e proprio, concretamente esistente, non è separato dal contesto della situazione e dell’azione collettiva, in altri termini esso è determinato principalmente dalla dinamica generale del processo storico e dall’intensificarsi della capillarità sociale, movimento che ha caratteristiche orizzontali (“movimento da una posizione all’altra senza che intervenga un cambiamento nello stato sociale”), e verticali (“movimento tra i diversi strati nel senso di ascesa o di declino sociale”). Partendo da considerazioni di questo tipo Mannheim indica cinque tipi ideali di strutturazioni politiche nelle quali si sviluppa il pensiero politico-storico contemporaneo, queste sono: il conservatorismo burocratico, lo storicismo conservatore, il pensiero liberal-democratico, la concezione socialista-comunista e il fascismo. La categoria della totalità per Mannheim è decisiva nella individuazione della struttura metodologica dell’analisi storico-sociale. In questo senso egli si richiama ai tentativi fatti da Max Weber di costruire una sociologia della cultura o del sapere capace di prendere in esame il condizionamento sociale delle diverse forme culturali e la loro funzione ideologica.

In Ideologia e utopia Mannheim parte dalla relatività di ogni manifestazione culturale dicendo che la comprensione storica è la sola via per comprendere le forme del sapere. Ma la comprensione storica è anche comprensione sociologica, in quanto per agire si devono riportare le manifestazioni culturali all’essere storico-sociale di cui sono espressione, determinandone la funzione ideologica. In questo modo impone il postulato marxista del primato dell’essere sul pensiero.

Scrive Mannheim: «Il compito più importante del presente libro è appunto di elaborare un metodo conveniente per la descrizione e l’indagine di questo tipo di pensiero e dei suoi mutamenti, nonché quello di formulare i problemi, ad esso connessi, che valgano a porne in luce il carattere specifico e preparino la strada alla sua comprensione critica». (Ideologia e utopia, tr. it., Bologna 1957, p. 4).

Mannheim qui fa una distinzione all’interno del concetto di ideologia: a) Significato particolare caratterizzato da un uso polemico: qualifica come ideologie le posizioni dell’avversario che si vogliono confutare. b) Significato totale che viene dato dall’intera intuizione del mondo dell’avversario, considerata come forma concettuale di una situazione storica. Il materialismo storico ha avuto il merito del passaggio dal concetto particolare a quello generale, ecc.

L’ultimo periodo di Mannheim fu quello inglese. Qui sente l’influsso della concezione inglese del lavoro sociologico come lavoro sul campo e cerca di svincolarsi dall’impianto metafisico della sociologia tedesca.

La sociologia della conoscenza non parte dall’individualità per raggiungere le cime astratte come fanno i filosofi, ma cerca di comprendere il pensiero all’interno di una situazione storico-sociale. Essa non separa il pensiero esistente dal contesto dell’azione collettiva attraverso cui scopriamo il mondo. Gli uomini non considerano il mondo contemplandolo ma cercano di cambiarlo o di conservarlo.

I diversi modi in cui si esprime il pensiero, i significati delle parole e dei modi del ragionamento, se restano gli stessi o si modificano lentamente, dopo generazioni fanno avere a tutti una stessa concezione del mondo. Questa è la mobilità orizzontale.

Nel caso in cui vi siano rapide ascese e declini sociali di gruppi, si ha la mobilità verticale. Allora le persone sono scettiche sulla tradizionale concezione del mondo.

I gruppi che forniscono la concezione del mondo alla società costituiscono l’ “intellighentia”. Più la società è stabile più questi gruppi diventano casta. Se si forma una chiesa, il pensiero di questi gruppi si cristallizza in scolasticismo, resta lontano dalla vita quotidiana, accademico e senza vita. L’epoca moderna ha visto la nascita di una libera intellighentia e la rottura del monopolio medievale.

Le tre impostazioni del problema dell’analisi sono: a) Epistemologica, si basa sulla centralità di oggetto e soggetto – prima oggetto (Medioevo) poi, dopo il Rinascimento, si parte dal soggetto che viene riconosciuto maggiormente accessibile. b) Psicologica, nasce dalla lotta interiore del soggetto impegnato tra bene e male (Pascal, Montaigne, Kierkegaard). La stessa cosa può accadere a una società con i diversi gruppi che non concordano sul significato di Dio, vita, uomo, ecc., e non sanno cosa intendere per peccato, disperazione, ecc. L’alternativa della psicologia più recente tra meccanicismo e psicogenetica. Esempio: una concezione del mondo non viene elaborata da un individuo indipendentemente dagli altri ma nasce nel gruppo con un processo cooperativo. Quindi la presenza di un elemento inconscio dovuto alla collettività. c) Sociologica, scoperta più tardi, con l’allargamento del precedente concetto.

Il controllo dell’inconscio collettivo. Lo sviluppo industriale rompe la chiusura medievale, nuovi ceti entrano a far parte della mentalità industriale che educa alle decisioni razionali: crisi della visione religiosa della realtà.

In questo modo ogni pensiero scientifico comincia ad avere valore politico e ogni forma di politica ad avere un fondamento scientifico. Ma la discussione politica, a differenza di quella accademica, non si cura solo di essere nel vero, vuole demolire l’avversario. Il partito politico è sempre dogmatico. Fu la politica a scoprire il metodo sociologico nello studio dei fenomeni sociali.

La scoperta delle origini sociali del pensiero assume il significato di smascheramento. Nella coscienza comune si sviluppa la tendenza a mettere in luce le ragioni inconsapevoli che stanno al fondo del pensiero di ogni gruppo. Questo processo di crisi intellettuale è caratterizzato dai seguenti due concetti: a) Concetto di ideologia: esistono fattori inconsci di certi gruppi che nascondono lo stato reale della società a sé e agli altri, esercitando una funzione conservatrice. b) Concetto di utopia: esistono gruppi subordinati tanto impegnati nella trasformazione di una condizione sociale, da non riuscire a scorgere nella realtà se non quegli elementi che intendono negare. Nella mentalità utopica l’inconscio collettivo, mosso dai progetti per il futuro e dalla volontà pragmatica, trascura certi aspetti della realtà.

Così Mannheim: «L’emergere del problema relativo alla molteplicità dei modi di pensiero, apparsi nel corso dello sviluppo scientifico, e il riconoscimento dei motivi collettivi che sono rimasti finora nascosti, costituiscono un aspetto della incertezza che caratterizza la nostra età. Malgrado la diffusione democratica del sapere, i problemi filosofici, psicologici e sociologici, cui abbiamo prima accennato, sono stati confinati ad una relativamente piccola minoranza di intellettuali. Questo travaglio culturale venne, un poco alla volta, ad essere considerato dagli stessi come un loro privilegio professionale, come una loro preoccupazione privata, se non fosse che tutti gli strati sociali, con la crescita della democrazia, furono sospinti nella discussione politica e filosofica. All’inizio dei tempi moderni, il movimento protestante sostituì il concetto della salvezza, garantito dall’istituzione oggettiva della Chiesa, con quello della sua certezza soggettiva. Alla luce di questa dottrina, ogni persona avrebbe deciso, in accordo con la propria coscienza, se la sua condotta era grata a Dio e conduceva alla salvezza. Così il Protestantesimo rese soggettivo un criterio che sino allora era stato oggettivo, procedendo allo stesso modo della moderna epistemologia, che si era trasferita, dall’ordine oggettivamente garantito della realtà, al soggetto individuale. Né fu lungo il passo dalla certezza soggettiva della salvezza ad una prospettiva psicologica in cui, un poco alla volta, l’osservazione del processo psichico divenne più importante degli stessi princìpi inerenti alla salvezza, che prima gli uomini avevano cercato di scoprire nelle loro anime». (Ib., pp. 34-36). La produzione dell’oggettivo è correlata con quella dell’oggetto, modificata questa, crescente nei suoi svolgimenti storici, si rafforza quella. L’oggettivo è una forma particolare della sensibilità che si ingigantisce quando il paradosso esistente diventa tangibile per quasi tutti. Non viviamo ma stiamo morendo. L’assenza di vitalità educa alla visione dell’oggetto. Al contrario, l’apprendimento del soggetto dovrebbe suggerire qualcosa della vita, permettere l’uscita dal paradosso. Ciò non è vero perché si tratta di una soggettività, a sua volta, ridotta a oggetto, per cui il mondo sopravvive per paura di scoprire se stesso dietro queste finzioni.

Definizione dei concetti: a) Concezione particolare dell’ideologia: quando con essa s’intende rappresentare uno stato di dubbio o di scetticismo sulle idee avanzate dal nostro avversario. Queste sono considerate come contraffazioni della realtà. In genere ci si riferisce a una parte delle asserzioni dell’avversario. La concezione particolare dell’ideologia si mantiene a un livello psicologico. b) Concezione totale dell’ideologia: si riferisce a un’età o a un concreto gruppo storico-sociale, a esempio una classe. Questa concezione chiama in causa l’intera Weltanschauung dell’oppositore, considerando tali concetti come un prodotto della vita collettiva cui egli appartiene. Questa concezione comporta un certo tipo di ricerca formale in quanto nel considerare le idee dell’avversario s’investe un piano noologico cioè di totalità del pensiero. Essa non risulta dalla somma delle ideologie particolari (ogni proletario ha una sua ideologia particolare, ma non partecipa in tutto a quella che si dice ideologia proletaria totale).

«Ciascun individuo – continua Mannheim – partecipa soltanto in piccola misura di questo sistema di pensiero, la cui totalità non risulta pertanto una semplice somma di queste frammentarie esperienze individuali, ma è bensì un’unità organicamente integrata. Ne deriva che noi possiamo considerare l’individuo come portatore di un’ideologia solo fino a quando abbiamo a che fare con quella concezione dell’ideologia che, per definizione, è intenta a studiare i singoli contenuti del pensiero più che la sua struttura complessiva, scoprendo le ambiguità o le contraffazioni. Ma appena risaliamo ad un concetto totale dell’ideologia, dobbiamo cercare di ricostruire l’intera prospettiva del gruppo sociale, né gli individui, presi singolarmente o sommati astrattamente gli uni agli altri, possono più venire considerati i legittimi portatori del sistema ideologico in questione. Scopo dell’analisi diventa allora la determinazione della base teoretica che sta al fondo dei singoli giudizi individuali. Ed invero le analisi dell’ideologia nel senso particolare non possono mai, per il fatto stesso di ritenere il contenuto del pensiero individuale dipendente in larga misura dagli interessi soggettivi, ricostruire la prospettiva totale di un gruppo sociale. Esse possono al massimo svelare gli aspetti psicologici collettivi delle ideologie o condurre a qualche sviluppo della psicologia di massa, occupandosi, ad esempio, del diverso comportamento degli individui nella folla. Sebbene la psicologia collettiva avvicini sovente i problemi dibattuti da un’analisi totale dell’ideologia, essa non deve rispondere alle stesse domande. Una cosa è infatti sapere in che misura le mie attitudini e i miei giudizi sono influenzati e alterati dalla consistenza con gli altri esseri umani, un’altra è stabilire quali siano le implicazioni teoretiche del mio modo di pensare che si presentano identiche a quelle dei miei compagni di gruppo o di classe». (Ib., pp. 59-60). A intaccare il singolo l’ideologia provvede in molti modi, ma qui Mannheim capovolge il problema e insiste nell’individuare quest’ultima sulla base delle affermazioni dichiarative del primo. Il problema mi sembra mal posto. Ci sono dei punti di partenza dell’individuo che appaiono irrinunciabili, uno di questi è il suo bisogno di diventare se stesso. Non appare dubbio il fatto che l’ideologia – qualsivoglia ideologia – ostacoli l’appagamento di questo bisogno.

La reazione successiva alla rivoluzione francese dà impulso alla conoscenza storica. L’astratto conoscere in sé diventa il concreto spirito popolare. Quando la classe prende il posto del popolo quale detentrice della conoscenza storicamente dinamica, il Volksgeist è rimpiazzato dalla coscienza di classe o, più esattamente, dalla ideologia di classe. Su questo punto, Mannheim: «Il fatto per noi importante è che le due correnti, da cui nascono la concezione particolare e totale dell’ideologia, vengono ora ad avvicinarsi più strettamente. La concezione particolare dell’ideologia si confonde con quella totale. Il fatto diventa chiaro a chi l’osserva nel modo seguente: in un primo tempo, un avversario veniva, quale rappresentante di una certa posizione politico-sociale, accusato di falso, fosse esso consapevole o no, mentre ora la critica s’è fatta più generale per la ragione che, avendo screditato l’intera struttura della sua consapevolezza, non lo si ritiene più nemmeno capace di pensare correttamente. Questo semplice rilievo mostra, alla luce di un’analisi strutturale del pensiero, come nei primi tentativi di scoprire le sorgenti dell’errore, la deformazione ideologica fosse ricercata su di un piano soltanto psicologico e fossero tenute presenti le sole origini personali del pregiudizio intellettuale. La critica diviene totale quando l’attacco è portato su di un piano noologico e la validità delle teorie avversarie è messa in crisi dal riconoscimento che esse sono un prodotto della situazione sociale generalmente prevalente. Con ciò si è raggiunto un nuovo e forse decisivo stadio nella storia dei modi del pensiero. È difficile, tuttavia, occuparci di questo sviluppo senza prima esaminare alcune delle sue fondamentali implicazioni. La concezione totale della ideologia solleva un problema che finora è stato adombrato, ma che adesso acquista un più ampio significato, il problema, vogliamo dire, di come sia sorta la “falsa coscienza” (falsche Bewusstsein), di come sia nato un pensiero capace di falsare quanto viene a cadere sotto il suo dominio. Proprio la consapevolezza che la nostra generale visione del mondo può essere fuorviata ci porta ad attribuire alla concezione totale dell’ideologia uno speciale significato e valore per la comprensione della nostra vita sociale. Da questo esame nasce, è vero, la profonda inquietudine che noi avvertiamo nel presente momento culturale, ma anche tutto ciò che in esso vi è di fruttuoso e di stimolante». (Ib., pp. 69-70). Senza fare nulla di particolare. Ecco il segreto di questa evoluzione nell’ideologia. Se prima c’era da riflettere ora si è riflessi dalla condizione di esistenza. La risposta se prima era artefatta e asfittica adesso dilaga spontaneamente. Il fatto che in questi comportamenti prevalga l’elemento razionale conferma non tanto che il reale è razionale ma che la riduzione del reale all’essenziale condizione di sopravvivenza diventa modello di una razionalità povera ma efficace.

La concezione totale dell’ideologia solleva il problema complesso della falsa coscienza. Esso nell’antichità era di origine religiosa. Per capirlo dobbiamo analizzare la parola “ideologia”.

In principio essa non ha alcun significato ontologico. Gli ideologi furono un gruppo filosofico (nella linea tradizionale di Condillac) respingenti la metafisica e diretti a dare alle scienze dello Spirito un fondamento antropologico e psicologico.

La moderna concezione nasce quando Napoleone li disprezza apertamente. Oggi l’ideologia è usata dal proletariato come un’arma contro il gruppo dominante.

L’analisi marxista adotta una fusione particolare della concezione totale del termine. In questa fase la falsa coscienza assume un nuovo significato. Il pensiero marxista applica questo significato alla prassi politica. Oggi tutti i gruppi politici l’usano come arma per attaccare gli altri, stiamo entrando in una nuova fase del divenire sociale.

Quando la concezione totale dell’ideologia perviene alla sua formulazione generale trapassa nella sociologia della conoscenza. Ciò che prima era l’arma intellettuale di un partito, diventa metodo di ricerca, avente per oggetto la storia della società e della cultura. Da ciò deriva: a) Il relativismo: tutti i sistemi di pensiero dipendono dalla concreta posizione umana del singolo pensatore. Il relativismo accorda la teoria del conoscere con un modello del sapere tipo 2+2=4. Quindi rifiuto di ogni posizione soggettiva del pensatore. Da qui un dissidio tra la concreta consapevolezza storica dei processi del pensiero e una teoria del conoscere che non si è resa conto di questo. b) Il relazionismo: parte da una teoria del conoscere che ammette esistenti sfere di pensiero dove non si possono concepire verità assolute. Ricerca la migliore posizione sociale per raggiungere una conoscenza veramente adeguata.

Così continua il nostro autore: «Ma occorre spiegare adeguatamente questo passaggio. La questione di che cosa costituisca la realtà non è affatto nuova: ma che essa nascesse in luoghi di pubblica discussione e non in isolati circoli accademici sembra indicare un importante cambiamento. La nuova connotazione che il termine ideologia veniva ad acquistare, mostra invero, per lo stesso fatto di essere ridefinito dall’uomo politico sulla base della sua esperienza, un mutamento decisivo nel porre il problema relativo alla natura della realtà. Se, pertanto, s’ha da rispondere alle domande che sono implicite in un’analisi del pensiero moderno, dobbiamo convenire che una storia sociologica delle idee si occupa del concreto pensare della società e non semplicemente dei sistemi concettuali elaborati all’interno di una rigida tradizione accademica e che per di più si ritengono autonomi. Se prima un sapere erroneo era confutato mediante il ricorso ad una sanzione divina che rivelava infallibilmente il vero e il falso, o per mezzo di una pura contemplazione, capace di attingere i primi princìpi, ora il criterio della realtà è trovato anzitutto in una ontologia derivata dall’esperienza politica. Malgrado i cambiamenti avvenuti nel suo contenuto, la storia del concetto di ideologia, da Napoleone al marxismo, ha conservato il medesimo criterio politico nei confronti della realtà. L’esempio storico mostra, nello stesso tempo, che un punto di vista pragmatico era già implicito nell’accusa che Napoleone volgeva ai suoi avversari. Invero noi possiamo affermare che il pragmatismo è diventato per l’uomo moderno una prospettiva, sotto alcuni aspetti, inevitabile e adeguata, e che la filosofia s’è, in questo caso, limitata ad appropriarsene e a procedere alle logiche conclusioni che ne scaturiscono». (Ib., p. 74). La concezione non valutativa dell’ideologia ricorre in quelle indagini storiche in cui in via provvisoria, e per la chiarezza stessa del problema, non si emette giudizio sulla coerenza delle idee prese in esame. D’altro lato il concetto di valore è peculiare del nostro tempo (vedi la scienza economica). Esso non mira a scoprire la verità direttamente, ma questa emergerà nel corso dello sviluppo storico e sociale esaminato. Il problema della verità è maggiormente conseguibile attraverso la storia della società che non ricercando il vero in sé.

In passato gli avversari venivano combattuti nelle loro idee per sottometterli ai propri princìpi, oggi ci sono troppi princìpi di uguale valore e prestigio. Solo una situazione culturale disorganizzata come quella presente [inizio anni Settanta] consente di vedere la relativa prospettiva di una determinata situazione della società. Oggi chi crede di avere l’assoluto è un reazionario. Ma questo comporta un giudizio di valore. Così Mannheim: «La totalità, nel senso in cui noi la concepiamo, non è affatto la visione eternamente valida della realtà, attribuibile come tale solo all’occhio divino. Non è, vogliamo dire, una visione autosufficiente e stabile. Al contrario, essa implica l’assimilazione e insieme il superamento dei limiti impliciti nei punti di vista particolari. Essa rappresenta il continuo processo espansivo del sapere, ed il suo fine non è di conseguire una verità sovratemporale, bensì di estendere il più possibile l’orizzonte della nostra ricerca. Prendiamo dall’esperienza di ogni giorno un esempio degli sforzi che si compiono per giungere a tale prospettiva. Possiamo fare il caso di un individuo, occupato dai concreti problemi che gli stanno di fronte e che d’un tratto è spinto a scoprire le condizioni fondamentali che determinano la sua posizione sociale e culturale. Questa persona, intenta esclusivamente ai propri affari quotidiani, non saprebbe assumere un’attitudine critica nei riguardi di se stessa e del proprio stato, e sarebbe costretta, suo malgrado, ad un modo di vedere particolare e parziale. Solo nel momento in cui si rende conto di essere parte di una situazione più vasta, essa è spinta a considerare la propria vita in un contesto totale. È vero che la sua prospettiva non può superare i limiti che vengono imposti dall’esperienza: questa non oltrepassa probabilmente i confini della piccola città o il ristretto circolo sociale in cui l’individuo si trova ad agire. Pur tuttavia, considerare gli eventi e gli esseri umani come parti di una situazione simile a quella nella quale si opera, è cosa del tutto diversa dalla semplice e immediata reazione agli stimoli esterni o a un’impressione diretta. Quando l’individuo si è impadronito del metodo che gli consente di orientarsi nel mondo, egli è inevitabilmente spinto a superare gli angusti confini della sua città e a considerare se stesso come elemento di una situazione nazionale e, più tardi, mondiale. Allo stesso modo, egli sarà in grado di comprendere la posizione della propria generazione, il suo posto nell’epoca in cui vive, e infine di concepire quest’ultima come un momento dell’intero processo storico. Questo tipo di orientamento personale riproduce in piccolo lo sforzo vieppiù intenso di pervenire ad una concezione totale. Sebbene la sostanza dei fatti sia comune, il fine è qui del tutto diverso». (Ib., pp. 106-107). Il giudizio ontologico implicito nella concezione non valutativa dell’ideologia caratterizza questo passaggio. Ma la molteplicità degli eventi storici non è priva di una certa regolarità, questo ordine esiste e può venire accertato. In questo modo nell’insieme storico si può scoprire il ruolo e l’importanza e il senso di ciascun elemento. Ma questo punto di partenza non deve restare in campo speculativo, deve tradursi in una ricerca concretamente sociologica. La ricerca della realtà è costituita dal tentativo di eludere le deformazioni ideologiche e utopiche, è l’indagine della realtà. In altre parole, scetticismo.

Le prospettive della politica scientifica si possono raggiungere ammettendo: a) che le scienze sociali sono in stato d’infanzia, b) che la prassi politica è qualcosa di qualitativamente diverso e quindi non sottoponibile ad analisi scientifica.

È possibile una scienza della politica?

In politica l’impostazione di un problema e le tecniche logiche implicite in esso variano con la posizione politica dell’osservatore. Infatti il pensiero politico-storico assume varie forme in relazione ai diversi movimenti politici. Basta tenere presente la relazione tra teoria e pratica.

Scrive Mannheim: «Le due principali sorgenti dell’irrazionalismo nella struttura sociale (ovvero la lotta incontrollata e il predominio della forza) sono alla base della società tuttora disorganizzata, per cui la politica si rende indispensabile. Attorno a questi due centri, si accumulano quegli altri profondi elementi irrazionali che noi di solito chiamiamo emozioni. Dal punto di vista sociologico, esiste senza dubbio una connessione tra la parte della società ove prevalgono la lotta e la forza e l’integrazione sociale delle reazioni emozionali.

«Il problema deve allora essere formulato così: quale conoscenza possediamo o è possibile ottenere di questa parte della vita sociale e del tipo di comportamento che in essa si presenta? Esso ci si presenta nella forma più facile per essere chiarito. Una volta determinato dove comincia il regno della politica, e dove il comportamento (nel senso che s’è detto) diviene effettivo, noi siamo in grado di indicare quali siano le difficoltà che si frappongono allo studio dei rapporti tra la teoria e la pratica.

«I notevoli ostacoli che la conoscenza scientifica incontra in questo campo nascono dal fatto che essa non si deve qui occupare di entità obiettive, ma di tendenze in permanente divenire. Un’ulteriore difficoltà è che l’insieme delle forze interagenti muta di continuo. Se l’interazione segue un corso regolare e le forze in gioco non mutano il loro carattere, allora è possibile formulare delle leggi generali. Ciò è invece molto più difficile, quando nuove forze entrano di continuo nel sistema e formano imprevedute combinazioni. Un ulteriore ostacolo è rappresentato dalla posizione dell’osservatore: questi non è affatto fuori dal regno dell’irrazionale, bensì è coinvolto nel conflitto delle parti. Tale partecipazione lo trascina inevitabilmente a essere partigiano nelle sue valutazioni e nei suoi interessi. Infine, ed è il più importante, resta il fatto che non soltanto il teorico della politica è partecipe della competizione, ma il modo stesso in cui gli si presentano i problemi, la sua maniera di pensiero e persino le sue categorie sono legate alle correnti politiche e sociali. È in questo campo che noi dobbiamo, a mio parere, rintracciare le vere differenze nei modi del pensiero – differenze che si estendono sino al campo della stessa logica.

«In ciò sta, senza dubbio, il più grande ostacolo a una scienza della politica. Invero, una scienza del comportamento sarebbe possibile solo nel caso in cui la fondamentale struttura del pensiero fosse indipendente dalle diverse forme di condotta che si sono prese in esame. Anche se l’osservatore partecipa alla lotta, la base del suo pensiero, cioè il suo apparato categoriale e i suoi metodi di ricerca, deve essere al di sopra del conflitto. Non si risolve una questione celandone le difficoltà, ma mettendole in mostra il più chiaramente possibile. È giocoforza, pertanto, concludere che in politica l’impostazione di un problema e le tecniche logiche ad esso implicite variano con la posizione politica dell’osservatore». (Ib., pp. 115-116). La colpa, o il merito, di una decisione viene di regola attribuita alla volontà di chi ha deciso in un modo o nell’altro, e invece si dovrebbe andare più a fondo, scendere nei visceri della decisione, in quella irresponsabile passività che spesso ottunde i sentimenti e collabora tragicamente con la volontà padrona. È difficile farsi capire in un mondo che ha elevato un piedistallo alla volontà, che acclama il decisionismo e i muggiti dei mostriciattoli che scalano la montagna del potere.

Vediamo queste posizioni:

1) Conservatorismo burocratico: trasforma ogni problema politico in una questione amministrativa. Mentalità burocratica. Di fronte alla rivoluzione cerca un qualche decreto eccezionale e non studia la situazione politica.

2) Conservatorismo storico: è consapevole degli elementi irrazionali nella vita dello Stato e sa pure che gli organi amministrativi non possono controllarli. Il campo della politica è conosciuto a sufficienza. È la teoria della tradizione feudale che ha preso coscienza e osserva le lotte che avvengono all’interno dello Stato. È il campo dell’irrazionalismo romantico, di cui il massimo teorico è Ranke.

3) Borghesia liberal-democratica: l’elemento irrazionale non viene eliminato, il radicalismo intellettualistico procede alla costituzione di una certa scienza politica ma le anomalie tipiche della società borghese vi si riflettono. Lo spirito borghese è consapevole di questi dissensi ma resta irrazionale nel momento in cui pensa di modificarli solo con la forma del pensiero e della discussione.

4) Socialismo e comunismo: il marxismo scopre che nella società non può esistere una teoria pura, dietro ogni dottrina si cela la coscienza di una classe, pensiero collettivo che Marx chiama ideologia. Però al marxismo va applicata la stessa cosa: deformazione ideologica. Comunque, qui il senso di ideologia non è usato in negativo ma come prospettiva, necessariamente legata a una Weltanschauung. Il pensiero marxista cerca di rendere razionale l’irrazionale. Il fine rivoluzionario ne nega la razionalità. Quindi se il marxismo è razionale poi culmina nell’irrazionalità.

5) Fascismo: attivistico e irrazionale. (Probabili aspetti in Bergson, Sorel e Pareto). Respinge ogni interpretazione della storia considerata mera finzione che sparisce nel momento dell’azione.

Si può creare una scienza politica come sintesi delle varie prospettive, non di parte ma rigorosa? Questa sarebbe una ricaduta in una concezione del mondo intellettualistica e statica. Deve darsi campo allora a una sintesi dinamica. In questo modo Mannheim insiste sull’argomento: «La maggior parte dei libri, nella storia della scienza politica tedesca, sono de facto dei trattati sull’amministrazione. Se noi consideriamo il ruolo che la burocrazia ha sempre avuto, specialmente nello Stato prussiano, e ricordiamo come da essa provenisse grande parte dell’intellettualità, questo aspetto unilaterale della scienza politica in Germania diviene facilmente comprensibile.

«Lo sforzo di nascondere tutti i problemi politici sotto il mantello dell’amministrazione può essere spiegato dal fatto che l’attività del funzionario è tale solo dentro i limiti di leggi già stabilite, per cui la nascita o lo sviluppo di tali regole non interessa il suo raggio d’azione. A causa del suo orizzonte socialmente limitato, il funzionario non riesce a vedere come dietro ogni singola legge stiano gli interessi e le Weltanschauungen di un determinato gruppo sociale. Egli ha per certo, al contrario, che l’ordine specifico disposto dalla legge concreta corrisponda all’ordine in generale; egli non capisce cioè che ogni assetto razionale della società non è che una delle molte forme in cui le forze scatenate e in conflitto si riconciliano». (Ib., p. 118). L’esercito immenso, silenzioso, oscuro, esercito amministratore, struttura portante dello Stato, somministra direttamente le condizioni dell’esistenza che ci imprigiona, e non fa altro che chiudere gli occhi di fronte alle conseguenze del proprio operare. Basta seguire le regole che altri hanno fissato e nessuno si accorge dei problemi che ne derivano. Non ci sono forti personalità in questa categoria di sfruttatori, gente morta senza saperlo e che si crede ancora in vita. Tutti costoro muoiono nell’anonimato e nella buona coscienza ogni giorno un poco di più insistendo nell’apparire vivi. Questo lungo corteo di morti assolve al compito quotidiano senza problemi, carta dopo carta, assassinio dopo assassinio.

«La mentalità amministrativa e legalistica – continua Mannheim – ha un suo proprio tipo di razionalità. Messa di fronte a forze incontrollate, come, ad esempio, all’esplosione rivoluzionaria delle energie collettive, essa non riesce a considerarle che sotto l’aspetto del disordine provvisorio. Non ci si deve pertanto stupire che in ogni rivoluzione la burocrazia cerchi di trovare un rimedio in qualche decreto eccezionale, invece di affrontare la situazione politica dalle basi. Essa guarda alla rivoluzione come ad un evento intollerabile all’interno di un sistema ben altrimenti ordinato e non come all’espressione vivente di forze sociali da cui dipende l’esistenza, la conservazione e lo sviluppo della società. La mentalità giuridico-amministrativa elabora unicamente dei sistemi statici di pensiero; ne viene che essa è sempre posta dinanzi al compito, invero paradossale, di dover accogliere nel suo ordine di idee quelle nuove regole che nascono dall’azione reciproca delle concrete forze esistenti e di doverle considerare come uno sviluppo del sistema primitivo.

«Un tipico esempio della mentalità militare e burocratica è dato dalla leggenda della “pugnalata alla schiena” nelle molte forme in cui si presenta: infatti, secondo la Dolchstosslegende, un moto rivoluzionario non è altro che una seria interferenza all’interno di un accurato piano strategico. Infatti, l’interesse del burocrate militare si rivolge esclusivamente all’azione di guerra e, se questa procede conformemente al piano, anche tutto il resto deve procedere bene. Codesto atteggiamento fa un po’ venire in mente quella battuta sul famoso medico, cui si attribuiva la frase: “L’operazione è stata uno splendido successo. Disgraziatamente, il paziente è morto”.

«Ogni tipo di burocrazia tende pertanto a generalizzare la propria esperienza e a trascurare il fatto che l’amministrazione e quanto concerne la perfetta disciplina delle funzioni non esauriscono la realtà politica. Per concludere, il pensiero burocratico non nega la possibilità di una scienza politica, ma la fa coincidere con la scienza dell’amministrazione. Sicché i fattori irrazionali non sono tenuti in alcun conto e quando essi nondimeno si presentano sono considerati alla stregua dei “normali affari di Stato”. Una classica espressione di questo punto di vista può essere rappresentato dal detto che ebbe appunto origine in questi circoli: “Una buona amministrazione è preferibile a una buona costituzione”.

«Oltre al conservatorismo burocratico, che ebbe grande influenza in Germania e specialmente nella Prussia, se ne sviluppò parallelamente un secondo, cui potremmo dare il nome di conservatorismo storico. Esso fu proprio della nobiltà e dell’intellettualità borghese, che avevano il potere e la guida del paese. Tuttavia, tra questi gruppi e i burocrati conservatori ci fu sempre una certa tensione. Questo nuovo tipo di pensiero portava l’impronta delle università tedesche e specialmente del gruppo dominante degli storici. Anche oggi, tale mentalità trova il suo massimo sostegno in questi circoli». (Ib., pp. 118-119). Rentiers, funzionari, professionisti, non sono una classe. Si affiliano a una classe direttamente produttiva. Oppure si autonominano avvocati degli interessi dell’umanità. Di regola vengono guardati con sospetto. Da qui il fanatismo degli intellettuali più radicali: allo scopo di vincere la diffidenza e la mancanza di integrazione nella classe. Il loro emergere è forse regolato dal caso, eppure scendendo più a fondo si possono cogliere alcune regolarità. C’è una certa corrispondenza tra le aspirazioni di un intellettuale e il modo in cui il mondo gli risponde. I migliori hanno risposte non adeguate ma la cosa non li turba, i peggiori, nel caso di risposte simili alle precedenti, sviluppano un risentimento che col passare degli anni diventa un sostituto della risposta di classe. Un sostituto che può ingannare a prima vista ma che alla lunga si rivela deleterio. L’esuberanza che in altri uomini riesce a dare un segno positivo all’esistenza, in costoro diventa uno stimolo continuo all’arrampicata sociale. Sono dominati dal desiderio di conquista e non sanno sottrarsi allo slancio che li opprime quel tanto che basterebbe a vedere le cose sotto un altro punto di vista. Alla fine sono tutti ansiosi di perdere quello che si sono illusi di avere conquistato. Nelle loro mani adunche l’indispensabile è scivolato via.

Le tre strade della sociologia della conoscenza sono tre: a) Negazione della scientificità del sapere politico in quanto legato alla vita e a una situazione sociale. b) Eliminazione degli elementi valutativi dal contesto del conoscere, per esempio il lavoro fatto da Max Weber in Economia e società [1922], ma è solo una parte del problema. c) Volontarismo, ammissione degli elementi valutativi, eliminazione quando possibile, accettazione della ineluttabilità del dominio dell’irrazionale. Infatti solo questa accettazione rende possibile la politica, in sua assenza avremo solo l’amministrazione. Nasce quindi il criterio della responsabilità.

Una mentalità si dice utopica quando contraddice la realtà presente. L’uomo si è spesso rivolto a fini che trascendono l’esistenza attuale e spesso questo ha consolidato l’ordine esistente. Tale comportamento non è utopico ma incongruente. È utopico quando è teso a rompere i legami dell’ordine esistente. Ne consegue che gli esponenti di una realtà esistente non assumono sempre un’attitudine ostile verso gli indirizzi trascendenti la realtà. Essi cercano di impedire solo quelli che pensano possano essere realizzati modificando l’ordine esistente.

Secondo Gustav Landauer “topia” è ogni ordine sociale, “utopia” è l’idea rivoluzionaria che lo vuole distruggere.

Le ideologie sono idee situazionalmente trascendenti che non riescono ad attuare i progetti impliciti (per esempio, idea dell’amore cristiano in una società schiavista). Le utopie sono pure idee che trascendono la situazione sociale, dato che trasformano l’ordine esistente esse non sono più ideologia, lo erano prima della trasformazione. «Per il sociologo – precisa Mannheim – l’ “esistenza” è data da ciò che è “concretamente effettivo”, ovvero da un ordine sociale in atto, che non esiste soltanto nella immaginazione di certi individui, bensì suggerisce reali modelli di comportamento.

«Ogni “ordine di vita operante” concretamente deve essere compreso e caratterizzato con maggiore chiarezza per mezzo della struttura economica e politica su cui è fondato. Ma esso abbraccia anche tutte quelle forme dell’umano “convivere” (come quelle particolari dell’amore, della socialità, della lotta, ecc.) che la struttura rende possibili o presuppone; e così pure comprende tutte quelle forme di esperienza e di pensiero caratteristiche di questo sistema sociale e che sono di conseguenza congruenti ad esso. (Per la presente impostazione del problema, questo rilievo è sufficientemente preciso. Non si deve però negare che se la prospettiva da cui muove l’analisi fosse più approfondita, ci sarebbero molte altre cose da spiegare. La validità esplicativa di un concetto non può mai essere assoluta: essa procede sempre di pari passo con lo espandersi e l’acuirsi della possibilità di penetrare nella struttura totale). Ma ogni ordine di vita “concretamente operante” è, al tempo stesso, affetto da concezioni che debbono intendersi come “trascendenti” o “irreali”, in quanto i loro contenuti non si possono mai realizzare nelle società in cui si presentano, né uno potrebbe vivere e agire conformandosi ad essi entro i confini dell’ordine sociale esistente.

«In una parola, tutte quelle idee che non riescono a inserirsi positivamente nella situazione sono “situazionalmente trascendenti” ovvero irreali. Le idee che invece corrispondono all’ordine concretamente esistente e de facto, possono venire indicate come adeguate e congruenti. Queste ultime sono relativamente infrequenti e solo una mentalità del tutto consapevole sociologicamente opera con idee e finalità adatte alla situazione. In contrasto con esse, esistono due principali categorie di idee che trascendono la realtà presente – le ideologie e le utopie». (Ib., p. 195). Il processo di riassorbimento delle idee che operano nella società in contrasto con l’ordine stabilito è un processo costante ma contraddittorio. Da un lato tende a schiacciare sul nascere queste idee, non tanto con la repressione pura e semplice – intervenendo questa nelle democrazie moderne quanto si riescono a collegare fatti considerati illeciti con teorie che suggeriscono o sostengono quei fatti positivamente – quanto con la prevenzione e l’addomesticamento della cultura, dall’altro lato tende a utilizzare queste idee dopo un opportuno snaturamento di contenuti.

«Le ideologie sono idee situazionalmente trascendenti che non riescono mai de facto ad attuare i progetti in esse impliciti. Sebbene esse spesso si presentino come giuste aspirazioni della condotta privata dell’individuo, quando poi sono tradotte in pratica, il loro significato viene molto spesso deformato. L’idea dell’amore fraterno cristiano, ad esempio, rimane, in una società fondata sulla servitù, un’idea irrealizzabile e perciò ideologica, anche quando il suo significato costituisca, per chi lo intenda in buona fede, un fine per la condotta individuale. Vivere coerentemente a questo amore cristiano in una società che non sia organizzata sul medesimo principio è impossibile. L’individuo nella sua condotta privata, è sempre destinato – finché non risolve di rompere la struttura sociale esistente – a non realizzare i suoi più nobili scopi.

«Il fatto che questo comportamento ideologicamente determinato non adegui mai la sua intenzione può presentarsi in parecchie forme – e corrispondentemente a queste forme esiste tutta una serie di possibili tipi di mentalità ideologica. Come primo fra questi, possiamo indicare il caso in cui il soggetto conoscente è trattenuto dal divenire consapevole dell’incongruenza delle sue idee con la realtà da un intero ordine di princìpi, implicito nel suo pensiero storicamente e socialmente determinato. Come secondo tipo di mentalità ideologica si può accennare alla cosiddetta “mentalità ipocrita”, caratterizzata dal fatto che essa ha storicamente la possibilità di scoprire la contraddizione tra le sue idee e la sua attività concreta, ma la tiene celata per determinati interessi di vita. Come ultimo tipo, c’è la mentalità ideologica fondata sull’inganno consapevole, dove l’ideologia ha da venire interpretata come una menzogna deliberata. In questo caso, noi non abbiamo a che fare con una forma di autoillusione, ma con un intenzionale inganno perpetrato verso un altro. Esiste un numero infinito di stadi intermedi tra la mentalità bene intenzionata e situazionalmente trascendente e quella “ipocrita” e tra questa e l’ideologia nel senso di una menzogna consapevole». (Ib., pp. 196-197). Esattamente. Non c’è mai un modello preciso. Magari all’inizio della carriera di un politico ci potrà essere stato un momento di serietà e di sincerità, ma si tratta solo di un luogo delle illusioni, ben presto cancellato dalla nefasta tecnica del realismo, dovunque imperante nell’ambiente in cui egli ha scelto di farsi strada. Mille piccoli privilegi costruiscono la scalata al potere, anche alla più piccola e trascurabile manifestazione concreta di potere. Anzi, come ho spesso osservato in vita mia, più questo potere è periferico e marginale, a volte soltanto immaginario, e più viene coltivato con pervicacia e rinnovato spirito di conservazione. Ho visto miserabili coltivare miserrimi orticelli di potere con tanta indegnità quanta ne sarebbe stata necessaria per la gestione di un impero.

Riguardo i rapporti tra utopia e ordine esistente ogni epoca produce quelle idee e quei valori in cui si condensano le tendenze non ancora soddisfatte e realizzate. Questi elementi sono l’elemento esplosivo per fare saltare l’ordine esistente. La realtà dà origine alle utopie, queste ne rompono i confini per poi lasciarla libera di svilupparsi nella direzione dell’ordine successivo. Una relazione dialettica già vista dall’hegeliano Johann Gustav Droysen.

L’utopia oggi non può essere l’opera di un singolo uomo poiché l’individuo è inconcepibile fuori da una situazione storico-sociale. Solo quando la concezione utopica dell’individuo s’impadronisce di un gruppo sociale allora l’ordine esistente può venire attaccato. Le singole forme delle utopie si capiscono considerandole non meccanicamente una dietro l’altra, ma vedendo che esse si affermano e si consolidano come utopie in concorrenza. «[Le utopie] – scrive Mannheim – non sono ideologie, non lo sono nella misura e fino a quando riescono a trasformare l’ordine esistente in uno più confacente con le proprie concezioni. Ad un osservatore che abbia di esse un concetto relativamente estrinseco, questa distinzione teoretica e del tutto formale tra ideologie e utopie sembra offrire poche difficoltà. Determinare in concreto quale, in un certo caso, sia l’ideologia e quale l’utopia è invece estremamente difficile. Noi ci troviamo qui di fronte all’applicazione di un concetto che implica dei valori e dei modelli. Per riuscire a questo, uno deve di necessità partecipare ai sentimenti e alle finalità dei partiti in lotta per il potere su di una realtà storica.

«Ciò che in un caso appare utopico o ideologico dipende essenzialmente dallo stato e dalle condizioni della realtà cui si applica questo modello. Mentre quegli strati, che rappresentano l’ordine sociale e intellettuale prevalente, concepiranno come una vera realtà quella struttura di relazioni di cui essi sono i sostenitori, i gruppi che si oppongono a tale assetto saranno spinti verso quell’ordine sociale per cui lottano e che si viene realizzando con loro. I rappresentanti di una determinata situazione indicheranno come utopiche tutte le concezioni della realtà che, dal proprio punto di vista, non potranno mai venire attuate. Conformemente a ciò, con il termine moderno di “utopia” s’intende generalmente un’idea che è irrealizzabile in via di principio. (Abbiamo di proposito tenuto lontano questo significato del termine da una definizione più rigorosa). Tra le idee che trascendono la situazione reale ve ne sono certamente alcune che non possono mai attuarsi. Non altrimenti, gli uomini, i cui pensieri e sentimenti sono legati ad una realtà nella quale detengono una determinata posizione, mostreranno sempre la tendenza a ritenere come assolutamente utopistiche tutte le idee che si sono dimostrate irrealizzabili nella particolare struttura in cui essi vivono. Nelle pagine seguenti, ogni qualvolta parleremo dell’utopia, noi useremo questo termine in un senso relativo, intendendo per utopia soltanto ciò che sembra inattuabile dal punto di vista di un determinato ordine sociale già affermato». (Ib., p. 197). Affermare, come fa Mannheim, che ci sono alcune idee che non possono essere mai attuate, e affermarlo decisamente, non è esatto. In linea di principio, al contrario, tutte le idee possono essere attuate, anche le più estreme e stravaganti. Limitandoci alla realtà sociale, che di questo qui ci interessiamo, forme di organizzazione sociale assolutamente impensabili, o del tutto utopiche, sono state nella storia realizzate e abbandonate. La loro incredibile costituzione resta tale fin quando si ragiona dall’interno della formazione sociale che, appunto, rende quelle forme organizzative incredibili. Ma anche la forma sociale che ci ospita può essere criticata e, dentro certi limiti, oltrepassata con una critica capace di andare a fondo delle cose. Spingere la realizzazione di prospettive utopiche, a sua volta, in quanto azione concretamente rivoluzionaria, può dividersi in due strade ben separate, la prima suggerisce e propugna realizzazioni estreme disponendosi però ad accettare compromessi anche ragguardevoli, riflettendo in questi compromessi gli accordi che via via si sono resi necessari nel corso della lotta. La seconda strada non si prospetta possibili compromessi, e quindi nemmeno accordi di collaborazione che non siano più che selezionati in base alle proprie scelte di fondo, questa seconda strada ha la possibilità di realizzare quello che desidera solo grazie a una profonda trasformazione interna alla formazione sociale, trasformazione quasi sempre del tutto indipendente dalla stessa prospettiva utopica di partenza.

Continua Mannheim: «Lo stesso sforzo di determinare il significato del concetto di “utopia” mostra a qual punto ogni definizione nelle discipline storiche dipenda necessariamente da una particolare prospettiva, coinvolga l’intero sistema di pensiero che sta alla base della posizione del ricercatore in questione e, specialmente, gli orientamenti politici che stanno dietro di esso. Non altrimenti, il modo in cui un concetto è definito e i vari sensi in cui esso viene adoperato comportano già, in una certa misura, un pregiudizio sul risultato delle idee che su di esso si fondano. Non a caso un osservatore, il quale abbia coscientemente o meno preso partito a favore dell’ordine sociale predominante, finisce col possedere un’ampia e indifferenziata concezione dell’utopia, con l’ignorare o confondere la distinzione tra ciò che è inattuabile in un senso assoluto e relativo. Da questa posizione, è praticamente impossibile trascendere i limiti dello status quo. La riluttanza a superare i limiti dello status quo porta a ritenere ciò che è irrealizzabile in un determinato assetto sociale come del tutto inattuabile in qualunque altro ordine sociale, così che, venendo meno queste distinzioni, si passa a negare la validità delle istanze contenute nell’utopia cosiddetta relativa. Denominando utopistica ogni idea che oltrepassi la realtà presente, si tende pertanto a eliminare il senso d’incertezza che potrebbe insorgere dalle utopie relative, realizzabili in un diverso ordine sociale.

«All’altro estremo sta l’anarchico G. Landauer (Die Revolution [1907], pp. 7 e sgg.), il quale considera l’ordinamento esistente come una totalità indifferenziata e, accordando fiducia solo alla rivoluzione e all’utopia, vede in ogni “topia” (in ogni concreta realtà presente) il male in persona. Come gli esponenti di un ordine costituito non pongono alcuna differenza tra le varietà dell’utopia, cosi gli anarchici possono essere accusati di cecità nei riguardi della realtà concretamente esistente. Noi troviamo in Landauer un elemento caratteristico a tutti gli anarchici, l’antitesi tra l’ “autoritario” e il “libertario”, ovvero un contrasto che semplifica ogni cosa e nega qualunque differenza parziale, che mette insieme, qualificandoli appunto come dispotici, lo Stato di polizia e quello democratico-repubblicano e quello socialista, mentre soltanto l’anarchia è concepita come condizione veramente libera. La medesima tendenza alla semplificazione si afferma anche nella ricerca storica. Questa radicale dicotomia sopprime infatti le indubbie differenze qualitative che esistono a proposito delle diverse forme di Stato. Allo stesso modo, la possibilità di riconoscere una traccia di evoluzione nel regno della storia e delle istituzioni viene a mancare, se si dà troppo rilievo alle rivoluzioni e all’utopia. Da questo punto di vista, ogni evento storico si presenta come una continua liberazione dall’ordine esistente per mezzo dell’utopia, che da esso ha origine. Solo nell’utopia e nella rivoluzione si dà una vita autentica, mentre l’ordine istituzionale non rappresenta altro che il cattivo residuo delle rivoluzioni e delle utopie in fase di declino. Così, il cammino della storia conduce da una “topia” (o realtà esistente) ad un’utopia e quindi ad una successiva “topia”, ecc». (Ib., p. 198). Mannheim non ha del tutto torto. La concezione di Landauer è ben descritta ma non così le conclusioni a cui arriva la critica degli anarchici. Che l’utopia sia una delle condizioni del movimento sociale nel suo insieme non ci possono essere dubbi, che sia la sola condizione è un’affermazione gratuita. I movimenti non sono necessariamente progressivi, solo accettando la tesi storicista di un progressivismo assoluto, come per alcuni aspetti fa Landauer, si ha poi la necessità di concludere così. Invece la realtà sta diversamente. Nessuna spiegazione intellettualistica può chiudere gli occhi di fronte alla dissoluzione e alla disgregazione di forme sociali che nascono e scompaiono in un corteo silenzioso da fare rabbrividire. Repressioni spaventose scatenano processi di liberazione paralleli a proposte utopiche lestamente catturate nei circoli di dominio, vendute al dettaglio nei supermarket dell’usato. Il male e il bene si rincorrono vicendevolmente per sciogliersi poi nella morte. Non ci sono porti sicuri in una prigione, la sola musica che è possibile ascoltare in santa pace è la battuta delle inferriate nelle celle.

Ancora Mannheim: «La parzialità di questa concezione del mondo e di questa struttura concettuale è troppo manifesta per richiedere una ulteriore delucidazione. Il suo merito consiste, tuttavia, nel fatto che, in opposizione all’idea conservatrice di un ordine stabilito, essa impedisce alla realtà esistente di tramutarsi in assoluta, concependola invece come una delle possibili “topie”, da cui scaturiranno quegli elementi utopici che a loro volta porranno in crisi lo Stato attuale. È così evidente che, per raggiungere un rigoroso concetto dell’utopia o, più modestamente, quello più adeguato alla presente situazione del pensiero, l’analisi fondata sulla sociologia della conoscenza deve passare a raffrontare le parzialità di quelle prospettive individuali ed eliminarle. Ciò renderà chiaro in che consiste la particolarità delle concezioni precedenti. Solo quando questo punto fondamentale è stato chiarito, diverrà possibile, sulla base del proprio giudizio, pervenire ad una soluzione più comprensiva, che superi le parzialità divenute ormai evidenti. Il concetto dell’utopia, da noi sopra adoperato, sembra essere in questo senso il più adeguato. Esso si sforza di prendere coscienza del carattere dinamico della realtà, in quanto non assume come punto di partenza “l’esistenza come tale”, ma piuttosto quel reale storicamente e socialmente determinato che è in un continuo processo di trasformazione. Esso si propone inoltre di arrivare ad una concezione dell’utopia qualitativamente differenziata sotto l’aspetto storico e sociale, e di tenere infine distinto ciò che è “relativamente” e “assolutamente” utopico». (Ib., pp. 199-200). Si tratta di un problema tipicamente accademico che comunque può avere risvolti pratici quando si considera l’eventualità che alcune ipotesi sperimentali in campo sociale sono dipendenti da realtà in corso, specialmente quelle in cui si realizza lo sfruttamento, e altre sono semplici ipotesi provenienti da studiosi isolati o dalle ricerche che intellettuali compiono per non avere altro da fare. Gli effetti della seconda ipotesi durano poco, quelli della prima scontano la loro potenza intrinseca a causa dei buffoni che molte volte se ne fanno sostenitori. In questo caso comincia il dramma.

Le forme della mentalità utopica sono: a) Il chiliasmo orgiastico degli Anabattisti: fondato sul millenarismo e la rivoluzione politica. Con essi, forse per la prima volta, la spiritualizzazione della politica fa la sua comparsa nella storia. Misticismo. Può sboccare nel conservatorismo. b) L’idea liberale-unitaria: nasce dal conflitto con l’ordine esistente. In Francia sbocca in una rivoluzione e quindi ha contorni netti, in Germania no e resta soggettiva. Si sviluppa l’idea di progresso, in particolare Gotthold Ephraim Lessing. La borghesia vede un contrasto nella realtà delle imprese economiche assai imperfetta e l’ideale della ragione, da ciò l’idea dello sviluppo progressivo assoluto. c) L’ideale conservatore: nessuna predisposizione per la teoria. Gli uomini non sono spinti a riflettere sulla propria situazione quando vi si trovano bene. Non ha alcuna utopia. Ma gli avversari mettono in pericolo questo mondo, da qui l’utopia conservatrice. (Hegel e la sua mentalità conservatrice, in questo senso si potrebbe anche interpretare l’episodio della nottola). Lotta con i liberali (troppo vaporosi) e con i millenaristi (eccessiva interiorità) o indirizzo verso l’estremismo. d) L’utopia socialista-comunista: attacco al conservatorismo e all’anarchismo. Marx-Bakunin, fine del millenarismo.

Relativamente ai movimenti chiliastici, Mannheim scrive: «Le classi inferiori, nel periodo postmedievale, acquistarono solo gradualmente una funzione propulsiva nell’intero processo sociale e soltanto un poco alla volta pervennero alla consapevolezza della loro importanza sociale e politica. Anche se tale coscienza è molto distante da quella che sarà propria del proletariato moderno, è nondimeno da essa che prende l’avvio il processo che porterà a quest’ultima. D’ora in avanti, le classi subordinate tendono, in modo sempre più evidente, a giocare un ruolo specifico nello sviluppo dinamico di tutto il processo sociale. Del pari, noi assistiamo ad una crescente differenziazione sociale dei fini e degli atteggiamenti psicologici.

«Ciò non implica affatto che questa estrema forma della mentalità utopica sia stata da allora in poi il solo fattore determinante nella storia. Nondimeno, la sua presenza nella società ha esercitato una influenza quasi ininterrotta anche su mentalità antitetiche. Persino gli avversari di questa radicale forma dell’atteggiamento utopico procedettero riferendosi, seppure inconsapevolmente, ad essa. Tale visione utopistica sortì invero una concezione del tutto opposta. L’ottimismo chiliastico dei rivoluzionari dette luogo da ultimo ad una attitudine di rassegnato conservatorismo e a un atteggiamento realistico in politica». (Ib., p. 217). Non necessariamente un atteggiamento estremista, come senza dubbio è stato quello millenarista, deve sfociare nel conservatorismo o nel realismo politico. Spesso le forze estremiste, le grandi masse che si sono mosse perché spinte da un ideale ma anche da precise condizioni della propria esistenza, si affievoliscono e quasi diventano un lento movimento sotterraneo, sono i loro leader ad avviarsi tristemente verso la conservazione e il realismo. Questi spregevoli individui, in genere sopravvissuti alle loro stesse idee e alla morte dei migliori fra loro, non vedendo altra prospettiva se non quella della sconfitta e spesso della morte o del carcere, tutto questo al posto della radiosa vittoria sperata e promessa, preferiscono scendere a patti. Il loro motto è allora quello: visto che non c’è più modo di fare la rivoluzione tanto vale ottenere qualche beneficio, sia pure modesto, da parte del nemico di ieri.

«Questa situazione – continua Mannheim – fu di grande importanza non solo per la politica, ma anche per quelle forze spirituali che si erano fuse con movimenti concreti e che si erano staccate dalla tradizionale posizione di isolamento. Le energie orgiastiche e le crisi estatiche cominciarono a operare in modo affatto mondano e divennero degli strumenti rivoluzionari sul piano di quella realtà che prima trascendevano. L’impossibile dette vita al possibile, mentre l’assoluto venne a interferire con il mondo e a condizionare gli avvenimenti concreti. Questa fondamentale e più radicale forma di moderna utopia era costituita da un elemento ben singolare. Esso era dato dal fermento spirituale e dall’eccitazione fisica dei contadini, di un ceto che viveva attaccato alla terra: un elemento, cioè, rude e spirituale insieme». (Ibidem). I messaggi concreti – il riferimento alle forze orgiastiche e ai movimenti estatici qui è forse leggermente dispersivo – vengono filtrati dalla società, entrano lentamente a far parte dello spirito del tempo. Noi abbiamo vissuto personalmente l’esperienza del 1968 e possiamo osservare alcune di quelle idee, subitamente considerate inaccettabili, entrare nel linguaggio quotidiano, nell’immaginario collettivo delle persone e diventare un elemento di sollecitazione al perfezionamento e alla razionalizzazione del potere.

«Niente risulterebbe più erroneo che cercare di spiegare questi eventi partendo dal punto di vista della “storia delle idee”. Non furono le idee a spingere questi uomini ad atti rivoluzionari. La loro vera forza consisteva in un’energia di tipo estatico ed orgiastico. Codesti elementi della coscienza, trascendenti la realtà e in grado ormai di svolgere una positiva funzione utopica, non erano “idee”. Considerare quanto successe in questo periodo come il prodotto di “idee” significa ribadire l’inconsapevole deformazione, che s’operò durante la fase liberale-umanitaria della mentalità utopica. La storia delle idee fu invero la creazione di un’epoca che reinterpretava involontariamente il passato alla luce delle proprie decisive esperienze. Certo non era un’idea che spinse gli uomini all’azione rivoluzionaria nel corso della Guerra dei contadini. Questa esplosione aveva le sue radici in strati molto più profondi ed elementari della psiche». (Ib., p. 218). In effetti a essere recuperate sono le idee, ma non nel senso che non si potranno più usare dal punto di vista rivoluzionario. Se le idee sono recuperate un motivo c’è e dipende dal fatto che le forze vitali che le sostenevano, spesso senza neanche comprenderle fino in fondo, vengono recuperate, queste sì in maniera diretta, attraverso la stanchezza di fronte alla repressione, alla stupidità del quotidiano, alle difficoltà piccole e medie che stroncano più dei grandi momenti in cui i colpi si ricevono in piena faccia feroci e diretti, al desiderio di costituirsi in una famiglia, di avere soldi (non pochi ma bastevoli a una vita accettabile). Trattandosi di una interpretazione dell’esperienza di cui si è portatori e non di un azzeramento, l’idea più estremista, alla fin fine, propone aspetti, sia pure secondari, che possono costituire un punto di partenza sia per la costruzione di un assetto migliore (ovviamente non rivoluzionario, ma sempre considerato positivamente da molti), sia per la ricomposizione in chiave conservativa di un passato apparentemente superato.

«Se intendiamo raggiungere una comprensione meno estrinseca della vera essenza del Chiliasmo e renderla accessibile alla considerazione scientifica, sarà anzitutto necessario distinguere dal Chiliasmo stesso quelle immagini, quei miti e quelle forme in cui si espresse la coscienza chiliastica. Il tratto essenziale del Chiliasmo è infatti la sua tendenza a dissociarsi, quanto più può dalle proprie immagini e dai propri simboli. È proprio perché la forza propulsiva di questa utopia non consiste nella sua forma esteriore che una spiegazione del fenomeno basata sulla pura storia delle idee non riesce allo scopo. Essa rischia continuamente di perdere di vista il punto essenziale. Se ci serviamo dei suoi metodi, noi tendiamo infatti a sostituire la storia dell’autentica esperienza chiliastica con degli schemi già vuoti di contenuto cioè con una storia delle idee “pure” del Chiliasmo. Allo stesso modo, l’analisi degli sviluppi della rivoluzione chiliastica si presta a dei fraintendimenti, in quanto è tipico dell’essenza del Chiliasmo sfumare nel corso del tempo e subire una continua trasformazione nel processo dell’esperienza individuale. Pertanto, se si vuole aderire all’oggetto della ricerca, dobbiamo elaborare un metodo d’indagine che consenta una più diretta valutazione del problema e ce lo presenti come se fossimo noi stessi a farne esperienza. Dobbiamo cioè domandarci se l’atteggiamento chiliastico è veramente presente nelle forme di pensiero e di esperienza di cui ci stiamo occupando.

«La sola vera, e forse l’unica autentica, caratteristica dell’esperienza chiliastica è l’assoluta presenzialità. Noi sempre occupiamo una posizione spaziale e temporale, ma dal punto di vista chiliastico, essa è del tutto incidentale. Per l’autentico Chiliasta, il presente diventa la breccia attraverso cui ciò che prima era interno alla coscienza esplode fuori improvvisamente, s’impossessa del mondo esterno e lo trasforma». (Ib., p. 219). Il presente non è la verità ed è per la perfetta coscienza di questo punto da cui partire che l’utopia estremista, il chiliasmo in particolare, vive nel presente, e fa questo proprio per trasformarlo in verità, per inverarlo. Nel procedere verso la realizzazione di questo progetto, in sé certamente rivoluzionario, la forza del movimento sostiene tutto lo sforzo, mentre i suoi rappresentanti più conosciuti, i portatori del cosiddetto “segreto teorico”, quelli che agli inizi furono fra i primi a comprendere cosa bisognava fare, vanno retrocedendo, non dico così che finiscono per negare la bella immagine che custodivano gelosamente nei propri cuori, ma non sono più in sintonia, almeno spesso non riescono a esserlo, con quella forza essenziale che anima e sospinge in avanti il movimento. Se alla forza collettiva di fondo la distruzione sembra l’unica cosa possibile e il piacere di distruggere senza abbellimenti e senza equivoci il sogno di tutta una vita alfine realizzato, alle teste pensanti vengono idee sapientemente più credibili, più dosate e proiettate verso un sogno molto meno estremo che non sono disposti a fare cadere nel nulla di una distruzione senza sbocchi. È qui il principio della fine.

Insiste Mannheim: «Il mistico vive o nel ricordo dell’estasi o nel suo desiderio. Le sue metafore descrivono questa estasi come una situazione psichica che non può risolvere in termini di spazio e di tempo l’unione dell’anima con il mondo dell’al di là. È forse questa stessa realtà estatica che trascina il Chiliasta nell’immediatezza dei “qui” e dell’ “ora”, ma non perché egli abbia a goderne, quanto piuttosto per afferrarla e farne una parte di se stesso. Il Chiliasta è unito al suo immediato presente. Egli non è quindi intento, nella sua vita quotidiana, a ottimistiche speranze del futuro o a romantiche reminiscenze. Il suo atteggiamento è piuttosto caratterizzato da un’attesa piena di tensione. Egli non fa che aspettare il momento propizio e pertanto non esiste per lui alcuna dimensione del tempo. Egli non si preoccupa del millennio che sta per sopraggiungere: l’importante per lui è che esso si verifichi “qui” e “ora”, e che esso scaturisca dall’esistenza stessa, quasi un trapasso improvviso in una altra specie di mondo. La promessa del futuro che deve venire non costituisce per lui una ragione di riflessione, ma un semplice punto d’orientamento, qualcosa di esterno all’ordinario corso degli eventi da cui egli è pronto a prendere lo slancio». (Ib., p. 220). Il rivoluzionario vive quindi nel presente e qui immagina la scena del futuro, senza però che tra il presente e il futuro ci sia cesura alcuna, se non quella della stupidità delle convenzioni. Operare alla luce del sole o nella penombra, di per sé, non gli importa molto se può mantenere integro questo rapporto tra presente e futuro. La testa pensante al contrario guarda al passato e pretende salvare quello che di buono deve esserci per forza in questo passato, essendo il processo in cui ha fede un miglioramento continuo frutto del nerbo mistico che sostiene la storia. Questo salvataggio ha qualche volta aspetti comici, in quanto necessitano contorcimenti ragguardevoli per proporre miglioramenti che non siano risibili fin dal primo momento, spesso, anzi il più delle volte, ha aspetti tragici, pagati direttamente da tutti coloro che seguono a bocca aperta i salvatori di turno.

«Dal tempo della sua prima apparizione – continua Mannheim – il Chiliasmo ha sempre accompagnato gli slanci rivoluzionari e conferito ad essi la propria impronta. Quando tale spirito viene meno e non sostiene più questi movimenti, ciò che rimane è una massa indifesa e frenetica e una furia che più nulla ha di spirituale. Il Chiliasmo considera la rivoluzione come un valore in sé; essa non è affatto un mezzo per raggiungere uno scopo razionale, bensì è concepita come l’unico principio creativo del presente e la realizzazione delle proprie aspirazioni in questo mondo. “La volontà di distruggere è una volontà creativa”, disse Bakunin, che sentiva il diavolo dentro di lui, quel Satana di cui amava discorrere come di una forza contagiosa. Che egli non fosse molto interessato all’affermazione di un mondo razionalmente ordinato, lo si può dedurre da questa frase: “Io non credo nelle costituzioni o nelle leggi. La migliore di esse mi lascerebbe insoddisfatto. Abbiamo bisogno di altro. Di passione, vitalità e di un nuovo mondo senza leggi e perciò veramente libero”». (Ibidem). Il programma bakuninista non è tutto in queste parole però ce n’è abbastanza in esse per fornire un’idea. Gli anarchici non si possono accontentare mai di eventuali risultati raggiunti assieme agli sfruttati come compagni di strada. Devono sperare solo nel contagio, nella rapidità insospettata con cui a volte il contagio dilaga. Da un piccolo accadimento può derivare qualcosa di collettivamente non immaginabile. Ma può anche non derivare niente del tutto. Un ideale di perfezione li sollecita a ricominciare sempre daccapo. Anche nei momenti ricordati da Mannheim, che ha in mente la violenza della Comune di Parigi, quando il popolo dilaga infuriato stanando casa per casa i responsabili (e anche quelli non proprio responsabili) da scannare, gli anarchici sono sempre essi stessi questa furia, per poi continuare ancora più oltre, al di là dell’inevitabile acquietamento. Qualcosa del genere è accaduto con la resistenza. In molti posti gli anarchici, dopo il cessate il fuoco, perfino dopo l’amnistia togliattiana, hanno continuato a cercare i fascisti e a ucciderli sul posto. E lo stesso hanno fatto molti non anarchici, comunisti e socialisti, alcuni dei quali ho conosciuto e con i quali ho parlato. Ascoltando le loro motivazioni mi sono accorto che a parte qualche vernice mal attecchita di ideologia comunista questi compagni erano quasi sempre anarchici senza saperlo.

Ancora Mannheim: «Ogni qualvolta lo spirito estatico è stanco di prospettive troppo ampie e d’immaginazioni, noi vediamo riemergere la concreta promessa di un mondo migliore, sebbene questo non sia da prendersi in modo del tutto letterale. Per questa mentalità, le promesse di un mondo migliore, sottratto al tempo e allo spazio, sono come degli chèques che non si possono incassare – la loro funzione è solo quella di fissare un punto nel “mondo posto oltre gli eventi”, ove chi è in attesa del momento propizio possa veramente sentirsi lontano dal mondo. Rifiutando ogni contatto con il “male” degli eventi terreni, egli aspetta solo l’occasione e il momento in cui il concatenarsi delle circostanze s’accordi con l’estatico abbandono della sua anima». (Ibidem). Spesso il fantasma della coerenza a tutti i costi angustia i rivoluzionari, almeno alcuni di loro sembrano veramente incapaci di farsi una ragione degli inevitabili accomodamenti che lo scontro di classe propone e che rende indispensabili per la continuazione stessa della lotta. Si tratta di scegliere una scorciatoia, una stradina facile facile, oppure affrontare il percorso lungo e desolato della realtà. Il pensiero dei coerenti a qualsiasi costo è circondato da una sorta di inviolabilità. Non ci sono desideri o disastri che possano suscitare in loro ripensamenti o dubbi. Per realizzare questa sorta di terra di nessuno nella quale hanno deciso di piantare le tende, essi si negano qualsiasi concessione in termini di tempo o di luogo, non ascoltano, non parlano, non guardano, sempre intenti a fissare l’immobilità del loro ideale. Sono creature di legno. Della perfezione delle statue intagliate hanno l’atteggiamento e la sicurezza muta e a osservarli suscitano una strana commozione. Poi, uno non ci pensa più e la cosa è finita.

«Di conseguenza – precisa Mannheim – nell’osservare la struttura e lo sviluppo della mentalità chiliastica, è del tutto senza importanza (sebbene per una storia delle diverse cause che ne sono alla base, ciò possa essere rilevante) il fatto che in luogo di un’utopia proiettata nel tempo ne troviamo una “spaziale”, e che, durante l’età della Ragione e dell’illuminismo, il pensiero sistematico e deduttivo venga a permeare la prospettiva utopica. In un certo senso, il punto di partenza razionale, il procedimento deduttivo e l’interno equilibrio delle cause presente nell’ordine degli assiomi sono perfettamente in grado di assicurare quella coerenza e quel distacco dal mondo che sono tipici dei sogni utopici .

«Inoltre, il fatto che le pure idee della ragione si collochino fuori del tempo e dello spazio ci induce verosimilmente a trascendere l’immediata realtà più di quanto non avvenga con i sogni utopici, carichi come sono di un concreto contenuto mondano.

«Nulla è più lontano dagli avvenimenti reali di un sistema fondato sulla pura ragione. Eppure, in certe circostanze, nessuna concezione del mondo possiede un impulso più irrazionale di quella intellettualistica e totalmente autosufficiente. In ogni sistema formale, può avvenire che l’elemento chiliastico-estatico scompaia dietro l’impalcatura intellettuale. Non ogni utopia razionale, pertanto, è paragonabile alla fede chiliastica, né essa rappresenta sempre un distacco e un’alienazione dal mondo». (Ib., p. 221). Dietro questa considerazione si apre un problema che non può essere affrontato qui. In che modo la costruzione più chiusa dal punto di vista razionale, la più dettagliata nelle specificazioni e nei raffronti, nelle concordanze e nelle corrispondenze, come mai questa perfezione di regolamenti ed esecuzioni può improvvisamente mostrare una crepa? Un avvenimento straordinario esce appunto dalla routine che doveva caratterizzarlo, ma qui si tratta di altro, non è un semplice deviamento dalla regola quello a cui mi riferisco. È la voce di qualcosa di più profondo che improvvisamene si fa udire, che spezza la prudenza del calcolo e scopre l’inutilità di ogni previsione di sicurezza. Muto, cieco, lo spettatore osserva ma non capisce, conclude pertanto che nulla è accaduto, almeno nulla che meriti di essere capito.


[1969], [1985]

III. Sfruttamento e lotta dei lavoratori

La costante modificazione degli atteggiamenti dei padroni davanti al processo di sfruttamento riflette le modificazioni di fondo del rapporto sociale di produzione. Dagli aspetti arcaici ci si dirige verso organizzazioni socialdemocratiche che tengono più conto dei bisogni sociali e meno conto dei bisogni signorili o consumistici.

Anche senza accettare il modello di vita orientale, l’Occidente si va lentamente dirigendo verso soluzioni socialdemocratiche che assicurino il passaggio “dolce” allo sfruttamento dei lavoratori, sempre organizzato dall’alto, ma fondato – questa volta – sul consenso. Certo, larghi margini periferici verranno sempre sottoposti a uno sfruttamento più brutale, verranno distolti dalla salarizzazione e inseriti in limiti ben precisi, anche di carattere territoriale o di razza, ma per grandi linee le società occidentali sviluppate stanno studiando come passare da una gestione capitalista di vecchio stampo a una di stampo più moderno, capace di far propri e utilizzare i suggerimenti che provengono dal lato riformista. Nell’operazione, un punto di grande importanza sarà sostenuto dai sindacati e dai partiti di sinistra.

Elementi fondamentali di questo “passaggio” sono: la piena occupazione, la trasformazione delle strutture, l’aumento del potere sindacale in fabbrica, la politicizzazione riformista delle masse lavoratrici. Il gioco consiste nel cambiare le carte in tavola. Mentre, fino a oggi, i capitalisti sono stati proprietari delle loro fabbriche e di quanto hanno accumulato sulla pelle dei lavoratori, domani, nella gestione socialdemocratica, essi verranno chiamati a “dirigere” quelle che erano le loro vecchie fabbriche sostituendo così, senza scosse, a una società classista una società classista allo stesso modo ma con i nomi cambiati. Quando i proprietari saranno diventati dirigenti i lavoratori continueranno a esser sfruttati, ma avranno il privilegio di dirsi “proprietari” insieme ai dirigenti (vecchi proprietari) delle fabbriche e dei posti di lavoro dove verranno sottoposti al solito processo di sfruttamento. L’estorsione del profitto avverrà allo stesso modo, l’accumulazione si manterrà intatta (anzi aumenterà in quanto aumenteranno i margini di profitto e scompariranno gli scioperi) e così tutto andrà a beneficio di una ristretta minoranza di “dirigenti” che con l’intelligente alchimia del cambio del nome avranno risolto un vecchissimo e cancrenoso problema.

Modello di sviluppo in questo senso sono le società avanzate come la Svezia o la Nuova Zelanda, società onnicomprensive, che tutto tutelano, trasformando l’uomo in un numero dalla culla alla tomba, pensando in pieno a tutti i suoi bisogni, standardizzando le sue necessità, come i suoi desideri, collocandolo in una dimensione produttiva alienata che lo distrugge come individuo e lo consegna come un pacchetto raccomandato nelle mani del destinatario, cioè del dirigente che lo sfrutta in nome dell’ideologia produttiva.

Ecco quindi l’obiettivo da attaccare con ogni mezzo, e da distruggere. Non tanto il processo produttivo nel suo determinarsi in forma schiavistica, forma che potrebbe essere superata attraverso una cura rigenerante, come si supera qualsiasi forma di ottusità, quanto l’obiettivo di fondo, quell’ideologia produttivistica che resta indissolubilmente legata alle nostre prospettive riformiste.

La lotta dei lavoratori contro lo sfruttamento è quindi tutta qui. Ricostruire punto per punto il programma dei padroni, attaccarlo quando questo prende la forma della repressione, impiegando le armi adatte allo scopo, ma continuare la lotta anche quando questo prende la forma del consenso socialdemocratico diventando quindi più subdulo e più difficile. È questa lotta che diventerà in futuro sempre più indispensabile e densa di significati, lotta per la sopravvivenza dell’uomo.


[1970]

IV. Lavoro manuale e lavoro intellettuale

Questo gruppo di articoli che ripubblichiamo col titolo Lavoro manuale e lavoro intellettuale furono scritti da Bakunin su “L’Egalité” di Ginevra, organo delle sezioni romande dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori in Svizzera, nel periodo di tempo di circa due mesi (luglio e agosto 1869) in cui sostituì il redattore incaricato Charles Perron. In questi due mesi, ancora una volta, e questo potrebbe servire d’orientamento a tanti denigratori di Bakunin, si mostrò la forte fibra di lavoratore del russo e la sua capacità di chiarezza analitica, pur nella necessità della fretta. In pratica, per questo periodo, Bakunin scrisse da solo tutto il giornale, assumendosi anche i compiti dell’amministrazione. Ma nessuna “leggerezza” o “superficialità”, il pensiero scorre chiaro e nitido.

L’abbandono della redazione da parte di Bakunin, sostituito da Paul Robin, e la conseguente uscita di altri membri antiautoritari (Perron, Guilmenaux, Dutoit, Lindegger e Becker) qualche mese dopo, dettero il giornale all’ala autoritaria che in breve ne fece uno strumento di propaganda delle idee marxiste.

Il gruppo di articoli riguarda la problematica delle classi, l’analisi economica che la giustifica, gli impedimenti che ostacolano un progressivo assorbimento della classe meno favorita nell’area della classe più favorita. I limiti e le possibilità dell’educazione, il fatto post-rivoluzionario come fatto distruttivo della divisione in classi. Come si vede un novero di problemi non facile da trattare in brevi articoli. Ma Bakunin ne viene a capo da par suo.

La realtà economica determina il processo della divisione in classi, l’ideologia scientifico-culturale non è altro che un prodotto del denaro: la borghesia, sostituendosi alla nobiltà, ha messo al posto del baluginare falso del titolo araldico, il non meno falso baluginare di una scienza asservita alle mire del potere. Le moderne università svolgono, dice Bakunin, il ruolo che svolgeva una volta la Chiesa cattolica. In questo modo – ed era proprio quella l’epoca del grande dibattito per il monopolio dell’educazione, contestato tra Stato e Chiesa – viene a nientificarsi questa polemica: sia che l’educazione venga della Chiesa, sia che venga dallo Stato, essa sarà funzionale soltanto a una cosa: al mantenimento del potere di sfruttamento della classe in carica, cioè dei capitalisti. Quale grande insegnamento, tra l’altro per alcuni anticlericali che non si accorgono spesso della difficile distinzione tra lotta alla Chiesa in nome della libertà e lotta alla Chiesa in nome del monopolio statale.

La distruzione del vecchio mondo diviso in classi può avvenire quindi solo a condizione che non si pongano freni al processo distruttivo stesso, cioè che non si pongano di mezzo “utilizzazioni temporanee” di strutture di potere che provengono dal passato. Qui la condanna della “dittatura del proletariato” è chiarissima, con parole eloquenti e preveggenti. Bakunin, ben prima delle esperienze che sono a noi più recenti, ha intravisto le tragiche conseguenze di una dittatura esercitata in nome del popolo che viene poi esercitata sul popolo. Ancora una volta, il punto di partenza della sua obiezione è l’individuo e la sua maturità. Presupporre la necessità di una “dittatura”, sia pure transitoria, significa partire dal punto di vista della non maturità del popolo, un punto di vista molto vicino a quello della Chiesa e dello Stato che esercitano la loro tutela sul gregge per condurlo all’ovile, che poi è il luogo più comodo e riparato per tosare e scannare le bestie.

Quindi, la divisione in classi può essere superata solo attraverso il fatto rivoluzionario e antiautoritario. La strada progressista è un’illusione. Qui, Bakunin riprende un’idea di Proudhon, che verrà anche utilizzata da Marx, cioè quella che il progresso è una illusione in quanto deve considerarsi come fatto relativo: per i ricchi il progresso è progresso nella ricchezza, per i miseri è progresso nella miseria. Se la macchina – diceva Proudhon – aumenta la produzione, getta nella miseria il lavoratore il quale, per risentire gli effetti benefici dell’aumentata produzione, ha tutto il tempo, magari interi decenni, di morire tranquillamente di fame. Il fatto economico trova giusta ripercussione nel fatto intellettivo: l’istruzione che riceve il popolo, sebbene relativamente più grande di quella di cento anni fa, resta sempre molto al di sotto di quella che riceve l’alta borghesia, mentre in una zona intermedia si colloca l’istruzione ricevuta dalla piccola borghesia, chiamata a svolgere il ruolo di cane da guardia del sistema o di ingranaggio che garantisce lo sfruttamento. Qui, l’analisi del concetto di lavoratore improduttivo resta al di sotto di quella di Proudhon, ma lo scopo di Bakunin è un altro. Egli intende fissare la differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ribaltandola dalla differenza di classe e collocandola quindi in una dimensione distorta e falsa, quella in cui viviamo, determinata dallo sfruttamento capitalista. In altre parole: la distinzione tra lavoro manuale e intellettuale non ha ragione di esistere in una società senza classi, in quanto esiste perché funzionale allo sfruttamento.

Le obiezioni enumerate sono tutte superate con facilità. Lo sviluppo armonico dell’individuo, la sua nascita come uomo, abbatte la divisione in classi, e ciò in modo rivoluzionario, cioè portando fino in fondo la lotta di classe, risolvendo rivoluzionariamente tutte le sue contraddizioni. Nella dimensione della rivoluzione sociale, contrapposta da Bakunin alla rivoluzione politica, si deve procedere subito all’abbattimento della differenza tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tutti devono ricevere un’educazione “positiva”, cioè non improntata alla filosofia positivista (contro cui Bakunin in altra sede avrà parole durissime) ma a una filosofia pratica, cioè una filosofia che consideri la vita come un tutto organico e non come una serie di compartimenti stagni, separati dai limiti di classe.

La costruzione dell’uomo nuovo avviene nella lotta, quindi avviene con una impostazione particolare di questa lotta. Il discorso implicito, e importantissimo, di Bakunin è qui.

L’abbattimento delle classi, l’avverarsi della rivoluzione sociale, il superamento delle barriere tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tutta questa lunga strada verso la società di domani ha un senso se è vista in funzione dell’individuo, cioè del singolo che non deve smarrirsi nella confusione primaria dell’assetto provvisorio della nuova società, come non deve essere sacrificato sull’altare del dio comunista.

E con la nascita dell’uomo nuovo assistiamo alla nascita di una forma di lotta diversa, una lotta che supera le concezioni fissate dall’epoca e dal livello della conoscenza, per collocarsi in una sfera autonoma. Le due cose non possono restare separate. Se oggi assistiamo a un tentativo, modesto e sospettoso, di rivalutazione di alcune istanze individualiste, se vediamo – per altri versi – un rafforzamento dei “sacrifici” da fare in vista di una maggiore “efficienza”, se vediamo sotto nuove spoglie ripresentarsi l’eterno conflitto tra l’individuo e la comunità, senza sapere bene come superarlo, possiamo trovare negli scritti di Bakunin una breve e importante indicazione: il superamento dell’apparente dicotomia sta proprio nella dimensione della lotta. L’autogestione della lotta consente il fondamento individuale del processo di sviluppo comunista, veramente comunista. Ogni altra prospettiva, almeno fino a oggi, finisce per dar di contro al nullismo individualista, esacerbato dalla sterilità e dall’incapacità di rigettare i residui piccolo-borghesi, oppure al centralismo (democratico o meno) comunista, impaurito e desideroso di ottenere quanto sia possibile, ma senza traumi. Tra i due estremi, Bakunin ci suggerisce una riflessione che è un invito al coraggio: coraggio ad andare avanti alla ricerca di noi stessi e degli altri, senza l’estremismo fanatico dell’io che si pretende supremo regolatore dell’universo, o della collettività che si pretende, non meno fanaticamente, unico obiettivo politicamente valido. Ancora una volta, la dimensione rivoluzionaria è molto, molto più difficile.


[1969] [Introduzione a M. Bakunin, Lavoro manuale e intellettuale, Ragusa 1975, pp. 1-4]

V. Il sistema rappresentativo e l’ideale anarchico

Il sistema rappresentativo e l’ideale anarchico [1950], già nel titolo mette in evidenza come le due cose si escludano a vicenda, dimostra che il sistema politico della rappresentatività è un inganno, “un espediente politico mediante il quale la borghesia tenta di realizzare il principio della sovranità popolare senza abdicare ai suoi privilegi di classe dominante”. Max Sartin perviene a tale dimostrazione attraverso un’analisi condotta scientificamente: partendo dalle origini storiche della rappresentanza come mezzo per mediare gli interessi del monarca e quelli dei sudditi, si arriva alla concezione moderna che eleva la rappresentanza a strumento diretto di comando sulle moltitudini, quindi strumento di conservazione del potere e dei privilegi da esso derivati.

L’autore rifiuta categoricamente ogni forma di rappresentanza e mette in evidenza come l’anarchismo, pratica di lotta sociale contro le istituzioni e l’autorità, sia inconciliabile col sistema politico della delega che inibisce la partecipazione diretta degli individui alla gestione della vita sociale. Noi concordiamo completamente con la tesi di Max Sartin, in quanto riteniamo che la pratica sociale e di lotta degli anarchici si basi essenzialmente sull’azione diretta, condotta in prima persona, al di fuori di ogni forma di rappresentanza perché pratica della mediazione.

È del resto evidente che, per pervenire a un assetto sociale anarchico, cioè basato sulla più completa libertà dei rapporti fra gli esseri umani, è indispensabile usare gli strumenti adatti a raggiungere in concreto il fine auspicabile: l’anarchia. E, a nostro avviso, la delega, strumento della rappresentanza, è una ginnastica che abitua a demandare, a lasciar decidere altri per noi, a scegliere in definitiva chi ci deve comandare, e chi ha ottenuto il comando con un consenso di base talmente ampio come l’elezione ben difficilmente abbandonerà la poltrona sulla quale i suoi elettori tanto gentilmente e ingenuamente l’hanno posto. La rappresentanza è dunque uno strumento atto ad assicurare il potere col consenso diretto delle masse, non certamente a preparare la strada per l’avvento della società libertaria. Il rapporto costante tra mezzi e fine, problema sostanzialmente di metodo, deve sempre essere tenuto presente dai compagni, per non cadere vittime delle trappole che il sistema ci propina quotidianamente. Qui non si tratta di essere coerenti a tutti i costi, per principio, ma di saper discernere con scientificità quale mezzo è più adatto al concretarsi delle proprie aspirazioni. L’azione anarchica esclude la delega perché si basa sulla partecipazione diretta e sulla gestione concordata tra le volontà degli individui, per cui è non solo incoerente, ma suicida accettare, anche solo tatticamente per un momento giudicato particolare, di partecipare a qualsiasi tipo di elezione.

Nel caso recente delle votazioni per il referendum abrogativo del divorzio, molti compagni, dopo un’estenuante polemica condotta all’interno del movimento anarchico italiano, hanno scelto di partecipare alle votazioni. Questi compagni hanno creduto di concorrere alla conquista di un diritto civile, perché ravvisavano nella questione la preminenza del momento sociale su quello politico, quindi sono andati a votare convinti di agire per ottenere una conquista sociale: il divorzio, considerato come primo passo per la disgregazione della famiglia patriarcale. A nostro avviso questi compagni hanno commesso un errore di valutazione: si è votato per una legge, che è frutto di lunghi compromessi fra il Vaticano, la DC e i partiti che rappresentano a livello parlamentare le forze laiche in tutte le loro diramazioni ideologiche. Questo basta a dimostrare come il referendum, voluto dalle forze fasciste e legate al Vaticano, esprimesse una logica squisitamente politica, preminente sull’aspetto sociale della questione “divorzio”. Andando essi a votare, e convincendo con la loro azione anche i non anarchici a votare, hanno demandato alla legislazione democratico-borghese la possibilità di determinare in modo accettabile un certo tipo di rapporti sociali, quelli della famiglia. Ne consegue una fiducia involontaria nella possibilità che le leggi, fatte da chi detiene il potere, possano anche essere giuste e in certi casi accettabili. Non comprendendo nemmeno che il mantenimento della legge limitativa del divorzio non rappresenta l’inizio della disgregazione della struttura famiglia, ma semplicemente un suo adeguamento giuridico al cambiamento spontaneo dei valori patriarcali che regolano l’etica dei rapporti sociali esistenti, in tal senso la legge che regola il divorzio tende a impedire e a rallentare la disgregazione in atto della struttura familiare.

Oltre a queste puntualizzazioni sul momento specifico che la polemica ha avuto all’interno del movimento, è necessario, a nostro avviso, chiarire che cos’è l’ “astensionismo anarchico”. Se cioè si intenda solo ed esclusivamente la non partecipazione alle elezioni e ai referendum o se invece deve essere il “metodo costante” di lotta globale contro ogni tipo di struttura e sovrastruttura imposta dall’alto.

Di fronte a queste due posizioni, l’atteggiamento libertario non può essere che il secondo. Diventa quindi un falso problema e una castrazione parlare di astensionismo anarchico solo nel momento di un’elezione o di un referendum. Astensionismo è per noi il rifiuto alla partecipazione e alla gestione di tutto ciò che può, in un modo o nell’altro, fare il gioco del potere o di chi vuole il potere. In definitiva l’astensionismo si realizza, come già detto, nell’applicazione di un metodo, cioè nella scelta dei mezzi funzionali al fine.

Si tratta, in ultima analisi, di identificare l’astensionismo con le lotte autonome e spontanee che i lavoratori, oggi come ieri, hanno sempre espresso. Lotte di questo genere come a esempio quelle per l’autoriduzione delle tariffe del gas, della luce, dei trasporti, ecc., portate avanti in prima persona dai lavoratori, vengono immediatamente boicottate dai sindacati che non possono lasciare l’iniziativa della scelta delle lotte direttamente ai lavoratori. Queste devono prima passare attraverso il filtro politico delle tattiche e delle strategie sindacali in quanto i sindacati, per la loro naturale dipendenza dal potere politico dei partiti, debbono in ogni caso essere in grado di controllarne lo sbocco, cioè di gestirle politicamente secondo i loro piani.

La posizione dei partiti e dei sindacati è chiara: essi negano la presa di coscienza individuale per una presa di coscienza di massa poiché quest’ultima è più facilmente strumentalizzabile e controllabile. In questa visione l’azione diretta, l’autogestione e le altre forme di lotta che gli sfruttati trovano e mettono alla prova direttamente è l’esplicazione dell’astensionismo anarchico, cioè il rifiuto dei mezzi e degli strumenti di lotta che vengono imposti dalla prassi dedotta dai programmi politici dei partiti.

La presa di coscienza dell’individuo, facendo scattare il potenziale di ribellione, lo porta ad associarsi liberamente con altri individui coscienti del loro essere sfruttati per la realizzazione della vera lotta rivoluzionaria: distruzione di qualsiasi potere, politico, economico e sociale per l’affrancamento dell’individuo e della collettività da ogni forma di sfruttamento.

Ecco perché, a nostro avviso, l’atteggiamento che l’anarchico deve tenere, rispetto a qualsiasi tipo di elezioni o votazioni, è l’astensione, il rifiuto cioè di convalidare o di usufruire di uno strumento funzionale esclusivamente al sistema di potere.

Lo scritto di Max Sartin che riproponiamo è quindi utile a chiarire fino in fondo le ragioni dell’astensionismo elettorale, contro la rappresentatività e la delega, per aprire un dibattito sull’astensionismo inteso in senso globale, come forma di lotta rivoluzionaria e come strumento di attacco al sistema, perché è nella chiarezza delle idee e nella coerenza dell’azione che si esplica la metodologia libertaria.


[1969]

[Nota introduttiva a Max Sartin, Il sistema rappresentativo e l’ideale anarchico, Ragusa 1975, pp. 3-6]

VI. Saint-Simon e Marx

Claude Henri de Saint-Simon (1760-1825) è il propugnatore e il principale teorico del movimento dei “sansimonisti”, che raggruppa, a partire dal Congresso di Vienna, alcuni teorici del “socialismo” e alcuni sostenitori del rinnovamento spirituale, sociale e politico sulla base della scienza e della tecnica.

All’inizio della Rivoluzione Francese ha trent’anni e si impegna subito nella lotta con spirito contrario alla monarchia, alla Chiesa, al sistema feudale, all’aristocrazia, sostenendo un ideale di uguaglianza, di sviluppo della ragione e l’istituzione di un’Assemblea Nazionale in grado di esprimere la “volontà generale”. Nello stesso tempo si arricchisce con grandi affari economici, speculando soprattutto nel campo dei beni immobili. Solo a quarantadue anni scrive la sua prima opera, Lettere di un abitante di Ginevra ai suoi contemporanei [1802], a cui segue, nel 1808, l’Introduzione ai lavori scientifici del secolo XIX. Tra le rimanenti opere si devono ricordare: Prospetto per una nuova Enciclopedia [1810], Memoria sulla scienza dell’uomo [1814], Il sistema industriale [1821-1822], Il catechismo degli industriali [1823-1824] e Il nuovo cristianesimo [1825]. Pubblica anche la rivista “L’industria” che ospita la collaborazione di industriali, politici, economisti, banchieri. Collabora con Charles Comte alla pubblicazione de “L’Organizzatore”.

Studiando a fondo lo sviluppo storico – afferma Saint-Simon – possiamo rilevare l’alternarsi di “epoche organiche”, in cui tutta la vita della società si sviluppa intorno a un nucleo ideale ispiratore sia dei sistemi filosofici, etici e religiosi, sia dell’organizzazione sociale, economica e politica della società, ed “epoche critiche”, quelle in cui l’unità della società si sgretola sotto la spinta dell’esigenza di nuovi “princìpi” capaci di dare nuovo e migliore assetto alla vita umana. Ne consegue che la storia appare regolata dalla “legge del progresso”, per la quale non solo non si verificano mai passi all’indietro, ma ogni stadio ulteriore dell’umanità rappresenta uno sbocco “necessario” e una “conquista” rispetto alla condizione precedente. L’ultima epoca organica, poi, fu a suo giudizio quella “medievale”, dominata dalla fede in Dio e dall’ideale della fratellanza. Quella “moderna” è al contrario un’epoca critica, caratterizzata dal disordine spirituale e sociale derivato dalla distruzione dei valori teologico-politici medievali, distruzione causata non solo dalla Riforma ma anche dalla nascita della nuova scienza. Con tutto ciò, è proprio nell’età moderna che si vanno delineando i caratteri dell’età contemporanea. La scienza moderna ha come principio che bisogna pensare e organizzare il sapere sulla base dei “fatti positivi”, empiricamente rilevabili. Tale principio, che già regola l’astronomia, la fisica e la chimica, finirà, per la necessità del progresso storico, col costituire il fondamento di tutte le altre scienze e della stessa filosofia. Nascerà allora un nuovo sistema religioso, morale e politico che sarà la base di una organizzazione “positiva” della società. Così l’organizzazione politica, sottratta al variare delle circostanze, all’arbitrio dei sovrani e alle ipotesi assurde dei governanti, sarà modellata sulla “scienza politica”, che si baserà sui fatti positivi, derivati dall’osservazione concreta dell’uomo in quanto essere sociale. Questa osservazione indica che l’uomo avverte di essere tale nella società quando sono soddisfatti i suoi bisogni fisici e le sue necessità morali, essendo i suoi interessi legati allo “sviluppo della vita e del benessere”. Dato che l’attività politica e le istituzioni hanno senso solo in relazione a questi interessi e bisogni, e dato che questi possono essere soddisfatti solo dalle scienze, dalle arti e dai mestieri, ne deriva che la guida dello Stato deve affidarsi a scienziati e artisti, per i problemi spirituali, a tecnici e produttori per quelli materiali. Saint-Simon modificherà questa scelta ne Il sistema industriale, dove affermerà che la guida dello Stato non spetta tanto agli scienziati quanto agli “industriali”.

È inutile sottolineare il carattere utopistico di questa proposta, e anche il suo carattere di classe, essendo qui il nostro intendimento quello di mettere in relazione la posizione di Saint-Simon con quella di Marx. Saint-Simon è l’antesignano di vari filoni del pensiero tecnico-organizzativo-amministrativo che, fra utopia e fede nelle sorti positiviste della scienza, caratterizzano le élite dell’industria e dell’economia degli ultimi cento anni. Lo stesso per quel che riguarda le scuole politecniche e la cultura gestionale. Da buon positivista senza saperlo, sogna una “politica scientifica” e vuole l’istruzione elementare per tutti. Immagina già allora una “Società Europea”, con un solo corpo politico riunente le nazioni le quali mantengono però la propria indipendenza. Erede di un Illuminismo classico e realista trae dalla tecnica i propri lumi e le proprie idee programmatiche. È lui a vivere e a studiare la propria epoca come fase di uscita dalla società “teologica e feudale” e come fase di ingresso nella società “industriale e scientifica”.

La tecnocrazia insita nelle idee sansimoniane è passata a migliaia di suoi seguaci – sia consapevoli che inconsapevoli – nei più vari campi del pensiero, non soltanto quello economico-gestionale od organizzativo-aziendale, ma anche quello sociale, sempre con un’impronta riformistica e con un taglio pianificatorio. Non sono stati immuni nemmeno i pianificatori che sostenevano l’intervento pubblico come i sovietici capeggiati da Nikolai Bucharin e da Evghenij Preobrazenskij.

Saint-Simon e il giovane Marx

L’insieme degli scritti che appartengono al periodo giovanile di Marx, e che vanno dai primi articoli del 1842 a L’ideologia tedesca, segnano – per quanto riguarda il fondamento metodologico – un progressivo e radicale abbandono della lettura “filosofica” dei processi politici e organizzativi della società, per l’acquisizione di una lettura “storica” e materialista.

Nel 1845, anno di redazione de L’ideologia tedesca, Marx ha già superato la posizione di critica filosofica dell’hegelismo, sviluppata in chiave feuerbachiana, per innestare la sua problematica materialistica, ricca dei vari concetti di “alienazione”, “esteriorizzazione”, “totalità”, ecc., concetti che trovano il loro corrispettivo in quelli di “contraddizioni sociali”, “conflitto”, “rapporti sociali”, “classi sociali”, “lavoro”, “industria”, ecc.

È un rifiuto critico delle ristrettezze concettuali tipiche dell’hegelismo, e la progressiva acquisizione, non tanto del patrimonio teorico di Saint-Simon inteso in senso stretto (cioè nel senso dell’ispirazione ricavabile direttamente dalle letture delle opere di quest’ultimo), quanto del patrimonio teorico che era stato costituito in Europa, a seguito del lavoro di Saint-Simon, e che aveva finito per influenzare economisti e storici, giornalisti e uomini politici: da Thierry a Sismondi, da Moses Hess ai redattori del “Globe”.

Che cosa significa l’opera di Saint-Simon in Francia e in Germania dopo il 1825?

La critica delle istituzioni viene condotta alla sua logica conclusione: l’azione per la modifica della struttura sociale. Ciò necessita di un’ammissione preventiva: l’indispensabilità dell’associazione. In questo senso, alla fine del primo quarto di secolo, i tempi sono maturi perché si sviluppi il discorso sull’associazione. Vi provvede un gruppo di studiosi che avevano dato vita, nel 1826, alla rivista “Le producteur”, finita ben presto per mancanza di fondi. Questa rivista era riuscita a esporre, nel breve tempo della sua pubblicazione, il pensiero di Saint-Simon per quello che riguarda gli elementi essenziali della sua dottrina. Praticamente la “scuola” sansimoniana era nata.

Scrive Silvia Rota Ghibaudi: «In sostanza, nella Francia del tempo, divisa nelle correnti politiche del legittimismo, costituzionalismo, democraticismo, la scuola sansimoniana diede l’avvio al movimento socialista, che aprirà un dibattito sempre più serrato intorno alle possibilità più efficaci e positive per la soluzione del problema delle masse proletarie». (Il socialismoutopistico”, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, a cura di L. Firpo, vol. V, L’età della rivoluzione industriale, Torino 1972, p. 148). È ancora incerta questa attribuzione. Comunque quello che si riferirà al socialismo nasce per molteplici motivi, tra cui anche la capillare diffusione delle teorie sansimoniane fra l’ “intellighentia”.

In Germania, il sansimonismo era entrato alla facoltà di diritto dell’Università di Berlino, dove Eduard Gans tentava di «ristabilire contro la filosofia hegeliana, il primato della società civile». (Cfr. P. Ansart, Marx e l’anarchismo [1969], tr. it., Bologna 1972, p. 19) E Marx era frequentatore dei corsi di Gans. Lo stesso futuro suocero di Marx, Ludwig von Westphalen, era “impregnato” di sansimonismo. (Ib., p. 18).

Come vedremo non è affatto facile fissare, per grandi linee, lo sviluppo del pensiero di Saint-Simon, però possiamo accennare che la posizione centrale, quale si ebbe a sviluppare tra gli anni 1816 e 1825, sottolinea la vacuità del potere “politico” nei confronti della “realtà” della “società civile”. In modo specifico emerge la valutazione storica che Saint-Simon porta a compimento per quanto concerne l’autodeterminarsi della società borghese all’interno della società feudale, con l’allargarsi conseguente delle caratteristiche della società dei produttori, con il cristallizzarsi dello Stato nella forma moderna e con il radicalizzarsi di un contrasto all’interno di una società che prima appariva fortemente “integrata”.

In merito a questo punto della dottrina di Saint-Simon, Ansart nota: «Lungi dall’attendersi dallo Stato che apportasse un contributo alla razionalità degli interessi disorganizzati e contraddittori, Saint-Simon faceva della società produttrice il luogo dell’organizzazione spontanea e dell’attività razionale, organizzazione contrastata proprio dall’arbitrio di un potere politico non liberato dal suo passato militare e feudale». (Ib., p. 12). Ed è su questo punto che si fermerà l’attenzione del Marx de L’ideologia tedesca, la quale segna con attenzione il punto in cui viene indicato per la prima volta questa prevalenza del reale sull’apparente, dell’attività produttiva dello Stato e dell’attività politica della classe produttrice sfruttata sulla classe degli sfruttatori.

Prima de L’ideologia tedesca, l’altro punto di riferimento, nei lavori del giovane Marx, era stata la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico [1842], in cui il superamento di Hegel è vissuto come negazione dell’astratto in nome della realtà. Al vago delle vicissitudini dello spirito in cerca di se stesso, si pone il concreto della situazione tedesca degli anni Quaranta. Mentre Hegel cercava di universalizzare una ricerca della verità, e quindi della razionalità, e quindi della realtà (o Stato), Marx trasferisce tutto nella realtà storico-sociale nella quale il contrasto tra Stato e società civile si realizza in concreto.

Nel mezzo tra questi due lavori si collocano i Manoscritti economico-filosofici del 1844 che cercano di collegare insieme le due tendenze di pensiero e di metodo: quella proveniente dal sansimonismo e quella proveniente dall’hegelismo.

Nella presente ricerca svilupperemo un’indagine sul pensiero di Saint-Simon, limitatamente a quanto costituirà poi la fonte degli interessi del giovane Marx. Successivamente questo ci permetterà di individuare gli elementi svolti da Marx, nell’ordine, nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, nei Manoscritti economico filosofici del 1844, ne L’ideologia tedesca e in altri scritti di minore importanza.

Il pensiero di Saint-Simon: linee di sviluppo

Elementi oggettivi rendono frammentaria e contraddittoria l’opera di Saint-Simon. In primo luogo l’indole sua, aliena da ogni forma di sistematicità nella redazione dei lavori, poi la vastità degli interessi non assistita da un’opportuna chiarezza metodologica, infine, l’impatto del suo pensiero – vivo e penetrante – con una realtà riccamente in movimento: Rivoluzione, Terrore, governo dittatoriale, occupazione straniera, impero napoleonico, monarchia costituzionale: una serie di grandi esperienze che Saint-Simon vive e tenta di interpretare.

La grande congerie di opuscoli che riuscì a dare alle stampe, e l’insieme dei lavori che furono successivamente pubblicati dal suo discepolo più consequenziale Enfantin sono difficilmente reperibili anche oggi, malgrado vi sia stata una recente ristampa delle opere complete. [Le edizioni Antropos hanno ripubblicato nel 1966 in ristampa anastatica gli undici volumi dell’edizione Dentu (1865-1876), riunendoli in sei volumi. Si tratta della collezione di scritti più accessibile, sebbene incompleta. In traduzione italiana, oltre Il nuovo cristianesimo, tradotto più volte (1895, 1946, 1949, 1968), esiste la scelta pubblicata dalle edizioni UTET, col titolo: Opere, a cura di Maria T. Bevetti Pichetto, Torino 1975, cui faremo riferimento per le citazioni]. Da ciò la scarsa conoscenza che generalmente si ha delle sue opere.

Lo stesso Marx, ne L’ideologia tedesca, criticando Karl Grun, nota come il lavoro di quest’ultimo: Die soziale Bewegung in Frankreich und Belgien. Briefe und Studien [1845], esamini il pensiero di Saint-Simon partendo dai suoi critici. «Di tutta la letteratura sansimonista il signor Grun non ha preso in mano neppure un solo libro». (L’ideologia tedesca, tr. it., Roma 1972, p. 489).

Nella loro Introduzione alla Doctrine de Saint-Simon C. Bouglé e E. Havely (Doctrine de Saint-Simon, Paris 1924, p. 9), propongono una divisione del suo pensiero in cinque periodi: 1) Periodo scientista, comprendente le Lettere di un abitante di Ginevra ai suoi contemporanei. 2) Periodo pacifista, sviluppato durante il periodo napoleonico, comprendente il lavoro Della riorganizzazione della società europea [1814]. 3) Periodo industrialista, tra il 1816 e il 1818, comprendente la pubblicazione de “L’industria”. 4) Periodo socialista, comprendente L’organizzatore [1819-1820], Il sistema industriale [1820-1822] e Il catechismo degli industriali. 5) Periodo moralista, comprendente Il nuovo cristianesimo.

Per Saint-Simon i sistemi sociali hanno natura evolutiva e risultano costituiti da idee, sentimenti e istituzioni. Il sistema feudale e quello clericale che lo accompagnava, dopo la Rivoluzione, sono crollati. Da qui la nascita di un nuovo sistema, dove tutto è rapportato secondo la legge dell’armonia, simile a quella di Newton. Tra l’astronomia e la politica si stabilisce un rapporto. Come l’armonia delle forme è garantita da particolari rapporti, così rapporti ben precisi garantiscono la comunanza di idee morali positive tra gli uomini, costituendo il legame che li mantiene uniti.

Ogni interpretazione della realtà è legata a una precisa situazione storica, determinata, a sua volta, dallo svolgimento raggiunto dalla conoscenza scientifica. Attraverso l’analisi di questi rapporti si può arrivare alla precisa coscienza di un popolo. La sociologia, come la filosofia, diventa per Saint-Simon lo strumento per arrivare a comprendere le leggi dell’evoluzione dell’uomo e dei sistemi sociali.

Riguardo le scienze, Saint-Simon propugna un superamento della dicotomia tra metodo a priori e metodo a posteriori, in un metodo che tenga conto delle due istanze: quella intuitiva e quella deduttiva. L’oggetto della scienza viene individuato nella previsione: vedere per prevedere, misurare per studiare lo svolgersi dei fenomeni. In nuce si delinea quello che poi, nel corso della sua opera, Saint-Simon svilupperà meglio e che sarà la base della scienza positiva, meglio e più in dettaglio studiata da Comte. Egli scrive: «Uno scienziato, amici miei, è un individuo che sa prevedere; appunto perché offre i mezzi per prevedere l’avvenire la scienza è utile e gli scienziati sono superiori a tutti gli altri uomini». (Lettere di un abitante di Ginevra ai suoi contemporanei, tr. it., in Opere, op. cit., p. 127).

Il massimo risultato utile sarà raggiunto quando gli scienziati saranno in grado di mettere insieme un vasto sistema di conoscenze positive, il quale però, per reggersi, deve partire – secondo Saint-Simon – dall’indagine dell’uomo, quindi dalla scienza dell’uomo. Ciò dimostrerà anche come le scienze siano soggette alla stessa legge di sviluppo e abbiano origine comune. Nella stessa opera citata prima egli scrive: «Supponete di essere riusciti a conoscere il sistema secondo il quale, in un’epoca qualsiasi, la materia è stata distribuita, e di aver disegnato la pianta dell’universo, indicando con dei numeri la quantità di materia che ciascuna delle parti di esso contiene; voi vedrete allora chiaramente che, applicando nel caso di questa pianta la legge della gravitazione universale, sarete in grado di prevedere (con la precisione concessa dallo stato in cui si trovano le conoscenze matematiche) tutte le trasformazioni successive che si verificheranno nell’universo». (Ib., p. 140).

Tesi che, riaffermando l’unità delle varie scienze, resta, comunque, all’interno del meccanicismo del secolo precedente, come risultava espresso per esempio da Pierre-Simon de Laplace. Però Saint-Simon aggiunge: «Grazie a questa ipotesi la vostra intelligenza verrà a trovarsi in una posizione tale che tutti i fenomeni si presenteranno sotto le medesime apparenze. Se nella pianta dell’universo si esaminerà infatti la sezione di spazio occupata dal vostro individuo, apparirà come i fenomeni cui avete dato il nome di fisici, si presentino sotto un aspetto differente». (Ibidem).

L’evoluzione delle conoscenze positive e sperimentali è per Saint-Simon il metro per spiegare il grado di civiltà raggiunto dalla scienza dei lumi e, come si vede, costituisce la base di quella corrente di pensiero che prenderà il nome di positivismo.

Negli scritti del periodo pacifista Saint-Simon affronta il problema di come garantire la pace internazionale. Il modello è quello inglese. Dal Congresso di Vienna non potrà uscire nulla di buono in quanto ogni nazione vi cerca il proprio interesse e non l’interesse complessivo di tutte le nazioni europee. Nello scritto Della riorganizzazione della società europea, ribadisce la necessità della sintesi metodologica scrivendo: «Ciò posto, io affermo che la migliore costituzione è quella in cui ogni problema di pubblico interesse viene sempre studiato successivamente a priori e a posteriori». (Della riorganizzazione della società europea, necessità e mezzi per unire i popoli d’Europa in un solo corpo politico, pur conservando a ognuno di essi la propria indipendenza nazionale, tr. it., in Opere, op. cit., p. 160).

All’indagine a priori viene fatto corrispondere l’insieme degli “interessi generali”, mentre all’indagine a posteriori l’insieme degli “interessi particolari e locali”. Il risultato è il seguente: «L’Europa avrebbe la migliore organizzazione possibile, se tutte le nazioni che essa comprende, essendo governate ciascuna da un parlamento, riconoscessero la supremazia di un parlamento generale, posto al di sopra di tutti i governi nazionali e investito dell’autorità di giudicare i loro contrasti». (Ib., p. 167).

Intorno al 1814 iniziano i rapporti tra Saint-Simon e i redattori della rivista “Censeur” che si occupano dei problemi politici dell’epoca. Quando la rivista, intorno agli anni 1816-17, s’indirizza verso il liberalismo economico anche Saint-Simon comincia a diminuire il suo interesse per i problemi costituzionali e ad aumentare quello per i problemi pratici. Ed è nel 1816 che inizia la pubblicazione de “L’industrie” che apparirà irregolarmente.

I collaboratori di Saint-Simon in questo periodo sono Augustin Thierry e J.-A.-C. Captal, oltre agli scrittori che pubblicano sul “Censeur”, in particolare Charles Dunoyer e Charles Comte. La posizione dei primi due era quella di sostituire alla tesi di un equilibrio europeo da raggiungersi attraverso parità di forze militari, un equilibrio da raggiungerei attraverso interessi produttivi comuni e complementari, quindi da sostituire alla concorrenza militare la concorrenza mercantile. Dunoyer svilupperà la tesi diretta a considerare una nazione come una grande società produttiva. Sia Dunoyer che Comte diffidano fortemente della tesi di Saint-Simon, la quale proponeva come principio dell’organizzazione sociale una riunione dei produttori e degli intellettuali. «Questo è il carattere sotto il quale essa [l’industria] si presenta, questo è ciò che essa reca come contributo personale dell’associazione e che essa propone, nella lega tra l’industria commerciale e manifatturiera e l’industria manifatturiera e l’industria letteraria e scientifica. L’industria fa causa comune con la letteratura politica». (L’industria o discussioni politiche, morali e filosofiche nell’interesse di tutti gli uomini che si dedicano a lavori utili e indipendenti, tr. it., in Opere, op. cit., pp. 268-269). La riduzione della politica all’economia è la risposta necessaria alle trasformazioni nella struttura produttiva, ormai esplosive dopo un quarto di secolo dalla rivoluzione francese.

Dall’unione deriva una maggiore speditezza nel cammino del benessere sociale. Saint-Simon arriva alla conclusione che per lasciare definitivamente il dominio militare bisogna fondare i princìpi di una grande organizzazione, un nuovo sistema sociale, basato sulla produzione e sulla politica. Egli scrive: «Esiste una classe di interessi sentiti da tutti gli uomini, gli interessi che si riferiscono alla conservazione della vita e del benessere. Questa classe di interessi è la sola sulla quale tutti gli individui si comprendono e devono mettersi d’accordo, su cui debbono deliberare, agire in comune, e perciò la sola che possa servire da campo d’azione alla politica e che debba essere scelta come unica misura nella critica di tutte le istituzioni e di tutti i fattori sociali. In poche parole, dunque la politica è la scienza della produzione, ossia la scienza che ha come scopo l’ordine di cose più favorevoli e di tutti i tipi di produzione». (Ib., p. 296). La resistenza della vecchia mentalità sarà ferocissima. Stranamente il punto di forza di questa resistenza era la salvaguardia dei valori della tradizione di fronte al livellamento sostenuto dal primato dell’economia. Punto anacronistico che stentava a comprendere come la vecchia separazione dell’etica dalla politica diventa ancora più radicale ed efficace quando la politica tende a vedere se stessa come economia.

Una più chiara posizione socialistica Saint-Simon la assume nelle opere del quarto periodo, quelle che fanno perno sul Sistema industriale. Prima di comprendere il senso della parola “industria” occorre riportare una nota che lo stesso Saint-Simon redasse nel tentativo di chiarire il suo pensiero: «L’industria è soltanto un unico e vasto corpo, nel quale tutte le membra corrispondono e sono, per così dire, solidali; il bene e il male di ciascuna parte tocca tutte le altre; dovunque vi è un solo interesse, un solo bisogno, una sola vita. Ma se il sentimento appartiene al corpo intero, soltanto la testa pensa per tutto il corpo, è in essa che si formano le rivoluzioni, si affermano i bisogni, si manifestano le volontà». (Ib., p. 269). E questa testa deve pensare secondo le idee dei tecnocrati. La violenza dei sanculotti e della ghigliottina fa orrore a questi borghesi usciti dalle alte scuole di perfezionamento come la “Ponti e Strade”, tecnici altolocati che si accingeranno a tagliare il canale di Suez.

In questa concezione i produttori sono visti come un tutto abbastanza omogeneo, un tutto che – se non ancora classe – viene chiamato a prendere coscienza della propria forza. Per esempio, viene suggerito che nel “sistema industriale” nuovo vadano inviati al Parlamento i capi dei diversi settori della produzione nel suo significato più ampio. Il re dovrebbe assumersi il compito di combattere la nobiltà parassita, premiare i lavori scientifici utili e in generale favorire quelle attività produttive che arricchiscono la nazione. Attraverso tale sistema Saint-Simon pensa di pervenire all’uguaglianza in quanto ognuno ricaverà vantaggi dalla società, proporzionali alle forze impiegate nella produzione.

Scrive George Douglas Howard Cole: «Era venuto il momento di affidare agli industriali il controllo della società e di abbattere il dominio degli oisifs, ossia della nobiltà e dei militari. In futuro la società doveva essere organizzata dagli industriali al fine di promuovere il benessere della classe la più numerosa e la più povera e ciascuno doveva essere remunerato secondo le proprie capacità, quali si esprimevano nei servizi positivi che rendeva alla causa del benessere umano». (Storia del pensiero socialista [1954-1960], tr. it., vol. I, Bari 1972, p. 48). Assistiamo alla nascita del mondo futuro. Non solo nelle officine entrano gli eserciti dei diseredati per trasformarle in industrie e dare vita al “proletariato moderno”, ma anche nelle idee si fanno strada le tesi contrarie ai valori tradizionali della nobiltà. Il diritto a una vita privilegiata basata sull’ozio e consentita dalle rendite dei predecessori si fa sempre più incerto, finirà per rafforzarsi di nuovo quando i nuovi padroni avranno anche loro qualcosa da lasciare agli eredi.

Riconosciuta l’importanza fondamentale della produzione, e quindi del lavoro, per il nuovo sistema sociale, Saint-Simon conclude per la necessità di «affidare ai capi delle imprese industriali la cura di redigere il bilancio, e di conseguenza di dirigere l’amministrazione pubblica, perché, per la natura delle cose, i capi delle imprese industriali (che sono i veri capi del popolo, poiché lo comandano nei suoi lavori giornalieri) tenderanno sempre direttamente, e per i propri interessi, a dare la maggior estensione possibile alle loro imprese e risulterà dai loro sforzi a questo riguardo il maggior aumento possibile della massa dei lavori che sono eseguiti dagli uomini del popolo». (Il sistema industriale, tr. it., in Opere, op. cit., p. 741).

Dalla crescente consapevolezza che le strutture del nuovo “sistema industriale”, pur avendo la capacità di sviluppare l’uguaglianza, possono degenerare in una scissione sociale ancora più acuta, determinando il maggiore arricchimento di coloro che di già sono più ricchi, Saint-Simon, nel quinto e ultimo periodo della sua attività fa leva sul sentimento.

Il nuovo cristianesimo svilupperà questa tesi, non causando – all’interno del corpo dei lavori di Saint-Simon – una vera e propria contraddizione, in quanto l’appello al sentimento, come l’appello alle passioni, si coordina con l’appello generale alla natura umana.

Scrive Ludovico Geymonat: «Ciò che Saint-Simon ha di mira, non è la distruzione della religione cristiana, né l’abbattimento del potere spirituale che è nelle mani della gerarchia ecclesiastica, bensì la trasformazione del cristianesimo in religione laica e l’attribuzione dell’anzidetto potere agli scienziati in luogo dei sacerdoti. La religione, così instaurata, non rappresenterà la negazione dell’antica, ma il suo perseguimento o, se vogliamo, il suo perfezionamento in quanto essa, ed essa sola, sarà in grado di realizzare l’effettivo perfezionamento morale e materiale dell’uomo». (Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. IV, Milano 1970, p. 422). Anche la religione finisce per risultare inadeguata alle mire gestionarie dei tecnocrati ormai vicini al potere completo. La religione cristiana in particolare per loro era o troppo debole o troppo forte, in ogni caso bisognava migliorarla, perfezionarla, applicando il metro di giudizio valido per ogni cosa: la considerazione della sua efficacia. Il controllo religioso e la discriminazione che ne segue non sono il metro più adeguato all’utilità e all’attività. Molti cambiamenti si rivelano necessari.

Esaminiamo adesso gli elementi fondamentali che dell’opera di Saint-Simon sono stati individuati e sottolineati dai lavori del giovane Marx. In questa fase della nostra ricerca indicheremo i grandi problemi teorici e metodologici affrontati da Saint-Simon, mentre nei capitoli successivi vedremo i lavori di Marx in cui quei problemi hanno trovato specifica trattazione.

Il primo di questi problemi che affiora in molti luoghi dell’opera di Saint-Simon, è il rapporto tra l’uomo e la storia. Un posto privilegiato, in questo rapporto, è riservato agli uomini di pensiero ai quali egli indirizza il seguente appello: «Considerate dunque voi stessi come i regolatori dello spirito umano». (Lettere di un abitante di Ginevra ai suoi contemporanei, tr. it., in Opere, op. cit., p. 126). Il punto di partenza è il metodo di Étienne Bonnot de Condorcet, quello che per la prima volta, appunto, si fondava sull’idea di progresso “dello spirito umano”.

In merito, sempre Saint-Simon scrive: «Condorcet ha indicato, nel suo abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, il modo con il quale occorreva comportarsi per dimostrare che i progressi della civiltà avevano sempre teso verso l’instaurazione del sistema industriale». (Catechismo degli industriali, tr. it., in Opere, op. cit., p. 996). Considerando la vittoria dell’economia sulla politica come il completamento di un processo insito nella società, la valutazione positiva (cioè progressiva) di questo movimento era inevitabile. Comunque l’idea di progresso si può fare risalire a Condorcet ma anche ad autori ancora più remoti.

Viene colto l’elemento necessario di questo processo di sviluppo, l’elemento che determina l’andamento della storia dello spirito e delle realizzazioni dell’uomo. Si tratta di un movimento complesso che non può essere arrestato o modificato per l’intervento dell’uomo al di là di quei limiti propri dell’attività umana, limiti che confluiscono tutti a determinare lo svolgimento storico. L’indagine sullo sviluppo storico dei sistemi sociali è fatta da Saint-Simon per costruire una conoscenza scientifica e individuare le forze attive e fondamentali. Per fare questo occorre guardare “storicamente” non solo il passato ma anche il presente, ed esaminando questo presente inserirlo all’interno di una linea di sviluppo, per sezioni sufficientemente grandi, allo scopo di evitare di perdere il senso storico dello sviluppo stesso, l’influenza degli organismi e delle organizzazioni del passato sugli organismi e le organizzazioni del presente.

Ne Il sistema industriale egli scrive: «Le forze temporali e spirituali della società sono passate in altre mani. La vera forza temporale risiede ora negli industriali, e la forza spirituale negli scienziati. Queste due classi sono le sole, inoltre, a esercitare una reale e permanente influenza sull’opinione e sulla condotta del popolo». (Opere, op. cit., p. 622). La connessione tra economia e scienza, quest’ultima ancella della prima e la prima sostenitrice della seconda, è fissata definitivamente. Il meccanismo viene così costruito e considerato come esistente in maniera naturale, una esistenza meccanicamente progressiva che cambia col cambiare degli uomini e della storia: ora dura e matrigna, ora maestosa e muta, ora disponibile e misteriosa anche nel suo lasciarsi svelare.

E più avanti: «È nella natura dell’uomo non potere passare senza intermediario da una dottrina qualsiasi a un’altra. Questa legge si applica assai più imperiosamente ai differenti sistemi politici attraverso i quali il cammino naturale della civiltà obbliga il genere umano a passare. Così, con la medesima necessità, che ha creato nell’industria l’elemento di un nuovo potere temporale destinato a sostituire il potere militare, e nelle scienze positive l’elemento di un nuovo potere teologico, ha sviluppato e reso operante (prima che questo cambiamento nello stato della società avesse incominciato a divenire molto sensibile) un potere temporale e un potere spirituale di natura intermedia, falsa e transitoria, che aveva come scopo di attuare la transizione da un sistema sociale all’altro». (Ib., p. 623). Stupefacente la corrispondenza con alcune analisi marxiane, ovviamente queste ultime molto più articolate e complete. La considerazione che l’industria sia l’elemento finale e determinante di tutto il processo storico è forse qui per la prima volta affermata in maniera decisa.

La storicizzazione del processo di sviluppo della società conduce Saint-Simon alla formulazione del “sistema sociale”, inteso nei termini meccanicistici di “disposizioni di parti diverse”, ma poi inserito in un processo in atto di tipo evoluzionistico. La caratteristica è quella di essere costituito da parti – disposte tra loro in ordine – ma aventi tutte una relazione precisa con il sistema stesso nel suo complesso.

In questo senso parlando della lotta contro l’antico sistema (il sistema feudale) così come venne condotta nel secolo sedicesimo e diciassettesimo, prima contro il potere clericale e poi contro il potere temporale, egli scrive: «Questo duplice attacco, che ad un primo esame avrebbe potuto apparire sufficiente, invece non lo fu affatto; il sistema era stato attaccato nei suoi elementi, ma non nel suo insieme; era stato abbattuto nei suoi particolari, ora occorreva batterlo come sistema». (L’organizzatore, tr. it., in Opere, op. cit., p. 473). Solo che i sistemi sono ottusi e sordi, permettono che una parte di loro venga distrutta e poi risorgono dalle ceneri e prendono il nome di “tradizione”. Liberarsi del convincimento positivo di questo risorgere non è facile. La tradizione, nel suo significato più ampio, è tutta da ridiscutere fino in fondo.

Per altro questo sistema non si presenta, nei lavori di Saint-Simon, come una creazione del pensatore sociale, ma come un fatto reale, che il pensatore s’incarica di descrivere, combinando insieme il metodo a priori e quello a posteriori, l’interesse generale e quello particolare. La realtà del sistema sociale è anche data dalla sua necessità storica. Le parti che lo compongono: le classi sociali, le istituzioni, le idee, i sentimenti, le passioni, le capacità sono state sottoposte a una specie di “destino” che le obbliga a entrare in rapporto tra di loro in un certo modo e non diversamente. Per cui l’insieme delle diverse parti si riassume nella totalità del sistema che, a sua volta, assume una caratteristica a se stante, come corpo organizzato, come unità che rende possibile, all’interno di se stessa, l’equilibrio dinamico ed evolutivo delle singole parti.

Oltre questo rapporto tra le parti e il tutto dei sistemi sociali, Saint-Simon sottolinea la caratteristica intrinseca degli stessi, cioè la loro attività. Questa essenza dei sistemi sociali si traduce nel perseguimento di uno scopo generale onde i sistemi automaticamente si organizzano in funzione dei fini che intendono raggiungere tramite l’azione collettiva. Scrive Ansart: «Questa concezione generale dei sintomi sociali come sistemi operativi si connette, nella metodologia di Saint-Simon, ad un’interpretazione di tutti gli elementi del sociale in termini di attività collettiva. Questa notazione è applicabile a tutti gli elementi del corpo sociale e vedremo che, in sostanza, ognuno di questi elementi, si tratti dell’arte, dell’industria o di una classe sociale, è insieme un modo di attività e una forma di lotta all’interno del sistema». (Marx e l’anarchismo, op. cit., p. 582). Distinguere i due momenti non è facile e nemmeno utile. Nel fare è compresa la lotta che il fare rivendica e vivifica, perpetuando nella sua asfittica dimensione coatta il passaggio successivo, questa, se c’è, è da ricercarsi nella lotta che altrimenti resta un alibi come un altro, un’occasione per arrivare alla fine della giornata senza scoraggiarsi o senza il ricorso a una protesi più efficace.

All’interno dell’esame dei sistemi sociali emerge l’analisi delle classi sociali, contributo che si estende attraverso diverse versioni e diversi spunti critici, ma anche resta sufficientemente chiaro per attribuire validità a quel periodo del pensiero di Saint-Simon che è stato considerato come socialista. Occorre precisare però che nel parlare di classi egli non usa il termine nel senso che diverrà poi comune con le analisi marxiste. Non parla di scontro di classe tra due classi che si sviluppano nell’epoca della Restaurazione in contrapposizione tra di loro. Egli applica il termine piuttosto alle caste, agli strati, alle frazioni di una classe. Inoltre considera presente questa divisione in classi in tutte le società storiche.

Pur essendo diverse tra di loro, e quindi essendo diversa la condizione del lavoratore industriale e quella dello schiavo, egli ritiene possibile una comparazione in quanto esiste la comune matrice della violenza che viene esercitata dai produttori. Anche il sistema industriale si fonda sulla violenza e sulla costrizione, mentre potrebbe essere il primo a fondarsi sull’equilibrio e sulla cooperazione.

Ne La disputa delle api e dei calabroni [1819], egli scrive: «Il partito dei produttori, dal momento che possiede quasi esclusivamente tutte le forze elementari e positive capaci di esercitare un’azione sulla società, viene a trovarsi realmente investito dal massimo potere politico». (La disputa delle api e dei calabroni e la situazione rispettiva dei produttori e dei consumatori non produttori, tr. it., in Opere, op. cit., p. 411). E più avanti si chiede, nello stesso testo: «Questo secondo articolo si propone di spiegare come è possibile che esista una lotta tra i produttori e i non produttori, e come è possibile che duri a lungo, dal momento che i produttori sono infinitamente superiori ai non produttori dal punto di vista sia fisico che morale». (Ib., p. 412). La spiegazione è ricercata nel comportamento passivo e nelle scarse capacità di organizzazione che i produttori hanno manifestato, per cui «sebbene fisicamente e moralmente molto superiori al partito dei nobili, sono tuttora sotto il loro dominio». (Ib., p. 413). Questo significa che i produttori, pur essendo oggettivamente la classe politica per eccellenza, posseggono in misura minima la coscienza di essere tali, cioè di essere “classe politica”. «Salvo una minoranza esigua, essi [gli industriali] non hanno dato prova di possedere la benché minima energia politica». (Ib., p. 418). Per il momento i proletari (gli industriali) non hanno la forza sufficiente per guardare a un mondo diverso. Secondo l’ipotesi di Saint-Simon essi non guardano con sufficiente attenzione a un centro, non sono attratti da un centro politico, sono troppo assorbiti dalla sopravvivenza fisica.

Parlando di lotta tra due classi, Saint-Simon sottolinea che non intende con ciò riferirsi né all’insurrezione né alla violenza e così scrive: «Lungi dal predicare l’insurrezione e la rivolta, noi presenteremo il solo modo per impedire gli atti di violenza dai quali la società potrebbe essere minacciata, e ai quali difficilmente sfuggirebbe se la potenza industriale continuasse a rimanere passiva in mezzo alle fazioni che si contendono il potere». (Catechismo degli industriali, tr. it., in Opere, op. cit., p. 918). E più avanti, come raramente gli accade, indica con chiarezza lo scontro tra le due classi della Restaurazione: «Oggi, la nazione è divisa soltanto in due classi: i borghesi, che hanno fatto la Rivoluzione e che l’hanno diretta nel loro interesse, hanno annullato il privilegio esclusivo dei nobili di sfruttare il tesoro pubblico si son fatti ammettere nella classe dei governanti, di modo che gli industriali devono pagare i nobili e i borghesi». (Ib., p. 919). A causa dell’incapacità politica di cui sopra i proletari devono subire questo duplice sfruttamento, che per altro in breve diventerà solo quello della borghesia, un qualcosa di molto più efficace a causa della scomparsa sociale della nobiltà.

Di grande importanza e attualità sono le notazioni che Saint-Simon detta riguardo l’essenza dello Stato. Partendo dalla tesi delle istituzioni come parte del sistema sociale e come qualcosa di organico che nasce, si sviluppa ed è soggetto a un processo di invecchiamento, egli ammette che questa istituzione giunge a un punto in cui dà il massimo di utilità alla collettività, e questo punto è contrassegnato dall’evoluzione complessiva dell’insieme dei rapporti sociali all’interno del sistema. Nel sistema feudale, caratterizzato da rapporti di forza militare, la repressione dell’autorità militare riusciva, malgrado i suoi eccessi di violenza, a dare una garanzia alla collettività, quella garanzia che altrimenti sarebbe mancata del tutto. Poi, con l’evolversi del sistema stesso, questi rapporti andarono in decadenza, segnando la loro fine e il passaggio a un sistema diverso, strutturato su diversi rapporti sociali.

Su questa base, per Saint-Simon, lo Stato non è un principio astratto e trascendente la realtà, come non è estraneo alla totalità del sistema sociale. Esso è una forma particolare del corpo sociale, un insieme istituzionale che va definito storicamente in base ai suoi rapporti con la totalità del sistema sociale stesso. Da qui la necessità di dare allo Stato un’importanza relativa, essendo altrove la vera organizzazione della società civile: quindi svalutazione della politica e rivalutazione del sociale.

«La politica ha assunto quel carattere insignificante che deve naturalmente avere quando la meta verso la quale si tendeva è stata raggiunta senza che nessuno se ne sia accorto, e ci si continua a comportare come se fosse necessario raggiungerla». (L’organizzatore, tr. it., in Opere, op. cit., p. 512). Spostando l’asse delle significatività verso l’economia la politica non fornisce più la guida certa di una volta. I grumi di potere si sono diluiti nell’amministrazione e nella burocrazia che nessuna cosa al mondo può scalzare. Il cambiamento più profondo del mondo è stato quello di dare possibilità di movimento alle forze produttive, ma queste ancora non riconoscono fino in fondo questa grande realtà e considerano la guida dello Stato e dei suoi funzionari come un obiettivo da raggiungere e da coltivare. Paradossalmente la sostituzione della politica con l’economia ha svalutato d’importanza concreta la prima ma ne ha aumentato l’influenza ideologica.

E più avanti, nello stesso lavoro, «In una società organizzata in vista dello scopo positivo di lavorare per la sua prosperità mediante le scienze, le belle arti e mestieri, l’atto politico più importante, l’atto che consiste nel fissare la direzione lungo la quale procederà la società, non appartiene più a uomini investiti da una funzione sociale, ma viene esercitato dal corpo sociale stesso; in questo modo la società, considerata collettivamente, può esercitare realmente la sovranità, sovranità che non consiste allora in una opinione arbitraria innalzata dalla massa alla dignità di legge, ma in un principio derivato dalla natura stessa delle cose, e di cui gli uomini non hanno fatto altro che riconoscere la validità e proclamare la necessità». (Ib., p. 524). La sovranità collettiva non si realizza così fino in fondo in quanto non c’è la coscienza della dimensione in cui la politica si è ridotta. Si è rimasti legati al succedersi di ordini e velleità tipici dei despoti del passato, e non si è in grado di curare con la giusta intenzione, insiste Saint-Simon, la forza che viene fuori dalla natura stessa delle cose che stanno cambiando, cioè dall’economia.

Si vede come per Saint-Simon la società civile sia a base dell’organizzazione sociale, e la sovrastruttura Stato, secondo le ipotesi metafisiche di Hegel, sia secondaria come significato sociale e come elemento di sviluppo, quando non sia elemento repressivo per le forze del progresso e della libertà. Con lo sviluppo dell’industria diventa anacronistico uno Stato centralizzato, fondato sull’autorità repressiva del militarismo partorito dalla struttura feudale.

Più all’origine, cioè dal momento in cui si rompe l’unità del mondo feudale, si vede con chiarezza – continua Saint-Simon – che il lavoro stesso dei produttori deve condurre alle conseguenze inevitabili della rovina del sistema autoritario e centralizzato di tipo militare. Una nuova distribuzione della proprietà finisce per determinare un nuovo equilibrio delle forze sociali. Contemporaneamente, e con influenze reciproche, si ha lo sviluppo della scienza, la quale si contrappone ben presto al potere spirituale imposto dalla struttura della Chiesa, come l’industria si va contrapponendo al potere temporale della feudalità. Le ricerche scientifiche determinano nuovi atteggiamenti nella prassi, con la formazione di scuole, centri di ricerche e individui fortemente contrari allo spirito di sottomissione tipico della religione.

Questa situazione, però non si sviluppa in una idilliaca astrazione metafisica, ma nel concreto dello scontro storico delle forze sociali. Da qui un periodo di transizione in cui le forze della feudalità sopravvivono, con il portato delle loro idee reazionarie, e le forze dell’industria non sono ancora in grado di fare fronte all’organizzazione del nuovo sistema sociale.

Scrive ancora Ansart: «I mezzi indicati da Saint-Simon per la realizzazione di questo cambiamento sono già la formulazione di una teoria politica in accordo con la pratica effettiva, e una presa di coscienza della realtà di classe. Oggetto della teoria politica sarà far conoscere il necessario movimento della storia verso l’instaurazione del sistema industriale; ma si dovrà anche, perché la teoria diventi prassi, che questa sia diffusa come una specie di catechismo e abbia l’adesione dei produttori. Questa adesione è possibile perché la teoria, se è ben formulata dall’intellettuale, non è altro che la continuazione di una prassi spontaneamente assunta dagli industriali della produzione». (Marx e l’anarchismo, op. cit., p. 133). Anche in questo passo la non differenza tra teoria e prassi è evidente. Si tratta di uno dei riferimenti essenziali della teoria marxiana del rapporto tra struttura e sovrastruttura. Ma nel discorso in questione c’è un ostacolo che bisogna superare. Si tratta del limite di significatività imposto dai meccanismi di controllo della ragione. Infatti, distribuendo diversamente il materiale, si sganciano, una dopo l’altra, le connessioni lineari, quelle che impropriamente chiamiamo di causa ed effetto. Ciò ci cattura a volte più del necessario. Siamo tanto fedelmente legati a queste connessioni perché garantiscono un certo riposo all’esposizione critica. Basandosi una sull’altra esse costruiscono un aspetto sufficiente a convincere chiunque, specie chi non ama porsi troppi problemi. E, in sostanza, un certo potere di convincimento e familiarità lo posseggono. Le abitudini, come tanti soldatini, realizzano le connessioni dell’acquietamento. Innestare un luogo comune dopo l’altro permette la realizzazione di progettualità che possono essere individuate a priori e costruite. Ora, nella complessità dei movimenti, e degli spostamenti di significato, questo lavoro è solo apparentemente facile. Influendo ogni spostamento su tutti gli altri, in pratica non è possibile rendersi conto di tutto quello che si modifica, di ogni singola combinazione nuova che viene a emergere. Man mano che si procede, la registrazione dei significati, non potendo contare su di un protocollo esterno rigido, finisce per relazionarsi in sviluppi talmente complessi da risultare ingovernabile. Ne viene fuori un’indeterminatezza che si può colmare di volta in volta, nella pratica, cioè verificando in che modo quella connessione corrisponde ai movimenti generali della teoria, alle sue idee più importanti, se così si preferisce. Come si vede, ancora una volta si ritorna alle condizioni di impoverimento della teoria, smarrite nel dispositivo labirintico utilizzato dalla pratica. Anche qui c’è da dire che la connessione di salvaguardia con quello che si pensa siano le idee portanti, che in fondo non sono mutate di molto, dà vita a possibili complicazioni a seguito del mutato dispositivo analitico. Ciò fa scadere d’importanza le stesse idee di fondo e perfino l’insieme del progetto pratico, almeno nell’ottica dominante, cioè correttamente individuabile e utilizzabile.

È su questi temi della nostra ricerca che individuiamo, nel giovane Marx, il punto di riferimento con il lavoro di Saint-Simon. In altri termini, il terreno comune è quello del metodo con cui esaminare la società intesa come totalità di classi contrapposte tra loro. Quella che per Saint-Simon era la contraddizione di classe (anche violenta) tra borghesia e industriali (produttori), diventerà in Marx una contraddizione di classe violenta all’interno della stessa classe degli industriali, tra proletariato e borghesia.

Allo stesso modo sarà molto importante, anche per Marx, il concetto dell’avvento dei produttori sulla scena della storia, avvento considerato inarrestabile e necessario, oltre che risolutorio del conflitto di fondo tra non produttori e industriali. L’avvento del proletariato, come risolutore definitivo della filosofia nella prassi, sarà per Marx un riprendere le vaghe formule di Saint-Simon in modo più preciso e dettagliato. La lettura dell’umanesimo di Feuerbach costituirà, sempre per Marx, la chiave per penetrare indenne all’interno della fortezza metodologica hegeliana, per apportarvi quanto di nuovo e di vitale era andato elaborando il pensiero degli utopisti francesi e, in particolare, quello di Saint-Simon.

Scrive Eric John Ernest Hobsbawm (Storia del Marxismo [1969], vol. I, tr. it., Torino 1978, p. 18). «Insomma il marxismo deve non poco a Saint-Simon, anche se non è facile definire l’esatta matrice del suo debito, perché non sempre il contributo sansimoniano può essere distinto da quello di altre correnti contemporanee».

La critica della filosofia hegeliana del diritto

L’analisi del pensiero hegeliano è sviluppata da Marx sulla linea di una metodologia storicistica. L’elemento chiave è la ricerca della realtà: «Se Hegel avesse preso, come punto di partenza, i soggetti reali come basi per lo Stato, non avrebbe trovato necessario di soggettivare in guisa mistica lo Stato» (Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico [1842], in Opere scelte, tr. it., Roma 1971, p. 9), scrive Marx, chiarendo che nel processo del pensiero hegeliano la mistica della sostanza finisce per essere scambiata per la realtà mentre il soggetto reale appare come momento della mistica sostanza. In questo modo, secondo Hegel, lo Stato finisce per diventare la sola realtà, la realtà realizzata al termine di un ciclo delle vicissitudini dello spirito, un momento dello spirito assoluto che pensa se stesso. Di conseguenza non la volontà del re è la decisione ultima, ma la decisione ultima della volontà è il re. Come se a volere lo Stato sia una entità soggettiva altra da se stessa.

Per Marx, lo Stato moderno non è altro che la conseguenza storica della disorganizzazione del tipo di assetto sociale verificatosi nel feudalesimo sia nel potere militare che in quello clericale, tesi ripresa dall’opera di Saint-Simon.

Per quest’ultimo l’evoluzione dell’epoca moderna si è avuta all’inizio del XV secolo con l’affrancamento dei comuni e la pratica delle scienze positive che favorirono la formazione delle attività industriali e l’inizio di un nuovo, necessario sistema sociale.

L’astrazione dello Stato come tale appartiene solamente al tempo moderno, perché l’astrazione della vita privata appartiene solamente al tempo moderno. «L’astrazione dello Stato politico è un prodotto moderno». (Ib., pp. 15-16).

L’adeguatezza dell’istituzione alla situazione storica, su cui – come abbiamo visto – si era tanto soffermato Saint-Simon e che costituisce da un canto l’elemento della necessità storica dello sviluppo delle forme sociali e, dall’altro, la misura della loro inalterabilità di fronte alla semplice volontà di trasformazione del singolo, questa adeguatezza viene definita da Marx, per quanto concerne il Medioevo: la “democrazia della libertà”, nel senso che, effettivamente, pur rispecchiando le forze della repressione e della violenza, cioè della “illibertà”, aveva una sua “necessità” imposta dalla distribuzione dei rapporti di forza allora vigenti. Saint-Simon aveva sottolineato particolarmente questo punto parlando, come abbiamo visto, del succedersi dei sistemi sociali.

Sullo stesso argomento Marx così si esprime: «Nel Medioevo c’erano servi della gleba, beni feudali, corporazioni di mestiere, corporazioni scientifiche, ecc.; cioè nel Medioevo la proprietà, il commercio, la società, l’uomo sono politici, il contenuto materiale dello Stato è posto dalla sua forma, ogni sfera privata ha un carattere politico o è una sfera politica, o la politica è anche il carattere delle sfere private. Nel Medioevo vita del popolo e vita dello Stato sono identiche. L’uomo è il reale principio dello Stato, ma l’uomo non-libero. È dunque la democrazia della non libertà, la compiuta alienazione». (Ib., p. 16). Assolutizzare queste giuste considerazioni conduce a errori evidenti. Lo ha fatto notare Kropotkin nello studio Lo Stato e il suo ruolo storico (tr. it., Catania 1981).

Ma – insiste Marx – questo per la situazione storica determinatasi con il rapporto di forze specifico della feudalità. Solo in quel periodo si verificò nello Stato quella totalità nella quale vennero identificati forma politica e contenuto civile. In armonia con il pensiero di Saint-Simon, invece Marx ritiene che nello Stato moderno si ha una estraniazione di un certo corpo specifico e limitato, ed è solo questo lo Stato, un corpo che si è staccato dalla società civile e che può, quindi, essere sottoposto a critica. Lo Stato, per Marx, in contrapposizione a Hegel, è quindi un corpo politico particolare formato dal personale governativo e dalla burocrazia politica. La sua valutazione di questa avvenuta separazione è chiaramente negativa, come aveva già fatto Saint-Simon. Lo Stato politico, sotto la minaccia determinata dall’evoluzione della società civile, si racchiude in se stesso e diventa corpo estraneo, autoconservantesi, non producente utilità alcuna per i produttori che fanno parte della società civile.

Precisa Marx: «Il più profondo in Hegel è che egli sente come una contraddizione la separazione di società e politica. Ma il falso in lui è ch’egli si appaga dell’apparenza di questa soluzione e la spaccia per la cosa stessa». (Critica della filosofia hagaliana del diritto pubblico, op. cit., p. 30). Il superamento è sempre un’apparenza e non per i motivi illustrati nella logica hegeliana. La non verità di quanto ci circonda è una verità priva di contenuto, se consideriamo quanto ci circonda l’unica cosa possibile, o la cosa stessa. Cercare altrove, questo è il vero problema dell’indagine marxiana, problema che resta tutto interno ai suoi meccanismi non riuscendo a trovare sbocchi per paura di rompere le garanzie che i meccanismi stessi concedono.

Sin dalla stesura della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, realizzata nel 1842, Marx critica sempre più la funzione della filosofia come razionalizzazione della realtà e abbraccia il metodo materialistico per denunciare l’ideologia tedesca. Nel 1845, come conclusione delle tesi su Feuerbach, scriverà nella undicesima: «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo ma si tratta di trasformarlo». (Tesi su Feuerbach, tr. it., in Opere scelte, op. cit., p. 190). Ma questa affermazione presuppone di già il superamento del problema dell’esistenza della realtà, del problema dell’accessibilità e della modificabilità di questa realtà, come pure la chiarificazione del problema del soggetto attivo dello sviluppo storico.

Marx accusa Hegel di astrattezza per avere invertito i rapporti tra società civile e Stato. Invece di ricevere un impulso dallo Stato, la società civile trova la spinta nelle forze sociali, contro cui si pone lo Stato come forza repressiva esclusivamente politico-burocratica. Marx qui si ricollega a Saint-Simon affermando che non è lo Stato l’elemento attivo della società civile, ma l’uomo concreto, l’uomo reale, il popolo nella sua specificazione storica. «La separazione della società civile dallo Stato politico appare necessariamente come una separazione del cittadino politico, del cittadino dello Stato, dalla società civile, dalla sua propria effettiva empirica realtà. La società civile effettua qui entro se stessa il rapporto di Stato e società civile, che d’altra parte esiste già come burocrazia». (Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, op. cit., p. 33). Il conflitto di classe trova spiegazione logica all’interno di questa contraddizione venutasi a determinare tra Stato e società civile, contraddizione che viene considerata come movimento storico necessario. Appare quindi la vastità delle colpe di Hegel che, indirettamente, contribuivano a costruire le basi della repressione prussiana, razionalizzandola in un’analisi filosofica che faceva della realtà il prodotto mistico dell’idea.

Proprio nell’avere ignorato la realtà, e pertanto il conflitto di classe che la caratterizza, Marx individua il più grosso errore di Hegel. Su questo principio che apre la strada alla formulazione del materialismo storico, si baserà la critica futura de L’ideologia tedesca.

In merito al problema del conflitto di classe Marx scrive: «Allorché la struttura della società civile era ancora politica e lo Stato politico era la società civile, questa partizione, questo sdoppiamento del significato delle classi, non c’era. Le classi non significavano già questa cosa nel mondo civile e un’altra in quello politico. Esse non già acquistavano significato nel mondo politico, bensì vi significavano se stesse. Il dualismo di società civile e di Stato politico, che la costituzione classista (moderna) crede di risolvere con una reminiscenza, viene fuori in tal guisa che la definizione delle classi (la distinzione della società civile in se stessa) acquista nella sfera politica un altro significato che nella civile». (Ib., pp. 37-38). E la lotta della classi conduce al problema della dissoluzione del corpo separato, inefficiente, inadempiente di fronte alla necessità della storia, ma non per questo eliminabile per ovvia contraddizione con lo svolgimento stesso del processo.

La vecchia società muore con l’emancipazione politica della società civile che è contemporaneamente emancipazione dalla tirannia del principio. In uno scritto del febbraio del 1844, Marx precisa: «L’emancipazione politica è contemporaneamente la dissoluzione della vecchia società, sulla quale è riposta l’essenza dello Stato estraniato dal popolo, la potenza sovrana. La rivoluzione politica è la rivoluzione della società civile. Qual era il carattere della vecchia società? Una sola parola la caratterizza: la feudalità. La vecchia società civile aveva immediatamente un carattere politico, come ad esempio la proprietà e la famiglia, o la maniera del lavoro nella forma del dominio fondiario, dello Stato e della corporazione erano innalzati a elementi della vita dello Stato. In tale forma essi determinavano il rapporto del singolo individuo verso la totalità statale, cioè il suo rapporto politico, cioè il suo rapporto di separazione ed esclusione delle altre parti costitutive della società. Come conseguenza di questa organizzazione, l’unità statale, la potenza universale dello Stato, appare necessariamente appunto come affare particolare di un sovrano, diviso dal popolo e dai suoi servi». (La questione ebraica, tr. it., in Opere scelte, op. cit., pp. 97-98). In tutta questa analisi di Marx, però, pur avendo una chiara visione dei limiti della posizione di Hegel, manca una altrettanto chiara visione del fondamento economico e sociale che regge la società civile. Questa, infatti, pur considerata separata dallo Stato, pur con l’appoggio delle teorie di Saint-Simon e delle riflessioni degli altri utopisti francesi, resta sempre immersa in una considerazione di ordine esclusivamente politico.

Il suggerimento di Saint-Simon, che la società civile è data dal mondo degli industriali e dei produttori, resta a livello di accettazione di massima, in quanto l’analisi viene sviluppata solo a livello politico.

Pur criticando Hegel sul piano filosofico delle limitatezze dell’idealismo assoluto, Marx non esce dai limiti – altrettanto ristretti – di un’analisi che cerca di individuare gli elementi della coscienza che permettono un passaggio della società civile dallo stato della disorganizzazione, specifico della sua situazione di contrasto con lo Stato politico, alla situazione definitiva di superamento della contraddizione nella realizzazione della società dei produttori liberi. È chiaro che questo passaggio non è questione di volontà, ma di rapporti di forza e di distribuzione dei rapporti di produzione.

Manoscritti economico-filosofici del 1844

Questo lavoro, realizzato da Marx tra il mese di aprile e il mese di agosto del 1844, venne scritto sotto l’impressione della lettera del saggio di Engels: Lineamenti di una critica dell’economia politica, del febbraio dello stesso anno.

Il procedimento applicato nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, diretto a “rovesciare” la posizione hegeliana dell’astrattezza della realtà nel campo dei concetti relativi allo Stato e alla politica, viene qui applicato al campo dei concetti della realtà economica e sociale, mantenendo fermo il metodo del rovesciamento.

L’alienazione non è più un fatto del pensiero, un estraniarsi di sé della volontà, ma è una conseguenza precisa della struttura dei rapporti di produzione capitalistici.

Però, come abbiamo detto, questo lavoro di Marx, si pone in una prospettiva intermedia tra la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e L’ideologia tedesca. Per l’ultima volta si cerca di rileggere Hegel alla luce delle intuizioni dei francesi. Saint-Simon è tenuto presente, ma la critica dell’alienazione nel senso di Hegel resta troppo concettuale: il lavoro resta ancora “pensato in sé”. Di ciò Marx si libererà definitivamente a partire da L’ideologia tedesca.

Saint-Simon aveva affermato che la comprensione dello sviluppo sociale poteva aversi solo partendo dall’industria, non in una forma particolare, ma nel senso generale di attività lavorativa produttiva. In questo modo egli aveva indirettamente affermato che la forza motrice del progresso storico era l’industria, cioè il lavoro. Per Saint-Simon questa forza non è vista “in sé” ma come elemento di una trasformazione in corso, come qualcosa di oggettivo e reale, che bisogna cogliere nelle sue manifestazioni concrete.

Marx fa propria questa posizione, sebbene, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 sia ancora legato alla formula hegeliana. Egli scrive: «L’immediato rapporto del lavoro sui suoi prodotti è il rapporto dell’operaio agli oggetti di sua produzione. Il rapporto del facoltoso agli oggetti della produzione e a questa stessa è soltanto una conseguenza di questo primo rapporto». (Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it., in Opere scelte, op. cit., p. 117). Marx si sforza di sottolineare l’importanza del meccanismo logico che rapporta l’attività produttiva alla totalità sociale, meccanismo che si presenta intatto nel rapporto lavoro-prodotti e rispecchia la parziale realizzazione del rapporto operaio-oggetto della produzione.

In questo Marx vede – almeno fino alla stesura de L’ideologia tedesca – un doppio processo di separazione e di unificazione: da un lato l’attività produttiva che si separa dalla totalità, dall’altro la totalità che ripensa l’attività produttiva dando a essa un senso all’interno di se stessa.

Sempre nei Manoscritti Marx precisa: «Si vede come la storia dell’Industria, l’esistenza diventata oggettiva dell’industria, sia l’aperto libro delle forze essenziali umane, la psicologia umana sensibilmente presente, che finora non fu vista nella sua connessione con l’essenza dell’uomo, ma sempre solo in un esteriore rapporto di utilità perché – muovendosi entro l’alienazione – si seppe vedere come la realtà delle forze essenziali umane e gli atti dell’uomo, come ente generico soltanto l’esistenza generale dell’uomo, la religione, o la storia nella sua essenza generale-astratta, come politica, arte, letteratura, ecc.». (Ib., p. 136). Qui il termine e il riferimento a Saint-Simon sono espliciti. L’industria è intesa nel senso di Saint-Simon, e il senso della produzione come fondamento del processo è chiaramente un riferimento al pensiero del francese. Solo che Marx cerca di cogliere un significato più ampio, più specificamente filosofico, riferendosi al meccanismo dialettico hegeliano come pure alle formulazioni di Feuerbach in merito alla “realtà” della scienza dell’uomo. La “psicologia umana” come riflessione sull’ “industria” è presenza delle letture feuerbachiane, mentre il pretendere di vedere la produzione come qualcosa da rapportarsi all’ “essenza” dell’uomo è un tentativo di innestare Hegel nell’intuizione di Saint-Simon.

In merito a Feuerbach Marx scrive: «Feuerbach è il solo che sia in rapporto serio e critico con questo campo [quello della metodologia hegeliana] e sia insomma il vero vincitore della vecchia filosofia». (Ib., p. 142). Come meriti particolari di questo filosofo Marx indica: a) l’avere provato che la filosofia vecchia non è altro che la religione, b) l’avere fondato il vero materialismo e la scienza reale e, per ultimo, c) «l’aver contrapposto alla negazione della negazione – che afferma di essere assoluto positivo – il positivo riposante su se stesso positivamente fondato». (Ib., pp. 142-143). Bastano queste affermazioni per individuare i limiti in cui si trova circoscritto il pensiero di Marx al momento della redazione dei Manoscritti. Nelle Tesi su Feuerbach, all’inizio del 1845, scriverà: «Il difetto capitale d’ogni materialismo fino ad oggi (compreso quello di Feuerbach) è che l’oggetto, la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo sotto la forma dell’obietto e dell’intuizione, ma non come attività umana sensibile, prassi; non soggettivamente». (Op. cit., p. 187). Questo per la Tesi I, mentre nella Tesi VI si legge: «Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali». (Ib., p. 189). Eccoci quindi al punto centrale del discorso di Marx, l’azione e la violenza, di cui si parla affrontando il problema della prassi, trovano la loro estrema giustificazione in quanto semplici strumenti per uno scopo, la crudeltà verso la realtà si deve interpretare nel senso di non ammettere false edulcorazioni, ma solo tentativi radicali per scuoterla dal suo colpevole atteggiamento passivo. L’azione sulla realtà consiste in questo, a differenza degli eventuali precedenti che possono risalire fino agli illuministi. Consiste nel rapporto con l’uomo che sta davanti e, attraverso quest’uomo, nel rapporto con la società personificata nella statica immobilità di quest’uomo. Dichiaratamente Marx si programma l’intenzione di riportare nella teoria un’appassionante e convulsa concezione di vita, parallelamente a un estremo rigore e a una condensazione degli elementi pratici in quanto tale. La identificazione di essenza e rapporti sociali diventa pertanto una specie di purezza severa, una morale giansenista che non teme di pagare la vita al prezzo cui deve essere pagata. Ciò non riesce appieno, com’è logico che sia. I due soggetti rappresentati: l’intreccio dei rapporti e la vera essenza umana, quella inedita, restano lontani dagli effetti e dalla qualità letteraria delle rievocazioni teoriche. Anche un grande pensatore, e Marx in alcuni passi non lo è di certo, manca di efficacia sufficiente. Scrive mostrando sempre la propria genialità, anche nei rapidi passaggi (come è il caso delle Tesi su Feuerbach) o nelle righe scritte affrettatamente per motivi alimentari, ma qualche volta è di una sconcertante mediocrità.

Comunque, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 registrano un momento precedente nell’evoluzione del pensiero di Marx, ed è interessante per noi che cerchiamo di individuare gli elementi di raccordo tra il suo pensiero e le tematiche di Saint-Simon sottolineare il progressivo assorbimento di queste ultime alla luce di una critica sempre più radicale della filosofia tedesca.

Occorre aggiungere che il punto di scontro, che viene impostato chiaramente da Marx, resta il problema dell’ “industria”, nel senso di Saint-Simon, e del “lavoro” nel senso hegeliano. Scrive Ansart: «Mentre in Saint-Simon il lavoro era l’azione sociale di produzione della quale bisognava cercare le conseguenze pratiche nella dinamica dei rapporti sociali, nei Manuskripte è l’oggetto del quale bisogna trovare il senso in rapporto all’essenza universale dell’uomo. Questa chiarificazione del significato si opererà, in effetti, per confronto con l’essere reale dell’uomo, essenza naturale e universale, del quale la critica filosofica ha dimostrato la verità; è partendo da questo presupposto che il lavoro dell’operaio, nel regime capitalistico, apparirà come alienazione». (Marx e l’anarchismo, op. cit., pp. 385-386). Saint-Simon coglieva nella sua realtà il rapporto – se si vuole semplicistico – tra “industria” e sistema sociale, prendendo coscienza sia della storicizzazione delle istituzioni che della determinazione storica che ne derivava, ma in questo suo cogliere smarriva l’intrinseca distinzione di classe da fare all’interno stesso del raggruppamento dei produttori, aprendo con questo il campo alle congetture collaborazioniste. Allargando il raffronto da Saint-Simon a Freud e a Nietzsche, Paul Ricoeur ha consideravolmente contribuito a chiarire questo problema dell’alienazione: «Ciò che distingue Marx, Freud e Nietzsche è l’ipotesi generale riguardante insieme il processo della “falsa” coscienza e il metodo di decifrazione. Le due cose vanno insieme, in quanto l’uomo che sospetta compie in senso inverso il lavoro di falsificazione dell’uomo che giuoca d’astuzia. Freud è penetrato nel problema della falsa coscienza attraverso il doppio atrio del sogno e del sintomo nevrotico, la sua ipotesi di lavoro implica gli stessi limiti dell’angolatura di attacco: si tratterà di un’economia degli istinti. Marx affronta il problema delle ideologie nei limiti dell’alienazione economica, nel senso questa volta dell’economia politica. Nietzsche, il cui interesse è imperniato sul problema del “valore” – della valutazione e della transvalutazione –, cerca nell’aspetto della “forza” e della “debolezza” della Volontà di potenza la chiave delle menzogne e delle maschere. In fondo, la Genealogia della morale nel senso di Nietzsche, la teoria delle ideologie nel senso marxiano, la teoria degli ideali e delle illusioni nel senso di Freud, rappresentano altrettante convergenti procedure della demistificazione. Questo forse non è ancora la cosa più forte che hanno in comune; la loro parentela sotterranea procede più lontano; tutti e tre iniziano col sospetto sulle illusioni della coscienza e continuano con l’astuzia della decifrazione, e, infine, anziché essere dei detrattori della “coscienza”, mirano a una sua estensione. Ciò che Marx vuole è liberare la praxis mediante la conoscenza della necessità; ma questa liberazione è inseparabile da una “presa di coscienza” che replichi vittoriosamente alle mistificazioni della falsa coscienza. Ciò che Nietzsche vuole è l’aumento della potenza dell’uomo, la restaurazione della sua forza; ma quel che vuol dire “Volontà di potenza” deve essere recuperato dalla meditazione delle “cifre” del “superuomo”, dell’ “eterno ritorno” e di “Dioniso”, senza di che quella potenza sarebbe solo la violenza del di qua. Ciò che Freud vuole è che l’analizzato, appropriandosi del senso che gli era estraneo, allarghi il proprio campo di coscienza, viva in migliori condizioni e sia infine un po’ più libero e, se possibile, un po’ più felice. Uno dei primi omaggi resi alla psicoanalisi parla di “guarigione a opera della coscienza”. L’espressione è esatta. A patto di dire che l’analisi intende sostituire a una coscienza immediata e dissimulante una coscienza mediata e istruita dal principio della realtà. Così, proprio quel dubitante che raffigura l’Io come un “infelice” sottomesso a tre padroni, l’Es, il super-Io e la realtà o necessità, è anche l’esegeta che ritrova la logica del regno dell’illogico e che, con un pudore e una discrezione impareggiabili, ha l’audacia di concludere il suo saggio sull’Avvenire di una illusione con l’invocazione del dio Logos, dalla voce debole ma instancabile, del dio non certo onnipresente, ma efficace solo col tempo». (Della interpretazione. Saggio su Freud [1965], tr. it., Milano 1967, pp. 47-48). Marx, pur restando – nei Manoscritti – con un piede nell’astrattezza della logica hegeliana, e pur non avendo esteso la sua critica al di là dell’ “umanesimo” feuerbachiano, malgrado tutto ciò, ha ben chiara la concezione di classe che si legittima dalla lettura della storia come rapporto di violenza e di repressione all’interno dello stesso raggruppamento degli “industriali” nel senso sansimoniano.

Continua Ansart: «È in rapporto alla vera concezione del lavoro, oggettivamente della vita generica dell’uomo, che la condizione operaia si mostrerà nella sua verità. Mentre il lavoro è l’atto col quale l’uomo oggettiva liberamente il suo essere universale e modella l’oggetto sulla sua propria natura, le condizioni di costrizione del regime capitalista strappano all’operaio la libertà della sua produzione». (Marx e l’anarchismo, op. cit., p. 386). Di già nel 1844 Marx ha chiaro questo rapporto tra l’uomo e il lavoro. Se si vuole esiste ancora il riflesso filosofico e astratto dell’hegelismo riformato, ma non disturba la visione di questo rapporto. L’intuizione di Saint-Simon raggiunge una estrema precisione. «Noi partiamo da un fatto economico, attuale – afferma Marx –. L’operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza ed estensione. L’operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere». (Manoscritti economico-filosofici del 1844, op. cit., p. 115). Qui siamo nella fase di stabilizzazione della realtà produttiva, compito della teoria è quello di suggerire un modello accettabile. L’aggressione razionalizzante è dietro le quinte, bisogna fare attenzione. Esaminando tutti gli accorgimenti tecnici elencati da Marx, si resta delusi. Specialmente oggi, con i livelli altamente specializzati del filisteismo dominante. Ma anche ai suoi tempi. La cosa peggiore è la bizzarria di una credenza nel primato del fare, in un diritto alla supremazia del fare sull’agire. Si deve dire cento volte in faccia ai marxisti che ciò è pura velleità hegeliana, continuamente ritoccata dallo stesso Marx.

Questa analisi sarà il punto di partenza del Capitale, dove troveranno completamento l’intuizione e la “interpretazione” filosofica de L’ideologia tedesca. Per il momento creativo dei Manoscritti, essa ripiega su se stessa affermando: «L’oggetto, prodotto del lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente del producente. Il prodotto del lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro, appare, nella condizione descritta dall’economia politica, come privazione dell’operaio, e l’oggettivazione appare come perdita e schiavitù dell’oggetto, e l’appropriazione come alienazione, come espropriazione». (Ibidem).

Questa è l’ultima dimensione del messaggio filosofico di Marx, nel momento preciso in cui stanno già maturando le elaborazioni che vedranno la loro definitiva esposizione ne L’ideologia tedesca.

L’ideologia tedesca

Nel 1859 Marx scrive, nell’Introduzione a Per la critica dell’economia politica, alcune linee autobiografiche in cui si legge un riferimento a L’ideologia tedesca: «Decidemmo [insieme a Engels] di mettere in chiaro, con un lavoro comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della filosofia tedesca, di fare i conti, in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica. Il disegno venne realizzato nella forma di una critica della filosofia posteriore a Hegel». (Opere scelte, op. cit., p. 748). Questo passo ci dice come ne L’ideologia tedesca Marx ed Engels, più che criticare i vari autori in essa trattati, sviluppino – in particolare Marx – una critica delle proprie posizioni filosofiche precedenti. È nello specifico il bagaglio analitico che aveva avuto l’ultima acuta accentuazione nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 che viene a essere sacrificato. Resterà solo l’involucro metodologico, definitivamente assestato nella struttura del materialismo storico. La scelta del mezzo materialistico come modulo coerente di espressione era in un certo senso obbligata, anche considerando le condizioni dell’epoca, ma possono anche non avere avuto a che fare con le decisioni di fondo. Si tratta forse di una limitazione nella scelta politica, un effetto della lunga ombra del partito. Una versione aggiornata delle conseguenze dell’apparato, per quanto stabilizzate dall’opera magistrale del regista, comunque flessibile fino a un certo punto, in quanto il teorico non è più l’antico interprete del mondo, nel senso ristretto di una delucidazione delle anomalie di corrispondenze, ma sta diventando il più efficace e sapiente modellatore della ricezione. Adesso è punto di partenza, trampolino da cui iniziare una realizzazione che per essere completa, e praticamente valida, deve concludersi nella partecipazione, quindi in qualcosa che fa parte dell’esistenza e non del suo riflesso. Ogni dualismo, a questo punto, diventa non solo inutile e dannoso ma decisamente impossibile. Marx lo cancella.

I concetti di “uomo”, “ente”, “essere generico”, “oggettivo e soggettivo”, “in sé e per sé”, “positivo e negativo”, “negazione della negazione”, “superamento” vengono da Marx abbandonati. A sostituirli sono i concetti usati dagli scrittori politici francesi, in particolare da Saint-Simon. Appaiono, pertanto, nuovi concetti: “commercio”, “industria”, “attività”, “azione”, “classi sociali”, “organizzazione sociale”, “ideologia”.

Così Marx: «I Tedeschi notoriamente non l’hanno mai fatto [assegnare alla storia il posto che gli spetta] e perciò non hanno mai avuto una base terrena per la storia e, per conseguenza, non hanno mai avuto uno storico. I francesi e gli inglesi, pur avendo compreso tutt’al più in misura solo parziale il legame fra questo fatto e la cosiddetta storia, specialmente allorché si trovavano imprigionati nell’ideologia politica, hanno fatto però i primi tentativi per dare alla storiografia una base materialistica». (L’ideologia tedesca, op. cit., p. 19). Il riferimento agli scrittori utopisti francesi è implicito nell’inciso riguardante l’imprigionamento causato dall’ideologia, e quindi resta confermato anche il riferimento alle posizioni di Saint-Simon riguardo il processo di storicizzazione dei sistemi sociali. Con maggiore dettaglio Giovanni Gentile: «Posto infatti che, come dice Hegel, la filosofia rappresenti la più alta e vera forma dello spirito di un’epoca presso un dato popolo, essa non può non essere il Grund di tutte le forme spirituali, e appunto quella radice comune la quale, pervenuta che sia nel suo germoglio fino alla filosofia, ha attuata, diciamo così, se stessa, perfettamente). E ormai è esigenza generalmente sentita e affermata, benché non sempre esattamente intesa: che nella filosofia si concentrino e trovino o cerchino la loro definitiva soluzione tutti i problemi, tutti i bisogni più profondi della società, in cui la filosofia sorge. Concetto equivalente al mio, che nella storia della filosofia si riassuma tutta la storia dell’umanità. E vero bensì che, come tutto il resto della storia influisce sulla filosofia, questa influisce alla sua volta su tutto il resto della storia. Ma questa verità non importa la inclusione della filosofia ut sic nella legge della scambievole azione e interferenza dei così detti fattori storici, e non infirma quindi il concetto della convergenza universale e assoluta della storia nella filosofia. Giacché, in primo luogo, bisogna restringere il significato di cotesta verità ne’ suoi giusti limiti, per non incorrere nell’utopia degli ideologi, che con le idee astratte credevano potesse mettersi in movimento la mole macchinosa delle istituzioni sociali; e intenderla nel senso della mediata ripercussione che anche i sistemi filosofici hanno nella vita, in quanto investono e riformano gl’ideali direttivi della medesima: religione, morale, diritto. In secondo luogo, occorre bene osservare – ed è ciò che importa – che la filosofia, in quanto diviene elemento della vita sociale, non è più quella filosofia stricto sensu, che si può vedere in cima allo svolgimento dello spirito, spettatrice e scrutatrice disinteressata e sopramondana del fluttuare sottostante della vita co’ suoi interessi diversi, con le sue opposizioni stridenti, con la sua empiricità irrazionale; ma è già appunto un elemento di questa vita, mondano come tutti gli altri, cioè particolare: non è più la filosofia nella sua sede propria e nella sua specifica natura, ma una sua eco nella vita estrafilosofica. Così la poesia eterna superindividuale, in quanto scritta e stampata, diviene proprietà personale di un individuo, si vende e si compra, o magari si ruba come ogni cosa materiale, prodotta come proprietà dalle singole forze economiche della società civile. Ora, come in questo caso non è propriamente la divina poesia che si vende; perché il libro di versi si può comprare e anche leggere, e intanto la poesia non essere acquistata o conquistata dal compratore lettore; egualmente, a dir proprio, non è la filosofia, in quanto speculazione del reale, che entra nel giuoco delle forze spirituali inferiori operanti nel corpo della storia, ma è la volontà; o meglio quelle volontà che soggettivamente sono state trasformate e nuovamente orientate da una data filosofia: non sono, poniamo, gli elaboratori del materialismo storico, che è un concetto speculativo, ma i compilatori del Manifesto dei Comunisti, che è un atto pratico. O se la filosofia si ripercoterà nell’arte, non propriamente la filosofia entrerà nei presupposti dell’arte, ma quella speciale anima artistica, che essa avrà plasmata. In ogni caso, si tornerebbe per questa via al rapporto dianzi considerato tra filosofia implicita o immanente e le altre forme non specificamente filosofiche dell’attività spirituale. (G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana [1913], Firenze 1975, pp. 121-122).

Saint-Simon, come abbiamo visto, aveva insistito in modo particolare sulla necessità di riportare l’accadimento all’interno del processo storico. Parlando dei fatti del 1789 aveva sempre collegato quegli avvenimenti rivoluzionari alle lontane vicissitudini dell’affrancamento dei comuni e dell’indebolimento del potere teologico. Aveva anche avvertito come per gli avvenimenti del presente non si possa procedere in modo diverso, essendo necessario restare all’interno del processo di storicizzazione. Anche per il presente, secondo Saint-Simon l’unico metro di giudizio restava la storia. Quindi, l’ “industria”, avvenimento del presente, veniva vista come la logica e necessaria conseguenza del processo storicizzante dell’evoluzione dei sistemi sociali.

Parlando della “liberazione” Marx precisa: «Naturalmente non ci daremo la pena d’illuminare i nostri sapienti filosofi sul fatto che la “liberazione” dell’ “uomo” non è ancora avanzata di un passo quando essi abbiano risolto la filosofia, la teologia, la sostanza e tutta l’immondizia dell’ “autocoscienza”, quando abbiano liberato l’ “uomo” dal dominio di queste frasi, delle quali non è mai stato asservito; che non è possibile attuare una liberazione reale e con mezzi reali. La “liberazione” è un atto storico, non un atto ideale, ed è attuata in condizioni storiche, dallo stato dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, delle relazioni». (L’ideologia tedesca, op. cit., pp. 14-15). Per Marx ed Engels, in questo momento della loro riflessione, si tratta di ricostruire integralmente dalle basi il rapporto tra possibilità della conoscenza e realtà, di risolvere, insomma, il problema centrale della filosofia della prassi che resta il problema gnoseologico. Per questo essi fanno riferimento spessissimo ai “fatti”, alle “basi reali”, alle “basi storiche”, alle “condizioni prime”, al “mangiare”, al “bere”, al “vestirsi”, ai “bisogni”.

Insiste Ansart: «La risposta data a questo problema [quello gnoseologico] è fondamentale: essa definirà l’oggetto da studiare, il luogo delle verità umane, essa indicherà il livello della realtà nel quale si condensano le condizioni della rivoluzione, il luogo il cui sapere sarà il sapere rivoluzionario. E la risposta di Marx è quella che Saint-Simon aveva dato e articolato in termini fondamentali: la realtà non è altro che l’attività degli uomini, cioè la loro attività di “produzione” che si realizza nel sistema sociale, sistema a sua volta trasformato dall’azione umana». (Marx e l’anarchismo, op. cit., p. 392). Questo meccanismo, per quanto confuso potesse apparire nelle elaborazioni del francese e degli altri scrittori utopisti della sua epoca, doveva sembrare molto più “materialisticamente fondato” a Marx di quanto non gli apparissero le analisi dei Manoscritti relative alla condizione operaia, alla rivoluzione, alla liberazione, agli schemi dialettici del processo rivoluzionario, ecc. Da ciò il bisogno, quasi fisico, di fare piazza pulita, di cominciare come si fa con i bambini dai concetti più semplici ed elementari, di immediata percezione, quei concetti che si riferiscono ai bisogni primari e che possono servire opportunamente a indicare la “realtà” della storia e del processo analitico materialista.

«Con gente priva di presupposti come i Tedeschi dobbiamo cominciare col constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, il presupposto cioè che per poter “far storia” gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora». (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, op. cit., p. 18). Come si vede da questo passo, Marx insiste sul fatto che la prima azione storica dell’uomo è stata e continua a essere quella di crearsi le possibilità per soddisfare i bisogni primari e la ricerca dei mezzi idonei a questo scopo.

Per il momento a Marx interessa liberarsi definitivamente dall’astrattismo hegeliano e per questo sottolinea la prassi dell’attività umana. Certo l’analisi che viene sviluppata ne L’ideologia tedesca non è approfondita come poi si verificherà negli scritti successivi, in particolare nel Capitale. I fatti economici non trovano ancora chiara collocazione metodologica all’interno della scala dei determinanti reali, il conflitto fra le forze della produzione è ancora più o meno nei termini vaghi di Saint-Simon, l’applicazione del metodo dialettico alle contraddizioni derivanti da una data distribuzione dei rapporti di produzione non è perfezionato.

Gli “uomini reali” di Marx sono molto vicini agli “industriali” di Saint-Simon. Il rapporto sociale all’interno del quale essi agiscono è molto vicino al “sistema sociale” tratteggiato dallo scrittore francese.

L’ideologia tedesca, per quanto rifletta ancora la genericità dell’opera di Saint-Simon, rappresenta comunque il primo lavoro veramente approfondito per l’elaborazione della concezione materialistica della storia. Infatti vi troviamo la prima chiara esposizione dell’identificazione fra l’esplicazione dell’attività degli individui e il loro “modo di vita”. Così il sistema di produzione viene a determinare il carattere stesso della struttura sociale. Scrivono Marx ed Engels: «Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione». (Ib., pp. 8-9).

In questa formulazione c’è l’affermazione che gli uomini dipendono da una certa condizione di vita in quanto questa è ricalcata sulla loro attività di produzione, concetto molto vicino a quello espresso in diversi passi dell’opera di Saint-Simon. Ma non c’è, in questo passo, la formulazione matura del rapporto dialettico che intercorre tra l’esistenza reale e storica degli uomini e la produzione, nel senso cioè che gli strumenti di produzione e la loro distribuzione determinano l’uomo e la sua esistenza reale.

Il modo in cui Marx ed Engels spiegano la rottura rivoluzionaria si avvicina moltissimo all’ipotesi della “necessità” storica espressa da Saint-Simon che opera all’interno dei sistemi sociali. Lo scrittore francese spiegava la crisi rivoluzionaria e la necessità del suo verificarsi con la contraddizione tra le nuove forme di produzione e l’antico sistema sociale, strutturato in modo non adeguato. Allo stesso modo, ne L’ideologia tedesca, la rivoluzione sembra potersi dedurre, necessariamente, dal contrasto tra lavoro e struttura.

«Questa contraddizione fra le forze produttive e la forma di relazioni, che come abbiamo visto si è già manifestata più volte nella storia fino ad oggi senza compromettere la base, dovette esplodere ogni volta in una rivoluzione, assumendo in pari tempo diverse forme accessorie, come totalità di collisioni, come collisioni di diverse classi, contraddizione della coscienza, lotta ideologica, lotta politica, ecc. Secondo la nostra concezione, dunque, tutte le collisioni della storia hanno la loro origine nella contraddizione tra le forze produttive e la forma di relazioni». (Ib., pp. 51-52). Il cambiamento storico, inteso come processo, non ha ancora una matrice propulsiva privilegiata, però – avvicinandosi molto di più al pensiero di Saint-Simon – appare legato all’influenza di una serie svariata di elementi: macchinazione, modificazioni demografiche, estensione della domanda dei beni di consumo, invenzioni scientifiche e tecniche. Prospettiva privilegiata di questa nuova posizione metodologica – a differenza della precedente posizione ancora legata all’hegelismo, sia pure rivisitato attraverso l’umanesimo di Feuerbach – è quella data dalla concretezza della società civile, che assurge a base di tutta la storia. «La società civile comprende tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive». (Ib., p. 65).

Non si deve pensare che qui si sottolinea un rapporto causale tra “società civile” e insieme delle “relazioni materiali della produzione”, in quanto la prima viene vista, molto più semplicemente e molto più vicino alla interpretazione di Saint-Simon, come il “luogo” dove si realizza spontaneamente e in modo necessario l’organizzazione collettiva della produzione, quel luogo che nel mondo moderno è quello in cui si realizza l’ “industria”.

Su questo rapporto tra società civile e rapporti sociali di produzione Ansart scrive riferendosi alle connessioni tra il pensiero e Marx e quello di Saint-Simon: «Ritrovando l’oggetto della riflessione sansimoniana, la società civile come luogo delle azioni sociali essenziali, Marx ritrova nello stesso tempo il problema delle determinazioni e vi risponde in modo identico. Non è nella società civile che si trova il rapporto di determinazione: né la divisione del lavoro, né il tipo di proprietà sono considerati come determinanti decisive. Il rapporto di determinazione si trova posto tra la società civile, quella che successivamente sarà definita struttura, e dall’altra parte lo Stato e le ideologie». (Marx e l’anarchismo, op. cit., p. 396). Marx, nei suoi lavori successivi, si dedicherà, fra l’altro, alla soluzione di due problemi fondamentali: primo, come superare la contraddizione che sorge tra lo Stato, che è un’istituzione storicizzata, e l’evoluzione progressiva della società civile, secondo, come le ideologie da astratte riflessioni possono divenire, sotto l’aspetto di teorie rivoluzionarie, elemento concreto dell’azione sociale. Si tratta di due problemi su cui, come abbiamo visto, si era soffermato Saint-Simon, quando si chiedeva in base a quali rapporti storici la società civile si era staccata dalla parte retrograda incapace di seguire l’evoluzione produttiva dell’umanità, e quando si chiedeva in che modo la teoria, il lavoro degli scienziati e dei filosofi, potesse legarsi in un’associazione di “lavoro” con i produttori.

Nella critica al libro di Karl Grun: Die soziale Bewegung in Frankreich und Belgien. Briefe und Studien, Marx ed Engels dimostrano una perfetta conoscenza degli scritti reperibili di Saint-Simon e dimostrano pure di sapere dare, delle varie tesi, una valutazione critica come punto di riferimento per le pochezze e le miserie della “filosofia” tedesca impregnata di hegelismo.

Il fatto che essi insistano per tante pagine nel dimostrare che Grun non conosce le opere di Saint-Simon direttamente dagli originali, ma segue Louis Reybaud e in particolare il libro di quest’ultimo: Etudes sur les Réformateurs ou Socialistes Modernes (Bruxelles 1844), è significativo in quanto invito alla lettura diretta degli scritti del pensatore francese. E, dato che questo invito si colloca all’interno, anzi alla fine di una critica “radicale” della filosofia tedesca, la conclusione non può che essere una sola: un invito a indirizzarsi verso il concreto, anche se – nel caso dei francesi – questo concreto ha grosse limitazioni e va preso molto criticamente.

Alcune notazioni tra le righe, colte in queste pagine apparentemente polemiche, sono importanti. Viene rimproverato a Grun di non aver capito, a proposito della notizia che Saint-Simon speculava in beni nazionali, che lo scopo di questa speculazione era di «fondare in via sperimentale una scuola scientifica e uno stabilimento industriale e procurarsi con queste speculazioni il capitale necessario». (K. Marx, F. Engels, L’Ideologia tedesca, op. cit., p. 492). Che è come dire che Saint-Simon non era affatto un teorico “ideologico”, ma si rendeva conto delle necessità concrete di realizzare, sia pure nel piccolo, quelle intuizioni che sviluppava in sede teorica. Questa notazione ci sembra potersi rapportare al problema della difficoltà di collegare il pensiero rivoluzionario all’azione nella struttura dei sistemi sociali, problema che abbiamo visto essere tipico sia della posizione di Saint-Simon, sia di quella di Marx.

In merito ad alcune considerazioni assurde avanzate da Grun riguardo il matrimonio di Saint-Simon, Marx ed Engels scrivono: «In perfetta coerenza con la sua fondamentale concezione socialista, Saint-Simon voleva conoscere l’influenza esercitata dalla scienza sulla personalità della gente colta e sulla sua condotta nella vita ordinaria». (Ibidem).

Riguardo l’affermazione di Grun che Saint-Simon aveva “purificato” il concetto di industria portando al concetto di “operai”, Marx ed Engels scrivono: «Il signor Grun ricava la colossale assurdità secondo cui Saint-Simon il quale aveva trovato la libera concorrenza come “concetto impuro”, “purificò” il concetto di industria e lo ridusse al concetto di operai». (Ib., p. 499). In merito alla confusione fatta da Grun riguardo cosa intendesse Saint-Simon per l’appartenenza all’ “industria”, Marx ed Engels scrivono: «Secondo Saint-Simon appartengono al numero degli industriali, oltre agli operai, anche i fabricants, i negociants e in una parola tutti i capitalisti industriali, ai quali anzi si rivolge di preferenza. Il signor Grun poteva vederlo già alla prima pagina del Catéchisme. Ma si vede bene come egli costruisca fantasticherie da letterato su quello scritto in base a quello che ne ha sentito dire, senza averlo mai visto». (Ibidem).

Riguardo la contrapposizione (presunta da Grun) di periodi storici organici a periodi storici critici, fatta da Saint-Simon, Marx ed Engels precisano: «In nessun momento e da nessuna parte Saint-Simon ha contrapposto i periodi storici organici ai periodi critici. Questa è una assoluta menzogna del signor Grun. Questa distinzione fu fatta per la prima volta da Bazard». (Ib., p. 501). Riferendosi all’esposizione che Grun fa nel suo libro della scuola sansimoniana, Marx ed Engels ricordano: «Nulla è detto del periodo che va dalla morte di Saint-Simon alla rivoluzione di luglio, del periodo che coincide con lo sviluppo teorico più importante del sansimonismo: in tal modo scompare di colpo, per il signor Grun, la parte più importante del sansimonismo, la critica delle condizioni esistenti. E in realtà sarebbe stato difficile dire qualcosa in proposito senza conoscere le fonti stesse, in particolare i giornali». (Ib., p. 502).

Nello stendere la loro critica definitiva con le posizioni filosofiche precedenti e, così facendo, nel prendere le distanze dall’idealismo tedesco, Marx ed Engels intendono utilizzare, tra l’altro, anche il contributo di Saint-Simon allo scopo di richiamare alla concretezza della storia, alla realtà del mondo della produzione, di fronte al vago dilettarsi delle formule filosofiche dell’hegelismo. Saint-Simon aveva indicato con chiarezza che lo Stato usurpava un’importanza che non meritava in alcun modo di avere. Lo Stato godeva di un potere fondato esclusivamente sulla struttura burocratica improduttiva e sul residuo della struttura repressiva militare, venutasi a staccare dal corpo sociale del feudalesimo. Egli aveva affermato, al contrario, che le forze vive e reali si trovano soltanto nella società civile.

Analizzando i processi di modificazione della società feudale, aveva indicato come si fosse realizzata l’autonomizzazione della società borghese al suo interno e come si fosse realizzata l’indipendenza e l’allargamento della società dei produttori si fosse via via incrementato. Invece di affermare che lo Stato doveva farsi arbitro (anche con la forza) di questi interessi contrastanti (interesse generale contrapposto agli interessi particolari), Saint-Simon aveva affermato che la società industriale dei produttori era il solo luogo di organizzazione spontanea dell’attività razionale, la quale spontaneità veniva ostacolata nei suoi risultati migliori proprio dai resti di quel dominio politico e militare del passato.

Spettava quindi alla scienza – secondo Saint-Simon – studiare l’organizzazione sociale in modo da potere contribuire, spiegando storicamente il conflitto, a risolvere lo scontro tra le forze industriali e il potere politico, dimostrando il carattere necessario dell’evoluzione storica.

Pur non essendo chiaro riguardo la classe capace di risolvere questo conflitto, Saint-Simon aveva individuato in modo sufficientemente valido che questa classe si trovava nella realtà del mondo della produzione e non del fittizio dell’improduttività politica.

Non occorre spendere molte parole per dimostrare che Marx, abbandonando le dimensioni filosofiche del suo pensiero, ed entrando nel vivo della lotta rivoluzionaria per il socialismo, veniva ad abbracciare, con le sue capacità analitiche, questo grandissimo fascio di problemi.

Dopo L’ideologia tedesca, sorta di pausa per riflettere e approfondire, Marx ed Engels riprenderanno la loro lotta, con le teorie e con i fatti, partendo appunto da quell’insieme di problemi che erano già stati oggetto della riflessione di Saint-Simon. La rivoluzione non era più una faccenda astratta, vuote parole inserite in un processo storico, diventando una prospettiva non solo possibile ma anche necessaria.

Il punto di partenza è adesso la “ricerca della realtà”, contrapposta alle vuotaggini del sistema hegeliano. Poi il problema dello Stato come prodotto dell’epoca moderna, causa di disorganizzazione. Poi il problema della storicizzazione delle istituzioni che risultano adeguate alla situazione che li produce.

È visibile come tutto lo scritto di Marx abbia una sete di concretezza, e come da ciò si diparta una critica radicale delle posizioni metodologiche di Hegel. Nei Manoscritti del ‘44, cercando di cogliere l’elemento di passaggio che vi si trova contenuto, Marx abbandona Hegel, ma non del tutto. I francesi sono ancora lontani, spesso anche a livello di linguaggio, oltre che di ipotesi filosofica di ragionamento. L’intermediario qui appare principalmente Feuerbach. Il processo della doppia negazione è ancora presente, come sono anche presenti le strane vicende dei viaggi fenomenologici dello spirito il quale, però, assume la veste di “oggetto”, ma ben presto tutto ciò lascerà il posto ad alcuni spunti dei francesi, perché per Marx il materialismo deve costruirsi dalle fondamenta e può essere soltanto materialismo storico.

L’insistere su motivi naturalistici e antropologici è caratteristico di Feuerbach. Qualcosa di simile accadrà in Italia con la filosofia di Bertrando Spaventa provvista di un carattere più accademico di quella di Feuerbach, la quale per molto tempo si soffermerà sull’immanentismo idealistico, poi sviluppato dall’idealismo di Gentile e dallo storicismo di Croce. Ma nell’ultimo periodo della sua vita, Spaventa accentua motivi antropologici, naturalistici e materialistici, avvicinandosi nettamente alla filosofia di Feuerbach. Il suo rapporto col materialismo è abbastanza classico, infatti ne prende in considerazione soltanto la modulazione metafisica e meccanicistica. Egli perviene al rifiuto dell’idea di assoluta priorità dello spirito e preferisce collegare irrisolvibilmente natura e spirito in una sola sostanza, conferendo all’aspetto materiale di questa sostanza una caratteristica subordinata. La dialettica dello spirito resta la forma superiore di dialettica, ma a condizione che essere e pensiero marcino insieme, nell’àmbito del pensiero. L’influenza di Fichte è palesemente riscontrabile per quanto non dichiarata. Elementi soggettivistici dai quali prenderà l’avvio la filosofia di Gentile, variante dell’immanentismo idealistico in lettura soggettivista.

Nell’analisi de L’ideologia tedesca e dei problemi sviluppati, in modo completo, sullo stesso terreno di analisi che era stato di Saint-Simon, appare evidente che cosa Marx e Engels intendono per “avvento del comunismo”. Le forze produttive, in rapporto al processo tecnologico, si sviluppano in maniera più rapida dei rapporti di produzione, in quanto questi ultimi, esprimendo rapporti di proprietà, tendono a rimanere statici, cioè sono molto più vischiosi dei primi. Ecco quindi che una serie di crisi e di conflitti viene fuori periodicamente. Nel capitalismo moderno la fabbrica, pur essendo proprietà di un capitalista o di un gruppo di azionisti, attua la produzione grazie al lavoro comune di operai, tecnici, impiegati, dirigenti, ecc., ma pur essendo sociale la produzione della ricchezza non è sociale la distribuzione della stessa. Ciò significa che il capitalismo porta dentro di sé la caratteristica essenziale del socialismo. Il comunismo è quindi lo sbocco “inevitabile” della storia, in quanto ogni “formazione economica e sociale” costituisce il livello superiore di un processo che porta alla fine al comunismo, inteso quest’ultimo come forma di società in cui l’uomo, superando l’alienazione, diventa artefice del proprio destino. Ecco la conclusione de L’ideologia tedesca: “Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”. La struttura “dialettica” della teoria marxiana e il suo legame con Hegel sono qui molto chiari. La storia è un processo retto dalla forza delle contraddizioni che conduce a un risultato finale inevitabile. Marx non considera la dialettica un movimento spirituale, come aveva fatto Hegel, ma un processo materiale, in altre parole un movimento economico-sociale che si concretizza nell’inevitabile passaggio dalla società capitalista a quella comunista.

Come abbiamo indicato, la modificazione fondamentale, colta in Saint-Simon, si è verificata a livello degli stessi concetti impiegati: al posto di concetti come “uomo” e “ente” si trovano concetti come “commercio”, “industria”, ecc. Lo stesso Marx ammette esplicitamente che bisogna cominciare dalle cose essenziali, elementari, per fare chiarezza nel ginepraio dell’ideologia dei Tedeschi. I diversi problemi affrontati sono ancora quelli del processo storico, del rapporto tra “fatti” e processo storico, della “liberazione” che non può essere faccenda assegnata alle parole dei filosofi.

Il problema principale è quello gnoseologico che per Marx e Engels si inserisce nella possibilità di fissare i limiti del rapporto tra conoscenza e realtà. Questo problema viene quindi rapportato a quell’altro imperniato sulle determinazioni che le condizioni di vita ricevono da una certa distribuzione dei rapporti di produzione.


[1970], [1978]

VII. Saggio su Proudhon

Parte prima

Il Système des Contradictions Economiques, ou Philosophie de la Misère (2 voll., Paris 1846), costituisce un importante tentativo di padroneggiare i problemi della scienza economica. Tratta dei valori economici, della divisione del lavoro, delle macchine, della concorrenza, del monopolio, dell’imposta, del bilancio commerciale, del credito, della proprietà individuale, della proprietà collettiva, della comunità dei beni, della popolazione, del lavoro. Il tentativo di Proudhon è quello di dimostrare che tutti questi concetti dell’analisi economica sono contraddittori gli uni con gli altri in quanto portano a risultati opposti a quelli che in teoria sono i fini della scienza economica. Ecco perché bisogna rinunciare ai pregiudizi dell’economia politica classica, da un lato, e alle utopie comuniste dall’altro lato. In Proudhon il comunismo utopico si confonde spesso con il collettivismo socialista, di questo errore non verrà mai fuori. Egli vuole porsi in contrasto contro «le due potenze che si disputano il governo del mondo e si anatemizzano con il fervore di due culti ostili: l’economia politica e il socialismo. Se la prima è la serva della routine, il secondo non è altro che l’annunciatore dell’utopia. L’una nega la ragione, l’altro l’esperienza. L’una è la religione della forza, l’altro la religione della miseria». (Systeme, vol. I, p. 67).

La scienza sociale, al contrario, dovrebbe superare queste posizioni, uscendo fuori da ogni condizionamento religioso. La critica a ogni mentalità religiosa resta sempre sullo sfondo di ogni lavoro proudhoniano. «La scienza sociale è la conoscenza ragionata e sistematica di ciò che la società in tutta la sua vita, in tutti i suoi princìpi e nell’integralità della sua esistenza, può fare». Trasformando l’economia classica in “scienza”, Proudhon intende fornire una base alla nuova economia che deve essere pertanto scientifica e sociale, cioè deve contenere «almeno in parte, i materiali della scienza sociale». (Ib., vol. I, p. 89).

«La scienza sociale studia nello stesso tempo le forze collettive e le coscienze collettive. Per il vero economista, la società è un essere vivente, dotato di una intelligenza e di un’attività propria, retta da leggi speciali che solo l’osservazione scopre e la cui esistenza si manifesta non sotto una forma mistica, ma attraverso l’insieme di tutte le intime solidarietà dei suoi membri. L’intelligenza, la spontaneità, lo sviluppo, la vita, tutto quello che costituisce al più alto grado la realtà dell’essere, è altrettanto essenziale alla società che all’uomo». (Ib., vol. I, p. 123). Di fronte all’accusa di Marx che si tratta di tesi idealiste in quanto non tengono conto delle dottrine e delle idee economiche, Proudhon risponde in una nota al margine della sua copia della Miseria della filosofia [1847]: “Menzogna: è proprio quello che dico io. La società produce le leggi e i materiali della propria esperienza”.

«Così una scienza ci appare nella quale niente ci è dato, né a priori, né per esperienza, né per ragione. Una scienza in cui l’umanità trae tutto da se stessa, noumeni e fenomeni, universali e categorie, fatti e idee. In questo modo l’autore della ragione economica è l’uomo, il creatore della materia economica è l’uomo, l’architetto del sistema economico è ancora l’uomo. Dopo avere prodotto la ragione e l’esperienza sociale, l’umanità procede alla costruzione della scienza sociale». (Ib., vol. II, pp. 390-391). Concludendo, la scienza economica appare come una parte della scienza sociale. L’idea parte, secondo Proudhon, dall’azione e ritorna all’azione. Il pragmatismo del fare prende il sopravvento. Possedendo tutto in se stessa, l’umanità è necessariamente portata alla virtù e al lavoro. Questa tesi di Proudhon si ribalta nel suo contrario una volta che la condizione dell’uomo è quella dello sfruttamento e della miseria. La causa di questa condizione è la proprietà capitalista, la colpa è degli imprenditori, dei capitalisti, dei banchieri che detengono il «monopolio di tutti i mezzi di produzione e di tutti gli oggetti di consumo». (Ib., vol. II, p. 408). Non essendo possibile «associare il lavoro e il capitale» (ib., vol. I, p. 390), Proudhon conclude per la lotta senza quartiere, per la «divisione netta tra capitalisti e lavoratori, tra imprenditori e salariati». (Ib., vol. I, p. 265).

Secondo Proudhon l’introduzione della tecnica produce, nello stesso tempo, sia l’aumento della ricchezza che l’aumento della miseria, l’affrancamento e l’asservimento dei lavoratori. Il progresso si realizza quindi per scosse rivoluzionarie. «L’avanzamento – egli dice – si realizza nella società per scosse, e la forza, malgrado le calunnie di cui è oggetto, è la condizione sine qua non delle riforme. Ogni società nella quale la potenza insurrezionale è compressa è una società morta per il progresso». (Ib., vol. I, p. 167). Si tratta di una considerazione che rifiuta sia l’ipotesi materialista che quella spiritualista, in quanto ambedue «sono inaccettabili per la società nel suo complesso». (Ib., vol. I, p. 170). È il progresso che fa entrare il dominio nella società. «La macchina dominante la fabbrica, il diritto divino, cioè il principio di autorità, fanno il loro ingresso nell’economia politica. Il capitale, il dominio, il privilegio, il monopolio, la proprietà, ecc., sono nel linguaggio economico, i nomi diversi con cui si chiamano il potere, l’autorità, la sovranità, la religione, Dio infine». (Ib.,vol. I, p. 195).


[1969], [1971]

Parte seconda

Il lavoro economico di Proudhon, il suo testo fondamentale, comincia con un’analisi del problema di Dio. La scienza economica non si può fondare su basi oggettive, egli dice, se non si fa chiarezza sul problema divino. «Non vi accorgete cosa avviene della religione, come dei governi, il più perfetto dei quali sarebbe la negazione di ogni governo? Nessuna fantasia religiosa o politica impacci e leghi l’anima vostra; è ormai l’unico mezzo per non essere né un minchione, né un rinnegato.

«Dicevo al tempo della mia entusiastica giovinezza: non udrò suonare i secondi vespri della repubblica e i nostri poeti in bianche tuniche cantare sul tono dorico l’inno del ritorno: Cangia, o Dio, la servitù nostra, come il vento del deserto in un’aura refrigerante?... Ma ho disperato dei repubblicani e non voglio più sapere di religione, né di preti. Vorrei ancora per rendere sicuro il tuo giudizio, caro lettore, rendere la tua anima insensibile alla pietà, superiore alla virtù, indifferente alla felicità. Ma sarebbe esigere troppo da un neofita. Ricordati solo e non lo dimenticare giammai, che la pietà, la felicità e la virtù, come la patria, la religione e l’amore sono maschere...». (Sistema delle Contraddizioni Economiche. Filosofia della Miseria, tr. it., Catania 1975, pp. 41-42, testo che seguiremo per questa seconda parte del presente saggio).

Facendo pulizia dell’idea di Dio vengono a cadere alcuni elementi essenziali per la costruzione del dominio. In altri termini si rende possibile una “scienza economica”, qualcosa di diverso della economia politica. «Affermo d’altra parte la certezza assoluta e ad un tempo il carattere progressivo della scienza economica, la più comprensiva, a mio avviso, di tutte le scienze, la più pura, la meglio tradotta nei fatti; novella proposizione che fa di codesta scienza una logica o una metafisica in concreto e muta radicalmente le basi dell’antica filosofia. In altri termini, la scienza economica è per me la forma obiettiva e la realizzazione della metafisica; è la metafisica in azione, la metafisica proiettata sul piano inclinato del tempo; e chiunque s’occupa delle leggi del lavoro e dello scambio è veramente e specialmente metafisico». (Ib., p. 42).

La scienza economica è una teoria delle idee, cioè filosofia, ma è anche un’analisi teologica fondata su di una visione critica dell’idea di Dio e della società, una teologia naturale e una psicologia sociale.

«L’insufficienza dell’economia politica ha in ogni tempo fatto impressione sugli spiriti contemplativi, i quali troppo innamorati dei propri sogni per addentrarsi nelle difficoltà della pratica, e limitandosi a giudicarla dai suoi risultati apparenti, hanno formato, sin dall’origine, un partito d’opposizione allo statu quo e si son lasciati andare a una satira perseverante e sistematica della civiltà e delle sue costumanze. Di rimando, alla proprietà, base di tutte le istituzioni sociali, non mancarono mai difensori zelanti che, orgogliosi del titolo d’uomini pratici, resero guerra per guerra ai detrattori dell’economia politica e lavorarono con mano coraggiosa e spesso abile a consolidare l’edificio innalzato di concerto dai pregiudizi generali e dalla libertà individuale. La controversia pendente ancora tra i conservatori e i riformisti ha per riscontro, nella storia della filosofia, la disputa tra i realisti e i nominalisti, ed è quasi inutile soggiungere che da una parte e dall’altra l’errore e la ragione sono pari e che la rivalità, la meschinità e l’intolleranza, delle opinioni furono la sola causa del malinteso». (Ib., p. 43). Attraverso lo studio delle antinomie Proudhon vuole mostrare in che modo l’economia politica classica e il socialismo sono criticabili facendo ricorso a un’analisi della forza prometeica che si cela nella società, nei suoi comportamenti spontanei. Per esempio la concorrenza e il monopolio hanno caratteri antinomici e raggiungono o perdono i propri equilibri secondo le differenti società. In una lettera a Marx scrive: «Per quanto le mie idee riguardo l’organizzazione e la realizzazione della società siano in questo momento del tutto arretrate, almeno per quel che riguarda i princìpi, credo che sia mio dovere, che sia dovere di tutti i socialisti, conservare per qualche tempo ancora la forma antica o dubitativa, in una parola, dichiaro insieme alla gente un antidogmatismo economico quasi assoluto». (Lettera a Marx del 17 marzo 1846). Il potere economico, che secondo Proudhon è l’espressione della potenza collettiva, diventa nella società del capitale il mediatore tra il lavoro e il privilegio e si ritrova incatenato fatalmente al capitale e diretto contro il proletariato.

A giustificare questo ruolo storico del potere economico sono proprio gli economisti. «L’economia politica è la storia naturale delle costumanze, tradizioni, pratiche e consuetudini (routines) più appariscenti e più universalmente accreditate dell’umanità, in ciò che concerne la produzione e la distribuzione della ricchezza. A questo titolo, l’economia politica si considera come legittima in fatto e in diritto; in fatto, perché i fenomeni che studia sono costanti, spontanei e universali; in diritto, perché cotesti fenomeni hanno per sé l’autorità del genere umano, che è l’autorità massima. L’economia politica quindi si dà il nome di scienza, cioè a dire conoscenza ragionata e sistematica di fatti regolari e necessari». (Sistema, p. 44). A causa e per conseguenza delle contraddizioni economiche l’ordine nella società si mostra prima al contrario, quello che dovrebbe essere prima è fatto dopo, quello che dovrebbe essere in alto si trova in basso.

Da parte sua il socialismo ha molte contraddizioni. Parte dal rifiuto di tutte le istituzioni sociali vigenti e denuncia la nullità di quelle passate che hanno prodotto le presenti. «Esso pretende e prova che l’ordine civile è fittizio, contraddittorio, inefficace, generatore d’oppressione, di miseria e di delitti. Esso accusa, per non dire calunnia, tutto il passato della vita sociale e spinge con tutte le sue forze al rifacimento dei costumi e delle istituzioni. Il socialismo conclude, dichiarando l’economia politica un’ipotesi falsa, una sofistica inventata per giustificare lo sfruttamento dei più da parte dei meno e facendo l’applicazione dell’adagio: a fructibus cognoscetis, compie la dimostrazione dell’impotenza e della nullità della economia politica, mercè il quadro delle calamità umane di cui le addossa la responsabilità. Come si vede, la linea di separazione tra il socialismo e l’economia politica è netta e l’ostilità flagrante». (Ibidem). Ma non si può, secondo Proudhon, proporre semplicemente la “comunanza” per evitare questa situazione. Se l’economia si rivolge all’egoismo e alla pretesa libertà di farsi da sé, il socialismo fa soltanto l’apoteosi della comunità, la società, da parte sua, continua a soffrire.

La scienza dovrebbe procedere diversamente. In una lettera a J.-A. Langlois del 30 dicembre 1861 Proudhon scrive: «È certamente bene che la scienza del diritto come quella dell’economia politica si basino su delle perpetue antinomie». Il credito e la proprietà sono in reciproca antinomia, come per altro tutti i princìpi economici. Non essendo organizzato dal lavoro (questo è il punto di forza del ragionamento di Proudhon) il credito contribuisce allo sfruttamento, aggrava i misfatti della proprietà. Rendendo lo Stato, nello stesso tempo, autore e distributore del credito, si rafforza considerevolmente questa tendenza dispotica.

«La scienza sociale – insiste Proudhon – deve abbracciare l’ordine umanitario, non solo in questo o quel periodo della sua durata, né in alcuni dei suoi elementi; ma in tutti i suoi princìpi e nella integrità della sua esistenza come se l’evoluzione sociale, distesa nel tempo e nello spazio, fosse d’un tratto raccolta e fermata su un quadro che, mostrando la serie delle epoche, ne seguisse il concatenamento e l’unità. Tale deve essere la scienza di qualsiasi realtà vivente e progressiva; tale è incontestabilmente la scienza sociale.

«Potrebbe darsi quindi che l’economia politica, malgrado la sua tendenza individualista e le sue affermazioni esclusive, fosse parte costituente della scienza sociale, nella quale i fenomeni che essa descrive sarebbero come i livelli primi d’una vasta triangolazione e gli elementi d’un tutto organico e complesso. Da cotesto punto di vista il progresso dell’umanità, andando dal semplice al composto, sarebbe interamente conforme al cammino della scienza, e i fatti discordi e sovente perturbatori, che formano oggi il fondo e l’oggetto dell’economia politica, dovrebbero essere considerati da noi come altrettante ipotesi particolari, successivamente realizzate dalla umanità, mirando ad una ipotesi suprema, il cui effettuamento risolverebbe tutte le difficoltà e, senza abrogare l’economia politica, darebbe soddisfazione al socialismo». (Sistema, p. 48). Questa considerazione parte dal presupposto che la logica e la proprietà si interpretano grazie alla ragione collettiva. L’umanità stessa, col suo procedere storico, indica una logica, anzi la costituisce in quanto modello interpretativo delle proprie realizzazioni. Nella critica a Hegel Proudhon riconosce la grandezza di questo filosofo, “un Titano della filosofia”, ma vede che si è racchiuso in un cerchio senza uscite. Mettendo da parte le indicazioni dell’esperienza Hegel non ha compreso le grandi possibilità della sua teoria dei contrari, la quale in fondo non è la sola rivelazione della realtà o della ragione. Hegel ignora l’esperienza umana effettiva, infinitamente multipla e variata, che permette di scoprire il segreto sociale che si nasconde nel pluralismo e nella continua modificazione. Molte le modifiche nelle posizioni di Proudhon su questo argomento. Interessanti le considerazioni contenute in un’altra lettera a Langlois: «La comprensione non è più antinomica della coscienza. Il principio di giustizia per la coscienza è lo stesso del principio di uguaglianza o di equazione per la comprensione, altrimenti non ci sarebbe certezza, verità, e il pensiero sarebbe un eterno tentennamento. La comprensione come la coscienza abbraccia tutte le antinomie, per cui non può e non deve essere antinomica. Facoltà primarie e creatrici esse sono per natura senza sistema e fuori di ogni serie». (Lettera del 17 gennaio 1862).

Continua Proudhon nel Sistema: «Ogni scienza deve dapprima circoscrivere il proprio campo, produrre e raccogliere i suoi materiali; prima del sistema i fatti; innanzi al secolo dell’arte il secolo dell’erudizione. Sottomessa, come ogni altra disciplina, alla legge del tempo e alle condizioni dell’esperienza, la scienza economica, prima di ricercare come le cose debbano andare nella società, doveva dirci come vanno, e tutti questi procedimenti consuetudinari, che gli autori chiamano pomposamente nei loro libri leggi, princìpi, teorie, malgrado la loro incoerenza e la loro contraddittorietà, dovevano essere raccolti con scrupolosa diligenza e descritti con severa imparzialità. Per adempiere questo compito ci voleva forse più genio e soprattutto più zelo che non sarà richiesto dal progresso ulteriore della scienza». (Ib., p. 56). Il non avere ammesso questo punto di partenza conduce le ipotesi socialiste e comuniste a non vedere dove conduce la società comunista instaurata attraverso lo Stato e l’abolizione della proprietà. Se quest’ultima è un furto, il comunismo di Stato è la glorificazione della polizia. Il comunismo riproduce pertanto, ma su di un piano diverso, tutte le contraddizioni dell’economia politica liberale.

«Figuriamoci dunque l’economia politica come un’immensa pianura, ingombra di materiali preparati per la costruzione di un edificio. Gli operai aspettano il segnale, pieni di ardore e impazienti di mettersi al lavoro; ma l’architetto è scomparso senza lasciare alcuna pianta. Gli economisti hanno serbato memoria d’una quantità di cose; sfortunatamente non hanno neppure l’ombra d’un piano complessivo. Sanno l’origine e la storia di ogni pezzo d’opera; ciò che n’è costata la lavorazione, quale legname dia le migliori travi e quale argilla i migliori mattoni; quanto si è speso in utensili e in trasporto; quanto guadagnavano i carpentieri e quanto gli scalpellini; ma di nessuna cosa sanno la destinazione ed il posto. Gli economisti non possono dissimulare di avere sotto gli occhi i frammenti d’un capolavoro gettati là, alla rinfusa, disiecti membra poetae; ma non sono riusciti finora a ritrovare il disegno generale e tutte le volte che hanno tentato qualche accozzamento, hanno dato luogo a strane incoerenze. Disperati alla fine di andare dietro a combinazioni senza risultato, hanno finito con l’erigere in dogma 1’inconvenienza architettonica della scienza, ossia, come dicono, gli inconvenienti, dei suoi princìpi, insomma hanno negato la scienza». (Ib., p. 57). Qualsiasi tentativo di organizzare il lavoro facendo appello al capitale e al potere parte da una menzogna. «Mutualità e reciprocità, in ciò consiste la libertà uguale a se stessa. La libertà si pone su questi due termini ed è qui che prende il suo equilibrio». (Carnets, 25 luglio 1847). Il procedere dell’umanità, continua Proudhon, somiglia ai passi di un uomo ubriaco che esita e pencola tra due abissi: da un lato la proprietà e dall’altro la comunità dei beni.


[1975]

Parte terza

Un’ “operazione” Proudhon, oggi [1975], presenta non poche difficoltà teoriche e pratiche, sia per chi si accinge, come noi, alla stesura di una guida per il lettore, sia per chi si assume l’onere della lettura.

Le difficoltà teoriche restano affidate alla ricchezza di un testo che, proponendosi come indagine economica, costantemente è diretto alla visione della realtà sociale nel suo insieme, visione per forza di cose molto più ricca e complicata di quanto non sia l’astrazione economica nelle sue coagulazioni teoriche.

Le difficoltà pratiche si individuano nella strategia diffamatoria e tipicamente chiesastica di una lettura che tende a fare di Proudhon il “banale” supporto di un’analisi accettata dalla chiesa rivoluzionaria in auge e, quindi, anche solo per questo, indiscutibile e veritiera.

Ma i due tipi di difficoltà vanno affrontati separatamente, non dimenticando di fare cenno a difficoltà marginali che si innestano in questi due filoni centrali.

Ad accrescere le dimensioni delle difficoltà teoriche contribuisce lo stesso Proudhon. «Io sono – egli scrive – un rivoluzionario, non sono un voltagabbana». (Lettera del 4 marzo 1842). Scrittore focoso, esuberante, ricchissimo, produttivo come pochi, spesso indulgente nella polemica, a volte noioso per le continue ripetizioni, a volte dilettevole per lampi di ottima prosa e arguta verve nella migliore tradizione dei moralisti francesi, autore di qualcosa come 38 grosse opere, 14 volumi di lettere, 3 raccolte di articoli, 6 volumi di appunti. Lui stesso si rese conto della necessità di fare chiarezza in questo grande mare tumultuoso dove non pochi vecchi filibustieri pescarono e pescano pesci di ogni sorta. In una lettera a Bergmann (14 maggio 1862), pochi anni prima di morire scriveva: «Penso che sarebbe opportuno che riassumessi in poche pagine, con chiarezza e semplicità, ciò che voglio, ciò in cui credo, ciò che sono». In un’altra lettera: «Si predicano in questo momento non so quanti Vangeli nuovi. E non ho voglia di aumentare il numero di questi pazzi». (Lettera del 27 luglio 1844).

Alla base di questa grande costruzione si identifica una logica ordinatrice spietata, ma di tipo diverso della solita che regge la visione del mondo dettata dalla prospettiva statalista. «Sistema non ne possiedo, respingo formalmente la supposizione di averne uno. Il sistema dell’umanità non sarà conosciuto che alla fine dell’umanità. Quello che mi interessa, è di riconoscere la sua strada, e se posso, di contribuire a tracciarla». (“Le Pleuple”, 21 marzo 1849). Alla base del lavoro di Proudhon si colloca il pluralismo sociale, centro di tutte le contraddizioni, “pluralismo e contraddizioni che garantiscono la vita e il movimento dell’intero universo”.

Il filo conduttore della sua critica sociologica della realtà apparentemente contraddittoria, è proprio questo pluralismo di dottrine, di istituzioni, di mentalità, di strutture, che costituisce l’essenza della società. All’interno di questa scelta di campo si inserisce il processo critico nei confronti dei punti di riferimento costanti del potere.

Le difficoltà teoriche sono quindi eliminabili con un’attenta lettura diretta a cogliere i momenti critici del passaggio dall’individuale al collettivo, momenti in cui vengono individuati i punti di contatto tra i diversi livelli di contraddizioni e le istituzioni “costanti” che pretendono condizionare l’uomo in nome di valori cosiddetti “superiori”: la proprietà capitalista, l’assolutismo dello Stato, lo spiritualismo idealistico. Spiegando le sue scelte di metodo, eccolo scrivere a Williaumé: «Trovai che la società, in apparenza comprensibile, regolare, sicura di se stessa, era abbandonata al disordine e all’antagonismo; che era anche sprovvista di scienza economica e di morale; lo stesso per i partiti, le scuole, le utopie e i sistemi. Cominciai allora, o meglio ricominciai, su nuove basi, un lavoro di riconoscimento generale dei fatti, delle idee e delle istituzioni, senza partito preso, e senza altra regola d’apprezzamento che la stessa logica». (Lettera del 29 gennaio 1856).

Restano le difficoltà pratiche. I testi di Proudhon in lingua italiana, a parte il tanto noto Che cos’è la proprietà? sono di difficile reperimento. Qualche antologia come quella curata da Mario Bonfantini nel 1957 e le edizioni della Utet. Le critiche sono improntate a due correnti ben precise: la marxista e la liberale. Un modello della critica del primo genere sono le brevi parole che Gian Mario Bravo fa precedere alla parte dedicata a Proudhon nell’antologia Il socialismo prima di Marx (Roma, II ed. 1970). Vi si ripetono i giudizi di Marx. La condanna suona in questo modo assoluta e senza ricorso. Proudhon appare come un confusionario, mezzo economista e mezzo filosofo, in sostanza né economista né filosofo. Troppo poco sistematico per essere economista, troppo poco rispettoso dei padri della chiesa filosofica tedesca per essere filosofo. In questo modo si costruisce l’alibi che chiude una lettura produttiva dei testi di Proudhon e, in particolare, una lettura diretta a scontrarsi con la concezione deterministica di un certo marxismo, funzionale soltanto alla visione precostituita del partito.

Da canto suo il morente liberalismo ha ravvisato, specie in Italia e in questi ultimi anni [1975], un filone non trascurabile nel pensiero anarchico (Proudhon e Merlino sono i due pensatori di cui ci risulta con certezza questo tipo di operazione), filone sfruttabile per alimentare una prospettiva teorica che, contraddetta dalla realtà e dall’accentuarsi delle contraddizioni produttive, trova il proprio campo d’attività nell’ambiente rarefatto delle elucubrazioni universitarie. È in questo senso che va letta l’Introduzione di Vittorio Frosini al volume curato da Aldo Venturini Il socialismo senza Marx (Bologna 1974), che è una ricca antologia di scritti di Francesco Saverio Merlino.

Questa brava gente non si preoccupa per nulla di chiarire la base essenziale del pensiero di Proudhon. Essi prendono il lettore per mano conducendolo con più o meno maestria filistea attraverso un labirinto di luoghi comuni e di citazioni erudite, per dimostrare come la posizione di Proudhon sia importante dal punto di vista scientifico (sociologico) e come ciò non abbia nulla a che vedere col piano delle lotte reali (tesi avanzata dai liberali), oppure come Proudhon sia importante quale confuso ripetitore di teorie molto diffuse all’epoca, eminentemente esposte e cristallizzate dalla grande opera marxiana (tesi avanzata dai marxisti, neo dominatori delle nostre aule universitarie).

È logico che il povero Proudhon finisce per sopportare il supplizio di Damiens. Tirato da tutte le parti le sue membra stentano a staccarsi e deve intervenire il caritatevole carnefice per tagliare i tendini con un grosso coltello. In pratica sia l’operazione mistificatoria marxista, sia la patetica operazione dei liberali non riescono a smembrare il robusto corpo teorico proudhoniano e si accaniscono senza risultati evidenti. La conclusione più logica è il colpo di coltello: evitare di mettere in circolazione le opere nella loro totalità, tagliando le parti pubblicate in tutto quello che potrebbero avere di controproducente per il sostegno della tesi avanzata.

Il capostipite di questo modo di ragionare è proprio Engels. Nella sua Introduzione del 1884 alla Miseria della filosofia di Marx, non si prende per niente cura di dare indicazioni e chiarificazioni sull’opera di Proudhon, contro cui il lavoro di Marx era diretto, ma sposta il problema su Rodbertus. Lo stesso Marx non centra il problema della ricerca di Proudhon e, nella sua intenzione essenzialmente polemica, nonrende giustizia a una visione rivoluzionaria della realtà che, in ultima analisi, fatte le dovute proporzioni riguardo la concezione autoritaria della lotta, non era molto diversa dalla sua e verso cui aveva contratto non pochi debiti. Da parte sua Proudhon aveva precisato in una lettera a A. Gauthier: «Tu mi chiedi spiegazioni sul modo di ricostruire la società. In due parole: abolire progressivamente e fino alla sua estinzione l’eredità, ecco il passaggio. L’organizzazione risulterà dal principio di divisione del lavoro e della forza collettiva, combinato con il mantenimento della personalità nell’uomo e nel cittadino». (Lettera del 2 maggio 1841).

Sgombrato il terreno dalle vere o pretese difficoltà ci resta il problema di spiegare, in breve e chiaramente, il nocciolo del pensiero proudhoniano, condizione essenziale per comprendere le “contraddizioni” che si pongono quale momento di una ricerca complessiva considerata come unità indissolubile. Che cosa occorre per la rivoluzione? Proudhon ha le sue ricette, che cambierà via via nel corso della loro preparazione: «Un saggio che sappia fondare la scienza economica, una scienza con i suoi assiomi, le sue determinazioni, il suo metodo, la sua propria certezza, una scienza né matematica, né giuridica. Non occorre meno di questo per produrre la rivoluzione. Dopo la scienza economica, una filosofia della storia che cammini verso l’avvenire e poi una filosofia generale». (Lettera a Charles Edmond del 10 gennaio 1852).

Il pluralismo sociologico costituisce la base della sua critica sulla proprietà capitalista, come critica di un individualismo atomistico che contrasta con l’essere collettivo, con la pluralità delle persone e dei gruppi sociali. Per Proudhon l’individualismo capitalista negando l’esistenza degli organismi collettivi autonomi intende impadronirsi in proprio del surplus produttivo. Allo stesso modo, il pluralismo sociologico consente la critica dell’assolutismo dello Stato, visto sia sotto l’aspetto fascista che sotto quello di un totalitarismo di sinistra. Per Proudhon lo Stato non risulta da un insieme di gruppi sociali, ma dal dominio esercitato da un gruppo sugli altri tramite l’appropriazione dei poteri appartenenti a tutta la collettività. Alla base stessa del pluralismo sociologico sta una critica filosofica dello spiritualismo dogmatico, che poi sarebbe una forma di idealismo integrale non dissimile dal materialismo visto attraverso la lente determinista tipicamente hegeliana. Proudhon indica il pericolo di un integralismo dogmatico che diventa il mezzo ideologico di un principio dominatore agente nel campo sociale.

Il tema centrale del pensiero di Proudhon è quindi la critica del potere, considerato assolutista anche quando ama darsi l’atteggiamento democratico, anche quando pretende dare la libertà. La lotta contro l’assolutismo è condotta in nome di una realtà pluralista che si oppone a ogni sistema semplificante che cerca di mummificare la realtà sociale nelle sue libere manifestazioni.

Una possibile conclusione sarebbe stata il conservatorismo eterodosso alla Victor Cousin diretto a un eclettico stato di disorganizzazione, copertura pretestuosa della spontaneità e della volontà. Secondo il modo di lavorare di Proudhon: «Io dimentico i miei vecchi libri e non li leggo più. Con questa abitudine, deve frequentemente succedere nei miei scritti che ci siano cose difficilmente conciliabili». (Lettera a Clerc del 4 marzo 1863). È proprio nelle Contraddizioni economiche, in questo difficile e complesso compendio della problematica sociale a carattere contraddittorio, che Proudhon cerca di studiare la realtà nella ricca varietà che la contraddistingue, senza nulla perdere e senza nulla sacrificare a un preteso altare della semplicità o dell’efficienza. Eppure il suo discorso non scade mai nel pluralismo individuato e quindi ineliminabile, simile a una condanna, ma si mantiene costantemente nel pluralismo visto come metodo d’indagine e quindi come mezzo efficiente di conoscenza. In questa vasta opera Proudhon studia le lotte del lavoro, della produzione, della circolazione delle ricchezze. Ma la lotta del lavoro, derivante dalla divisione parcellare, e la sua contrapposizione al capitale, così come emerge dal sistema di sfruttamento realizzato storicamente dalla classe dominante, non trova la sua mummificazione nel quadro di una indagine esclusivamente economica, essa al contrario viene continuamente rinviata al problema della divisione e dell’alienazione generale della società sottoposta alla gestione del potere a forma capitalista. Per Proudhon non esiste una divisione netta tra analisi economica e analisi sociologica, quindi morale. La sua riflessione si svolge nel campo delle istituzioni economiche ma anche in quello dei rapporti sociali che vengono da quelle istituzioni caratterizzati e che contribuiscono a caratterizzare, via via, nello svolgimento delle modificazioni storiche, le istituzioni stesse.

La struttura esteriore delle Contraddizioni economiche lascia a desiderare. Ed è proprio in questo senso che si diresse per prima cosa la critica distruttiva di Marx. Le contraddizioni sono individuate a due livelli: tra i termini economici che vengono anche chiamati “epoche” e all’interno di ogni singolo termine. Le epoche individuate sono dieci: divisione del lavoro, macchine, concorrenza, monopolio, imposta, bilancia di commercio, credito, proprietà, comunità, popolazione. Da un punto di vista generale ogni termine è in contrasto con quello precedente.

Certo, il metodo è piuttosto approssimativo. In una lettera a Clerc Proudhon scrive: «Vi sarebbe senza dubbio più di una espressione scorretta da rimpiazzare se facessi una edizione completa delle mie opere e se tenessi che tutto fosse in armonia. Eppure sono dell’idea che tutto vi si sostenga segua e si giustifichi». (Lettera del 14 marzo 1863). Eppure, malgrado questa limitazione, Proudhon riesce a scoprire in modo efficace le contraddizioni, denunciandole violentemente, mettendo in risalto l’interessato contributo degli economisti ufficiali a una gestione di potere fondata sullo sfruttamento. Ogni termine assume l’aspetto della necessità, il monopolio è altrettanto necessario della libera concorrenza, per cui i difensori dell’uno e dell’altra, accanitamente in contrasto, finiscono per dimostrare l’inutilità della scienza economica e la sostanziale brutalità del potere che perpetua lo sfruttamento, accontentandosi, tramite i suoi giullari prezzolati, di darsi una patina superficiale di scientifico perbenismo.

Se la rivoluzione francese del 1789 determinò la liberazione dagli ostacoli feudali riguardo la produzione e il commercio, dette vita a una serie di conflitti che resero indispensabile l’emersione del monopolio, termine contrario della liberalizzazione. Il sistema capitalista viene costretto a una lotta costante che finisce per renderlo contraddittorio e logico nello stesso tempo. A proposito della proprietà, ecco le famose parole: «Se dovessi rispondere alla domanda seguente: Che cos’è la schiavitù? E se in una parola io rispondessi: è l’assassinio, il mio pensiero sarebbe subito compreso. Non avrei bisogno di un lungo discorso per dimostrare che togliere a un uomo il pensiero, la volontà, la personalità, è un potere di vita e di morte, per cui fare di un uomo uno schiavo, è assassinarlo. Per quale motivo dunque a quest’altra domanda: Che cos’è la proprietà? Non potrei rispondere allo stesso modo: è il furto! Senza avere la certezza di essere frainteso, per quanto questa seconda proposizione non sia altro che la prima trasformata». (Qu’est-ce que la Propriété? Ou Recherches sur le principe du Droit et du Gouvernement. Premier Mémoire, Paris 1840, p. 5).

Ogni “livello” corrisponde a un principio economico, ogni principio genera conseguenze di due tipi: positive e negative. A esempio, la divisione del lavoro determina l’aumento della produzione, lo sviluppo delle capacità professionali e forse la creatività, ma al contrario la stessa divisione del lavoro causa un regresso nelle capacità professionali e trasforma l’uomo in un automa. L’artigiano padrone della propria arte creativa si trasforma nell’operaio generico. La macchina determina una riduzione degli sforzi lavorativi umani, esprime l’intelligenza creatrice e il dominio che esercita sulle cose ma, nello stesso tempo, degrada il lavoratore trasformandolo in semplice manovratore, diminuisce per lunghi periodi le possibilità stesse di lavoro, aumenta la subordinazione del lavoratore alle forze che lo sfruttano.

Non bisogna dimenticare che la lotta di Proudhon è, almeno sul piano teorico, diretta contro quella specie di filosofia del “migliore dei mondi possibili” che fu il liberalismo francese dell’epoca di Frédéric Bastiat. Le suecritiche in questa direzione sono fortissime. Gli strali densi di una sottile ironia non si contano in tutto il libro. In effetti, specie nelle ultime pagine, si vede come il suo lavoro è diretto a provare che, in contrapposizione alle “armonie” di certi servi del potere, si può ricostruire un’analisi sociale che indichi con esattezza le disarmonie e le contraddizioni che costituiscono la vera essenza della società, disarmonie e contraddizioni che non possono essere superate con accorgimenti e con panacee, con riforme e con lotte “democratiche”, in quanto a ogni mossa, per quanto diretta dai migliori intendimenti, corrispondono effetti in eguale misura positivi e negativi. Quindi, a ogni tentativo di spingere in un certo senso la costruzione sociale si mettono in moto forze che hanno una sola possibilità reale: quella di inserire nel già molto complesso e contraddittorio tessuto economico e sociale altri elementi altrettanto contraddittori e subitamente pronti a generare ancora infiniti altri elementi non differentemente contraddittori. L’alternativa evidente resta la rivoluzione, cioè la radicale eliminazione del gioco delle parti, il salto qualitativo che fa cessare il computo aritmetico delle quantità, computo nientificato dall’algebra delle contraddizioni.

Scrive a questo riguardo Pierre Ansart: «La divisione della società in due classi antagoniste corrispondenti al Capitale e al Lavoro non cessa di costituire sia il quadro sociale delle antinomie come le loro conseguenze. In pratica, i princìpi economici, si sviluppano in una società in cui il principio generale è quello del furto e dello sfruttamento del lavoro, i quali incessantemente hanno come conseguenza il rafforzamento dell’antagonismo sociale. In ogni epoca del sistema economico viene confermata la distinzione della società in due classi antagoniste e lo sfruttamento sociale ed economico del proletariato. Socialmente, i meccanismi dell’economia costringono irrimediabilmente il proletariato in una situazione di subordinazione: la degradazione, l’abbrutimento, la sottomissione alle gerarchie strappano all’operaio la partecipazione che in epoche passate aveva nella produzione artigianale. Economicamente, l’estorsione operata sui salari dal furto capitalista impedisce radicalmente alla classe lavoratrice di consumare ciò che produce». (Sociologie de Proudhon, Paris 1967, pp. 43-44). Il punto finale dell’indagine proudhoniana non è quindi il tentativo di una soluzione, punto significativo per coloro che intendono vedere nel futuro la strutturata condizione di una prospettiva in corso di formazione oggi ma in aderenza a canoni precisi e precisi interessi. Ogni visione autoritaria è assente dal progetto di ricerca di Proudhon. Questo ha spinto molti studiosi – come lo stesso Ansart – anche favorevoli in linea di massima alla tesi di Proudhon, a chiedersi perché accanto alla costante analisi sulle contraddizioni non si trovi un’analisi o, almeno, qualche indicazione, riguardo la probabile evoluzione dell’economia capitalista. Leggendo in questo modo il testo di Proudhon si deve concludere che esso è parziale, manchevole, incapace di darci una chiave per comprendere il senso delle crisi del capitale. Se ogni parte del sistema è contraddittoria, se tutto il sistema nel suo insieme è sconvolto da un doppio movimento contraddittorio (positivo e negativo), che cosa cambia nel corso degli avvenimenti? Aumentando il numero delle contraddizioni, proliferando gli intrecci e gli imbrogli, non si ha altro risultato che quello di mettere al lavoro le teste vuote degli economisti e dei filosofi per dare una sistemazione più o meno logica a tanto materiale.

Gli schemi classici del marxismo devono qui essere messi da parte. Ma non bisogna dimenticare che Proudhon è materialista, sebbene il suo modo particolare di scrivere e la terminologia del tempo rendano questa scoperta non sempre agevole. Il suo materialismo emerge chiaramente quando parla del problema della miseria e ci dice che il progresso della miseria è e resta adeguato e parallelo al progresso della ricchezza. Egli non dice che l’impoverimento sarà crescente man mano che crescerà l’accumulazione del capitale, ma al contrario che si avrà un arricchimento “relativo” delle classi più povere e che la miseria resterà sempre come punto di riferimento relativo nei confronti del capitale.

Chi avrà la bontà di soffermarsi un attimo su questo pensiero comprenderà non solo la profondità dell’analisi di Proudhon, ma i motivi teorici che la differenziano – anche dal punto di vista formale – dall’analisi marxista.

Il povero resta povero finché vi sarà una differenza di classe, anche se non esisterà un impoverimento crescente commisurabile al tasso di accrescimento dell’accumulazione capitalista. E questa sua povertà sarà fenomeno non soltanto salariale, sarà fenomeno non soltanto aritmetico, ma ben più profondamente sarà fenomeno sociale nel senso più ampio del termine. Il persistere della contraddizione tra ricchezza e miseria svilupperà l’allargarsi delle contraddizioni nei diversi livelli. Il salario verrà sempre più nominalizzato mentre lo sfruttamento si scatenerà a livelli del tutto sconosciuti prima.

Per chi è a conoscenza delle moderne problematiche rivoluzionarie relative ai processi di liberazione e ai corrispettivi processi di sfruttamento, la profondità dell’intuizione di Proudhon è chiarissima. Il consumismo oggi ci insegna con grande evidenza che la miseria del lavoratore non deve necessariamente assumere l’aspetto tradizionale del passato, ma può presentarsi come “forma” relativa, come riappropriazione dei margini salariali concessi, attraverso un processo di inserimento in zone di consumo fasulle e artificiali. Non solo, lo stesso discorso deve potersi fare anche a livello di equilibri contraddittori mondiali tra zone sviluppate e zone non sviluppate. Gli scompensi tra miseria e ricchezza sono individuabili solo a condizione di chiarire il concetto di sviluppo “relativo”, sia in senso positivo che in senso negativo. Allo sviluppo relativo dei popoli sottosviluppati sono infatti molto interessati i paesi sviluppati, questo determina un notevole aumento nel consumo dei prodotti di questi ultimi e la contemporanea possibilità di ottenere a prezzi vantaggiosi (perché si sono attuate migliori condizioni di produzione) le materie prime che vengono prodotte dai primi. In altri termini, almeno ci pare, la pregiudiziale di un aumento costante della miseria in relazione all’aumento della ricchezza (accumulazione capitalista) non è un dato indispensabile per impostare il discorso rivoluzionario. E questa conclusione può anche venirci attraverso l’analisi fatta da Proudhon.

In una cosa Marx aveva ragione: lo schema dialettico è estraneo a Proudhon. La sua utilizzazione è spesso superficiale e quasi mai funzionale alla dimostrazione della vera realtà del suo pensiero. Il fatto non è, a nostro avviso, accidentale. La ricchezza del pensiero di Proudhon – a prescindere dall’uomo e dalle sue esperienze – è, nello stesso tempo, causa ed effetto della sua formulazione teorica, dello scopo analitico perseguito durante tutta la sua vita. Il campo indagato appare a Proudhon troppo ricco e troppo eterogeneo per poterlo racchiudere dentro la scatola di un meccanismo logico condizionante lo svolgimento stesso della realtà. Chi ha presente la Fenomenologia dello Spirito [1807] hegeliana si ricorderà di come la realtà venga costretta ad adeguarsi al ritmo del metodo logico, fino a essere snaturata, fino a trasformare l’alterna vicenda dell’uomo alla ricerca di se stesso in un itinerario romanzesco di gradevole lettura ma di scarsa validità per un’azione liberatoria. Proudhon ci appare quindi contraddittorio non solo come giudice di una situazione contraddittoria, ma anche come indagatore utilizzante un metodo contraddittorio, nella piena coscienza dei limiti del metodo stesso. La verità è che quel metodo gli serve come supporto per un ragionamento più ampio e non ha alcuna pretesa di servire per cose alle quali non può prestare aiuto alcuno. Al contrario, per Hegel, per Marx, il metodo dialettico non è un metodo, è la realtà nella sua essenza più intima. In Proudhon questa tesi, pur nella grande confusione di elementi, non è mai rintracciabile. La contraddizione regna sovrana, il metodo fornisce una strada, anche un poco pesante e tortuosa, ma sempre una strada. In altre situazioni, altri potranno utilizzare altre strade, altri metodi. Ma la realtà resta là, davanti al ricercatore, estranea al metodo, ricca delle proprie contraddizioni, incapace di prestare una logica perché priva di logica valida per tutti i tempi e per tutti i luoghi. La chiave interpretativa delle contraddizioni sarà individuata, di volta in volta, nella situazione storica, perché in quella prospettiva le singole “figure” avranno un certo grado contraddittorio, perché certe scelte (e non altre) sono state fatte e perché certe contraddizioni (e non altre) sono state messe in moto. In una nota poco conosciuta Proudhon scrive a questo proposito: «Rinnovo qui l’osservazione fatta su Hegel – nel Programme de Philosophie populaire – sull’esempio del quale avevo adottato l’idea che l’antinomia dovesse risolversi in un termine superiore, la sintesi, distinta dai due primi, la tesi e l’antitesi: errore di logica quanto di esperienza, dal quale mi sono oggi corretto. L’antinomia non si risolve; in ciò è il vizio fondamentale di tutta la filosofia hegeliana. I due termini di cui essa si compone si bilanciano, sia fra di loro, sia con altri termini antinomici; ciò conduce al risultato cercato. Una bilancia non è affatto una sintesi come l’intendeva Hegel e come io avevo supposto dopo di lui: fatta questa riserva, per puro interesse logico, mantengo tutto ciò che ho detto nelle mie Contraddizioni». (La giustizia nella rivoluzione e nella chiesa [1858], tr. it., Torino 1968, pp. 446-447).

Non vogliamo parlare della famosa polemica e del libello marxiano, tanto se ne è parlato con tutti i condimenti che le cucine marxiste hanno saputo preparare. Oggi, la critica marxiana del testo di Proudhon non ha molto valore per servire da guida, sia pure limitativa, alla lettura di Proudhon. Al contrario, il notissimo libro di Marx è indispensabile per servire da guida allo svolgimento del pensiero maturo di Marx, maturo almeno in senso filosofico se non economico. Si è ripetuto, con la Miseria della filosofia, lo stesso fenomeno de L’ideologia tedesca [1845-1846], in particolare della critica a Stirner. Scarsamente valida per comprendere Stirner oggi, quell’analisi è di grande importanza per comprendere Marx. Non è un caso, a nostro avviso, che i due testi che servirono a Marx per situare la propria posizione teorica nei confronti del materialismo storico siano due libelli contro due teorici anarchici. La cortina fumogena dei partiti marxisti non potrà mai nascondere del tutto i debiti e i crediti di queste operazioni.

Il fondo vero del problema è sempre lo stesso. Se il processo dialettico così com’è visto da Marx non è accidentale ma è precisamente diretto a costruire il sostegno teorico del “partito guida del proletariato”, della “dittatura del proletariato”, dello “stato proletario” e simili aberrazioni, l’utilizzazione chiaramente marginale in Proudhon del metodo dialettico è altrettanto precisamente diretta a dimostrare che la realtà è troppo ricca per qualsiasi metodo che non sia il “pluralismo sociologico” e che, pertanto, solo una corrispondente ricchezza di esperienze e di solidarietà, di collettività agenti in modo molteplice, di esseri sociali capaci di trasformarsi anche in forma contraddittoria ma di emergere dalla contraddittorietà proprio per il riconoscimento della validità delle esperienze, può validamente interpretarla senza che tutto ciò abbia nulla a che vedere con la costrizione mentale e fisica dell’uomo, sia pure con scopi rivoluzionari.

Volendo mettere da parte il confronto polemico, e in questo senso si possono leggere con profitto le Note di Proudhon alla sua copia della Miseria della filosofia, dove si riscontrerà la sorpresa e la calma con cui Proudhon lesse il libello di Marx, si deve ammettere che Proudhon e Marx seguono un ragionamento in un certo senso parallelo, almeno riguardo gli obiettivi della lotta. Denunciano l’individualismo nell’economia che causa la separazione tra produzione e società. Denunciano il fondamento repressivo delle dottrine idealiste, della confusione tra organismo e società, tra scienza e verità. Denunciano il ruolo di sostegno della religione a favore della repressione e dello sfruttamento. Eppure, nonostante tutto (e il discorso si potrebbe ancora una volta identificare in quello riguardante Stirner), i marxisti (a cominciare dallo stesso Marx) hanno sempre insistito nel considerare Proudhon come un teorico piccolo-borghese. La realtà non può smentirsi. Chi progetta la conquista del potere deve necessariamente darsi un programma ben preciso, delimitato, apparentemente logico (non ha importanza se sostanzialmente assurdo), deve dare, a coloro che intende utilizzare, sia come agenti attivi che come soggetti passivi della propria azione, l’impressione che tutto sia risolto e, non potendo ovviamente fare questa paradossale affermazione, deve utilizzare l’espediente di dire che tutto è risolvibile in quanto le eventuali cose non risolte trovano risoluzione nella logica stessa della realtà che, prima o poi, finisce per costringere alla razionalità anche le cose apparentemente contraddittorie. In questo modo agisce il processo oggettivante della chiesa cattolica, che impone il carisma della parola per garantire se stessa, i propri agenti, e i soggetti passivi che ricevono l’azione, contro eventuali critiche. Chi si confessa con un prete cattolico non s’interessa se il soggetto che riceve la confessione sia una “degna persona”, se moralmente sia all’altezza del compito affidatogli dai suoi superiori o se, al contrario, sia un volgare ladro o un assassino. Quello che conta è che vesta quell’abito, che abbia ricevuto quell’investitura, che pronunci quelle precise parole. Il mistero è grande garanzia di forza per il potere. Più le cose sono oscure, più è facile oggettivarle, più in questo modo vengono strappate alla corrosiva critica di coloro che si domandano: perché?

Non diversamente il metodo dialettico consente al partito autoritario di garantire una validità costante all’azione dei suoi agenti e una logica costante all’aspettativa delle masse. Non è importante che queste si dispongano criticamente verso la realtà, anzi ciò sarebbe un male notevole, quello che conta è che la visione della realtà sia esattamente quella fornita dall’organizzazione, tanto ci saranno sempre quei centri di potere che elaboreranno interpretazioni della realtà da fornire in pasto alle masse, come pure, garantendo la persistenza dello sfruttamento, ci saranno sempre le masse disposte ad accettare questa elaborazione come cosa “sacra” perché proveniente dall’autorità carismatica.

Uscendo da quest’atmosfera asfissiante, respirando l’aria movimentata e spesso tempestosa della realtà, si ha l’impressione di trovarsi nel caos e nell’impossibilità di comprendere qualcosa. La realtà, dapprima ordinata e sistematica, appare priva di significato. Quanto più agevole il dolce tepore del grembo materno, quanto più gradevole il mormorio delle parole del prete che ci assolve dei nostri peccati mettendoci nella condizione di ricominciare di nuovo a cuor leggero sicuri di trovare sempre nuova protezione e comprensione, quanto più sicuro il partito politico rivoluzionario che ci protegge e ci illumina, ci dice quello che è giusto e quello che è sbagliato, che è depositario delle chiavi del meccanismo intrinseco della realtà e come tale sa quando occorre scendere in piazza per farsi ammazzare e quando, invece, occorre andare a recitare la farsa elettorale. Fuori di tutto ciò: pericoli e confusione.

Un senso di smarrimento si prova leggendo Proudhon, specie per il lettore contemporaneo abituato alle “tranquillità” marxiste. Ancora una volta, più che per altri scrittori anarchici, la lettura di Proudhon è per uomini di buona volontà.


[Introduzione al Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della Miseria, tr. it., Catania 1975, pp. 7-15]

Parte quarta

Elemento eminentemente costruttivo, il problema della lotta contro Dio trova la sua giusta collocazione in Proudhon, contribuendo a chiarire quei passaggi della costruzione analitica delle contraddizioni che, altrimenti, sarebbero rimasti molto più oscuri di quello che sono.

In questa sede, naturalmente, la lettura dei passi suggeriti non deve essere fatta nel tentativo di interpretare quel colossale monumento che è il Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della miseria (da ora in avanti citato come Sistema), ma soltanto per apprendere una delle più serrate critiche all’esistenza di un ente supremo.

Se neghiamo l’esistenza del proprietario – esordisce concisamente Proudhon – neghiamo la conclusione ultima del processo delle contraddizioni, formuliamo i termini della società futura e, nello stesso momento, neghiamo il cominciamento del processo, quell’ipotesi di Dio che ad altro non ci serviva che a giustificare l’esistenza del proprietario.

L’idea collettiva, nella vastità della sua realizzazione, nella complessità delle forme che assume, non può mai essere il prodotto dell’attività di un solo uomo, per quanto intelligente e geniale esso sia. In essa si nasconde una ragione che non è facile identificare in questa corrente filosofica o in quell’analisi economica.

Esaminando il contenuto concreto di questa idea collettiva – dice Proudhon – spesso siamo convinti di trovarci davanti a qualcosa di impossibile, a un mito. Ma è proprio là che si individua l’inizio di un rapporto di contrapposizione che sviluppa forme reali.

Per comprendere l’idea collettiva si ha bisogno dell’ipotesi di Dio, perché il popolo si trova in una situazione obiettiva di sfruttamento e l’uscita mitica da questo sfruttamento gli fa produrre un senso di religiosità da cui non si può prescindere. Se vogliamo comprendere la storia, nell’alternativo svolgersi delle sue vicende, dobbiamo partire dalla creazione di Dio a opera dell’uomo. Senza però considerare ciò come un fatto oggettivo accaduto in un certo momento a opera di un singolo o di un gruppo preciso ma, al contrario, inserendo ciò nell’immane processo di sfruttamento cui l’uomo è stato da sempre sottoposto.

«Innanzi tutto, ho bisogno dell’ipotesi di Dio per fondare l’autorità della scienza sociale. Quando l’astronomo, per spiegare il sistema del mondo, appoggiandosi esclusivamente all’apparenza, suppone, come fa il volgo, che il cielo è a volta, la terra piana, il sole grosso come una palla che descrive una curva in aria dall’oriente all’occidente, immagina infallibili i sensi salvo a rettificare più tardi, come procede nell’osservazione, l’asserto donde fu obbligato a prendere le mosse. In realtà la filosofia astronomica non poteva ammettere a priori che i sensi ci ingannano e che noi non vediamo quel che vediamo; cosa diverrebbe allora la certezza dell’astronomia? Ma, potendo in certi casi ciò che i sensi inferiscono modificarsi e completarsi da sé, l’autorità dei sensi rimane incrollabile e l’astronomia è possibile.

«Del pari, la filosofia sociale non ammette a priori che l’umanità nei suoi atti non possa ingannare né ingannarsi? Senza ciò cosa diverrebbe l’autorità del genere umano, cioè a dire l’autorità della ragione, che è poi tutt’uno con la sovranità del popolo? Ma essa pensa che i giudizi umani, veri sempre in ciò che hanno d’attuale e d’immediato, possono completarsi e rischiararsi successivamente gli uni con gli altri a misura, che s’acquistino nuove idee, in guisa da metter sempre d’accordo la ragione generale con la speculazione individuale ed estendere indefinitamente la sfera della certezza, il che è sempre affermare l’autorità dei giudizi umani». (Sistema, p. 32). Tutto ciò rifiuta alla non-ragione la stessa possibilità di sopravvivenza. Trasformando temi, episodi e spunti tratti dalla realtà, l’attualità dell’avvenimento narrato diventa di secondaria importanza, esiste e affiora un senso di perennità, un senso di preoccupazione profonda, insondabile attraverso le normali preoccupazioni di tutti i giorni che si traducono nel grande serbatoio di alimentazione del consenso e nello specifico della quotidianità. Nel regno della morte l’uomo e l’interpretazione dell’esistenza si convertono reciprocamente.

«Ora – continua Proudhon – il primo giudizio della ragione, il preambolo d’ogni costituzione politica che cerchi una sanzione e un principio, è questo: v’è un Dio; il che vuol dire: la società è governata con senno, previdenza, intelligenza. Questo giudizio che esclude l’azzardo è pur quello che stabilisce la possibilità di una scienza sociale; ogni studio storico e positivo dei fatti sociali, intrapreso con uno scopo di miglioramento e di progresso, deve supporre col popolo l’esistenza di Dio, salvo a rendere conto più tardi di questo giudizio. Così la storia della società non è altro, a veder nostro, se non una lunga determinazione dell’idea di Dio, una rivelazione progressiva del destino dell’uomo. E mentre l’antica sapienza faceva dipendere tutto da una nozione arbitraria e fantastica della divinità, nozione che opprimeva la ragione e la coscienza e ogni moto arrestava col terrore d’un padrone invisibile; la nuova filosofia, invertendo il metodo, spezzando così l’autorità di Dio come quella dell’uomo, e non accettando altro giogo che quello del fatto e dell’evidenza, fa convergere tutto verso l’ipotesi teologica, segnata quale ultimo dei suoi problemi». (Ib., p. 33).

L’ipotesi di Dio non è in Proudhon un punto fermo che coinciderebbe con un gretto contenuto fideistico, è la risoluzione del problema del cominciamento nel senso hegeliano. E questo cominciamento è visto nella concretezza del mito ritrovato fuori da un qualsiasi sistema filosofico, in una sua genuinità popolare. La mitologia è una continua creazione vivente. Il popolo che soffre crea e distrugge continuamente i suoi riti. Ieri era l’onnipotente despota che trovava il proprio riflesso e la propria giustificazione in un Dio della vendetta, ancora più abietto e despota, oggi è il capo democratico del partito progressista che guida le masse alla loro pseudo liberazione e che trova il proprio riflesso e la propria giustificazione in un Dio dell’amore. Quanta gente sfrutta e utilizza il senso intrinseco al popolo della mitologia.

Se l’uomo si pone nel processo produttivo e nella sua posizione di classe con quella chiarezza che corrisponde alla coscienza della sua classe di appartenenza, il conflitto emerge in forma non mitologica (nella prassi di sfruttamento) per la classe al potere, che appunto per continuare a fondare davanti a se stessa la giustificazione del proprio dominio non ha bisogno di nulla che si riporti al mito, ma solo di un certo andamento del saggio di profitto, mentre lo stesso conflitto, riguardo la classe che subisce lo sfruttamento, deve emergere in forma mitologica, altrimenti sarebbe sempre più problematica l’estrazione del plusvalore. Giustamente il processo mitologico non ha a che fare con oggetti, come diceva il vecchio Schelling, ma con potenze creatrici, e queste potenze sono quelle che fondano il consenso, l’adesione al carisma, l’adorazione del capo: riflesso di un capo celeste.

Ma torniamo a Proudhon: «L’ateismo umanitario è dunque l’ultimo termine dell’affrancamento morale e intellettuale dell’uomo e per conseguenza l’ultima fase della filosofia, che serve di passaggio alla ricostruzione o verificazione scientifica di tutti i dogmi abbattuti.

«Mi occorre l’ipotesi di Dio, non solo, come ho detto, per dare un significato alla storia, ma ancora per legittimare le riforme che in nome della scienza devono operarsi nello Stato». (Ib., p. 34). Così, una spontaneità abbandonata viene ritrovata, lo spettatore ritorna uomo ma sotto l’egida divina. Più esattamente la sua esistenza viene definita con il concetto di “persona”. Trovandosi coinvolta nel generale risveglio delle parti, la “persona” diventa fatto comunitario, occasione di scambio, preparazione del terreno economico. Il fittizio sradica la realtà fin dalle sue basi.

«Sia che noi – dice Proudhon – consideriamo la Divinità come estranea alla società, di cui modera dall’alto i movimenti (opinione affatto gratuita e probabilmente illusoria); sia che la giudichiamo immanente nella società e identica alla ragione impersonale e inconscia la quale, come un istinto fa camminare la civiltà (quantunque l’impersonalità e l’ignoranza di sé ripugnino all’idea d’intelligenza); sia infine che tutto quanto accade nella società risulti dal rapporto dei suoi elementi (sistema il cui merito consiste tutto nel mutare un attivo in passivo, nel fare necessaria l’intelligenza, o, ciò che torna lo stesso, prendere la legge per la causa); segue sempre che apparendoci necessariamente le manifestazioni dell’attività sociale o come indizi della volontà dell’Essere Supremo, ovvero come una specie di linguaggio tipico della ragione generale e impersonale, o finalmente come segnali della necessità, codeste manifestazioni avranno per noi un’autorità assoluta. Essendo la loro serie legata, tanto nel tempo che nello spirito, i fatti compiuti determinano e legittimano i fatti da compiere, la scienza e il destino s’accordano, in quanto tutto ciò che accade procede dalla ragione e reciprocamente, siccome la ragione giudica solo mercé l’esperienza di quanto accade, segue che la scienza ha diritto a partecipare al governo e quel che stabilisce la sua competenza come consiglio, giustifica il suo intervento come sovrano.

«La scienza, espressa, riconosciuta e accolta dal suffragio universale come divina, è la regina del mondo. Quindi, grazie all’ipotesi di Dio, è perentoriamente e irrevocabilmente messa da parte qualsiasi opposizione stazionaria o retrograda, qualsiasi rifiuto opposto dalla teologia, dalla tradizione e dall’egoismo». (Ibidem).

Proudhon, come aveva fatto Ludwig Feuerbach e come farà in seguito Emile Durkheim, propone una spiegazione sociologica della religione, una forma di divinizzazione che la società realizza della sua stessa condizione d’essere. Ma egli procede oltre il tentativo di Feuerbach che si era concluso con un semplice antropomorfismo. «La religione riposa sulla distinzione essenziale dell’uomo dalla bestia; le bestie non hanno religione. L’essere dell’uomo in ciò che lo distingue dalla bestia è non solo il fondamento, ma anche l’oggetto della religione». (L’essenza del cristianesimo [1846], tr. it., Milano 1994, p. 24). Per Proudhon niente è più dannoso per la società di indirizzare l’umanità verso i suoi più alti destini facendole prendere il posto di Dio.

È, infine, il rapporto natura-uomo che ha bisogno dell’ipotesi mitologica di Dio. Per Proudhon l’identità delle leggi della natura e della ragione è indispensabile per comprendere l’attività umana.

Bisogna essere molto chiari sull’utilizzazione che Proudhon fa qui del concetto di Dio. Dio non è il creatore, ma il concetto di Dio che il popolo produce interiormente alla propria sofferenza è un vero e proprio concetto creatore e si risolve primariamente nell’attività lavorativa che il popolo realizza. È proprio nel lavoro che si raggiunge il massimo dell’estraniazione, dell’alienazione, della sofferenza, dell’assenza di possesso di identità. «Mi occorre l’ipotesi di Dio per mostrare il legame che unisce la civiltà alla natura.

«Difatti, questa ipotesi meravigliosa, in forza della quale l’uomo si assimila all’assoluto, presumendo l’identità delle leggi della natura e delle leggi della ragione, ci permette di vedere nell’industria umana il complemento dell’atto creativo, rende solidale l’uomo e il globo da lui abitato, e nei lavori che fa per trarre profitto dal campo assegnatoci dalla Provvidenza e che diviene così in parte opera nostra, ci fa concepire il principio, e la fine di tutte le cose. Se dunque l’umanità non è Dio, essa però continua Dio o, se si preferisce un altro modo d’esprimersi, ciò che l’umanità esegue oggi con riflessione è la stessa operazione ch’essa cominciò istintivamente e che la natura sembra compiere per necessità. In ogni caso, e qualunque opinione si preferisca, una cosa rimane certa, l’unità d’azione e di legge. Esseri intelligenti, attori di una commedia diretta con intelligenza, possiamo difficilmente trarre da noi illazioni che si riferiscano all’universo e all’eterno e, quando fossimo giunti a organizzare definitivamente il lavoro tra noi, dire con orgoglio: la creazione è spiegata. Si trova così determinato il campo d’esplorazione della filosofia; la tradizione è il punto di partenza d’ogni speculazione sull’avvenire; l’utopia è messa in disparte per sempre; lo studio del me, trasferito dalla coscienza individuale alle manifestazioni della volontà sociale, acquista il carattere di obiettività che dianzi gli mancava e divenendo psicologia la storia, la teologia antropologia e le scienze naturali metafisica, la teorica della ragione si deduce non più dalla vacuità dell’intelletto, ma dalle forme innumerevoli d’una natura nella quale può largamente e direttamente esercitarsi l’osservazione». (Sistema, p. 34). Tutto concorre a questo scopo ultimo, dagli accorgimenti tecnici alle decisioni che vengono prese via via durante il percorso, dalla scelta dell’abbandono delle figurazioni soggettive alla decisione di accentuare le espressioni linguistiche in senso comunicativo. Avendo paura della spontaneità si resta chiusi all’interno dell’involucro che ci protegge, come accadeva una volta col grembo materno, e da quelle lontane terre analizziamo, dissociamo, ci permettiamo perfino di estendere la nostra perfettibile chiusura al mondo esterno, ai problemi del mondo sociale.

«A me – afferma Proudhon – occorre l’ipotesi di Dio per fare testimonianza del mio buon volere verso una moltitudine di sette, alle cui opinioni non partecipo, mentre ne temo i rancori: – deisti; so di un tale che per la causa di Dio sarebbe pronto a trar fuori la spada e a far lavorare la ghigliottina, come Robespierre, sino alla distruzione dell’ultimo ateo, non riflettendo che cotesto ateo sarebbe lui; – mistici, il cui partito, composto in gran parte di studenti e di donne, sotto la bandiera dei signori Lamennais, Quinet, Leroux e altri, ha preso per motto: Tale il padrone tale il servo; tale è Dio tale è il popolo; e per regolare il salario d’un operaio comincia dal restaurare la religione; – spiritualisti, i quali, se io non tenessi conto dei diritti dello spirito, m’accuserebbero di fondare il culto della materia, contro il quale io protesto con tutte le forze dell’anima mia; – sensisti e materialisti, per i quali il dogma divino è il simbolo della coazione e il principio dell’assoggettamento delle passioni, mentre senza queste, essi dicono, non c’è per l’uomo né piacere, né virtù, né genio; – ecclettici e scettici, librai-editori di tutte le vecchie filosofie, non filosofi essi, ma coalizzati in vasta confraternita con approvazione e privilegio, contro chiunque pensi, creda o affermi senza loro licenza; – conservatori infine, retrogradi, egoisti, e ipocriti che predicano l’amor di Dio per odio del prossimo, accusano eternamente la libertà dei malanni del mondo e calunniano la ragione, consci come sono della propria imbecillità». (Ib., p. 35).

Per Proudhon l’ateismo e l’umanismo sono veri soltanto nella loro parte critica e negativa in quanto Dio è un essere assoluto e l’umanità un essere perfettibile. Sono due polarità antinomiche che si contrastano continuamente. Per essere uomini bisogna sbarazzarsi dell’ipotesi di Dio. Questa ipotesi infatti non è altro che la giustificazione di ogni struttura gerarchica della società. Nel corso del suo procedere verso un ideale perfezionamento l’umanità, afferma ancora Proudhon, si perfeziona e demolisce a poco a poco l’ipotesi di Dio.

«È possibile che si muova accusa ad un’ipotesi che, lungi dal bestemmiare i venerati fantasmi della fede, aspira soltanto a metterli in piena luce; che invece di rigettare i dogmi tradizionali e i pregiudizi della coscienza, chiede soltanto di verificarli; che pur rifuggendo da idee esclusive, prende per assioma l’infallibilità della ragione, e grazie a questo fecondo principio, non verrà mai ad alcuna conclusione contraria alle sette antagoniste? È possibile che i conservatori religiosi e politici mi rimproverino di turbare l’ordine della società, quando io muovo dall’ipotesi d’una intelligenza sovrana, forte d’ogni pensiero d’ordine; che i democratici semi-cristiani mi maledicano come nemico di Dio, e perciò traditore verso la repubblica, quando io ricerco il senso e il contenuto dell’idea di Dio; e che i mercanti universitari mi taccino d’empietà perché io dimostro non avere alcun valore i loro prodotti filosofici, quando io sostengo che la filosofia si deve studiare nel suo oggetto, cioè nelle manifestazioni della società e della natura?». (Ibidem). Proudhon riconosce la limitazione della creatività nella religiosità dell’uomo, limitazione che intende ricercare e che trova il migliore risultato nell’opera sua più convincente a questo soggetto: Le contraddizioni economiche. È proprio qui, in questo immane groviglio di supposizioni e di schemi, di analogie e di analisi che il problema della necessità di partire dall’ipotesi di Dio resta meglio provata. Se la realtà è contraddittoria, ciò ha una sola possibile spiegazione, l’estraniazione dell’uomo in una società che vuole, di volta in volta, due cose contrastanti e contemporaneamente necessarie. Ne consegue il caos delle contraddizioni economiche che comincia, appunto, dall’ineliminabile ipotesi di Dio che si rispecchia nell’ineliminabile necessità dello sfruttamento dell’uomo nell’ordine di cose attuale.

Come vedremo meglio più avanti, la posizione di Proudhon è interessante per tre motivi. Primo, perché non comincia con una tirata negatrice che avrebbe reso necessario un espediente metafisico per risolvere il gravoso problema del cominciamento. Secondo, perché indica Dio come prodotto dell’uomo, ma non come prodotto della riflessione adulta dell’uomo, al contrario, come prodotto automatico della sofferenza umana. Terzo, perché colloca questa sofferenza a un livello contraddittorio sia – da un lato – con la stessa idea carismatica di capo, sia – dall’altro lato – con la produttività stessa concreta che deve emergere dal lavoro, produttività di oggetti utilizzabili per la soddisfazione di bisogni e non di teorie da cui trarre fantasmi.

Certo, partire da Dio per un ragionamento concreto è un poco pericoloso. E Proudhon si chiede: «È colpa mia se la fede nella Divinità è diventata un’opinione sospetta? Se la semplice congettura d’un Essere supremo è notata come indizio d’uno spirito debole e se di tutte le utopie filosofiche è la sola che il mondo non tollera più? È colpa mia se l’ipocrisia e la melensaggine si celano ovunque sotto codesta santa etichetta? Che un dottore supponga nell’universo una forza sconosciuta che attrae i soli e gli atomi e fa muovere tutta la macchina; per lui codesta supposizione, interamente gratuita, è affatto naturale. È accolta, incoraggiata: esempio, l’attrazione, ipotesi che non si riuscirà mai a verificare e che pure copre di gloria il suo inventore. Ma quando, per spiegare il corso delle faccende umane, suppongo, con tutta la riserva immaginabile, l’intervento d’un Dio, sono sicuro di mettere sossopra la gravità scientifica e di offendere le orecchie severe: tanto la nostra pietà ha meravigliosamente screditato la Provvidenza, tante giunterie opera col mezzo di questo dogma o di questa finzione il ciarlatanesimo d’ogni foggia». (Ib., p. 19). Costringere il meccanismo storico della Provvidenza a uscire fuori, pur nella limitatezza di queste operazioni teoriche che ovviamente sotto l’aspetto trasformativo devono essere viste come occasioni non come realizzazioni, costringerlo al vaglio della spontaneità o, come sarebbe meglio dire, alla rivelazione dei propri limiti e delle proprie paure anche davanti a condizioni estreme che solo una mentalità infantile può considerare pericolose, costituisce l’azione teorica vera e propria, il testo che si costituisce e viene messo a punto, al di là del luogo delle parole scritte, delle prove, dell’idea dell’autore e forse anche della stessa intenzione dei lettori. La teoria è sempre un movimento che produce qualcosa in più della semplice letteralità.

«Ho veduto – scrive Proudhon – i deisti dei miei tempi e la bestemmia è salita alle mie labbra; ho considerato la fede del popolo, di quel popolo che Brydaine chiamava il migliore amico di Dio e la negazione che stava per sfuggirmi mi ha fatto fremere. Tormentato da contrari sentimenti, ho fatto appello alla ragione; e la ragione per l’appunto, fra tante opposizioni dogmatiche mi impone ora l’ipotesi. Il dogmatismo a priori, applicato a Dio, è rimasto sterile; chi sa dove, a sua volta ci condurrà l’ipotesi?

«Dirò dunque in qual modo, studiando nel silenzio del mio cuore e lungi da qualsiasi rispetto umano, il mistero delle rivoluzioni sociali, Dio, il grande ignoto, sia divenuto per me un’ipotesi, cioè un necessario strumento dialettico.

«Se seguo, attraverso le sue trasformazioni successive l’idea di Dio, trovo che codesta idea è innanzi tutto sociale; intendo dire che è piuttosto un atto di fede del pensiero collettivo, che un concetto individuale. Ora, come e in quale occasione un tale atto di fede si produce? Importa determinarlo». (Ibidem).

Compito dell’uomo intelligente è quello di cacciare da sé l’idea di Dio, e di fare ciò in continuazione in quanto non c’è modo di farlo una volta per tutte. Mille cose che ci circondano, tutte governate dall’idea di autorità, ci riportano a questa idea nefanda di cui bisogna fare a tutti i costi a meno. Dio, per come ce lo immaginiamo, è qualcosa di ostile alla nostra natura per cui non ricaviamo nessun beneficio dalla sua autorità, anzi è proprio da quest’ultima che emana, per trasferimento, il maleficio dell’autorità terrena.

E qui si pone la distinzione di Proudhon tra collettività e produzione dell’idea collettiva da un lato, e uomo singolo e azione del singolo dall’altro. Impiegando gli schemi classici della dialettica marxista, in questo caso, si possono fare notevoli errori. La classe sfuma nell’incomprensibilità dei limiti di una produzione di idee che resta legata alla distribuzione dei mezzi di produzione ma che finisce per condizionarli e condizionare la distribuzione stessa, in un gioco alterno che non è facile seguire.

Continua Proudhon: «Dal punto di vista morale e intellettuale, la società, ovvero l’uomo collettivo, si distingue essenzialmente dall’individuo per la spontaneità d’azione, altrimenti detta istinto. Mentre l’individuo non obbedisce, o s’immagina di non obbedire, se non a motivi di cui ha piena conoscenza e ai quali è padrone di ricusare o accordare la propria adesione; mentre, in una parola, si giudica libero e tanto più libero quanto si stima meglio atto a ragionare e, più istruito, la società è soggetta a moti in cui, a primo aspetto, non si scorge, né deliberazione né progetto, ma poi, via via, sembrano diretti da una mente superiore, che esiste fuori della società e spinge questa con una forza irresistibile verso uno scopo ignoto. La fondazione delle monarchie e delle repubbliche, la distinzione delle caste, le istituzioni giudiziarie, ecc., sono altrettante manifestazioni di questa spontaneità sociale, della quale è più facile notare gli effetti, che indicare il principio o rendersi ragione. Tutti gli sforzi, anche di coloro che dietro le orme di Bossuet, Vico, Herder, Hegel si sono applicati alla filosofia della storia, hanno mirato sinora ad accertare la presenza del destino provvidenziale che governa tutti i movimenti dell’uomo. Ed io osservo a questo riguardo, che la società non manca mai, prima di agire, d’evocare il suo genio; come se volesse farsi ordinare dall’alto quanto già la sua spontaneità ha risolto. Le sorti, gli oracoli, i sacrifizi, le acclamazioni popolari, le pubbliche preci sono la forma più consueta di codeste spontanee deliberazioni della società». (Ibidem).

Il movimento interno alla realtà è qui individuato da Proudhon come fattore trainante della storia. Noi leggiamo quello che è accaduto secondo i suggerimenti e i condizionamenti che ci vengono suggeriti da questo movimento e nel far ciò, nel leggere la storia, agiamo qualche volta di conseguenza e qualche altra volta in senso contrario, contribuendo a sviluppare quel movimento o a contrastarlo. Ma niente è tagliato fuori dal tutto. Una vita è, per quanto chiusa nella normalità e in se stessa come rinuncia, qualcosa di troppo pieno per restare docilmente attraccata alla riva. Ha troppa esuberanza, troppo desiderio di andare oltre, per lasciarsi codificare completamente. Per cui determina delle riorganizzazioni, una specie di rifluidificazione della realtà che si va accumulando di fronte a lei. Ciò ha influenza considerevole sugli assestamenti tettonici dell’esistenza e sulle stesse procedure codificate. Il desiderio della prospettiva da modificare, il fascino stesso dell’ignoto ci fa accettare quello che portiamo nel cuore contro tutte le convenzioni e tutti i protocolli.

Proudhon si riferisce all’anima del mondo, allo spirito del tempo hegeliano, e quindi ribalta il discorso stantio che parte dalle convenzioni e dalle elaborazioni procedurali che pure esistono e che fondano una parte considerevole del mondo in cui viviamo, pur avendo una capacità portante queste convenzioni valgono solo nell’àmbito dell’universo procedurale, non sono la scienza a cui aspira il metodo originale che stiamo osservando all’opera. Basandosi su quelle tesi che tendono a fissare una norma, fosse pure il necessario “vai”, cioè un modo di essere contro la regola realizzato in base a una regola, si uccidono le possibili alternative accettando una modalità priva di sbocchi. La capacità portante di cui sopra trasferisce la necessità come assenza di regole e presuppone un fondamento di verità nella convenzione stessa per cui, rifiutandola in quanto affermazione pretestuosa della verità, si può accedere a questo fondamento senza lasciarsi catturare né dal rifiuto né dall’accettazione. Arthur Schopenhauer avvia quasi nello stesso periodo considerazioni altrettanto interessanti. La lezione di Hegel resta sullo sfondo. «Avendo la storia come suo specifico oggetto sempre soltanto ciò che è particolare, il fatto individuale, e, considerando questo come ciò che esclusivamente è reale, essa è proprio il contrario e l’opposto della filosofia, la quale considera le cose dal punto di vista generale e ha espressamente come oggetto il generale, che permane identico in ogni particolare; perciò in questo essa vede sempre soltanto quello e riconosce come inessenziale il mutamento della sua fenomenica manifestazione: generalium amator philosophus. Mentre la storia ci insegna che in ogni tempo avviene qualcosa di diverso, la filosofia si sforza di innalzarci alla concezione che in ogni tempo fu, è e sarà sempre la stessa cosa. In verità l’essenza della vita umana, come della natura in ogni sua manifestazione, è interamente presente in ogni momento, e ha bisogno quindi, per essere conosciuta esaurientemente, solo dalla profondità della comprensione. La storia però spera di sostituire la profondità con la lunghezza e la larghezza: per lei ciascun momento è solo un frammento, che deve essere completato con il passato, la cui lunghezza però è infinita ed a cui poi si aggiunge un infinito futuro. Su ciò si fonda il contrasto tra le teste filosofiche e le storiche: quelle vogliono spingersi in profondità; queste vogliono raccontare sino alla fine. La storia mostra in ogni pagina sempre la stessa cosa, sotto diverse forme: ma chi non la riconosce in una o in poche, difficilmente ne giungerà alla conoscenza anche percorrendone tutte le forme. I capitoli della storia dei popoli sono in fondo diversi solo per i nomi e per le date: il contenuto propriamente essenziale è dovunque lo stesso». (Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 38). Le tristi considerazioni di Schopenhauer sono di grande importanza. Non è mai abbastanza riflettere su di esse. Il sogno di una distanza dagli accadimenti sembra allontanarsi sempre di più. I tempi che si profilano all’orizzonte si fanno se possibili peggiori di quelli che abbiamo vissuto finora. Ma, andiamo oltre.

Ecco come si sviluppa il lavoro di Proudhon: «Dio appare dunque all’uomo come un me, come un’essenza pura e permanente, che si pone dinanzi a lui come un monarca dinanzi al suo servo e che si afferma, ora per la bocca dei poeti, dei legislatori, degli indovini, musa, nomos, numero; ora con l’acclamazione popolare: Vox populi, vox Dei. Ciò può servire anche a spiegare come vi siano oracoli veri e oracoli falsi; perché gli individui isolati sin dalla nascita non giungono da soli all’idea di Dio, mentre la ricevono avidamente non appena è ad essi presentata dall’anima collettiva; in che modo infine le razze stazionarie, come i Cinesi, finiscano per smarrirlo. Primieramente, in quanto agli oracoli, è chiaro che tutta la loro certezza viene dalla coscienza universale che li ispira; e in quanto all’idea di Dio, si comprende facilmente perché l’isolamento e lo statu quo gli sono ugualmente rovinosi. Da una parte la mancanza di comunicazione tiene l’anima assorta nell’egoismo animale; dall’altra, l’assenza del moto, cangiando poco a poco la vita sociale in routine e meccanismo, elimina alla fine l’idea di volontà e di provvidenza. Cosa strana! la religione, che cresce a causa del progresso, perisce anche per l’immobilità.

«Notiamo per soprappiù che, riportando alla coscienza, vaga e per così dire obiettivata, d’una ragione universale, la prima rivelazione della divinità, noi non avventuriamo alcun giudizio preventivo sulla realtà o non-realtà di Dio. Ammettiamo difatti che Dio non sia altra cosa che l’istinto collettivo o la ragione universale: resta a sapere ciò che codesta ragione è in se stessa. Dacché la ragione lavora in una sfera a parte e come una realtà distinta dalla ragione universale non è accolta nella ragione individuale o, in altri termini, la conoscenza delle leggi sociali, o le teorie delle idee collettive, quantunque dedotta dai concetti fondamentali della ragione pura, è tuttavia empirica e non sarebbe stata mai scoperta a priori, per via d’induzione o di sintesi. Donde segue che la ragione universale con cui riferiamo codeste leggi come opera sua; la ragione universale, che esiste, ragiona, lavora in una sfera a parte e come una realtà distinta dalla ragione pura, in guisa che il sistema del mondo quantunque creato secondo le leggi delle matematiche, è una realtà distinta dalle matematiche, dalla quale non si sarebbe potuta dedurre l’esistenza delle sole matematiche, segue, concludo, che la ragione universale è precisamente nel linguaggio moderno, ciò che gli antichi chiamano Dio. La parola è mutata; che sappiamo noi della cosa?». (Sistema, pp. 20-21).

Kant aveva riconfermato e sanzionato da una parte la funzione della ragione come libera critica da parte di liberi cittadini che possono formulare i loro dubbi, mentre dall’altra aveva ridimensionato la funzione della ragione onnicomprensiva affidando all’intelletto il procedimento discorsivo collegato con l’esperienza reale. Per Proudhon si tratta della ragione collettiva, che assorbe in se stessa una parte delle condizioni collettive dell’universalità hegeliana (letture di Hegel non proprio approfondite in questo senso), ma della ragione nel senso kantiano resta una sorta di accondiscendenza nei riguardi del procedimento discorsivo razionale di carattere astratto. Non è possibile sapere fino a che punto Proudhon si sia reso conto che in questo si poteva nascondere una tendenza totalitaria, e quanto il suo metodo, una volta applicato, fosse lontano dalla vacua astrattezza di tanti filosofi hegeliani dell’epoca. Le considerazioni di Proudhon produrranno orientamenti diversi nell’indagine filosofica sul compito della ragione, portando molti militanti rivoluzionari a una coscienza diversa del proprio compito, e ciò sarà verissimo almeno fino alla Comune di Parigi del 1871. La rottura sarà radicale solo qualche anno dopo, quando la teoria assumerà altre vesti, non meno funzionali al potere, oppure assumerà gli aspetti critici dell’irrazionalismo. Ma questo costituisce altro problema.

«Consideriamo le evoluzioni dell’idea divina – insiste Proudhon. «Una volta affermato con un primo giudizio mistico l’Essere supremo, l’uomo generalizza immediatamente questo tema con un altro misticismo – l’analogia. Dio non è, per dire così, che un punto; a momenti riempirà il mondo.

«In quel modo che sentendo il proprio me sociale, l’uomo aveva salutato il suo Autore; così scoprendo indizi di consiglio e d’intenzione negli animali, nelle piante, nelle fonti, nelle meteore e in tutto l’universo, egli attribuisce ad ogni oggetto particolare e poscia al tutto, un’anima, uno spirito o genio che vi presiede: svolgendo questa induzione deificatrice dalla più elevata sommità della natura, che è la società, alle più umili esistenze, alle cose inanimate e inorganiche. Dal suo me collettivo, preso come polo superiore della creazione, sino all’ultimo atomo di materia, l’uomo distende dunque l’idea di Dio, cioè a dire l’idea di personalità e d’intelligenza, come il Genesi ci racconta che Dio stesso distese il cielo, cioè a dire creò lo spazio e il tempo, nei quali tutte le cose si comprendono». (Ib., p. 22). Stabiliscono queste riflessioni l’ “uno” immutabile come iniziatore della provocazione, l’altro come mezzo linguistico, come strumento, la nuova collocazione dello sbalordimento spettacolare nel territorio incerto della riflessione teorica. Sia l’uomo che la sua capacità di interpretazione, pur restando elementi specifici della realtà che tutti ci ospita e dei suoi problemi comunicativi, vengono suggestionati dalla linea diretta dello spettacolo dominante dell’ “uno”, dalla sua integralità, dalla sua totale appartenenza a una realtà che non ammette modificazione, che si è delineata una volta per tutte ma non è ancora conosciuta nella sua interezza, non soltanto non è ancora espressa.

Ancora Proudhon: «Ond’è che senza un Dio, sovrano fabbro, non esisterebbero l’universo né l’uomo; questo è l’atto di fede sociale. Ma anche senza l’uomo Dio non sarebbe pensato – facciamo addirittura questo passo – Dio non sarebbe nulla. Se l’umanità ha bisogno d’un autore, Dio, gli dèi, hanno pur essi bisogno altrettanto di un rivelatore; la teogonia, le storie del cielo, dell’inferno e dei loro abitanti, sogni del pensiero umano, sono la controparte dell’universo, che da certi filosofi fu detta il sogno di Dio. E che magnificenza in questa creazione teologica, opera della società! La creazione del demiurgo fu annientata, colui che noi chiamiamo l’Onnipotente fu vinto e, per secoli, l’immaginativa incantata dei mortali fu stornata dallo spettacolo della natura a causa della contemplazione delle meraviglie dell’Olimpo.

«Scendiamo da cotesta regione fantastica, la ragione spietata batte all’uscio e bisogna rispondere alle sue gravi questioni». (Ibidem).

Tornando indietro, proprio alle origini del nostro problema, dobbiamo adesso rifarci a una serie di considerazioni capace di costituire un fondamento al concetto di costrizione. Perché mai l’uomo desidera le proprie catene al punto da immaginarsi Dio come ente supremo e dominatore? Perché ha tanto bisogno di una guida? La perfezione della conoscenza sensibile non gli è mai bastata. La poesia, in particolare, ha sempre spinto a guardare oltre l’immediata comprensione del mondo, e questo bisogno è diventato necessario a prescindere da ogni dimostrazione logica. Il bisogno di protezione contro l’ignoto e i pericoli del tutto si è andato sedimentando nell’uomo imponendosi alla fine come universale verità, come risposta alle richieste della volontà di tutti. Secondo Aristotele la poesia è filosofica e più elevata della storia perché esprime l’universale mentre la storia esprime il particolare. Ed è proprio questo universale che rispecchia quel bisogno atavico che ha portato all’invenzione di Dio, alla sua creazione. «Si ha l’universale, continua Aristotele, quando a un individuo di una certa indole accade di dire o di fare certe cose in base alla verosimiglianza e alla necessità, ed è questo a cui mira la poesia che dà nome al personaggio proprio in base a tale criterio». (Poetica [367-347 a. C.], 9, 145b). Questa necessità è quella del fascino particolare della poesia che soggioga gli uomini e non li vince invece con la forza della ragione, che è comunicazione sempre di violenza. In questo senso Friedrich Wilhelm Joseph Schelling: «La coscienza del momento presente vuole propriamente l’essere esclusivo, il dio esclusivo; ma proprio questo le si muta a causa di un potere superiore – certo in un modo per lei incomprensibile (infatti ancora questo potere non le è manifesto) – dunque proprio quel dio esclusivo le si trasforma non solo senza la sua volontà ma contro la sua volontà in una molteplicità, l’uno in un tutto. Gli dèi che qui sorgono non sono propriamente dèi ma sono il dio uno scisso nel molteplice. In nessun caso essi sono dèi materiali. La molteplicità sorge certo da un conflitto del principio che vuole affermarsi come immateriale e della potenza contrapposta, che esso vuole sottomettersi come materia. Ma ciò che è veramente voluto e perciò anche autenticamente venerato come divino non è il materiale ma appunto quell’immateriale che si oppone alla materializzazione; ciò che è veramente voluto non è la molteplicità, questa è ciò che è sempre negato, ciò che è voluto è l’uno, l’ente esclusivo, che deve essere soggiogato, portato alla materializzazione tramite una forza che per la coscienza è ancora invisibile, sconosciuta, semplicemente percettibile, e che però a causa della sua opposizione viene frammentato o fatto a pezzi. Questa unità frammentata nella molteplicità sorge nella coscienza tramite lo stesso conflitto attraverso cui originariamente nacque il sistema planetario (infatti con la riattivazione in sé dell’ente esclusivo la coscienza è caduta nuovamente in preda dell’inizio, del prius della natura, ossia dell’elemento astrale). Per questo motivo dunque anche gli dèi che sorgono qui per la coscienza sono simili a stelle, ovvero sono dèi astrali. Infatti le stelle non sono certo altro che molti centri posti alla periferia, in cui si manifesta appunto la tendenza originaria di essere ente esclusivo, centro, sebbene appunto solo come tendenza, impulso, sollecitazione, moto spontaneo, che è il fondamento del movimento continuo, perpetuo. La coscienza non prese le mosse dalle stelle reali, conosciute sensibilmente, per divinizzarle. Il vero passaggio è totalmente diverso». (Filosofia della mitologia [1856-1858], tr. it., Milano 1990, pp. 38-39). Somma delle buone intenzioni, l’ “uno” stenta a mantenere la propria costituzione fittizia. Mille aspetti lo costituiscono, mille tematiche lo illuminano continuamente pur lasciandolo sempre identico a se stesso. Quello che conta è l’apertura verso la realtà, il concetto di partecipazione, l’ “uno” incarnato nella possibilità pratica. Il rispetto per la parola, con la sua pesantezza quasi inaccessibile, comunque poetica, si dispone male riguardo la possibile partecipazione, almeno nel senso del fare. La parola infatti può anche essere il regno dell’assurdo e quindi della libertà in assoluto, ma può anche essere l’altro estremo, cioè il regno della repressione, comunque dell’inganno e dell’integrazione. Quando poi questa parola resta aulica, racchiusa nell’incomprensibile densità in cui si suppone l’ “uno” sia immerso, pretende di diventare parola onesta, aspira alla verità. È il punto di maggior pericolo. Se Dio parla l’uomo è condannato a restare muto in quanto quella parola, attribuita a Dio, gli viene sottratta per sempre.

«Che è Dio? – continua Proudhon – la ragione dice: dov’è? com’è? cosa vuole? cosa può? cosa promette? – ed ecco, alla luce dell’analisi, tutte le divinità del cielo, della terra e dell’inferno si riducono a un non so che d’incorporeo, impassibile, immobile, incomprensibile, indefinibile; in breve, a una negazione di tutti gli attributi dell’esistenza. Difatti, sia che l’uomo attribuisca ad ogni oggetto uno spirito o genio speciale, sia che concepisca l’universo come governato da una potenza unica, egli non fa che supporre sempre una entità incondizionata, cioè a dire impossibile, per dedurne una qualsiasi spiegazione di fenomeni giudicati altrimenti inconcepibili. Mistero di Dio e della ragione! A fine di rendere l’oggetto della sua idolatria sempre più razionale, il credente lo spoglia via via di quanto potrebbe farlo reale, e a forza di miracoli di logica e di genio, gli attributi dell’Ente per eccellenza si trovano essere gli stessi di quelli del nulla. È una evoluzione inevitabile e fatale: l’ateismo giace in fondo ad ogni teodicea». (Sistema, p. 22).

Condivisibile appieno questa tesi che dentro ogni ateismo astratto si nasconde un teologo. Ne ho parlato a lungo nel mio libro Saggi sull’ateismo [1970], a cui mi permetto qui un rinvio per il lettore. Occorre rendersi conto che l’ateismo non basta se non si scende in campo contro il Dio terreno, incarnato specificamente nel potere, nell’autorità, nello Stato e nei singoli organi che costituiscono quest’ultimo rendendolo capace di agire contro gli individui soggetti a esso. Anche Feuerbach aveva idee simili: «La religione cristiana fece distinzione fra la purezza morale interiore e la pulizia esteriore della persona; la religione ebraica le identificava. Israele è la più perfetta rappresentazione di religione positiva. Rispetto all’ebreo, il cristiano è uno spirito libero. Così mutano le idee. Ciò che ancor ieri era religione, oggi non lo è più, e ciò che oggi è considerato ateismo, sarà religione domani». (L’essenza del cristianesimo, op. cit., p. 52). L’importanza di questa tesi, al di là del fatto di condividere o meno le posizioni teoriche di Feuerbach, consiste nell’accentuazione data alla struttura comunitaria dell’uomo, alla quale niente può essere sottratto, nemmeno da parte di Dio. Nel lavoro diretto a perfezionare le condizioni della partecipazione dell’umanità alla piena realizzazione di sé, lavoro progressivo come nessun altro, i due aspetti del Dio-uomo e dell’uomo-Dio secondo me non sono separabili. La comunità umana si allarga in questo modo alla nuova comunità umana che si viene a creare nel corso della storia, senza che sia possibile stabilire con certezza i confini tra preparazione ed esecuzione dei singoli momenti, tra vita comunitaria dei membri del gruppo e comunione di questa vita con l’ “uno” spettatore dall’alto. Il contrasto tra le varie posizioni su questa relazione riguarda il ruolo della violenza divina e la tesi del patto.

Ma torniamo a Proudhon: «Dio, creatore di tutte le cose, è appena egli medesimo creato dalla coscienza, in altre parole, non appena noi abbiamo elevato Dio dall’idea di me sociale, all’idea di me cosmico, ecco che la nostra riflessione si mette a demolirlo, sotto pretesto di perfezionamento. Perfezionare l’idea di Dio! purificare il dogma teologico! Questa fu la seconda allucinazione del genere umano. Lo spirito d’analisi, Satana infaticabile che interroga e contraddice senza tregua, doveva, tosto o tardi, cercare la prova del dogmatismo religioso. Ora, sia che il filosofo determini l’idea di Dio o la dichiari indeterminabile; sia che l’avvicini alla sua ragione, sia che l’allontani, io dico che questa idea riceve una scossa, e siccome è impossibile che la speculazione si fermi, così è necessario che a lungo andare l’idea di Dio scompaia. Dunque il movimento ateistico è il secondo atto del dramma teologico, e questo secondo atto è dato dal primo, come l’effetto dalla causa. I cieli narrano la gloria dell’Eterno, dice il salmista. Aggiungiamoci: e la loro testimonianza lo abbatte.

«Infatti, a misura che l’uomo osserva i fenomeni, crede scorgere alcuni intermediari tra la natura e Dio: come rapporti di numero, di figura, di successione, leggi organiche, evoluzioni, analogie. Un certo concatenamento in cui le manifestazioni si producono o si richiamano reciprocamente. Egli osserva ancora che nello sviluppo della società alla quale appartiene, le volontà private e le deliberazioni prese in comune esercitano pure una qualche influenza, e dichiara a se stesso che il grande Spirito non agisce sul mondo direttamente e da sé solo, né arbitrariamente e a capriccio, ma mediatamente attraverso congegni ed organi sensibili e secondo alcune norme. E risalendo col pensiero la catena degli effetti e delle cause, pone all’estremo, come un bilanciere, Dio». (Sistema, p. 23). Un principio è sempre una garanzia a priori, o almeno dovrebbe esserlo. Spesso diventa un ostacolo insuperabile. Anche perché nella realtà tutto questo sfuma nell’interpretazione e non riesce a sciogliere il gelo cadaverico dell’accumulo. Il problema difatti non è nella garanzia ma nel tentativo di reggere un messaggio valido per tutti dall’interno di una situazione operativa in corso di svolgimento, un messaggio capace di indirizzarsi all’esterno verso un’altra comunità di attese, e di costituire di volta in volta un riferimento solido e ben controllato. E questo può essere considerato un notevole tentativo di iniziare una incomprensione. Tutto quello che possiamo dire riguardo una serie di concatenazioni, dal discorso sulla totalità al successivo passaggio alla specificità, risente troppo di forzatura. Gli itinerari di desolazione personali rifiutano tutti il punto di non ritorno. In ognuno di noi c’è troppo perbenismo per rompere veramente le convenzioni e i protocolli, abbiamo paura di apparire nudi.

«In tal guisa – scrive Proudhon – al primo apparire della teoria, l’Essere Supremo è ridotto alla funzione di forza motrice, di chiavarda o chiave di volta o, se mi si consente un paragone ancor più triviale, di sovrano costituzionale, che regna ma non governa, giura di conformarsi alla legge e ne nomina i ministri che eseguono. Ma sotto l’impressione del miraggio che lo affascina, il deista non vede altro in questo ridicolo sistema, che una prova novella della sublimità del suo idolo, il quale, secondo lui, adopera le sue creature come strumenti della sua potenza e volge a gloria propria la sapienza umana». (Ibidem).

Tutto questo dovette presumibilmente accadere sotto l’ispirazione della sensibilità, oltre che della paura. I poeti, creature sensibili, non furono mai, di regola, dei gran coraggiosi. Ed è meglio che sia stato così. Comunque, tornando alla condizione originaria della poesia, c’è da dire però che proprio grazie alla scrittura essa divenne più enigmatica, costringendo di volta in volta, in condizioni differenti, a ripresentare possibili letture, spesso totalmente in contrasto con le intenzioni ormai svanite dell’autore all’interno di una corrispondenza rappresentativa del testo che quanto meno finiva per apparire dubbia. Ciò segnò, in effetti, la nascita vera e propria della poesia. In contemporanea bisogna registrare la nascita di un Dio adulto, possessore di sentimenti umani, violento e irascibile, buono e misericordioso nello stesso tempo, appunto come sanno essere a volte gli uomini. Per un altro verso la nascita della scrittura segna anche la definitiva stabilizzazione del dominio razionale sul mondo. Lo strumento guadagna definitivamente terreno, si consolida. Naturalmente qui interessa fissare i movimenti del dominio, non quelli della poesia, questa ci riguarda in maniera indiretta.

Ma questa posizione, di per sé sufficiente a fondare la necessità del linguaggio, non poteva reggere a lungo. Da essa alla tesi che il linguaggio è fatto naturale e che il rapporto con il suo oggetto è fissato dall’azione di quest’ultimo in base alla legge di causalità, cioè alla legge di natura, il passo è breve. Ciò conduce in prospettiva al passaggio dalla poesia alla filosofia. Di già la tesi in questione preesisteva a Platone e questi, attribuendola ad Antistene, così la descrive: “Le cose hanno i nomi per natura ed è artefice di nomi non uno qualsiasi ma solo colui che guarda al nome che per natura è proprio di ciascuna cosa e che è capace di esprimere la specie di essa in lettere e sillabe”. Chi denuncia l’imbroglio della ragione è condannato alla pazzia. D’altro canto, i detentori dei meccanismi razionali non possono fare altrimenti, in caso contrario si scoprirebbe subito che il re è effettivamente nudo. La convenzione prova soltanto la propria esistenza, nient’altro. Il resto è pura violenza: una mascherata, un paradosso. Nessuno può firmare lettere di garanzia, e quando ciò avviene è la classica catena di S. Antonio, nello stile dei migliori magliari.

Ecco Proudhon continuare sul medesimo punto: «Ben presto, non contento di limitare l’impero dell’Eterno, l’uomo, divenendo, sotto un certo rispetto, sempre più deicida, vuole avervi parte. Se io sono uno spirito, un Io sensibile che emette idee, seguita il deista, io partecipo all’esistenza assoluta; sono libero, creatore, immortale, pari a Dio. Cogito, ergo sum; penso, dunque sono immortale. Ecco il corollario, la traduzione dell’Ego sum qui sum: la filosofia è d’accordo con la Bibbia. L’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima sono affermati dalla coscienza nel medesimo giudizio; là l’uomo parla in nome dell’universo, nel cui seno trasporta il suo me; qui parla in nome proprio, senza accorgersi che in questo andirivieni, si ripete e nulla più.

«L’immortalità dell’anima, vera scissura della divinità, che quando, dopo lungo trascorrere di tempo, fu promulgata, parve un’eresia ai fedeli dell’antico dogma, fu nondimeno considerata come completamento della maestà divina, e necessario postulato della eterna bontà e giustizia. Senza l’immortalità dell’anima non si comprende Dio, dicono i deisti, simili in ciò ai politici teorici, per i quali una rappresentanza sovrana e funzionari, ovunque inamovibili, sono le essenziali condizioni della monarchia. Pure, se è esatta la parità delle dottrine, è altrettanto flagrante la contraddizione delle idee; ond’è che il dogma dell’immortalità dell’anima divenne d’un tratto la pietra d’inciampo dei teologi filosofi, i quali dai tempi di Pitagora e d’Orfeo si sono sforzati inutilmente di porre in accordo gli attributi divini con la libertà umana, e la ragione con la fede. Bel trionfo per gli empi!... Ma l’illusione non poteva dileguarsi così presto; il dogma dell’immortalità dell’anima, appunto perché era una limitazione dell’Ente increato, era un progresso. Ora, se lo spirito umano s’inganna, a causa del parziale acquisto del vero, non indietreggia però giammai, e questa perseveranza nel suo cammino è la prova della sua infallibilità. Ed ecco una nuova dimostrazione. Facendosi simile a Dio, l’uomo faceva Dio simile a sé: questa correlazione che, durante molti secoli sarebbe stata dichiarata esecranda, fu molla invisibile onde scattò il nuovo mito. Al tempo dei patriarchi, Dio stringeva alleanza con l’uomo; ora, per cementare il patto, Dio si farà uomo. Prenderà la nostra carne, il nostro aspetto, le nostre passioni, le nostre gioie e le nostre pene, nascerà di donna e morrà come noi. Poi, dopo questa grande umiliazione dell’infinito, l’uomo pretenderà ancora di avere ingrandito l’ideale del suo Dio, facendo, con un giro di logica, un conservatore, un redentore di colui che sino allora aveva chiamato creatore. L’umanità non dice ancora: sono io Iddio. Questa usurpazione metterebbe orrore alla sua pietà. Essa dice Dio è in me, Emmanuel, nobiscum Deus. E nel momento in cui la filosofia con orgoglio e la coscienza universale con spavento, gridano a voce unanime: gli Dei se ne vanno, excedere deus, s’inaugura un periodo di diciotto secoli d’adorazione fervida e di pace sovrumana». (Ib., p. 24). Lasciando così ad ammuffire le intenzioni del passato, proposte e perfino speranze subito tacitate, si pensò di avere posto un ostacolo definitivo a un possibile recupero. Con la presenza di Dio ci si riteneva al sicuro, distanti dalle perplessità, in salvo dal complesso dei contrastanti interessi culturali istituzionalizzati. Subordinazione sia ideologica che culturale. La certezza (fornita dall’alto) era uscita dall’abitacolo che l’aveva imprigionata per tutti i secoli precedenti. Un sottoprodotto, senza dubbio, questo Dio presente fra gli uomini, ma efficace. Alla fine tutto il meccanismo è stato risucchiato nell’àmbito ideologico dominante, emettendo soltanto vagiti etici, che poi da sempre è stato il nostro destino e il nostro limite.

Ancora Proudhon: «Ma il termine fatale s’approssima. La potestà regia, che si lascia circoscrivere, finirà con la demagogia, la divinità che si definisce, si risolve in un pandemonio. La cristolatria è il termine ultimo di questa lunga evoluzione del pensiero umano. Gli angeli, i santi, le vergini regnano in cielo con Dio, dice il Catechismo; i demoni e i reprobi vivono nell’inferno tra i supplizi eterni. La società ultramondana ha la sua destra e la sua sinistra; è tempo che l’espiazione si compia, che questa mistica gerarchia scenda sulla terra e si mostri nella sua realtà». (Ibidem).

Lo stesso materiale che una intera generazione di studiosi aveva tratto dall’analisi storiografica di Hegel, viene qui utilizzato per fondare il processo produttivo dell’uomo e la sua dimensione politico-sociale. In questo Proudhon è più vicino a David Friedrich Strauss e più lontano da Joseph-Ernest Renan, il suo distacco dalla fede dogmatica non avviene per un’influenza filosofica, ma attraverso una constatazione sociale. È il fatto storico che ci consente l’accesso al mondo mitico, ed è lo stesso procedimento che aveva portato Strauss all’eliminazione del miracoloso nel racconto mitico della vita di Gesù.

In sostanza, permanendo condizioni di fondo tali che garantiscono una certa situazione di classe, la religiosità del popolo sfruttato è un dato storico che non può essere posto in sospensione attraverso un ritrovato filosofico. Tutto ciò non nega la possibilità stessa del concetto di progresso. Anzi, al contrario, ci fornisce un metro di valutazione. La presenza costante del bisogno religioso, scaturendo dalla sostanziale situazione di sfruttamento, viene a modificarsi ogni qual volta si verificano modificazioni in questa situazione di fondo. A un cambiamento oggettivo dello sfruttamento corrisponde una modificazione della religiosità, una modificazione della reazione adeguata alla sofferenza dell’estraneazione. Essendo diversa la sofferenza del proletario moderno non può non essere diversa la sua religiosità.

Una parte del pensiero filosofico, rigettando le oscurità e i miti teologici, afferma che la bontà originaria dell’uomo è deturpata dalla società. Da Jean-Jacques Rousseau in poi questa tesi è sostenuta da tutti quegli scrittori progressisti che si sono rivolti al socialismo e che al momento in cui Proudhon scriveva non si può dire avessero del tutto le idee chiare, nemmeno su questo argomento.

Il nostro pensatore cerca di radicalizzare la critica di Rousseau tentando di riportare all’origine la tesi della depravazione determinata dalla società, cosa che gli consentirà di collocare il male al cominciamento stesso delle contraddizioni sociali e quindi identificare male e Dio.

Egli scrive: «La teoria dell’innocenza dell’uomo, correlativa a quella della depravazione della società, ha finito per prevalere. L’immensa maggioranza del socialismo, [Claude-Henri de] Saint-Simon, [Robert] Owen, [Charles] Fourier ed i loro discepoli; i comunisti, i democratici, i progressisti di tutte le specie, hanno ripudiato solennemente il mito cristiano del peccato per sostituirvi il sistema d’una aberrazione della società. E come la maggior parte di questi settari; malgrado la loro evidente empietà, erano ancora troppo religiosi, troppo devoti per compiere l’opera di Gian Giacomo e far rimontare fino a Dio la responsabilità del male, trovarono il mezzo di dedurre dall’ipotesi di Dio il dogma della bontà nativa dell’uomo, e si misero a fulminare del loro meglio la società». (Ib., p. 247).

In sostanza se l’uomo si aggira in una struttura contraddittoria che non ha prodotto, se fin dal cominciamento è stato il male a determinare il resto e a essere dal resto determinato, se la religiosità è prodotta dalla sofferenza e contribuisce a renderla possibile, in che modo tutto ciò può essere imputato alla società che l’uomo stesso determina e dalla quale viene determinato, in che modo tutto ciò può costituire una colpa?

Al contrario, è in quel fondamento di religiosità che bisogna ricercare l’origine colpevole delle contraddizioni, non per negarle, ma per trovare la strada e uscire all’aperta risoluzione degli estremi che continuamente si toccano, e si intrecciano. Proudhon dà il nome di Dio a questa religiosità originaria, a questa idea collettiva che abbiamo descritto prima, ed è bene seguire anche la sua terminologia se non si vuole correre il rischio di fare confusione – come riteniamo abbia qualche volta fatto Marx nel libro Miseria della filosofia.

Scrive Proudhon: «I teologi ed i filosofi, tra le prove, in numero di tre, che sogliono portare intorno all’esistenza di Dio, pongono in prima linea il consenso “universale”.

«Ho tenuto conto di quest’argomento allorché, senza rigettarlo o ammetterlo, mi sono domandato: che cosa afferma il consenso universale affermando un Dio?

«E a questo proposito debbo ricordare che la differenza delle religioni non è un’attestazione dell’errore nel quale sarebbe caduto il genere umano affermando fuori di sé un Io supremo; non più di quello che la diversità delle lingue sia un’attestazione delle non realtà della ragione. L’ipotesi di Dio, lungi dall’affievolirsi, si rafforza e si stabilisce con la divergenza stessa e con l’opposizione dei culti.

«Un argomento d’altro genere è quello che si trae dall’ordine del mondo. Ho osservato a questo riguardo che la natura spontaneamente affermando, con la voce dell’uomo, la propria divisione in spirito e materia, restava a sapersi se uno spirito infinito, un’anima del mondo, governasse ed agitasse l’universo, come la coscienza, nella sua oscura istituzione, ci dice che uno spirito anima l’uomo. Se l’ordine fosse un indice infallibile della presenza dello spirito, non si potrebbe disconoscerne nell’universo la presenza di un Dio». (Ib., p. 266). Nel deserto attuale si potrebbe ricostruire un itinerario di ritorno, una cosiddetta letteratura delle analogie perdute, mancanza di corpo e forza dell’ectoplasma. La circonlocuzione di ieri non più mascherata dall’urgenza ripetitiva. Non è certo a un teorico che fanno deficienza i regolamenti, se li sogna la notte, e di giorno li sciorina in bello stile, deridendo qualsiasi necessità fisiologica di variazione. Tutto ciò può anche andar bene, quando non diventa colpevole complicità con se stessi. Una parte non sa, l’altra finge di non sapere, e il mondo torna a girare sul proprio asse come se nulla fosse accaduto. Nel deserto attuale è meglio restare immuni da illusioni del genere. Non si può far forza alla canizie del momento.

Ancora Proudhon: «Disgraziatamente, ciò non è dimostrato e non potrebbe esserlo. Perché, da una parte, lo spirito puro, concepito come opposizione alla materia, è un’entità contraddittoria, di cui per conseguenza niente può attestare la realtà. D’altra parte certi esseri ordinati in se stessi, quali i cristalli, le piante, il sistema planetario che nelle sensazioni che ci fanno provare, non rendono a noi, come gli animali, sentimento per sentimento, apparendoci del tutto sprovvisti di coscienza, non vi è più ragione a supporre uno spirito al centro del mondo che a metterlo in un bastone di zolfo; e si può fare in modo che se lo spirito, la coscienza esiste in qualche posto, ciò sia unicamente nell’uomo.

«Nondimeno, se l’ordine del mondo non può fare apprendere niente sull’esistenza di Dio, rivela che una cosa può darsi non meno preziosa e che ci servirà di guida nelle nostre ricerche; cioè che tutti gli esseri, tutte le essenze, tutti i fenomeni sono incatenati gli uni agli altri da un insieme di leggi risultanti dalle loro proprietà, insieme che io ho chiamato fatalità o necessità». (Ib., p. 267).

Il collegamento che qui Proudhon pone tra natura degli esseri e loro possibile spiegazione, sia pure in maniera non canonica, costituisce comunque un processo di razionalizzazione, processo che a suo modo si può considerare esemplare. Naturalmente, tutta la realtà porta una matrice comune, quella dell’essenzializzazione e del perfezionamento delle procedure, anche linguistiche, direi a volte essenzialmente linguistiche, per quanto a un certo livello non è sempre facile fare distinzioni del genere. L’eterogeneità dei settori della realtà che qui vengono tenuti presenti e la distanza nel tempo dei processi stessi fa vedere come alcuni elementi restano costanti e come i peggiori sistemi abbiano meccanismi interni di aggiustamento. Non si può quindi accettare come buona in assoluto la tesi della corrispondenza alla natura delle cose. La realtà in cui viviamo, essendo retta dai procedimenti razionali, è quindi sempre in grado di fornire molteplici risposte a tutte le condizioni prevedibili, e anche imprevedibili. Nessuna mancanza può mettere in imbarazzo un meccanismo chiuso in se stesso. Per questo motivo, l’afflusso del senso è interamente risolto, nei limiti in cui la coscienza immediata lo percepisce. Cioè, non esiste nulla di veramente incomprensibile, per quanto divergente possa essere il flusso dal campo d’intervento, quest’ultimo ne assorbe sempre compostamente il risultato orientativo. Ogni gesto sbocca sempre nel di già accaduto. La coscienza immediata del singolo vuole proprio ciò, cioè che l’irripetibile si ripeta, continuamente, perché si senta confortata e completata. Più il senso si propone difficile, più il fare produttivo si impegna alla sua spiegazione in oggetto, naturalmente purché tutto resti nell’àmbito delle convenzioni. In questa contabilità non ci sono mai residui, né attivi né passivi. Tutto quadra alla perfezione come nei conti dello Stato. Quest’ultima non è una battuta di spirito, per quel che posso ricordare dei miei studi di ragioneria.

Continua Proudhon: «Che esista una intelligenza infinita, che abbraccia tutto il sistema di queste leggi, tutto il campo della fatalità; che a questa intelligenza infinita s’unisca in una penetrazione intima una volontà suprema, eternamente determinata dall’insieme delle leggi cosmiche e per conseguenza infinitamente potente e libera; che infine queste tre cose: fatalità, intelligenza, volontà siano nell’universo contemporanee, l’una all’altra adeguate ed identiche; è chiaro che qui non troviamo cosa che ci ripugni; ma è appunto qui l’ipotesi, è questo antropomorfismo che rimane da dimostrare.

«Così, poiché l’attestazione del genere umano ci rivela un Dio, senza dirci ciò che possa essere questo Dio; l’ordine del mondo ci rivela una fatalità, cioè un insieme assoluto e perentorio di cause e di effetti, in una parola, un sistema di leggi che sarebbe, se esistesse Dio, come la vista e la scienza di questo Dio». (Ibidem). Rinviare al dopo. Ecco il metodo impiegato. Giusto per le esercitazioni dell’utopia descrittiva: funzionamenti, acquisti e vendite, circolazione, distribuzione. Pochi gli interventi in questo senso, illogici nella prospettiva di un vivere la coesistenza con Dio senza intermediarietà. La comunità del passato poteva avere un’altra funzione istituzionale, quella di progettare società del futuro, al plurale, naturalmente. Società liberate, fondate sul lavoro e l’istruzione obbligatoria. Noiosissime verniciature di vecchi concetti. Ma rinviare a dopo la sperimentazione espressiva lo svuotamento della divinità è stato un errore, e mai ci si pentirà abbastanza di averlo commesso.

Ancora Proudhon: «La terza ed ultima prova dell’esistenza di Dio proposta dai teisti, e da essi chiamata prova metafisica, non è altro che una costruzione tautologica delle categorie che prova assolutamente niente.

«Qualche cosa esiste, dunque esiste una cosa. «Qualche cosa è multiplo, dunque qualche cosa è uno. «Qualche cosa viene dopo qualche cosa, dunque qualche cosa è anteriore a qualche cosa. «Qualche cosa è più piccola o più grande che qualche cosa, dunque qualche cosa è più grande che ogni altra cosa. «Qualche cosa è mobile, dunque qualche cosa è motrice, ecc., all’infinito.

«Ecco ciò che si chiama ancora oggi nelle facoltà e nei seminari, dal ministro di pubblica istruzione e dai signori vescovi, dare la prova metafisica dell’esistenza di Dio. Ecco ciò che il fiore della gioventù francese è condannato a belare a somiglianza dei professori, durante un anno, sotto pena di non ricevere i diplomi e di non poter studiare il diritto, la medicina, la tecnica e le scienze. Certamente, se vi è qualche cosa che possa sorprendere, è che con tale filosofia l’Europa non sia ancora atea. La persistenza dell’idea teista a lato del linguaggio delle scuole è il più grande dei miracoli; essa forma la sentenza più forte che si possa allegare in favore della Divinità». (Ib., p. 268).

Non è facile rendersi conto del concetto che gli uomini si vanno facendo della divinità. È chiaro che le dispute dei teologi non valgono a nulla, chiusi nel loro ristretto modo di vedere le cose, specialisti di una scienza che non ha vero e proprio fondamento, non aggiungono nulla all’idea di fondo che gli uomini si sono fatti di Dio.

Ma la società è un baratro di contraddizioni e di stranezze. Dilaniata, dilania l’uomo sottoponendolo a fatiche prive di senso. Tutto ciò è Dio. Questo non senso, questo male che esiste nel mondo è Dio. Non è la prova dell’esistenza di Dio, è Dio.

L’analisi di Proudhon è veramente affascinante, completa, moderna. Che il male esista nel mondo – che la lotta di classe lanci l’uno contro l’altro due avversari per il dominio del pianeta, con tutte le conseguenze del caso – non ci sono dubbi. La stranezza è che parti avverse coincidano nella valutazione di qualcosa che dovrebbe dividerle: da un lato gli sfruttatori, che dovrebbero esaltare la provvidenza che rende possibile lo sfruttamento, dall’altro gli sfruttati, che dovrebbero condannarla.

«Oggi – precisa Proudhon – non si disputa molto; i teisti non s’inquietano più delle logiche impossibilità del loro sistema. Si vuole un Dio, una Provvidenza sopra tutto; vi è concorrenza per questa cosa tra i radicali ed i gesuiti. I socialisti predicano in nome di Dio la felicità e la virtù; nelle scuole, quelli che parlano più forte contro la Chiesa sono i primi dei mistici». (Ibidem).

Confusione, ma permanenza di un’analisi. Colpevolezza di Dio, dell’idea collettiva usata in un certo modo, per mantenere lo sfruttamento. Proudhon insiste sulla responsabilità di coloro che non vogliono comprendere il suggerimento proveniente da questa forza collettiva. Egli vuole difendere la libertà umana, individuale e collettiva, contro ogni provvidenzialismo (in altre parole contro ogni fatalismo religioso), anche se ammantato di progressivismo statalista. L’idea della trascendenza costituisce per Proudhon un ostacolo a ogni concezione della società intesa nel senso di un corpo unitario non gerarchico. All’interno di ogni religione esiste una traccia mistica che finisce per signoreggiare qualsiasi tentativo interno di razionalizzazione.

Sempre Proudhon: «Ebbene! Ecco precisamente ciò che Dio, il Dio della Provvidenza ha fatto nel Governo dell’umanità; ecco ciò di cui l’accuso. Egli lo sapeva da tutta l’eternità, poiché, noi, mortali, l’abbiamo scoperto dopo seimila anni di dolorosa esperienza, che l’ordine nella società, cioè la libertà, la ricchezza, la scienza, si realizzano con la conciliazione di idee contrarie che, prese ciascuna in particolare come assolute, dovevano precipitare in un abisso di miseria; perché non ci ha avvertiti? perché fin da principio non ha raddrizzato il nostro giudizio? perché ci ha abbandonati alla nostra logica imperfetta, allorché soprattutto il nostro egoismo doveva autorizzarsene con le sue ingiustizie e con le sue perfidie? Egli sapeva, questo Dio geloso, che lasciandoci agli accidenti dell’esperienza, avremmo trovato tardi questa sicurezza della vita che forma tutta la nostra felicità; perché, con una rivelazione delle nostre leggi, non abbreviò questa lunga scuola? perché, invece di affascinarci con opinioni contraddittorie, non abbreviò l’esperienza, facendoci passare per via d’analisi dalle idee sintetiche alle antinomie, invece di lasciarci arrampicare penosamente per l’erta cima dall’antinomia alla sintesi?». (Ib., p. 269). L’uomo ha pagato una scelta produttivistica, tutto qui. Ha creduto di ritrovare la perfezione in fondo alla prova, al superamento dell’abisso. Si è trattato di tirare le somme di una mancanza. Un Dio d’amore e di misericordia non era neanche preso in considerazione. Si tratta di un oleografia successiva. Non so quanti se ne sono resi conto. C’era una intuizione di pericolo nei continui e pressanti inviti al rispetto delle visioni, delle profezie. Non si esce dal tunnel senza storicisticamente averlo percorso tutto. Tornare indietro non significa andare avanti, e chi torna indietro su di un punto è disposto a farlo su tutta la linea. Fino in fondo dunque nell’avventura del messaggio, avventura per prima cosa sintattica, lessicale, perché non si spezzasse da soli l’orizzonte che doveva rimanere compatto. Uniforme per tutti.

Insiste Proudhon: «Se, come si pensava altre volte, il male che soffre l’umanità proveniva solo dall’imperfezione inevitabile in ogni creatura; diciamo meglio, se questo male non aveva per causa che l’antagonismo delle virtualità ed inclinazioni che costituiscono il nostro essere, e che la ragione deve apprenderci a padroneggiare e condurre, non avremmo diritto di sollevare lamenti. La nostra condizione essendo quella che poteva essere, Dio sarebbe giustificabile.

«Ma, davanti a questa illusione volontaria dell’intelletto, illusione che era così facile dissipare, ed i cui effetti dovevano essere così terribili, dove è la scusa della Provvidenza? Non è forse vero che qui la grazia mancò all’uomo? Dio, che la fede presenta come un padre tenero ed un padrone prudente, ci abbandona alla fatalità dei concetti incompleti; scava la fossa sotto i nostri piedi; ci fa andare alla cieca; e poi, ad ogni caduta, ci punisce come perversi. Che dico? Pare che sia contro la sua volontà che finalmente, tutti indolenziti dal viaggio, riconosciamo la nostra via; come fosse offendere la sua gloria col diventare, per le prove che c’impone, più intelligenti e liberi. Dunque, che cosa abbiamo bisogno di domandare senza posa alla Divinità, e che cosa vogliono questi satelliti di una Provvidenza, che, dopo sessanta secoli, con l’aiuto di mille religioni, c’inganna e ci svia?». (Ib., p. 270).

Ogni sollecitazione liberale, ogni chiarimento riguardo i veri intendimenti della gestione modificativa, come pure ogni critica selettiva, sono compresi nel movimento di rapportazione ai protocolli, e qui giacciono riflettendo soltanto il proprio annullamento come eccezioni, come proposte di eventuale differenza. Le rivendicazioni sono panacea che sfiorisce in breve tempo. La ragione gioca un movimento del tutto interno ai suoi stessi princìpi, gioca come al solito in casa, e vince perché è sempre analiticamente identica a se stessa. Così, il particolare di un mondo chiuso, com’è quello dei protocolli di campo, riflette pienamente l’universale, e qui si consolida e conforta, trova sostegno per ogni altra avventura nel regno del possibile che però è sempre un giro attorno al cortile del carcere. In un mondo simile niente può essere negato, realmente negato, senza spezzare l’incantesimo. Pretendere di negare logicamente, lasciando stare al loro posto le condizioni dell’affermazione, è giocare con le parole. La negazione è sostanziale, e quindi anche formale, affermazione. Per cui al movimento razionale basta semplicemente sollevare il velo, in base a questa diversità, non in base alle razionalizzazioni dell’immediatezza.

La diversità è un timido tentativo di trovarsi nella realtà della cosa, cioè nella totalità del reale, elemento di forze che non sono leggibili nella chiave riduttiva del campo, esercitando movimenti semplici di natura completamente differente. Tra la ragione e la cosa c’è un’antiteticità assoluta, questa sì leggibile nell’accumulo in quanto è proprio l’immediatezza che ha prodotto, e continua a produrre, quell’antiteticità. Il modo in cui possiamo renderci conto di questi due universi è purtroppo lo stesso, ed è quello adeguato perfettamente solo all’effettualità modificativa. Ne deriva che il linguaggio che impieghiamo nell’interpretazione negativa, nella costruzione di una prospettiva differente, specialmente in questa, è del tutto inadeguato. Anche nella trasformazione si propone la stessa inadeguatezza, ma essendo minori i problemi di codice, il fatto traspare con aspetti meno pressanti.

Torniamo a Proudhon: «Dio coi suoi facitori di nuove leggi e con la legge che ha posto nei nostri cuori, ci comanda di amare il prossimo come noi stessi, di fare agli altri ciò che desideriamo che sia fatto a noi, di rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto; di non far frode alcuna sul salario dell’operaio, di non dare a prestito con usura; sa inoltre che la carità in noi è debole, la coscienza vacillante, e che il minimo pretesto ci appare sempre una ragione sufficiente per sottrarci alla legge; ed è con tali disposizioni che ci impegna nelle contraddizioni del commercio e delle proprietà, là dove, per la fatalità delle teorie, devono cessare assolutamente la carità e la giustizia? Invece di rischiarare la ragione sull’importanza dei princìpi che ad essa s’impongono con tutto il peso della necessità, ma le cui conseguenze, adottate dall’egoismo, sono indispensabili all’umana fratellanza, pone questa ragione ingannata al servizio delle passioni; distrugge, con la seduzione dello spirito, l’equilibrio della coscienza; giustifica ai nostri occhi le usurpazioni e l’avarizia; rende inevitabile, legittima la separazione dell’uomo dal suo simile; crea tra di noi la divisione e l’invidia, rendendo l’eguaglianza col lavoro e col diritto impossibile; ci fa credere che questa uguaglianza, legge del mondo e ingiusta tra gli uomini; e poscia ci proscrive in massa per non aver saputo praticare i suoi precetti, incomprensibili! Certo, credo di aver provato che l’abbandono della Provvidenza non ci giustifica; ma qualunque sia il nostro delitto non siamo colpevoli davanti ad essa; e se vi è un essere che, prima di noi e più che noi, si sia meritato l’inferno, bisogna che lo nomini: è Dio». (Ibidem).

Ecco la tesi nella sua pienezza. Se esiste un inferno a meritarselo sono coloro che utilizzano il senso religioso, l’idea collettiva, per fare persistere lo stato di schiavitù nell’uomo. In questo modo Dio viene condannato all’inferno dall’analisi di Proudhon.

Intendiamo bene, qui non c’è nulla di quelle persistenze manichee che troveranno posto nella filosofia francese di origine spiritualista. Malgrado le accuse e malgrado gli stessi tentennamenti di Proudhon egli è e resta un materialista, legato a una visione storicistica del processo delle vicende umane. Molta confusione è stata fatta riguardo gli svolgimenti della filosofia francese dalla metà dell’Ottocento ai primi del secolo scorso. Edouard Le Roy dice delle cose sensate in merito: «Nella storia della filosofia degli ultimi trent’anni possiamo osservare, tra molte agitazioni diverse e talora un po’ confuse, la nascita e il progresso di due vaste correnti, che si manifestano sempre più apertamente e si fanno valere ogni giorno di più. La prima, psicologica e metafisica, parte da Ravaisson per giungere fino a Bergson, dove assume un colore tanto originale che si sarebbe tentati di non cercarle alcun’altra fonte. La seconda, epistemologica e critica, ha origine nelle ricerche del Boutroux, e continua nei lavori di diversi scienziati contemporanei, tra cui vorrei citare soltanto Milhaud e Poincaré. Ciò che ho chiamato col nome di nuova filosofia è in ogni caso il prodotto di una confluenza e questa filosofia è rivendicazione dei diritti primordiali dello spirito, basata sul fatto di una certa contingenza riconosciuta alle leggi di natura». (Sur quelques objections adressées à la nouvelle philosophie, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, IX, 1901, p. 293).

Ma torniamo ancora una volta a Proudhon : «Allorché i teisti, per stabilire il loro dogma della Provvidenza, allegano in prova l’ordine della natura, quantunque quest’argomento non sia che una petizione di principio, tuttavia non si può dire che implichi contraddizione, e che il fatto allegato stia contro l’ipotesi. Nulla, per esempio, nel sistema del mondo, scopre la più piccola anomalia, la più leggera imprevidenza, di dove si possa dedurre un pregiudizio qualunque contro l’idea di un motore supremo, intelligente, personale. In una parola, se l’ordine della natura non prova la realtà di una Provvidenza, neppure la contraddice.

«È tutt’altra cosa nel governo dell’umanità. Qui l’ordine non appare nello stesso tempo che la materia; non è stato creato, come nel sistema del mondo, una volta e per l’eternità. Si sviluppa gradatamente, secondo una serie fatale di princìpi e di conseguenze che l’essere umano stesso, l’essere che si trattava di regolare, deve spontaneamente provvedere, con la propria energia, alla sollecitazione dell’esperienza. Nessuna rivelazione a questo riguardo gli è fatta. L’uomo è sottomesso, dalla sua origine, ad una necessità prestabilita, ad un ordine assoluto ed irresistibile». (Sistema, p. 271). Molti i contributi analitici diretti a provare questa necessità, molti ma insignificanti. Pochi, come nel caso di Proudhon, quelli che approfondiscono il concetto di serie senza sacralizzare l’involucro. La storia traccia un continuo tentativo di incutere paura ricorrendo alla necessità. Non ci si può liberare se si è condannati fin dall’inizio alla costanza dei propri ruoli. Mille rivoli teorici accettano questo impreciso arnese sacrificale, autotortura e strumento per terrorizzare gli altri, riflesso del rullo compressore archetipo che nel frattempo metteva in mostra impensabili capacità di recupero. L’uso aggressivo di queste tesi venne interpretato come una legge ineluttabile. È mio il potere, dice Dio, e la giustiza che ne deriva. Per intenderci, la critica iniziale, con tutte le sue buone intenzioni, venne a decadere in un luogo comune del ghetto, un palleggiamento inoffensivo di aggettivi altrove inusitati, ma sempre graffianti come la coda d’una colomba.

«Ma quest’ordine – approfondisce Proudhon – bisogna pure che si realizzi, che l’uomo lo scopra; questa necessità bisogna che esista, che l’indovini. Questo lavoro d’invenzione potrebbe essere abbreviato; niente, né dal cielo né sulla terra, verrà in soccorso all’uomo; nulla lo istruirà. L’umanità, durante centinaia di secoli, divorerà le sue generazioni; si esaurirà nel sangue e nel fango senza che il Dio che adora venga una sola volta ad illuminare la sua ragione ed abbreviare la sua prova. Dov’è qui l’azione divina? Dov’è la Provvidenza?». (Ibidem).

Inaspettatamente, a volte, comprendiamo meglio che in altri momenti gli stimoli costanti che riceviamo dal movimento universale della ragione. Spesso non troviamo miglior partito che rifugiarci nella evasione, nello spostamento dell’attenzione sulle solite inclinazioni quotidiane. Una semplice vicenda personale diventata tragedia cosmica la trasferiamo in quegli stimoli universali degradandoli a faccenda privata valorosamente controbattuta e non vogliano vedere le condizioni dello scontro in un bicchiere d’acqua. Il soccorso divino non è reperibile. Non troviamo aiuti ma solo la follia di un momento che assume così la forma incontrollabile di una convinzione affidata a movimenti di statue di cera credute vive e operanti. Un appoggio o, come direbbe Nietzsche: «“Che buon cuscino è il dubbio per una mente ben costruita!” – questo detto di Montaigne ha sempre esasperato Pascal, perché nessuno desiderava così fortemente un buon cuscino come lui. Che cosa gli mancava allora?». (Aurora [1881], 46).

Ma le vicende della realtà, la sollecitazione della ragione collettiva operante nello spirito del tempo non galoppa sempre sulle ali della fantasia, all’abilità della contingenza spesso sostituisce l’abbandono nella operatività. Ma per questo passo occorre lavarsi da tutte le coperture e gli infingimenti. Cessare ogni resistenza di fronte a questa sollecitazione, smettere con i direttori spirituali di ogni risma, tutto ciò ha qualcosa di eroico. Essere uomini richiede a volte gli attributi della divinità che a quest’ultima siamo soliti riservare.

Ecco Proudhon: «Se Dio non esistesse – è Voltaire, il nemico delle religioni, che parla, bisognerebbe inventarlo. Per qual ragione? “Perché – aggiunge lo stesso Voltaire, se avessi da trattare con un principe ateo che avesse interesse a farmi pestare in un mortaio, sono certo che io sarei pestato”. Strana aberrazione d’un grande spirito! E se voi dovete trattare con un principe devoto, al quale comandasse il suo confessore, da parte di Dio, di bruciarvi vivo, non sareste ben certi d’essere bruciato? Dimenticate dunque, voi anticristo, l’inquisizione, la strage di san Bartolomeo, ed i roghi di Vanini e di Bruno, le torture di Galilei ed il martirio di tanti liberi pensatori?... Non distinguete qui tra uso ed abuso; perché, replicherò, che le conseguenze di un principio mistico e soprannaturale, d’un principio che tutto abbraccia, che spiega tutto, che giustifica tutto, come l’idea di Dio, sono tutte legittime, e che lo zelo del credente è il solo giudice a proposito». (Sistema, p. 271). Un luogo comune preso dal museo delle imbecillità quotidiane recita che le opzioni sono uguali. Quando non si sa cosa dire la cosa regge. Il flusso comunicativo non è unidirezionale ma multidirezionale, quindi noi non solo comunichiamo, ma anche riceviamo opinioni prefabbricate che accettiamo come verità. Riguardo l’Inquisizione Mereu è molto chiaro: «Ogni provvedimento repressivo, ogni arresto ingiustificato, avrà sempre il suo movente arcano: la lotta contro il Maligno!». (Storia dell’intolleranza in Europa, Milano 1979, p. 136).

L’imbroglio ha tanto incancrenito la realtà in cui viviamo che non c’è spazio per “dire le cose così come stanno”. Questo, terra terra, è chiamato avere il coraggio delle proprie idee, cioè dire le cose a metà. Nessuno è in grado di cogliere fino in fondo le sollecitazioni di cui parliamo, alcuni riescono però a sollevare un lembo del velo delle illusioni. Se la realtà stesse differentemente, il realismo socialista sarebbe stata l’unica soluzione, con la sua brava classe operaia sempre pronta a mobilitarsi. Quest’immagine sostanziale e corposa di appiattimento è stata presa a modello dal potere democratico, la cui tolleranza repressiva sta costruendo un muro invalicabile tra sfruttatori e sfruttati. Come tornare a fare qualcosa? Come ridurre i danni, riprendere l’iniziativa, capovolgere le condizioni repressive? Per prima cosa, attraverso l’azione, e questo è il fondamento di tutto. Poi, e non in secondo piano perché non meno importante, con la riappropriazione degli strumenti culturali che ci sono stati sottratti o che abbiamo spesso abbandonato nelle mani del nemico senza combattere.

«Il primo dovere dell’uomo intelligente e libero – afferma Proudhon – è di scacciare incessantemente dal suo spirito e dalla sua coscienza l’idea di Dio. Perché Dio se esiste, è essenzialmente nemico della nostrananatura, e non guadagniamo alcuna cosa dalla sua autorità. Suo malgrado arriviamo alla scienza, suo malgrado arriviamo al benessere, alla società; ciascuno dei nostri progressi è una vittoria nella quale schiacciamo la Divinità.

«Non si dica più: le vie di Dio sono impenetrabili! Noi siamo penetrati in queste vie, abbiamo letto in caratteri di sangue le prove dell’impotenza, se non del cattivo volere di Dio. La mia ragione, da lungo tempo umiliata, poco a poco s’innalza al livello dell’infinito; col tempo essa scoprirà tutto ciò che la sua inesperienza le sottrae; col tempo sarò di meno in meno artefice di sventura, e per i lumi che avrò acquistato, per il perfezionamento della mia libertà, mi purificherò, idealizzerò il mio essere e diventerò il capo della creazione, eguale a Dio». (Sistema, p. 272). La nuova strada, a poco a poco, non si da più pensiero della tradizione. Nuovi strumenti permettono di capire meglio dove stavano andando a finire le apologie di un mondo condannato dal peccato e dall’ira di Dio. Visioni solo apparentemente utopistiche, in realtà tutt’altro che lontane dalla realizzazione, si avanzano all’orizzonte. A questo progetto dissolutorio della cultura cristiana molti hanno dato il loro contributo, piccolo o grande. La conclusione poteva essere il cuscino della felicità, invece si è feticizzata la tecnologia del risultato. Il grande geometrico contorno dei fatti è stato mosso decisamente a sproposito. Il potere dell’uomo nuovo, oltre le attese programmatiche di conquiste supposte a breve scadenza, ha gestito per conto di futuri comitati centrali una condizione di bisogno annegata provvisoriamente in una compartecipazione al disastro. Nel frattempo gli altisonanti termini critici sono usciti dalle orgogliose sicurezze, adesso abitano il limbo del ridicolo. Non si è salvata la cultura perché non c’era nulla da salvare. La cultura non si salva, si mette a repentaglio o muore. Una trama differente non basta, annega nell’equivoco di una soluzione definitiva ormai prossima. L’equivoco storico dell’avvento imminente, la rivoluzione salvatrice, ci ha sottratti al compito di preservare i pochi risultati ottenuti lasciandoci girovagare in attendistici territori poco salubri, dove le deficienze non possono essere colmate, considerandole come disfunzioni di una macchina che alla fine non verrà usata mai. La conclusione non è nemmeno ora alle porte.

Dice Proudhon: «Un solo istante di disordine, che l’Onnipossente avrebbe potuto impedire e che non ha impedito, accusa la sua Provvidenza e pone in rilievo il difetto della sua saggezza; il minimo progresso che l’uomo, ignorante, abbandonato e tradito, compie verso il bene, lo onora senza misura. Con qual diritto Iddio mi dirà ancora: sii santo, perché io lo sono? Spirito mentitore, gli dirò, Dio imbecille, il tuo regno è finito; cerca altre vittime tra le bestie. So che non sono santo e che mai lo potrò diventare; in qual modo lo saresti tu, se ti assomiglio? Padre eterno, Giove o Jehova, abbiamo imparato a conoscerti; tu sei, fosti, e sarai per sempre il geloso d’Adamo, il tiranno di Prometeo». (Ibidem).

La verità è ovviamente altra cosa della parola di Dio, non una semplice manifestazione di quello che crediamo vero perché sancito dall’autorità. Così Sigmund Freud: «Le verità che le dottrine religiose contengono sono così deformate e sistematicamente mascherate, che la massa degli uomini non può riconoscerle come verità. È un caso analogo a quello che si ha quando raccontiamo al bambino che la cicogna porta i neonati. Nei nostri discorsi coi bambini siamo convinti che sia meglio omettere queste dissimulazioni simboliche della verità». (L’avvenire di un’illusione [1927], tr. it., Torino 1990, p. 88). I regolamenti di polizia sono trattati sulla verità che governa il mondo e oggigiorno le facoltà sono piene di dottrine simili ai suddetti regolamenti. Dio veleggia davanti a noi che temiamo le sue bieche parole – è l’autorità che ce le trasmette a profusione.

«Così – insiste Proudhon – non cado nel sofisma confutato da san Paolo allorché difendendo il vaso, dice al vasaio: perché mi hai fatto in questa maniera? Non rimprovero all’autore delle cose di avermi fatto creatura disarmonica, insieme incoerente: non potrei esistere che a questa condizione. Mi contento di dirgli: perché m’inganni? Perché col tuo silenzio hai scatenato in me l’egoismo? Perché mi hai sottomesso alla tortura del dubbio universale, con l’amara illusione delle idee antagoniste che avevi messo nel mio intelletto? Dubbio della verità, dubbio della giustizia, dubbio della coscienza e della libertà, dubbio di te stesso, o Dio! E come conseguenza di questo dubbio, necessità della guerra con me stesso e col mio prossimo! Ecco, Padre supremo, ciò che hai fatto per nostra felicità e per tua gloria; ecco quali furono, fin da principio, la tua volontà e il tuo governo; ecco il pane, impastato di sangue e di lagrime, di cui tu ci hai nutriti. Gli errori di cui ti domandiamo la remissione, sei tu che ce li fai commettere; gli agguati da cui ti scongiuriamo di liberarci, sei tu che li hai tesi; ed il Satana che ci assedia, questo Satana sei tu». (Sistema, p. 272). Nell’esperienza della sventura non riusciamo a costruire un tessuto realmente nostro, diverso dal dire del dominio divino. La bestemmia non ci libera, ci allevia soltanto. Non che sia un palliativo trascurabile, solo che resta un movimento dell’animo, nulla di più. L’involucro su cui si appuntano le attenzioni dei critici malevoli denuncia un insieme di corrispondenze tra negativo e positivo, tra Dio e Satana. Un dominio, in qualunque modo lo si prenda in considerazione, è sempre un dominio, un peso che impedisce all’uomo di respirare. Sul modo di mettere in circolazione in futuro i processi di liberazione ci si deve mettere d’accordo. Un modificare le condizioni di rapportazione, quindi un ripresentarsi di necessità culturali immutate, ma altrettanto necessarie, non è sufficiente. Nell’urgenza delle cose da fare anche quelli che come me hanno avuto chiaro da sempre questo punto di vista, non sanno trovare il tempo per fornire questi strumenti culturali adeguati. Il poco lavoro fatto in questa direzione lo trovo insufficiente, e me ne dolgo.

«Tu trionfavi, e nessuno osava contraddirti, quando, dopo aver tormentato il giusto Giobbe nel corpo e nell’anima, figura dell’umanità nostra, insultavi la sua candida pietà, la sua discreta e rispettosa ignoranza. Noi eravamo esseri nulli davanti alla maestà invisibile, cui davamo il cielo per baldacchino e la terra per sgabello. Ed ora eccoti detronizzato ed infranto. Il tuo nome, da sì lungo tempo l’ultima parola del sapiente, la sanzione del giudice, la forza del principe, la speranza del povero, il rifugio del colpevole pentito; questo nome non comunicabile, d’ora innanzi dedicato al disprezzo ed all’anatema, sarà fischiato dagli uomini. Poiché Dio è sciocchezza e viltà; Dio è ipocrisia e menzogna; Dio è tirannia e miseria; Dio è male. Fino a tanto che l’umanità s’inchinerà davanti ad un altare, l’umanità, schiava dei re e dei preti, sarà riprovata; fino a tanto che un uomo, in nome di Dio, riceverà giuramento da un altro uomo, la società sarà fondata sullo spergiuro; la pace e l’amore saranno banditi dai mortali. Dio, ritirati! poiché d’ora innanzi io, guarito dalla paura, e divenuto saggio, giuro, con la mano stesa verso il cielo, che tu non sei che il carnefice della mia ragione, lo spettro della mia coscienza». (Ib., p. 273).

Sovvertire lo schema del dominio, danzare nel Sabba, rompere le restrizioni, questo ci dice Proudhon. Egli avanza con la scure in mano e noi siamo troppo legati alle leggi differenti che ci sovrastano per cogliere il metodo che tale procedura sottende. Dietro la muraglia protettiva di qualche legge ci lasciamo sfiorire placidamente mentre attorno gli echi di guerra ci arrivano sempre più affievoliti. La fantasia che prima si slanciava in avanti come una cavalla araba, adesso rallenta con le giunture un po’ irrigidite. Magnificamente Nietzsche: «Si avrà per me della riconoscenza, se condenserò in quattro tesi un così essenziale e nuovo approfondimento conoscitivo: rendo così più agevole la comprensione, sfido così a contraddirmi. Prima proposizione. Le ragioni per le quali “questo” mondo è stato definito apparente ne attestano piuttosto la realtà – una specie diversa di realtà è assolutamente indimostrabile. Seconda proposizione. Le caratteristiche che si sono attribuite all’ “essere vero” delle cose sono le caratteristiche del non-essere, del nulla – si è costruito il “mondo vero” sulla base della sua contraddizione col mondo reale: è infatti un mondo apparente, in quanto è una mera illusione d’ottica morale. Terza proposizione. Favoleggiare di un mondo “altro” da questo non ha il minimo senso, ammesso che non sia preponderante in noi l’istinto di denigrare, immeschinire, disprezzare la vita: in quest’ultimo caso noi ci vendichiamo della vita con la fantasmagoria di un’ “altra” e “migliore” vita. Quarta proposizione. Separare il mondo in un mondo “vero” e in un mondo “apparente”, sia alla maniera del cristianesimo, sia alla maniera di Kant (in ultima analisi, uno scaltro cristiano), è soltanto una suggestione della décadence – un sintomo di vita declinante». (Il crepuscolo degli idoli. Laragionenella filosofia [1888], 6).

Il martello di Proudhon continua a spezzare le catene della religione: «Nego la supremazia di D o sull’umanità; respingo il suo governo provvidenziale, la cui non esistenza è insufficientemente provata con le allucinazioni metafisiche ed economiche dell’umanità, in una parola, col martirio della specie; nego la giurisdizione dell’Essere supremo sull’uomo; gli tolgo i titoli di padre, di re, di giudice, buono, clemente, misericordioso, soccorrevole, rimuneratore e vendicatore.

«Tutti questi attributi, di cui si compone l’idea di Provvidenza, sono una caricatura dell’umanità, inconciliabile con l’autonomia della civiltà ed inoltre smentita dalla storia delle sue aberrazioni e delle sue catastrofi. Ne segue forse che Dio non può più essere compreso come Provvidenza, perché gli togliamo questo attributo così importante per l’uomo, da non aver citato a farne il sinonimo di Dio, che Dio non esista, e che la falsità del dogma teologico sia, quanto alla realtà del contenuto, oggi dimostrata?

«Ahimé! no. È stato distrutto un pregiudizio relativo all’essenza divina; con lo stesso colpo, fu constatata l’indipendenza dell’uomo; ecco tutto. La realtà dell’Essere divino fu pregiudicata, e la nostra ipotesi sussiste sempre. Dimostrando, a proposito della Provvidenza, che era impossibile che Dio fosse, abbiamo fatto un primo passo nella determinazione dell’idea di Dio; ora si tratta di sapere se questo primo dato va d’accordo con ciò che rimane dell’ipotesi, per conseguenza si tratta di determinare, dal medesimo punto di vista dell’intelligenza, ciò che Dio sia, se egli esiste». (Sistema, p. 273). Finalmente messa in luce l’infondatezza dell’ipotesi divina, inadeguata al dominio del mondo ma solo in grado di fornire sostegno al peggiore dei despoti, occorreva un passo avanti. Modestamente e senza secondi fini, almeno coscienti, riduco l’importanza che in passato abbiamo dato all’ateismo filosofico aprendo un contenzioso sociologico, tagliando di netto alcune premesse relative alle certezze della teoria. Il nuovo potere è stato costruito su queste premesse e anche noi abbiamo dato il nostro contributo. Razionalizzando siamo stati razionalizzati, da perfetti razionalisti. Andando in cerca della verità riguardo l’esistenza di Dio, abbiamo scoperto quella dei sostenitori del potere, usata da loro a perfetto uso e consumo delle migliori intenzioni gestionarie. La certezza di trovare la verità per tutti, quella di tutti, la verità che è rivoluzionaria, ci ha impedito di guardare dove mettevamo i piedi. Quel poco che è stato indicato criticamente in questa direzione, affidandolo alla provocazione del parallelo “ateismo uguale teismo rovesciato”, non è stato sufficiente. O, almeno, così mi sembra. Ai futuri cercatori di fuoco decidere in merito. Per conto mio non nutro molte illusioni.

«Poiché – sostiene Proudhon – nello stesso modo che dopo aver constatata la colpevolezza dell’uomo sotto l’influenza delle contraddizioni economiche, abbiamo dovuto dar ragione di questa colpevolezza, sotto pena di lasciare l’uomo mutilato, e di aver fatto di lui una satira disprezzabile; nello stesso modo, dopo aver riconosciuta la chimera d’una Provvidenza in Dio, dobbiamo cercare in qual modo questo difetto della Provvidenza si concili con l’idea di un’intelligenza e di una libertà sovrane, sotto pena di mancare all’ipotesi proposta, e che nulla ancora prova essere falsa.

«Dunque, affermo che Dio, se un Dio c’è, non assomiglia punto all’effige che ne hanno fatto i filosofi ed i preti; che non pensa e non agisce secondo la legge d’analisi, di previdenza e di progresso, che è il seguo distintivo dell’uomo; che, al contrario, pare piuttosto seguire una marcia inversa e retrograda; che l’intelligenza, la libertà, la personalità in Dio sono costituite diversamente che in noi; e che questa originalità di natura, perfettamente motivata, fa di Dio un essere essenzialmente anti-civilizzatore, anti-liberale, anti-umano». (Ib., pp. 273-274).

La conclusione è logica: Dio è il male. Fin quando l’uomo non sarà libero, fin quando si inginocchierà davanti a re e a preti, davanti a presunti liberatori, sia pure socialisti, non sarà libero e il fantasma di Dio resterà a significare il senso del male e la realtà del male.

Ponendo l’identità tra dio e male Proudhon determina le condizioni che chiariscono l’idea di fondo della religiosità umana. Non si affanna a combattere un simbolo o un’idea come vengono manipolati da questo o quel pensatore, ma identifica il male come riflesso contraddittorio del bene. Allo stesso modo, lo sfruttamento (il male) determina le condizioni che rendono possibile la liberazione (il bene). Con grande precisione Schopenhauer: «Come una forza esterna non può mutare o eliminare il volere, così nessuna forza estranea può liberarlo ai tormenti prodotti dalla vita, che di quel volere è fenomeno. L’uomo è sempre ridotto a contare solo su se stesso, in ogni cosa nella sostanza delle cose. Vanamente l’uomo produce degli dèi, per mendicare e carpire mediante adulazioni quello che solo la sua forza di volontà può dargli. Il Vecchio Testamento aveva fatto del mondo e dell’uomo l’opera di un Dio; ma il Nuovo Testamento è costretto, per insegnare che la salvezza e la redenzione dal dolore del mondo può scaturire solo dal mondo stesso, a fare di questo Dio un uomo. Ciò da cui tutto per l’uomo dipende, è, e rimane, la stessa volontà dell’uomo. Saniassi, martiri e santi di ogni fede e nome hanno affrontato con spontaneità e volentieri quei martìri, in quanto in loro la volontà di vivere era soppressa; fu dunque a loro gradita persino la lenta distruzione del suo fenomeno. Non posso fare a meno di dichiarare che l’ottimismo, quando per caso non sia il vuoto cianciare di taluni, sotto la cui piatta coltre non altro alberga se non parole, non soltanto mi sembra una concezione assurda, ma, in verità, anche iniqua, un amaro scherno dei mali indicibili patiti dall’umanità. E non si pensi, del resto che la fede cristiana sia favorevole all’ottimismo; anzi, nei Vangeli le parole “mondo” e “male” sono usate quasi come sinonimi». (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 59). Cadono i pregiudizi organizzativi, si annuncia chiaramente nel pensiero di Proudhon la correlazione che unisce Dio e Stato, in un binomio che compendia il male, tutto quello che di più nocivo l’umanità ha prodotto contro se stessa, per consentire il processo di liberazione.

L’ordine provvidenziale giustifica e regge l’ordine supremo. Disordine il primo, caos il secondo, legati insieme dal comune interesse, della sopraffazione e dell’imbroglio. Il prete, simbolo concreto dell’idea collettiva della religiosità, divenuto strumento del potere dell’istituzione Chiesa, trova il proprio corrispettivo nel funzionario statale, strumento del potere dell’istituzione voluta dalla proprietà, a completamento e a difesa della prima istituzione.

Se la religiosità dei popoli primitivi, come quella delle turbe in rivolta, si accontenta di un semplice capo che raccoglie il carisma e lo utilizza a propri scopi, popoli evoluti hanno bisogno di una serie di simboli e di riferimenti, la loro religiosità viene sfruttata in mille modi, il tutto nel disperato tentativo di impedire agli sfruttati di prendere coscienza e di attaccare il centro degli interessi della classe dominante: la proprietà.

Ecco perché Proudhon scrive: «Se non esistesse Dio, non vi sarebbero affatto proprietari; questa è la conclusione dell’economia politica.

«E la conclusione della scienza sociale è questa: la proprietà è il delitto dell’Essere supremo. Non c’è per l’uomo che un solo dovere, una sola religione, rinnegare Dio: Hoc est primum et maximum mandatum.

«È provato che lo stabilimento della proprietà fra gli uomini non è stata faccenda d’elezione e di filosofia: la sua origine, come quella della dignità regia, come quella delle lingue e dei culti, è in una parola, divina. La proprietà appartiene alla grande famiglia delle credenze istintive che, sotto il manto della religione e dell’autorità, regnano dappertutto ancora sulla nostra orgogliosa specie. La proprietà, in una parola, è essa stessa una religione; essa ha la sua teologia, l’economia politica; la sua casistica, la giurisprudenza; la sua mitologia ed i suoi simboli nelle forme esteriori della giustizia e dei contratti. L’origine storica della proprietà, come di ogni religione, si nasconde nelle tenebre. Interrogata su se stessa, essa risponde col fatto della sua esistenza, essa si spiega con leggende, e dà allegorie per prove. Infine la proprietà come ogni religione, è sottomessa alla legge dello sviluppo. Così la si vede via via semplice diritto d’uso e d’abitazione, come presso i Germani e gli Arabi; possessione patrimoniale, inalienabile a perpetuità, come presso gli Ebrei; feudale ed enfiteutica come al medio evo; assoluta e circolabile a volontà del proprietario, tale quasi come la conobbero i Romani; e noi l’abbiamo oggi. Ma già, la proprietà, pervenuta al suo apogeo, volge verso il suo fine; attaccata dalla accomandita, dalle nuove leggi d’ipoteca, dall’espropriazione per causa d’utilità pubblica, dalle innovazioni del credito agricolo, dalle nuove teorie sull’affitto, ecc., il momento s’avvicina, in cui essa non sarà che l’ombra di se stessa». (Sistema, p. 453). Il movimento ipotizzato come continuo attorno allo svolgimento storico non ammette metodologie risolutive, una volta poteva bastare per condurci a contatti consistenti con la realtà, contatti capaci di durare nel tempo, anche di fronte a vicissitudini estremamente difficili. Oggi non è più così, la condizione di partenza non è stata sfruttata come si poteva. Limiti e ignoranze, senza dubbio. Ma anche scelte in nome di quell’immediatezza dei risultati che non ha pagato puntualmente a fine mese.

«A questi tratti generali – dice Proudhon – non si può disconoscere il carattere religioso della proprietà.

«Questo carattere mistico e progressivo si mostra soprattutto nell’illusione singolare che la proprietà cagiona ai suoi propri teorici, e che consiste in ciò che più si sviluppa, si riforma, e si migliora la proprietà, più se ne affretta la rovina, e s’immagina sempre di credervi di più allorché in realtà vi si crede di meno: illusione, del resto, comune a tutte le religioni». (Ib., p. 454).

Il regno del proprietario corrisponde al regno celeste, come il capo di tutti i proprietari – non quello che possiede di più ma quello che nel carisma ne realizza la potenza emblematica – corrisponde al capo del regno celeste, a Dio. In un mondo comunista la religione non ha senso, primo, come istituzione, retaggio di secoli di barbarie organizzata a favore del potere, secondo, come sentimento collettivo. Scomparsa la proprietà privata scompare il senso mitico della religiosità.

Lo Stato raccoglie l’esempio dell’istituzione religiosa, realizzandosi in forma assoluta a sua immagine e somiglianza. Quando questa decade dagli antichi fastigi intervengono modificazioni anche all’interno dell’organizzazione statale: i tempi e le condizioni di produzione si modificano, quindi anche le condizioni del dominio debbono modificarsi.

Interessanti le considerazioni fatte da Nicolai Hartmann: «Dell’inautentico, la scienza ha facilmente ragione. Essa non si muove come l’ethos, la fede, il gusto, nei segreti recessi dell’umanità, ma nella piena luce della coscienza. Sapere è essenzialmente coscienza. E se abbiamo sempre constatato che lo spirito obiettivo in quanto tale è privo di coscienza, qui potremmo invece chiederci se proprio la scienza, nei limiti variabili della sua incidenza, non sia chiamata ad occupare il posto vacante della coscienza comune. Naturalmente, essa non “è” una tale coscienza. Ma in concreto è comune, pur essendo, per il singolo, oggetto di coscienza. Contemporaneamente, dal suo campo sono bandite le passioni tutte: la scienza si muove su un altro piano, al di sopra e al di là di esse. Perciò non è esposta a gran parte dei fattori falsificanti – almeno, non a quelli della suggestione, degli interessi particolari, dell’opinione pubblica, e neppure dell’iniziativa privata. E se in essa non è già presente una fonte di inautenticità non si vede come questa dovrebbe sopravvenirle dall’esterno. Naturalmente, anche qui si fanno sentire, in via mediata, i grandi interessi, se non le vere e proprie passioni, le quali tuttavia non appartengono alla conoscenza come tale, ne sono in ogni momento separabili, anzi, alla lunga se ne staccano da sé. L’esempio più tipico è qui certamente l’influsso esercitato da istanze di ordine ideologico o religioso. Ciò che si crede o si accetta in nome di un’autorità può falsare, ostacolare la conoscenza, darle l’illusione di sapere ciò che non sa; può addirittura prescriverle materialmente che cosa accogliere o respingere. Parimenti, può accadere che una data volontà politica cerchi di imporre ad ogni costo una particolare dottrina (per esempio, dello Stato, o del diritto). In ambedue i casi, si può esercitare sulla scienza una violenza tale da “costringerla” a dimostrare ciò che la volontà dispotica pretende. In ambedue i casi, però, si può dire che la falsificazione non tocca realmente la scienza in se stessa; questa, anzi, resiste alle imposizioni, e si tratta di una resistenza che ha esempi ben noti. Nella misura in cui, invece, non resiste, non solo accetta la pretesa ma la assume seriamente come vera, se ne convince; i suoi tentativi di dimostrarla anche scientificamente sono allora un autentico sforzo per la conoscenza e la verità. Non si obietti che questi tentativi sarebbero solo errori capaci di condurre a nuovi errori. In primo luogo, non è affatto detto che debbano proprio essere errori. E poi, nella scienza, un errore è tutt’altro che falsificazione e inautenticità». (Il problema dell’essere spirituale [1933], tr. it., Firenze 1971, pp. 499-500). Non basta il baluardo della scienza se questa viene posta al centro delle nostre attenzione come semplice sostituzione di Dio. Anche la ricca indicazione prospettica che ci viene dalla ragione collettiva, per insistere sul termine di Proudhon, potrebbe macchiarsi caricandomi di un destino che non posso accogliere dentro di me. Mi sentirei ospite per riflesso in un mondo estraneo e inappagante, io stesso un riflesso di qualcosa d’altro, rappresentante inadeguato di uno sviluppo o un impulso non concluso in sé in maniera accettabile. Spesso è questo che avverto, mentre attorno a me ronzano i mille riferimenti nobili e altezzosi del dover essere.

Ancora Proudhon: «La religione, dicono questi falsi logici, sulla fede di un’etimologia di Cicerone, la religione è il legame dell’umanità; mentre invece dovrebbero dire: la religione è il segno, l’emblema della legge sociale. Ora, cancellandosi quest’emblema tutti i giorni sotto lo stropiccio della critica, non resta che l’aspettativa d’una realtà, che la scienza positiva solo può determinare e raggiungere.

«Così la proprietà, una volta che si è cessato di difenderla nella sua brutalità originale, e si parla di disciplinarla, di sottometterla alla morale, di subordinarla allo Stato, in una parola di socializzarla, la proprietà pericola, perisce. Perisce, perché è progressiva; perché la sua idea è incompleta e la sua natura non ha nulla di definitivo; perché è il momento principale d’una serie il cui insieme solo può dare un’idea vera, in una parola perché è una religione. Ciò che si ha l’aria di conservare e che in realtà si insegue sotto il nome di proprietà, non è più la proprietà; è una forma nuova di possedimento senza esempio nel passato, e che ci sforziamo di dedurre, dai princìpi o motivi presunti della proprietà, per effetto di quella illusione di logica, che ci fa sempre supporre all’origine o al fine d’una cosa ciò che conviene cercare nella cosa stessa, la sua significazione e la sua portata». (Sistema, p. 455).

Tutto il lavoro della coscienza immediata, a partire dall’orientamento, si perfeziona in movimenti che si integrano in un rispettivo bisogno di riconoscimento convenzionale. L’orientamento da solo, cioè il procedere verso la conoscenza, non avrebbe questa capacità, neanche riferendosi a un luogo di già costituito delle giacenze archiviate, com’è il caso del campo. Viceversa, la cultura, prima, e lo sforzo conoscitivo concreto, poi, saldano l’insieme dalla determinazione imperfetta del movimento conoscitivo, riuscendo a cogliere quello che la coscienza capisce della realtà vera e propria, dove l’avvenuta razionalizzazione del fantasma religioso considera la parzialità come universalità di tutti i possibili e così si acquieta nell’oggetto artefatto, fabbricato. Jules-Henri Poincaré dirà qualche decennio dopo Proudhon: «Dobbiamo ammettere che le relazioni tra le sensazioni soltanto possono avere un valore obiettivo. Dire che la scienza non può avere valore obiettivo perché essa ci fa conoscere solo rapporti, è ragionare alla rovescia, perché precisamente solo i rapporti possono essere considerati obiettivi. Gli oggetti esteriori, per esempio, per i quali la parola oggetto è stata inventata, sono proprio oggetti, e non apparenze fuggevoli e inafferrabili, perché non sono soltanto gruppi di sensazioni, ma anche gruppi cementati da un legame costante. Questo legame, ed esso soltanto, è oggetto in essi, e questo legame è un rapporto. Dunque quando noi domandiamo quale sia il valore obiettivo della scienza, non vogliamo dire: la scienza ci fa conoscere la vera natura delle cose? – ma vogliamo dire semplicemente: ci fa essa conoscere i veri rapporti delle cose?». (Il valore della scienza [1905], tr. it., Firenze 1947, p. 234). Sarebbe possibile costruire un linguaggio della diversità, un linguaggio senza modelli, quindi senza pericoli di recupero. Un linguaggio in grado di sapere, non solo di mostrare. Ma occorrerebbe essere sapienti, come Aristotele chiamava i filosofi ionici, cosa che non siamo né prevediamo di potere essere. Ma, considerando l’intero quadro di questo viaggio, ci si accorge che sono tanti gli aspetti che possiamo descrivere, sempre con l’unico mezzo che possediamo, quello razionalizzante. Il pericolo è lì, quindi non vale la pena di sottolinearlo ancora una volta. Partendo dall’inquietudine, c’è nel trarsi indietro dall’illusione religiosa una condizione d’indicibilità che viene superata praticamente con interventi indiretti, spesso fuorvianti, definibili per metafora o analogia, mai come rappresentazione del movimento di cui si discute. È la dimissione aperta e dichiarata delle tradizionali modulazioni rappresentative. Un movimento che fa paura e che richiede un coinvolgimento personale, non un’attesa di chiarimenti.

«Ma se la proprietà è una religione – insiste Proudhon – e se, come ogni religione, è progressiva, come ogni religione ha il suo oggetto proprio e specifico. Il cristianesimo ed il buddismo sono le religioni della penitenza, o dell’educazione dell’umanità, il maomettismo è la religione della fatalità; la monarchia e la democrazia sono una sola e medesima religione, la religione dell’autorità; la filosofia stessa è la religione della ragione. Che cos’è dunque questa religione particolare, la più tenace delle religioni, che deve trascinare tutte le altre nella sua caduta e tuttavia non perirà che l’ultima, alla quale di già i suoi seguaci non credono più, la proprietà?

«Siccome la proprietà si manifesta con l’occupazione e l’usufrutto, ha per scopo di fortificare e d’ingrandire il monopolio col dominio e l’eredità; a mezzo della rendita raccoglie senza lavoro, con l’ipoteca compromette senza cauzione; è refrattaria alla società; la sua regola è il piacere, e deve perire per la giustizia; la proprietà è la religione della forza. Le favole religiose ne fanno testimonianza. Caino, il proprietario, secondo il Genesi, conquista la terra con 1a sua lancia, l’attornia di pioli, se ne fa una proprietà, ed ammazza Abele, il povero, il proletario, figlio come lui d’Adamo, l’uomo, ma di casta inferiore, di condizione servile». (Sistema, p. 455). Il consenso urla il suo ruolo, non solo l’imposizione del più forte, ma il rifiuto della lotta e l’amore per le proprie catene costituiscono una parte fondamentale della divisione in classi. Non può esserci consenso in presenza di un’attività creativa diffusa. Il vecchio problema del meccanismo che gioca a favore del più forte, pur persistendo sotto molti aspetti quasi immutato, si è modificato moltissimo in questi ultimi anni mettendo a nudo i limiti di un realismo che si basava sulla pretesa di riuscire a vedere con chiarezza le storture del mondo. Questo realismo ci ha detto a lungo che gli sfruttati avrebbero finito per prendere coscienza della loro condizione. Non è stato così. Disuguaglianze nuove sono sorte e non sono state affrontate col dovuto coraggio. La contrapposizione netta tra sfruttati e resto del mondo non è mai stata accettata fino in fondo, ci sono state delle concessioni dapprima soltanto logiche, poi anche pratiche.

«Queste etimologie – continua Proudhon – sono istruttive: dicono di più colla loro semplicità che non tutti i commentari. Gli uomini hanno sempre parlato la stessa lingua; il problema dell’unità del linguaggio è dimostrato dall’identità delle idee che esso esprime; ed è ridicolo disputare sulle varianti di suoni e di caratteri.

«Così, secondo la grammatica, come secondo la favola e l’analisi, la proprietà, religione della forza, è nello stesso tempo religione della servitù. Secondo che s’impadronisca a mano armata, o proceda per esclusione e monopolio, essa genera due specie di servitù: l’uno, il proletariato antico, risultato del fatto primitivo della conquista o della divisione violenta d’Adamo, l’umanità, in Caino ed Abele, patrizi e plebei; l’altro il proletariato moderno, la classe operaia degli economisti, prodotta dallo sviluppo delle fasi economiche, che tutte si riassumono, come s’è visto, nel fatto capitale della consacrazione del monopolio col dominio, l’eredità e la rendita». (Ib., p. 456).

Ma non posso cercare le indicazioni chiarificative dentro me stesso. Ancora una volta è la ragione collettiva che, secondo Proudhon, mi deve illuminare. Vado allora alla ricerca di un cenno di maggiore concretezza, cerco il soffio che dovrebbe animare la mia anima, l’anima del mio corpo e mi devo accontentare di un misero palliativo. Non c’è nulla di forte nella luce incerta della forza, mi aiuta a vincere – ed è così che vuole Dio – ma io non voglio vincere, voglio vivere, che è un’altra cosa.

Se qualcosa mi afferra per i capelli e mi trascina via ho un attimo di respiro e posso tenere a distanza la mia volontà che come uno scalpello mi penetra nel cuore senza ritegno. La mia azione diventa così qualcosa d’altro, di completamente favoloso di cui in queste parole non rimane che un modesto riverbero.

Continuando il suo ragionamento, così Proudhon: «Ora, la proprietà, cioè, nella sua espressione semplice, il diritto della forza, non poteva a lungo conservare la sua rozzezza originale; dal primo giorno cominciò a comporre la sua fisionomia, a contraffarsi, a dissimularsi sotto una moltitudine di cambiamenti. Arrivò ad un punto che il nome di proprietario, sinonimo, nel principio, di brigante e di ladro, è diventato alla lunga, per la trasformazione insensibile della proprietà, e per una di quelle anticipazioni dell’avvenire frequenti nello stile religioso, precisamente il contrario di ladro e di brigante. Ho raccontato in un’altra opera questa degradazione della proprietà: vado a riprodurla con qualche sviluppo.

«Il furto dell’altrui bene si esercita con un’infinità di mezzi, che i legislatori hanno con cura distinti e classificati, secondo il grado di brutalità o di finezza, come se avessero voluto ora punire ed ora incoraggiare il ladrocinio. Così si ruba assassinando sulla pubblica via, isolatamente ed in banda, per rottura, scalata, ecc., per sottrazione semplice, per falso in scrittura pubblica o privata, per fabbricazione di false monete.

«Questa specie comprende tutti i ladri che esercitano senz’altro mezzo che la forza o la frode aperta: banditi, briganti, pirati, ladri di terra e di mare. Gli antichi eroi si gloriano di questi nomi onorevoli, e considerano la loro professione tanto nobile quanto lucrosa». (Ib., p. 456).

Proudhon non approfondisce l’argomento, in ogni caso oggi ne sappiamo molto di più. Oggi sappiamo quanti limiti ci sono a una pratica del comunismo a livello statale, non ci facciamo più illusioni. Molti rivoluzionari non si dichiarano apertamente autoritari e nemmeno individualisti. Di fronte al latente bisogno di comunismo non si sa cosa rispondere. Gli anarchici dovrebbero avanzare un progetto utopico riguardante una società futura fondata su valori diversi. Più volte questo problema è stato affrontato in passato, senza arrivare mai a una definizione accettabile. Meglio fallire cercando apertamente, non dietro qualche espediente tartufesco, di aprire una strada che calpesti luoghi comuni e tabù, che limitarsi a inseguire un miserabile ideale autarchico impossibile da raggiungere se non sacrificandosi e immiserendosi nei desideri e quindi nei bisogni.

Proudhon riflette a lungo sul rapporto sostanziale tra Dio e Stato e conclude per una negazione dell’ateismo umanista, che si colloca davanti al problema di Dio solo dal punto di vista filosofico. La filosofia, dopo avere abbattuto il dogmatismo teologico, non può fare altro – restando metafisica – che spiritualizzare la materia, idealizzare la realtà. La sostanza e i motivi che determinano una certa realtà produttiva gli resteranno sempre estranei.

Io stesso nel già citato Saggi sull’ateismo, ho sostenuto la necessità di uscire da una banale contrapposizione al teismo che riduce l’ateismo a un battibecco da cortile. La riflessione ateista deve svolgersi nel concreto della prassi, attaccare il realizzarsi dell’istituzione “Chiesa” e il realizzarsi del sentimento di religiosità intrinseco alle masse nello sfruttamento da parte del proprietario. In questo modo, come dice appunto Proudhon, Dio è origine della proprietà e dello Stato.

Chi rinuncia alla protezione sa già che non può consentire ulteriori ritardi alla resa dei conti. Dio è un essere vendicativo, reagisce a ogni tentativo di frammentazione del suo dominio con una spudoratezza infernale. Noi viviamo immersi in questa cosciente rinuncia, un elemento sottile permea l’aria che respiriamo e che ci impedisce di chiudere definitivamente la nostra rinuncia. Quando anche l’intera atmosfera del nostro tempo si rifiutasse di continuare nella generazione del mostro, siamo sempre là a impedire che qualcosa si chiuda definitivamente. Una calma disperazione prende alla gola e penetra nelle midolla offuscando i pensieri e le intuizioni. Dobbiamo alzarci al di sopra di questo abbandono, dobbiamo vincere questa pallida agonia costituendoci noi stessi in abbandono. Non è l’autorità che ci ha lasciati, ma noi che l’abbiamo rifiutata.

Ecco ancora Proudhon: «L’umanità suppone dunque fatalmente l’esistenza di Dio: e se durante il lungo periodo chiuso ai nostri tempi, essa ha creduto alla realtà della propria ipotesi; se ne ha venerato l’inconcepibile oggetto; se, dopo essersi colta in questo atto di fede, persiste scientemente, ma non più liberamente nella nozione d’un essere sovrano ch’essa sa essere una semplice personificazione del proprio pensiero; se è in procinto di ricominciare le sue invocazioni magiche, bisogna credere che in una così meravigliosa allucinazione si nasconda un qualche mistero, che merita essere profondamente studiato.

«Dico allucinazione e mistero, senza però pretendere di negare il contenuto soprumano dell’idea di Dio, e senza ammettere la necessità d’un nuovo simbolismo, cioè a dire d’una nuova religione. E se non c’è dubbio che l’umanità affermando Dio, o quel che si voglia sotto il nome di me o di spirito, non fa che affermare se stessa, è altresì innegabile che in tal caso ella s’afferma altrimenti da quella che si conosce; ciò risulta da tutte le mitologie e da tutte le teodicee. Essendo poi questa affermazione irresistibile, si connette a rapporti segreti che importa, se è possibile, determinare scientificamente». (Sistema, p. 31). I massimi esempi della mistica, per restare nell’orbita che più ci interessa, sono quelli della produzione letteraria di presentificazioni, ciò costituisce un punto isolato nell’attività illustrativa del Dio che circola fra le istituzioni come un intruso e uno straniero. Per quel che si può capire, essenzializzarlo nel linguaggio scritto è fatto marginale. Un modello quasi ineguagliato è Giovanni della Croce, dove la presenza non preme sugli effetti retorici o sulla costruzione di frasi a effetto, ma si affida alla logica elementare delle deduzioni partendo da spunti facili, fondati sul senso comune, arrivando a conclusioni complesse che risultavano più che comprensibili al lettore.

«In altre parole – scrive Proudhon – l’ateismo, detto anche umanismo, vero in tutta la sua parte critica e negativa, se si fermasse all’uomo considerato come figlio della natura e mettesse in disparte quella prima affermazione dell’umanità ch’ella è figlia, immagine, emanazione, riflesso o verbo di Dio, sarebbe rinnegando così il proprio passato, una contraddizione di più. Dobbiamo dunque criticare 1’umanismo, verificare se l’umanità, presa nel suo complesso e in tutti i periodi del suo sviluppo, soddisfi alla idea divina, fatta anche deduzione degli attributi iperbolici e fantastici di Dio; se soddisfi alla pienezza dell’essere, se soddisfi a se medesima. Dobbiamo, in una parola, ricercare se l’umanità tende a Dio secondo l’antico dogma, ovvero se ella stessa diventa Dio, come dicono i moderni. Forse troveremo, infine, che i due sistemi, malgrado la loro apparente opposizione, sono entrambi veri e, nel fondo, identici; in tal caso l’infallibilità della ragione umana, nelle sue manifestazioni collettive, così come nelle altre speculazioni sarebbe espressamente confermata. Insomma sino a che non avremo verificata sull’uomo l’ipotesi di Dio, la negazione atea non può essere definitiva.

«Dovremo dare dunque una dimostrazione scientifica, o piuttosto empirica, dell’idea di Dio: ora codesta dimostrazione non è stata mai tentata. Mentre la teologia dogmatizzava sull’autorità dei suoi miti e la filosofia speculava con l’aiuto delle sue teorie, Dio è rimasto allo stato di concetto trascendentale, cioè dire inaccessibile alla ragione, e l’ipotesi dura sempre». (Ib., p. 32).

Cadono così le illusioni di un falso pietismo. Illusioni usate e sfruttate anche dalle minoranze comuniste che intendono guidare il popolo alla rivoluzione. È sempre in nome della fratellanza che questo avviene, ma è solo un modo più raffinato di sfruttare il bisogno che il popolo ha di liberarsi della propria sofferenza. Ora, siccome questo potrà avvenire solo quando il lavoratore procederà in modo autonomo alla propria liberazione, il cercare le strade della minoranza che guida e del capo che decide, sono altrettanti tentativi di mistificazione, tentativi condotti – come diceva Stirner – da altrettanti preti.

Spersonalizzando Dio, nei suoi vari modelli possibili, privandolo di ogni attributo identificabile sia pure in negativo, gli si dà il massimo della forza, la massima consistenza reale. Al di là, nell’àmbito della ricostruzione quantitativa – la Chiesa in primo luogo – ricomincia l’inconsistenza e la labilità.

Dobbiamo evitare che qualcuno o qualcosa – la ragione collettiva in primo luogo – trasferisca il Dio degli eserciti in quello della misericordia. In questo caso il nuovo oggetto mitico si collocherebbe troppo vicino ai luoghi della sofferenza, parlerebbe il linguaggio dei deboli al cuore dei miserabili. L’occhio esercitato scoprirebbe il vecchio idolo barbuto al di sotto della nuova maschera, e denuncerebbe la scoperta, ma il grido di spavento non potrebbe essere udito. Alla fine l’esercizio dell’occhio svanirà e quel riconoscimento diventerà impossibile. Alla fine il vecchio compito protettivo dell’autorità resterà ripristinato, nascosto ma non tanto fra le pieghe del sofferente. La forza di questo itinerario ricostitutivo è tale che adesso, dopo la perdita e il rinvenimento, Dio non avrà più vergogna a presentarsi nella sua fattispecie autoritaria. Ogni miserabile inebriato di valori lo accetterà memore di quello che per lui quell’idolo ha significato nel momento della distretta.

Attacca Proudhon: «Perché dunque far sempre intervenire nella gestione dell’economia la fratellanza, la carità, l’abnegazione e Dio? Non sarebbe forse perché gli utopisti trovano più facili le ciarle su queste grandi parole che gli studi seri sulle manifestazioni sociali?

«Fratellanza! Fratelli, sin che volete, purché io sia il fratello grande e voi il piccolo; purché la società, nostra madre comune, onori la mia primogenitura e i miei servizi raddoppiando la mia porzione. – Voi dite: provvederete ai miei bisogni nella misura dei vostri mezzi. Io intendo, al contrario, che vi si provveda nella misura del mio lavoro, sé no, smetto di lavorare.

«Carità! Nego la carità; è misticismo. Invano mi parlate di fratellanza e d’amore; sono convinto che non mi amate e sento benissimo che non vi amo. La vostra amicizia è una finzione e se mi amate, è per interesse. Io chiedo tutto quel che mi spetta, niente più di quanto mi spetta; perché me lo negate?

«Abnegazione! Nego l’abnegazione; è misticismo. Parlatemi di dare e di avere, solo criterio agli occhi miei del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male nella società. A ciascuno secondo le sue opere, e se, al caso, io sono disposto a soccorrervi, lo farò di buona grazia, ma non voglio essere costretto. Costringermi all’abnegazione è assassinarmi!

«Dio! Io non conosco Dio; è un misticismo. Cominciate dal cancellare questo nome dai vostri discorsi, se volete che v’ascolti; perché tremila anni d’esperienza mi hanno insegnato che chiunque mi parla di Dio attenta alla mia libertà o alla mia borsa. Quanto mi dovete? quanto vi devo? ecco la mia religione e il mio Dio». (Ib., p. 233).

Ma l’analisi di Proudhon si fa più stringata ed efficace. Rifiutati i pietismi e i falsi concetti di fratellanza e di amore o abnegazione, insiste sulla regola che presiede al rapporto tra autorità celeste e autorità terrena. Tutti i mestatori politici, tutti i teorici al servizio del potere costituito, tutti gli imbroglioni di ogni razza e fattura, tutti gli intellettuali che si prostituiscono agli ordini di chi comanda, non hanno mai potuto concepire nulla che non presupponga una struttura gerarchica. Quanto più la loro incapacità di responsabilizzarsi, per prima cosa, in quanto semplici individui è grande, tanto più in alto sollevano il proprio sdegno davanti all’eventuale negazione della necessità dell’autorità.

La condizione diversa, priva di un fondamento autoritario, non è determinabile in modo preciso. Ciò dichiara il fallimento della ragione, non l’inconsistenza della diversità. Tutti sperimentano l’inquietudine e il rifiuto del fare come prigione dei desideri e della vita. Nessuno lo sa spiegare in maniera razionale, in caso contrario nessuno coltiverebbe l’idea di Dio. Tutte le spiegazioni in questo senso sono requisitorie e sentenze, non spiegazioni vere e proprie. Il fatto di non saperlo spiegare nega l’esistenza della diversità, in altre parole del fare a meno di Dio, ma solo dal punto di vista dell’immediatezza e della ragione dominante, cioè dal punto di vista dei protocolli in vigore, non in assoluto. La diversità continua a esistere priva di spiegazioni razionali, l’universo collettivo che la ospita e la rielabora ha una sua logica, ed è di questa logica che bisogna andare in cerca. Questo è tutto. Certo, se per filosofia intendiamo la conoscenza retta e spiegata dalla ragione, ammettere l’esistenza delle diversità significa promulgare il fallimento della filosofia. Ma chi ha detto che sia questo il significato della filosofia? Soltanto i filosofi che hanno visto nella loro attività un banale espediente per risolvere il problema quotidiano della sopravvivenza.

Continua Proudhon: «Così il potere, strumento della potenza collettiva, creato nella società per servire da mediatore tra il lavoro ed il privilegio, si trova fatalmente incatenato al capitale e diretto contro il proletariato. Nessuna riforma politica può far scomparire questa contraddizione, poiché, secondo la confessione degli stessi politici, una simile riforma non riuscirebbe che a dare più energia ed estensione al potere, e che a meno di abbattere la gerarchia e disciogliere la società, il potere non può toccare le prerogative del monopolio. Dunque il problema consiste, per la classe lavoratrice, non nell’acquistare, ma nel vincere in una volta il potere ed il monopolio, ciò che vuol dire far sorgere dalle viscere del popolo, dalle latebre del lavoro, un’autorità più grande, un fatto potente che avviluppi il capitale e lo Stato e lo soggioghi. Ogni proposizione di riforma che non soddisfi a questa condizione non è che un flagello di più, una frusta di guardia, virgam vigilantem, diceva un profeta, che minaccia il proletariato.

«Il coronamento di questo sistema è la religione. Non debbo qui occuparmi del valore filosofico delle opinioni religiose, raccontare la loro storia, né ricercarne l’interpretazione. Mi limito a considerare l’origine economica della religione, il legame segreto che l’unisce alla politica, il posto che occupa nella serie delle manifestazioni sociali». (Ib., p. 235). L’economia fornisce di contenuto la religione, a volte questo contorto è datato, a volte è provvisto di una maggiore ampiezza di respiro. Ma non si tratta del medesimo lavoro, l’economia scava nella società e cerca di dimostrare le corrispondenze interne (che non esistono), la religione assume in proprio quella mancanza di corrispondenze e la riconduce a Dio. Spesso le proposte comuni non sono proponibili, anche perché col passare dei secoli c’è sempre meno da dimostrare (per l’economia) e c’è sempre meno da commuovere (per la religione). Certe immagini trasparenti, poniamo quelle del conforto per i sofferenti (in mancanza di meglio) costituiscono oggi un mito che a poco a poco è andato a collocarsi nell’àmbito del territorio utopico, dove la richiesta non è più quella di chiarimenti ma solo quella di ripresentazione della trama, come in tutte le favole per bambini. Da questa punto di vista, per quanto possa sembrare strano, l’operazione retorica da molti mistici infelicissimamente tentata (ma non da Giovanni della Croce) potrebbe costituire territorio di sperimentazione, se non altro perché non si propone la chiarezza, quindi a stretto rigore neanche la propaganda per la costruzione di un mondo migliore, ma l’eccitamento, che è faccenda diversa.

«L’uomo, disperando di trovare l’equilibrio delle sue potenze, si slancia per così dire fuori di sé e cerca nell’infinito questa sovrana armonia, la cui realizzazione è per lui il più alto grado della ragione, della forza e della felicità. Non potendo accordarsi con se medesimo, s’inginocchia davanti a Dio, e prega. Prega e la sua preghiera, inno cantato a Dio, è una bestemmia contro la società». (Ibidem).

Spezzare il gioco non pensandoci potrebbe essere la soluzione cercata, ma non lo è. Introdurre il rigore notomistico nella diversione, sottoporsi a un allenamento rischioso ed empirico, tentativi che abortiscono prima di cominciare. Cercare i ritmi e le cadenze è una forma di calcolo più educata, manca lo scopo sia pure per motivi diversi. Solo una solitudine mortale ha i requisiti opportuni per capire la visita dell’angelo. L’angelo è la sensazione che non scorre via inutilmente, il fruscio che si alza a rombo per poi cessare del tutto, è la pista sfolgorante della ragione collettiva dove scivola senza tregua il messaggio che deve ricondurre alla realtà. Ho gli occhi bendati ma leggo bene il contenuto del messaggio, vedo l’angelo e odo le sue risate. Vedo il filo che lo regge come gli orlandi di cartapesta della mia infanzia sul palcoscenico di legno di Angelo Grasso, fratello del grande Giovanni. Quel filo lo fa danzare davanti ai miei occhi. I tratti obliqui dell’angelo mi mettono paura, poi mi rendo conto che non ho nulla da temere, mi sento più sicuro. Capriole, salti, moine, giravolte, tutto il repertorio di un’umanità che si aggira nel labirinto senza uscire dalla sua esistenza. L’angelo riproduce simili delicatezze da bordello e se ne inorgoglisce. Il filo d’acciaio ha uno spessore di sette millimetri. Qualcuno frusta l’angelo ma questo non se ne avvede. Nulla può stornarlo dai suoi funambolici rivolgimenti.

Insiste Proudhon: «È da Dio, pensa l’uomo, che mi viene l’autorità ed il potere; dunque obbediamo a Dio ed al principe. Obbedite Deo et principibus. – È da Dio che mi viene la legge e la giustizia. Per me reges regnant et potentes decernunt justitiam; rispettiamo ciò che ha detto il legislatore ed il magistrato. È Dio che fa prosperare il lavoro, che innalza e rovescia le fortune; sia fatta la sua volontà! Dominus dedit, Dominus abstulit, sit nomen Domini benedictum. È Dio che mi castiga quando la miseria mi divora e che soffro persecuzione per la giustizia; accettiamo con rispetto i flagelli di cui la misericordia si serve per purificarci. Questa vita, che Dio mi ha donato, non è che una prova che mi conduce alla salute; fuggiamo i piaceri; amiamo, cerchiamo i dolori; facciamo della penitenza la nostra delizia. La tristezza che viene dall’ingiustizia lassù è una grazia; felici quelli che piangono!

«Riconosciamo tuttavia che la teoria della rassegnazione servì alla società impedendone la rivolta. La religione consacrando col diritto divino l’inviolabilità del potere e del privilegio diede all’umanità la forza di continuare la sua via e di esaurire le sue contraddizioni. Senza questa benda sugli occhi del popolo, la società si sarebbe mille volte disciolta. Era necessario che qualcuno soffrisse perché essa fosse guarita; e la religione, consolatrice degli afflitti, ha convinto il povero a soffrire. È questa sofferenza che ci ha condotti dove siamo: la civiltà, che deve al lavoratore tutte le sue meraviglie, deve ancora al suo volontario sacrificio il suo avvenire e la sua esistenza». (Ib., p. 236). Modelli diversi di sofferenza si possono osservare nella quotidianità, la religione li traduce in processi cumulativi che non generano più violente reazioni ma soltanto accettazioni.

Ancora Proudhon: «O popolo dei lavoratori! popolo diseredato, vessato, proscritto! popolo che s’imprigiona, che si giudica e che si uccide! popolo maltrattato, diffamato! Non sai che vi è un termine, anche alla pazienza, anche alla devozione? Non cesserai di prestare orecchio a questi oratori del misticismo che ti dicono di pregare e di attendere, predicando la salute ora colla religione, ora col potere, e la cui veemente e sonora parola ti seduce? Il tuo destino è un enigma che né la forza fisica, né il coraggio dell’anima, né gli splendori dell’entusiasmo, né l’esaltazione d’alcun sentimento possono sciogliere. Quelli che ti dicono il contrario t’ingannano e tutti i loro discorsi non servono che a ritardare l’ora della libertà, vicina a suonare. Che cosa è l’entusiasmo ed il sentimento, che cosa è una vana poesia, alle prese con la necessità? Per vincere la necessità non vi è che la necessità stessa, ultima ragione della natura, pura essenza della materia e dello spirito». (Ibidem).

La vicenda è considerevole, il problema di fondo anche, perfino gli aspetti linguistici si rivelarono importanti. Mettendo in ballo la violenza si entra in un discorso di iniziati se non si chiarisce la spontaneità della rivolta. Non c’è nessuna sacralità nel rapporto tra sfruttato e sfruttatore. Amettere questa condizione libera d’intervento fa saltare i nervi al perbenismo che attecchisce dappertutto, specialmente fra coloro che si dicono disponibili alle esperienze rivoluzionarie, i quali sono i primi a chiedere garanzie nella partecipazione agli esperimenti sociali che potrebbero far saltare le condizioni di controllo della società, almeno la garanzia di uscire vivi. Accanto a questo lavoro ce n’è un altro che penetra nella problematica sociale e che mantiene anche oggi tutta la freschezza di tanto tempo fa. In altre parole non è più possibile parlare di diversità, non tenere presente tanti aspetti che attengono alla trasformazione e alla qualità, aspetti che costituiscono il fondamento di ogni rivoluzione, aspetti che sono nello stesso tempo fondamento di altre attività umane.

La categoria della partecipazione diventa accessibile nel momento in cui il sogno si decide a muoversi, a venire avanti, a diffondere i suoi bagliori visivi e sonori su tutta la realtà. L’antico mito greco della totalità qui riprende una dimensione diversa da quella che aveva in passato. Strappato alla sua parzialità il mondo consolidato, ormai privo di difese, è posto di fronte a una nuova totalità in movimento, di cui è un elemento propulsivo ancora sconosciuto per quanto non trascurabile, non marginale, ed entra quindi in una realtà diversa, dove non resta più niente della precedente parzialità. Basta un piccolo gesto, un trasferimento della centralità delle opinioni dominanti, che vengono improvvisamente a riversarsi sul singolo individuo che agisce, perché tutto si metta in gioco. Non occorrono grandi avvenimenti perché si perpetri l’atto di crudeltà che strappa l’idolo dalle sue fondamenta.

Si confessa Proudhon: «Io sono certamente, meno di molti atei, proclive al meraviglioso, ma non posso impedirmi di pensare che le storie dei miracoli, delle predizioni, degli incantesimi, ecc., non sono altro se non narrazioni alterate di effetti straordinari prodotti da certe forze latenti o, come si diceva una volta, da potenze occulte. La nostra scienza è ancora così brutale e piena di malafede e nei nostri dottori trovi così poca scienza insieme a tanta burbanza, negando essi i fatti che li impacciano onde proteggere le opinioni di cui si giovano, che io diffido di questi spiriti forti non meno che dei superstiziosi. Sì, ne sono convinto, il nostro razionalismo grossolano inaugura un periodo che, a forza di scienza, diverrà veramente prodigioso; l’universo agli occhi miei è un laboratorio di magia nel quale c’è da aspettarsi tutto... Ciò detto torno al mio tema». (Ib., p. 27). Non so bene se dietro queste affermazioni ci sia qualcosa d’altro. L’appiattimento che oggi si diffonde in tutte le possibilità scientifiche e che coinvolge anche i tentativi di salvare la creatività umana attraverso la porta privilegiata dell’arte, riesce a far passare sempre meno possibilità operative, in quanto ogni creazione allo stato attuale delle cose deve lottare su due fronti: da un lato contro il risucchio dell’appiattimento che fa apparire creativa la stessa uniformità, dall’altro contro il risucchio contrario, ma avente la medesima funzione, del mercato e delle sue quotazioni.

Ecco ancora Proudhon: «Si cadrebbe in inganno dunque se si pensasse, dopo la rapida esposizione da me fatta delle evoluzioni religiose, che la metafisica abbia detta ormai l’ultima parola sul doppio enigma espresso da queste parole: esistenza di Dio, immortalità dell’anima. Qui, come altrove, le conclusioni più ardite e meglio fondate della ragione, quelle che sembrano aver troncata per sempre la questione teologica, ci riconducono al misticismo primordiale ed implicano i dati novelli d’una filosofia inevitabile. La critica delle opinioni religiose ci fa oggi sorridere di noi e delle religioni, e pure il riassunto di questa critica è semplicemente la riproduzione del problema. Il genere umano, nel momento in cui scrivo, è alla vigilia di riconoscere e di affermare qualcosa che equivarrà per lui all’antica nozione della divinità; e questo non più, come un tempo, con un moto spontaneo, ma per riflessione e in virtù di una dialettica invincibile.

«Cercherò di spiegarmi in poche parole.

«Se v’è un punto sul quale i filosofi abbiano, loro malgrado, finito per mettersi d’accordo, è senza dubbio la distinzione tra l’intelligenza e la necessità; tra il soggetto del pensiero e il suo oggetto, tra il me e il non-me o, come volgarmente si dice, tra lo spirito e la materia. So benissimo che tutte queste parole non esprimono nulla di reale e di vero, che ciascuna di esse indica una scissione dell’assoluto che, solo, è vero e reale, e che prese separatamente, implicano tutte al pari una contraddizione. Ma non è meno certo altresì che l’assoluto ci è completamente inaccessibile, che noi non lo conosciamo altrimenti che per i suoi termini opposti, i soli che cadano sotto il nostro empirismo, e che se l’unità sola può ottenere la nostra fede, la dualità è la prima condizione della scienza». (Ibidem).

Ovviamente, a questo punto, i problemi da affrontare si allargano talmente che il riferimento alla scienza in senso stretto è soltanto formale. Una scienza della diversità non è possibile se non spezzando il muro che la società permissiva, ma non troppo, ha costruito quasi senza accorgersene tra la ricerca e la sua applicazione. L’ipotesi, per come è stata sviluppata nell’àmbito delle teorie e delle pratiche della sovversione, finisce per spezzare i ruoli reciproci, e contrastanti, di chi pensa e di chi è pensato. Si tratta ormai di un discorso vecchio, che resta comunque nuovo, e che manifesta tanti aspetti incomprensibili e quindi non accumulabili, tutte le volte che viene applicato, come faremo qui, sembra invece ricevere un crisma di razionalizzazione, cosa che non è del tutto possibile. La costruzione di una nuova scienza va presa sotto diversi punti di vista, negli aspetti tecnici ma anche nella pratica giornaliera, approfondendo le sabbie mobili del recupero istituzionale. Ma non ci sono solo gli aspetti tecnici, ci sono i movimenti e le risposte individuali. Il nostro rapporto personale con la ragione collettiva. L’angelo di cui abbiamo parlato sopra dice delle assurdità? Come tutti. Non c’è nemmeno bisogno di forzargli la mano per sentirle. Ma siamo noi che dobbiamo sollevare il sipario per cogliere quello che c’è sotto.

«Così, chi pensa e chi è pensato? Cos’è un’anima? Cos’è un corpo? Sfido a sfuggire questo dualismo. È delle essenze come delle idee; le prime si mostrano separate nella natura, come le seconde nell’intelletto. È nella stessa guisa che le idee di Dio e dell’immortalità dell’anima, malgrado la loro identità, si sono collocate successivamente e contraddittoriamente nella filosofia; così appunto, malgrado la loro fusione nell’assoluto, il me e il non-me si offrono separatamente e contraddittoriamente nella natura e noi abbiamo esseri che pensano e, nello stesso tempo, esseri che non pensano.

«Ora, chiunque si sia data la pena di rifletterci sopra, sa ormai che una distinzione simile, per quanto sussista in realtà, è ciò che la ragione può incontrare di più inintelligibile, contraddittorio e assurdo. Non si può concepire un essere qualsiasi senza le proprietà dello spirito o senza le proprietà della materia. Di maniera che se voi negate lo spirito, perché, non trovando posto in nessuna delle categorie di tempo, spazio, moto, solidità, ecc., vi sembra privo di tutti gli attributi che costituiscono il reale, io negherò alla mia volta la materia, la quale, non offrendomi di notevole altro che la sua passività e d’intelligibile altro che le sue forme, in nessuna parte si manifesta come causa (volontaria e libera) e si nasconde del tutto come sostanza. Così si giunge all’idealismo puro cioè al nulla. Ma il nulla ripugna a quei non so che i quali vivono e ragionano, riunendo in se medesimi, in uno stato (non saprei dire quale) di sintesi incominciata o di scissione imminente tutti gli attributi antagonisti dell’essere. Ci è giocoforza dunque iniziare con un dualismo i cui termini sappiamo perfettamente che sono falsi. Ma esso è per noi la condizione del vero e ci s’impone invincibilmente. In breve dobbiamo, come Descartes, come il genere umano, principiare dal me, cioè a dire dallo spirito». (Ibidem). La tanta sospirata chiarezza della realtà, su cui hanno pianto generazioni di portatori di coscienza al popolo, è stata raggiunta nell’unico modo possibile, cioè non rendendo chiara la realtà, cosa impossibile, ma rendendo reale la chiarezza, cioè facendo vedere realmente esistente una realtà costruita dalla tecnologia. Ciò ha dimostrato come non si possa restare prigionieri di una alternativa meccanica, quale quella tra spiegare e non spiegare in funzione dell’azione, perché tra questi momenti non c’è relazione. Non esiste, se non nei trattati di psicologia, una casistica statica dei comportamenti. L’altro aspetto delle certezze deterministe è lo strazio dell’incomprensione. La commedia dell’arte conosceva canovacci migliori. Per spiegare veramente la realtà occorre entrare nella storia, per agire occorre uscirne. Ci sarà sempre un irrimediabile passo tra coloro che indirizzano i loro pensieri a quello che ritengono sia il primo motore della storia in quel momento, o in generale, come forse accade più spesso, e coloro che agiscono ma purtroppo non sanno usare la lira. Il nulla è un falso problema.

«Ma – dice ancora Proudhon – da poi che le religioni e le filosofie, disciolte dall’analisi, sono venute a fondersi nella teoria dell’assoluto, non siamo riusciti meglio a sapere cosa sia lo spirito e differiamo dagli antichi non per altro che per la ricchezza del linguaggio di cui ammantiamo l’oscurità che ci circonda. Solamente, mentre per gli uomini dei tempi andati l’ordine attestava una intelligenza fuori del mondo, per i moderni sembra piuttosto attestarla nel mondo. Ora, si metta dentro o fuori, dal momento che la si afferma in grazia dell’ordine, bisogna o ammetterla ovunque l’ordine si manifesta, o non ritrovarla in nessuna parte. Non c’è più ragione di attribuire l’intelligenza alla testa che produsse l’Iliade che a una massa di materia cristallizzata in ottaedri. E reciprocamente è tanto assurdo riferire il sistema del mondo alle leggi fisiche, senza tenere conto del me ordinatore, quanto attribuire la vittoria di Marengo a combinazioni strategiche, senza pensare al Primo Console. Tutta la differenza che si può fare è che in quest’ultimo caso il me pensante è circoscritto nel cervello di Bonaparte, mentre, riguardo all’universo, il me non ha sito speciale e si diffonde ovunque». (Ib., pp. 27-28).

Spesso non scopriamo nulla. Le voci si accavallano incomprensibili, ci adeguiamo alle indicazioni che riflettono quello che è in noi, l’angelo le sollecita alla luce, si limita a farle venire in vita, la sua opera non contiene nulla, quello che c’è in noi si riverbera fuori e la ragione collettiva lo rimanda in quella chiave di comprensione che credevamo di non possedere. Non sapremo mai fino a che punto siamo stupidi di fronte alla mancanza di contenuti dell’angelo. Superando la soglia di noi stessi ci addentriamo negli altri, nell’angelo che riassume in sé la voce della collettività. Ma si tratta di un richiamo che annichilisce le nostre pulsioni primarie e contro cui occorrerebbe lottare con tutte le nostre forze, anche quando queste stanno precipitando verso l’annullamento. Le conoscenze oggettive dovrebbero corroborare quelle soggettive, al contrario esse non fanno altro che annientarle in un continuo bisogno di ulteriori riconferme. Eccoci all’interno del meccanismo tecnico. Il livello teorico segue il momento creativo. Ci si accorge così che molti aspetti potrebbero precipitare troppo presto, non ultima la possibilità di una assuefazione alla partecipazione. Parlando di simbiosi da notare che prima dell’altrui assuefazione c’è il pericolo che scatti la propria, contro cui bisogna attrezzarsi. Per evitare queste razionalizzazioni, che nella vita spesso corrispondono a professionalizzazioni prima di tutto, bisogna che la conoscenza divenga concezione di vita, vita essa stessa, non più stantia proposizione di schemi o di tralicci su cui arrampicarsi con la sola bravura del mimo o del pagliaccio, vita che viene così a svilupparsi in tante trame di partecipazione, trame rivoluzionarie perché collocate in una esatta dirittura di trasformazione.

Partire dalle tematiche suggerite dalla realtà – ecco il primato (o la maggiore attenzione) dell’economia – naturalmente intese in tutt’altro senso. Prima di tutto come possibile coinvolgimento dello spettatore. Si giunge così nelle contraddizioni della società e, per certi aspetti, anche nei suoi meccanismi “normali” di funzionamento. Una società in cui la competizione resta ancora alla base di tutto. Alla fine l’impero della ragione si profila con una certa consistenza come dominio dell’uomo su ogni cosa, nell’àmbito di quel determinismo che il materialismo settecentesco riteneva insostituibile. Ma occorre andare avanti.

«I materialisti – precisa Proudhon – hanno creduto di trionfare dell’opinione contraria, dicendo che l’uomo avendo assomigliato l’universo al proprio corpo, compì il paragone accordando a cotesto universo un’anima simile a quella che egli supponeva essere il principio della propria vita e del proprio pensiero. In tal modo tutti gli argomenti in favore dell’esistenza di Dio si riducevano ad un’analogia tanto più falsa in quanto il termine di confronto era esso medesimo ipotetico.

«Certo non vengo qui a difendere il vecchio sillogismo. Ogni combinazione supera un’intelligenza ordinatrice; ma nel mondo esiste un ordine ammirabile; dunque il mondo è opera d’una intelligenza. Questo sillogismo, tanto ripetuto da Giobbe e Mosè in poi, lungi dall’offrire uno scioglimento, è soltanto la formula dell’enigma che si vuol decifrare. Noi conosciamo perfettamente cosa è l’ordine, ma ignoriamo nel modo più completo cosa intendiamo dire con le parole Anima, Spirito, Intelligenza, come dunque logicamente dalla presenza dell’uno concludere in favore della esistenza dell’altro? Io dunque rigetterò la pretesa, prova dell’esistenza di Dio tratta dall’ordine del mondo, sino a che s’abbiano più ampie informazioni, né ci vedrò altro se non tutt’al più una equazione, proposta alla filosofia. Dal concetto dell’ordine all’affermazione dello spirito c’è tutto un abisso di metafisica da colmare e mi guardo bene, lo ripeto, dal prendere il problema per una dimostrazione». (Ib., p. 28). Non può esistere, né è mai esistito, uno ordine coerente. Proudhon è tornato più volte sul tema senza svilupparlo fino in fondo. Il sistema di recupero trovato dal potere sembra veramente, almeno per il momento, non trovare ostacoli seri. L’ordine è quello dell’efficacia e della convenienza. Propongo un esempio chiarificatore. Tutto il linguaggio, in quanto strumento, ha sempre molteplici possibilità d’uso. Per essenzializzare, diciamo che può servire a trasmettere un codice diretto a riconfermare o perfezionare un consenso, o a creare una trasgressione. Mettiamo da parte, in questo momento, le ovvie obiezioni che si possono fare a questa affermazione di carattere generalissimo. La musica non fa eccezione a questa regola, per quanto avendo problemi tutti suoi le riesca più difficile seguire la strada trasgressiva. Difatti, come accade sistematicamente, quanto più la trasgressione dall’ordine sembra a portata di mano, tanto più si è lontani dal realizzarla. Ora, il rock è una classica musica da recupero, e ha contribuito a spegnere in gran parte l’urto delle energie rivoluzionarie giovanili degli anni Settanta. Lo stesso, a suo tempo, accadde con l’innovazione musicale di Richard Wagner, secondo la notevole intuizione di Nietzsche. Da notare però la grande differenza tematica e culturale, quindi anche tecnica e sociale, che c’è tra queste due produzioni musicali, ambedue dirette al medesimo scopo recuperativo. Wagner dovette costruire un impianto culturale vastissimo e un profondo stravolgimento dello strumento linguistico per affascinare la gioventù rivoluzionaria del suo tempo. Oggi il rock ha fatto il medesimo lavoro, su scala immensamente più vasta, con uno sforzo che a paragone con quello wagneriano è addirittura ridicolo. La massificazione dell’ordine musicale ha favorito il lavoro di recupero.

Continua Proudhon: «Ma non si tratta di ciò ora. Ho voluto mettere in chiaro che la ragione umana era fatalmente e invincibilmente condotta a distinguere l’essere in me e non-me. Spirito e materia, anima e corpo. Chi non vede come l’obiezione dei materialisti provi proprio quel che essa cerca di negare? L’uomo che distingue in se stesso un principio spirituale e un principio materiale, cos’altro è se non la natura medesima che proclama via via la sua doppia essenza e rende testimonianza alle proprie leggi? E notiamo l’inconseguenza del materialismo; esso nega ed è costretto a negare che l’uomo sia libero: ora meno libertà ha l’uomo, più importanza mostrano i suoi detti e devono considerarsi come espressioni della verità. Quando odo questa macchina che mi dice: io sono anima, io sono corpo, sebbene una rivelazione simile mi stupisca e mi confonda, pure essa agli occhi miei riveste un’autorità incomparabilmente più grande di quella del materialista, il quale correggendo la coscienza e la natura pretende che dicano: io sono materia e null’altro che materia; l’intelligenza è semplicemente la facoltà materiale di conoscere». (Ib., p. 29).

Se il materialismo determinista è una fede come un’altra occorre andare oltre, cercare un fondamento privo di fondamento, qualcosa che rifiutando la certezza riesca, almeno in parte, a motivare la necessità di andare avanti. Non una fede che va incontro a qualcosa di credibile, dopo avere rinunciato alla certezza, ma un forte dubbio verso tutto quello che pretende costituire fondamento definitivo che non tollera ostacoli. Così William James: «Rivolgiamoci ora alla questione fondamentale della vita – la questione se sostanzialmente questo nostro universo sia morale o immorale – e vediamo se qui il metodo della fede può avere una legittima applicazione. In realtà, questo è il problema del materialismo. L’universo è semplicemente una realtà bruta, un’esistenza de facto rispetto alla quale la cosa più profonda che si possa dire è che esso è così, oppure il giudizio di meglio e di peggio, del dover essere, è così intimamente legato ai fenomeni come il giudizio intorno all’essere e al non essere? I teorici del materialismo dicono che anche i giudizi di valore sono semplici dati di fatto; che le parole “buono” e “cattivo” non hanno senso fuori dell’àmbito delle passioni e degli interessi soggettivi, che, per quanto riguarda il nostro dovere verso l’universo non umano, se ci piace, possiamo affermare o negare secondo la nostra volontà. Così, quando un materialista dice che preferisce subire un grave danno piuttosto che mancare a una promessa, egli intende solo dire che i suoi interessi sociali sono talmente legati alla fedeltà alla parola data, che, ammessi quegli interessi, malgrado tutto è meglio mantenere la promessa. Ma gli interessi in se stessi non sono né buoni né cattivi, se non, forse, in relazione a qualche ulteriore ordine di interessi, i quali, a loro volta, sono elementi puramente soggettivi, senza carattere né buono né cattivo». (The Will to Believe and other Essays in Popular Philosophy, New York-London 1902, pp. 109-110). Nella sicurezza di sé spinta fino all’ottusità, il dubbio metodologico, quando esiste, è meschinità occasionale, non coscienza vissuta fino in fondo. Occorre inabissarsi in se stessi, scendere dove l’oscurità è più sicura e trovarvi la stessa inquietudine che turba le labili menti di superficie. Contrade assurdamente remote si rivelano passeggiate serali sotto casa, accompagnamenti del cane fuori porta. Ogni esaltazione si può gonfiare come una vescica per poi esplodere senza fragore. I muri che racchiudevano i movimenti frenetici dell’esperimento non riflettono nulla, e rinviano all’infinito gli urli sordi dell’angoscia. Mi dispongo all’ascolto della ragione collettiva mentre altri ascoltano i remoti meccanismi dell’animale che scava.

«Cosa avverrebbe – continua Proudhon – se, prendendo a mia volta l’offensiva, dimostrassi come sia insostenibile l’esistenza dei corpi o, in altri termini, la realtà di una natura puramente corporea? – La materia, si dice, è impenetrabile. – Impenetrabile a che? domando io. Senza dubbio a se medesima, perché nessuno oserebbe dire che è tale per lo spirito; sarebbe ammettere ciò che si vuole rigettare. A tal riguardo io propongo una doppia questione. Cosa ne sapete voi? che significa ciò?

«L’impenetrabilità, mercé la quale si pretende di definire la materia è una pura ipotesi di fisici disattenti, una conclusione grossolana dedotta da un giudizio superficiale. L’esperienza mostra nella materia una divisibilità all’infinito, una dilatabilità all’infinito, una porosità senza limiti immaginabili; una permeabilità al calore, all’elettricità, al magnetismo, del pari che una proprietà di ritenerli, entrambe indefinite. E poi affinità, influenze reciproche e trasformazioni innumerevoli; cose tutte poco compatibili col concetto d’un aliquid impenetrabile. L’elasticità che meglio di qualsiasi altra proprietà della materia poteva condurre, mediante l’idea di molla o di resistenza, a quella d’impenetrabilità, varia secondo mille circostanze e dipende interamente dall’attrazione molecolare. Ora, cosa v’è che meno di quest’attrazione si concili con l’impenetrabilità? Del resto c’è una scienza che a rigore si potrebbe definire scienza della penetrabilità della materia: è la chimica. Difatti, in che differisce dalla penetrazione quella che chiamano composizione chimica? – Insomma, noi conosciamo le forme della materia, in quanto alla sostanza, niente. Com’è dunque possibile affermare la realtà d’un essere invisibile, impalpabile, incoercibile, che cangia sempre, sempre sfugge, ed è impenetrabile solamente al pensiero, al quale non lascia vedere di sè altro che i travestimenti? Materialisti! io vi prometto di attestare la realtà delle nostre sensazioni; in quanto a ciò che dà loro occasione d’essere, tutto quel che voi ne potete dire implica questa reciprocità: qualche cosa (che voi chiamate materia) dà occasione alle sensazioni che si manifestano in una qualche altra cosa (che io chiamo spirito)». (Sistema, p. 29). In un’epoca di desolazione la materia della realtà torna a essere l’assenza, cioè quello che nella realtà non c’è, ma che questa cerca in tutti i modi di catturare senza riuscirvi. Ciò si prova con la realizzazione, movimento interno alla modificazione e quindi produttivo di una sovrabbondanza di materiale che se fornisce acqua al pesce può anche finire per annegarlo. Ciò si prova con la rappresentazione, certamente più adeguata, per quanto operazione di retroguardia che scava nei valori ma ha ancora troppa paura dei risultati per essere veramente opera nuova. L’assenza costituisce un movimento della realtà, dell’intenzione che cerca di unificare il gran complesso dei flussi che ha orientato l’attesa. L’ideale prospettiva di questa unificazione è anche un progetto ideale, una identificazione con qualcosa che, proprio perché non è presente, s’immagina totale, capace cioè di completare definitivamente quella parte, gigantesca, che non è stata portata ancora a buon fine.

«Ma donde viene – insiste Proudhon – questa supposizione, che nulla giustifica nell’osservazione esteriore e non è punto vera, della impenetrabilità della materia e quale ne è il senso?

«Qui appare, il trionfo del dualismo. La materia è dichiarata impenetrabile, non come i materialisti e il volgo si figurano, non dalla testimonianza dei sensi, ma dalla coscienza. È il me, natura incomprensibile, che sentendosi libero e incontrando fuori di se stesso un’altra natura ugualmente incomprensibile, ma distinta anche e permanente, malgrado le sue metamorfosi, pronunzia, per virtù delle sensazioni e delle idee, da questa essenza suggeritegli, che il non-me è esteso e impenetrabile. L’impenetrabilità è una parola metaforica, una immagine sotto la quale il pensiero, scissione dell’assoluto, ci rappresenta la realtà materiale, altra scissione dell’assoluto. Ma cotesta impenetrabilità, senza cui la materia svanisce, è, in ultima analisi, un giudizio spontaneo del senso intimo, un a priori metafisico, una ipotesi non accertata... dello spirito». (Ib., p. 30).

I miti tornano e scompaiono, irrompono nel nostro tempo e possono abbandonarlo improvvisamente. Non chiedono permesso nell’impadronirsi della nostra attenzione, nell’artigliare le nostre apprensioni, nel diventare intollerabili. Di fronte alla vicenda muta della materia Proudhon si pronuncia per una terza via. Non è esattamente la via seconda, quella dell’idealismo, ma non è nemmeno la via prima, quella del materialismo. Egli cerca quello che tutti noi ancora oggi continuiamo a cercare, lo cerca con ostinazione, e non si pente delle sue scelte, anche se sa che si tratta di una ostinazione mal posta. Il lavoro (spesso inconsapevole) del ribelle è proprio qui, nel cercare di scolpire con la parola solenne e irrinunciabile il progetto negativo, la dura rinuncia coraggiosa e solitaria dell’ordine e del rigore, anche se la ricerca si indirizza verso un rigore diverso e un ordine supremo. Il ribelle trova i materiali della propria ribellione in se stesso, per cui quando l’obiettivo della sua ribellione non è ben delimitato questo si aggroviglia e si torce contro se stesso, da obiettivo chiaro diventa un modo per rodersi l’animo fino in fondo. Con precisione Schopenhauer: «Nello spazio puro il mondo sarebbe rigido e immobile: nessuna successione, nessuna modificazione, nessuna attività: ma proprio con l’attività viene eliminata anche la rappresentazione della materia. D’altra parte, nel tempo puro tutto sarebbe fuggitivo: nessuna persistenza, nessuna coesistenza, nessuna simultaneità, e perciò nessuna durata: ossia anche in questo caso niente materia. Solo dall’unione di tempo e spazio risulta la materia, cioè la possibilità dell’esistenza simultanea e pertanto della durata; mediante questa, poi, la possibilità della persistenza della sostanza nella modificazione degli stati. Avendo la sua essenza nell’unione di tempo e spazio, la materia reca sempre l’impronta di entrambi. Essa dimostra la sua origine dallo spazio, in parte con la forma, che è da lei inseparabile, ma soprattutto (perché il cambiamento appartiene solo al tempo, nel quale, però, considerato in sé e per sé, non vi è nulla di stabile) col suo persistere (sostanza), la cui certezza a priori è perciò unicamente derivata da quella dello spazio: manifesta invece la sua origine dal tempo con la qualità (accidente), senza la quale non si mostra mai, e che non è che causalità, azione sopra altra materia, ossia cambiamento (che è una nozione di tempo). Ma la legittimità di questa azione si riferisce sempre simultaneamente a spazio e tempo, e soltanto da ciò trae un significato. Quale stato si debba avere in un certo tempo e luogo, è la sola determinazione alla quale si estende la giurisdizione della causalità. Su questa derivazione delle determinazioni fondamentali della materia dalle forme a priori della nostra conoscenza si fonda il riconoscimento a priori che noi compiamo di talune proprietà della materia, come quella di occupare uno spazio, cioè l’impenetrabilità, l’attività; e ancora l’estensione, l’infinita divisibilità, la permanenza o indistruttibilità, la mobilità infine: la gravità, invece, malgrado non ammetta eccezioni, andrà attribuita alla conoscenza a posteriori, nonostante Kant la ritenga conoscibile a priori». (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 4). Solo apparentemente Schopenhauer qui è più preciso, in effetti il nodo dell’unione spazio-temporale non si potrà sciogliere che molto tempo dopo, aprendo il fianco a tutta una nuova serie di aporie. Per Proudhon, invece, il problema è quello di indicare una finitezza che non possa essere attaccata dalle incongruenze del determinismo. Solo quando si riuscirà a pensare il cosmo come finito e senza limiti si supereranno gran parte di questi problemi. L’eterna espansione metterà a disposizione un modo diverso di pensare.

Vorrei essere impreciso in queste considerazioni e invece sono impreciso solo indirettamente, perché qualcuno mi fa notare le parzialità e le ingenuità delle mie presuntuose incompletezze. Le norme traggono i loro poteri da ciò che li trascina via verso la consacrazione del significato. Il potere coglie senza fretta il raccolto maturo di questa improvvida semina.

Ancora Proudhon: «Finché l’uomo vive sotto la legge d’egoismo, accusa se stesso; quando s’eleva al concepimento d’una legge sociale, accusa la società. Nell’uno e nell’altro caso, è sempre l’umanità che accusa l’umanità; e fino ad ora ciò che risulta di più evidente da questa doppia accusa, è la facoltà strana, che non abbiamo ancora segnalata, e che la religione attribuisce a Dio come all’uomo, del pentimento.

«Di che cosa si pente l’umanità? Per che cosa ci vuol punire Iddio, che si pente così di noi? Se dimostro che i delitti, dei quali si accusa l’umanità, non sono la conseguenza dei suoi disturbi economici, quantunque questi risultino dalla costituzione delle sue idee; che l’uomo compie il male gratuitamente e senza violenza, nello stesso modo in cui s’onora degli atti d’eroismo che la giustizia non esige; ne seguirà che l’uomo, al tribunale della coscienza, può benissimo far valere alcune circostanze attenuanti; ma non può mai essere liberato interamente dal delitto; che la lotta è nel suo cuore come nella sua ragione, che ora è degno di lode ed ora di biasimo, ciò che sempre è una prova della sua condizione non armonica; infine, che la natura dell’animo è un perpetuo compromesso tra opposte attrazioni, la morale un sistema ad altalena, in una parola, e questa parola dice tutto, un eclettismo». (Sistema, p. 30).

Il risentimento sta dietro l’angolo, Proudhon se ne avvede anche se non sa formulare la risposta in modo esauriente per le nostre orecchie moderne. Il suo rifiuto del pentimento non è una vertigine priva di senso ma un movimento della medesima ragione, non un ulteriore modo per suscitare ripieghi e ripensamenti. Egli ha considerato caduca l’idea di uccidere l’autorità con una pozione che non colga quanto di intimo l’autorità stessa ha saputo scavare dentro ognuno di noi. Tutti questi sforzi fissano un preciso affluire dei fenomeni concreti della vita e delle vicende degli uomini e dei loro rapporti verso il rifiuto del controllo e della coercizione. Ma l’impero di Dio in quanto dispotismo non è facilmente disarcionabile. Proudhon ne esaspera tutti gli aspetti, battendo talmente sulle estreme conseguenze di questa disposizione dell’uomo da giungere a risultati incredibilmente istruttivi per noi, oggi, risultati che sono molto vicini, sotto l’aspetto della provocazione, ai problemi che affrontiamo tutti i giorni. Sui limiti della riflessione filosofica ecco alcune affermazioni importanti: «In questo stato di cose la seduzione della scienza è irresistibile. Di fronte al filosofo di oggi, lo scienziato – e non solo il matematico o il naturalista, ma anche lo storico o il filologo – appare una persona seria: è saldamente inserito in una tradizione univoca, e la può modificare con metodi determinati e controlli categorici; potrà discutere con i suoi colleghi, ma alla fine avrà ragione oppure torto. Parla solo agli specialisti della sua disciplina, ma in fin dei conti parla per lo meno a tutti questi specialisti (il filosofo dice di parlare a tutto il genere umano, ma in pratica non riesce a parlare neppure al suo compagno di corso o al suo collega di Facoltà). E se, attraverso la grande varietà di metodi scientifici e di scienze, si guarda a che cosa abbiano in comune queste diverse forme del sapere, a che cosa le renda, appunto, sapere e ne costituisca la base di quella tale intersoggettività e comunicabilità, si scorge che ciò dipende esattamente da ciò che manca alla filosofia, soprattutto alla filosofia odierna: il rigoroso impiego di determinati procedimenti logici (discorsivi) e la possibilità di ricorrere ai fatti, almeno come ultima, ma costante, istanza per il controllo di teorie ed asserzioni. La logica simbolica o matematica riusciva a introdurre una chiarezza, almeno discorsiva, là dove la detta logica filosofica non introduceva che oscurità e confusione; le analisi razionali di scienziati come Poincaré, come Mach, come i neopositivisti eliminavano progressivamente dalla scienza tutti i punti di inutile controversia, riducendoli al loro effettivo significato sperimentale, mentre le analisi dei filosofi non facevano che moltiplicare all’infinito e sine lege i punti controvertibili». (G. Preti, Il mio punto di vista empiristico, in Saggi filosofici, vol. I, Firenze 1976, pp. 476-477). Motivare se stessi, ecco uno dei punti di maggiore difficoltà della filosofia. In effetti non si fa questo sulla base di quello che si è, ma su quello che si vorrebbe diventare, mettendo in atto una controversia senza soluzione, oltre che un poco ridicola. Non ammettendo lo sforzo verso il proprio stesso modo di essere, si finisce per risultare indimostrabili in tutto quello che si fa, il quale assume una valenza accettabile (e comprensibile) solo come semplice fare, produzione del di già conosciuto.

Ma torniamo a un altro passo di Proudhon: «Dio, nell’ipotesi teologica, è l’essere sovrano, assoluto, altamente sintetico, 1’io infinitamente saggio e libero, per conseguenza infallibile e santo; è certo che l’uomo, sincretismo della creazione, punto d’unione di tutte le virtualità fisiche, organiche, intellettuali e morali manifestate dalla creazione, l’uomo perfezionabile e fallibile, non soddisfa punto alle condizioni di Divinità che è della natura del suo spirito esprimere. Né egli è Dio, né lo saprebbe divenire, vivendo.

«A più forte ragione il cane, il leone, il sole, l’universo stesso, divisioni dell’assoluto, non sono Dio. Col medesimo colpo, 1’antropolatria e la fisiolatria sono atterrate.

«Si tratta ora di fare la contro-prova, di questa teoria.

«Abbiamo esaminata la moralità dell’uomo dal punto di vista delle contraddizioni sociali. Ci accingiamo ora ad apprezzare dal medesimo punto di vista, la moralità della Provvidenza. In altri termini, Dio, quale la speculazione e la fede lo danno all’adorazione dei mortali, è possibile?». (Sistema, p. 249).

Proudhon distrugge qui la divinità dimostrando che solo l’uomo potrebbe essere divino, essendo questa idea, questo ideale, soltanto il concetto di perfezione portato alle sue estreme conseguenze, ed essendo questo concetto un prodotto dell’uomo. Ma l’uomo ha esperienza soltanto della sua parzialità. Questa critica è confortante fino a un certo punto. In fondo l’autorità abita dentro di me come un’apparenza che si adorna con ornamenti capricciosi, non è la mia vita, anzi è uno degli ostacoli più forti al suo sviluppo, è il filtro riduttivo attraverso il quale viene fuori quello che chiamo “esistenza”. Eppure questo progetto, dandomi gioia e nuovi desideri, nello stesso tempo mi isola e mi taglia fuori dal resto del mondo. Non so se la ragione collettiva – a questo punto – è con me o contro di me. Il reale che tutto l’apparato di comunicazione mi trasmette rinasce senza posa sui propri valori condizionati, io lo parodio disgregandolo, negandolo, almeno in parte, e così vengo io stesso parodiato. Insisto nel vestire di orpelli la mia insicurezza, ma non è la strada giusta. Dove attingere nella distruzione il rigore che colloca i progetti al loro posto? Non si cuce un vestito ricorrendo a brandelli di stoffa. Ancora uno sforzo.

Ecco insistere Proudhon: «Dio, dicono i credenti, non può essere concepito che come infinitamente buono, infinitamente saggio, infinitamente potente, ecc., tutta la litania degli infiniti.

«Ora, l’infinita perfezione non si può conciliare col dato di una volontà indifferente o reazionaria al progresso; dunque, o Dio non esiste, o l’obiezione dedotta dallo sviluppo delle antinomie è prova dell’ignoranza in cui noi siamo dei misteri dell’infinito.

«Rispondo a questi ragionatori che se, per legittimare un’opinione del tutto arbitraria, basta basarsi sulla profondità dei misteri, io amo tanto il mistero d’un Dio senza Provvidenza, quanto quello d’una Provvidenza senza efficacia. Ma, alla presenza dei fatti, non vi è mezzo d’invocare un simile probabilismo; bisogna attenersi alla positiva dichiarazione dell’esperienza. Ora, l’esperienza ed i fatti provano che l’umanità, nel suo sviluppo, obbedisce a una inflessibile necessità, le cui leggi si svolgono, e il cui sistema si realizza a misura che la ragione collettiva lo scopre, senza che nulla, nella società, attesti un’esterna istigazione, né un provvidenziale comandamento, né alcun sovrumano pensiero. Ciò che fece credere alla Provvidenza, è questa necessità stessa, che è come il fondo e l’essenza dell’umanità collettiva. Ma, questa necessità per sistematica e progressiva ch’essa appaia, non costituisce per ciò, né nell’umanità, né in Dio, una Provvidenza; basta, per convincersene, ricordarsi le infinite oscillazioni, ed i dolorosi tentativi coi quali si manifesta l’ordine sociale». (Ib., p. 274). Questo pretesto essenziale della necessità permette di adeguare il pensiero alle condizioni esterne che dovrebbero permettere la fruizione della realtà. È quindi veramente sul piano dell’analisi che avviene l’appiattimento realizzato dal potere. Il clima rarefatto che si crea impedisce la respirazione del pensiero, ne consegue l’asfissia, cioè la riduzione alla sola, modesta, capacità d’espressione corrente, quella che nella quotidianità si riduce a pochi concetti soffocati dall’abitudine. Se si pensa a come questo movimento sia, di regola, prigioniero a sua volta dei protocolli analitici, si capisce il perché della facilità di appiattimento.

«Altri argomentatori vengono a traverso e dicono: con qual scopo queste ricerche astruse? Non vi è più intelligenza che Provvidenza; non vi è né io, né volontà nell’universo; eccetto l’uomo. Tutto ciò che accade, di male come di bene, accade necessariamente. Un insieme irresistibile di cause e di effetti stringe l’uomo e la natura nella stessa fatalità; e ciò che chiamiamo in noi stessi coscienza, volontà, giudizio, ecc., non sono che particolari accidenti del tutto eterno, immutabile, fatale.

«Questo argomento è il rovescio del precedente. Consiste nel sostituire all’idea d’un autore onnipossente e saggio quella d’un coordinamento necessario ed eterno, ma inconsciente e cieco. Questa opposizione ci fa presentire che la dialettica dei materialisti non è più solida di quella dei credenti». (Ibidem).

La sostanza di questo ragionamento la si deve cercare nella tesi in base alla quale il male assume una propria esistenza autonoma, allo stesso modo in cui avviene nella società (Donatien-Alphonse-François de Sade). Questa tesi, criticata da Proudhon, ci mostra l’uomo nella sua azione nel mondo anche con una riduzione della tutela e dell’azione coordinatrice delle leggi e dello Stato, per farci capire il peso ordinativo della ragione a prescindere dalle leggi e dallo Stato. Una società libera non potrebbe mai basarsi sulle regole qui criticate da Proudhon, dove spesso nelle isole di rarefazione dei controlli statali emergono i controlli della ragione, le perfezioni geometriche dell’eternamente identico a se stesso, del principio razionale.

I comunisti autoritari sono i grandi sacerdoti di questa specie di religione razionalista. La morte del colpevole trova la propria necessità nella felicità dell’innocente, il vecchio Dio della salvezza trova modo di spuntare un’altra volta come giustificazione del male stesso. Nei suoi intrecci non esiste solidarietà nemmeno fra i membri di un ristretto gruppo, non esiste morale. Gli altri sono oggetti, puri segni di una situazione in cui nessuno si sente solidale con un altro. «Il giocatore di scacchi conosce il valore dei suoi pezzi sulla scacchiera e ne è in certo senso condizionato nel gioco, ma non stabilisce con essi nessun rapporto perché fra lui e le sue pedine, non esiste una situazione comune. Re, regina, alfieri, torri, cavalli, pedoni sono la scacchiera, il giocatore è altro. Egli non si attende risposta, da essi, perché come tutte le “cose” anche quei pezzi sono segni di un mondo che gli è estraneo. Insomma, l’essere che riconosce a sé solo l’individualità non si pone neppure il problema etico, ma unicamente problemi di autosoddisfacimento: gli altri uomini non sono individui ma cose, segni, strumenti. Con essi, non c’è comunanza, non rapporti normali, ad essi l’individuo non chiede alcuna risposta: sono esseri cadaverici». (G. P. Brega, Introduzione a D.-A.-F. de Sade, Opere scelte, tr. it., Milano 1967, p. XIII).

«Chi dice necessità o fatalità – continua Proudhon – dice ordine assoluto e inviolabile; chi al contrario, dice perturbazione, disordine, afferma tutto ciò che vi è di più ripugnante alla fatalità. Ora, vi è disordine nel mondo, disordine prodotto dalla fuga di forze spontanee che non incatena potenza alcuna; come può darsi ciò, se tutto è fatale?

«Ma chi non scorge che questa antica polemica del teismo e del materialismo proviene da una falsa nozione della libertà e della fatalità, due termini che furono considerati come contraddittori, mentre che in realtà non lo sono? Se l’uomo è libero, si dice da alcuni, Dio a più forte ragione, è anche libero, e la fatalità non è che una parola; se tutto è incatenato nella natura, soggiungono altri, non vi è né libertà, né Provvidenza; ed ognuno s’accinge ad argomentare a perdita d’occhio, secondo la direzione presa, senza mai comprendere che questa opposizione della libertà e della fatalità non era che la distinzione naturale, ma non antitetica, dei fatti dell’attività da quelli dell’intelligenza». (Sistema, p. 274). Quello che occorre all’ordine della necessità, per il suo inserimento in un perfetto cielo chiuso, è un percorso di uniformazione e razionalizzazione, insomma quello che impropriamente abbiamo definito come appiattimento. Ciò viene continuamente realizzato, ma sempre con una sfasatura che torna ad annullare il risultato ottenuto. Questa differenza potrebbe essere colmata con l’azione, ma come affidare il futuro semplicemente all’azione, con una totale fiducia nella sua capacità di cogliere il risultato? Potrebbe essere un segno di coerenza e di supremo ottimismo, ma anche di colossale idiozia. L’epoca in cui vivo non ammette mezzi termini, essa si va radicalizzando sempre più, per cui potrebbe essere proprio funzionale alla insospettabilità di questa radicalizzazione fornire testimonianze in merito al convincimento che l’azione può risolvere ogni cosa. Ma potrebbe essere anche il contrario. Da tenere conto, comunque, che qui si sta discutendo del contrasto tra libertà e fatalità. Proudhon non viene fuori dal dilemma.

«La fatalità – scrive Proudhon – è l’ordine assoluto, la legge, il codice, il fatum, della costituzione dell’universo. Ma lungi che questo codice escluda per se stesso l’idea di un legislatore sovrano, la suppone così naturalmente, che tutta l’antichità non ha esitato ad ammetterlo; e tutta la questione oggi consiste nel sapere se, come l’hanno creduto i fondatori delle religioni, nell’universo il legislatore abbia preceduto la legge: cioè se l’intelligenza sia anteriore alla fatalità, o se, come vogliono i moderni, sia la legge che abbia preceduto il legislatore, in altri termini, se lo spirito sia nato dalla natura. Prima o dopo, questa alternativa riassume tutta la filosofia. È minor male che si disputi sulla posteriorità, o anteriorità dello spirito; ma che lo si neghi in nome della fatalità, è una esclusione per nulla giustificata. Basta, per confutarla, ricordare il fatto stesso sul quale si fonda, l’esistenza del male». (Ib., p. 275).

La necessità è come la peste, una malattia essenziale. Non solo perché è contagiosa, dilagando senza ritegno in tutto quello che facciamo, ma perché come la peste ci mette davanti alla realtà di noi stessi, costituisce una rivelazione per noi nel momento in cui denunciamo la sua inesistenza, travalicando nella libertà costruibile giorno per giorno. Palesandosi con più o meno chiarezza, la necessità è la trasposizione in primo piano, la spinta verso l’esterno di un fondo di ottusità latente attraverso il quale si individuano in un individuo tutte le possibilità potenziali della coscienza. Come la peste essa rappresenta il momento del male, il dilagare delle forze oscure, che una forza ancora più profonda, perché necessaria, alimenta sino all’estinzione totale. Le condizioni complessive dell’opera del male, intese come premesse non specifiche ma illuminanti, dal punto di vista teorico, costituiscono la base per comprendere la situazione dell’uomo nel mondo, situazione che può essere colta solo di sfuggita e che, potendo essere colta, la riflessione critica deve cogliere pena la propria morte.

Il concetto di necessità è conforme a un’esigenza che ci perseguita da sempre. Abbiamo bisogno di un sostegno e di uno stimolo, per questo ci guardiamo attorno trovando nei meccanismi intrinseci alle cose, nella ineluttabilità del proprio destino, nel rapporto irreversibile tra presente e futuro, queste tracce di sicurezza e di garanzia. E, in effetti, queste tracce esistono, ma non sono lì per fornire sicurezza e non danno alcuna garanzia. Non ci sono meccanismi assoluti, ma non in tutti i meccanismi che ci si presentano come necessari possiamo intervenire. La nostra volontà, come qualsiasi gendarme, è circoscritta, ed è meglio che sia così. Abbiamo bisogno di specificazioni, dobbiamo pur vivere, e senza specificazioni veniamo schiacciati dalla uniformità e dalla piattezza dell’esistenza. Ma specificando non abbiamo modo di sfuggire alle leggi della necessità. Parliamo, e parlando specifichiamo, cioè tagliamo a pezzi una realtà vitale, pena che deve ancora venire a patti con qualsiasi confine ma che noi vogliamo sia disponibile ai patteggiamenti che le vogliamo imporre.

Continua Proudhon: «Essendo date la materia e l’attrazione, il sistema del mondo ne è il prodotto; ecco quel ch’è fatale. Essendo date due idee correlative e contraddittorie, deve seguire una composizione; ecco ancora che cosa è fatale. Ciò che ripugna alla fatalità non è la libertà, la cui destinazione al contrario è di procurare, in una certa sfera, il compimento della fatalità; è il disordine, è tutto ciò che impedisce l’esecuzione della legge. Esiste, sì o no, disordine nel mondo? I fatalisti non lo negano, poiché, per il più strano errore, è la presenza del male che li ha resi fatalisti. Ora, dico che la presenza del male, lontano dall’affermare la fatalità, rompe la fatalità, fa violenza al destino e suppone una causa il cui effetto erroneo, ma volontario, è discorde dalla legge». (Ibidem). Questo mistero involontario suona in modo differente adesso perché le richieste di dichiarare le proprie generalità sono diventate esplicite da parte del potere. Ricondotto il disordine all’interno della gestione complessiva, lo si è in sostanza ricondotto all’ordine. Prima poteva apparire semplice insufficienza, mancata chiarezza. Epoche passate in cui la domanda pressava per esaurire il mondo. Adesso possiamo tranquillamente girarci sull’altro fianco senza rispondere. Il regolo dell’universo, il caso, si è incaricato di fornire risposte dettagliate. Solo gli imbecilli continuano a crogiolarsi nella loro conoscenza assoluta. Lo scontro deve andare alla ricerca di molteplici strade, non può limitarsi alla determinazione realistica della realtà. Sarebbe un suicidio, arrivati a questo punto. La conoscenza è tutt’altro che immutabile, si aggira attorno alla realtà, spesso oscurandola. In essa necessità e possibilità si alleano confusamente. Solo i protocolli del campo giurano sulla determinazione assoluta. È tempo di passare oltre.

«Questa causa la chiamo libertà; ed ho provato che la libertà, nello stesso modo che la ragione, che all’uomo serve da fiaccola è altrettanto grande e perfetta quanto meglio s’armonizza con l’ordine della natura, che è la fatalità.

«Dunque, opporre la fatalità all’attestazione della coscienza che si sente libera, e viceversa, è provare che si prendono le idee al rovescio e che non si ha la minima conoscenza della questione. Il progresso dell’umanità si può definire l’educazione della ragione e della libertà umana con la fatalità; è assurdo riguardare questi tre termini come escludentisi l’un l’altro ed inconciliabili, quando in realtà si sostengono, la fatalità servendo di base, la ragione venendo dopo, e la libertà coronando l’edificio. La ragione umana tende a conoscere ed a penetrare la fatalità; la libertà aspira a conformarsi; e la critica, alla quale ci diamo in questo momento, dello sviluppo spontaneo e delle credenze istintive del genere umano, in fondo non è che uno studio della fatalità». (Ibidem).

Si identifica qui l’azione crudele e tenace della necessità con quella razionalmente fredda della ragione, senza perdere di vista la possibilità che uno stimolo eccessivo della volontà e un ripensamento morale possono determinare riduzioni considerevoli nella portata della necessità senza mai farla scomparire del tutto. Importante la riflessione di Søren Kierkegaard: «Tuttavia il divenire può contenere in sé un raddoppiamento, cioè una possibilità di divenire all’interno del proprio accadere. In questo consiste, in un senso più rigoroso, la storia ch’è dialettica rispetto al tempo. Il divenire, che qui è in comune con quello della natura, è una possibilità, la quale per la natura costituisce tutta la sua realtà. Ma il divenire che è proprio della storia è un divenire interiore e deve essere perciò continuamente mantenuto. Il divenire di natura più speciale della storia avviene per opera di una causa che opera in modo relativamente libero, che a sua volta rimanda in definitiva ad una causa che opera in modo assolutamente libero. Ciò ch’è avvenuto è avvenuto nel modo com’è avvenuto, e sotto quest’aspetto è immutabile: ma è forse questa l’immutabilità della necessità? L’immutabilità del passato è l’invariabilità del “così” com’è avvenuto: ma segue forse da questo che il suo “come” non poteva essere diversamente? Invece l’immutabilità del necessario si rapporta continuamente a se stessa e sempre allo stesso modo, con l’esclusione di ogni mutazione, non accontentandosi dell’immutabilità del passato, la quale non è (come si è accennato) dialettica soltanto rispetto alla mutazione precedente da cui procede, ma lo è anche rispetto ad una mutazione superiore che la toglie (per esempio quella del pentimento che vuol togliere una realtà). Il futuro non è ancora accaduto, ma non perciò è meno necessario del passato, perché il passato non è diventato necessario coll’essere accaduto, ma al contrario l’essere accaduto dimostrò che non era necessario. Se il passato fosse divenuto necessario, non si potrebbe dedurre una conclusione opposta rispetto al futuro, ma si dovrebbe dire che anche il futuro è necessario. Ammesso che la necessità possa infiltrarsi in un punto, non si può più parlare né di passato né di futuro». (Briciole di filosofia, ovvero una filosofia in briciole [1844], tr. it., Bologna 1962, pp. 168-169). Lo spazio dato alla necessità ha fatto inorridire generazioni di perbenisti, essendo in genere questi ultimi fautori di una volontà circoscritta e potenzialmente disponibile all’accettazione dell’ordine costituito. Allo stesso modo in cui la peste aveva fatto inorridire generazioni di uomini in passato. Oggi la peste non fa più paura, la si cura e basta, e curandola la si riconosce, la si accetta, la si delimita e quindi la si accumula, la si utilizza. Per il nostro modo di vivere, quotidianamente fallimentare, non è stato trovato un procedimento di recupero tecnicamente perfetto, ecco perché la necessità che ci delimita e contro cui dobbiamo lottare si può paragonare alla peste, l’incognito come peste. Tra l’appestato che corre urlando dietro alle proprie allucinazioni e colui che si lancia alla ricerca della propria sensibilità, tra l’uomo che si inventa situazioni alle quali senza il pericolo dell’incognito non avrebbe mai pensato, e chi le raffigura davanti a sé mentre una vasta assemblea di integrati inerti e deliranti continua a produrre ciecamente come formiche, esistono tante analogie che ci fanno capire molte verità importanti. Ponendo al centro della propria azione il concetto di partecipazione, non solo si determina un’apertura nel concetto tradizionale di necessità, ma si intraprende una strada diversa, almeno nei limiti dell’esistenza che tutti ci cattura e ci ospita. Viene a mancare così il concetto di adeguamento. L’azione che frantuma l’esistenza diventa la vita stessa, non la vita che viene vissuta in forma inautentica. Quindi come distacco dell’uomo da se stesso, nello sperdersi delle cose banali di tutti i giorni, ma la vita che viene vissuta nella sua profonda irripetibilità, quindi nella propria irrapresentabilità. Ciò comporta il fatto, straordinariamente produttivo di significati, che lottare contro la necessità non può essere attività fra le tante, una professione che permette intervalli, ma deve corrispondere con un impegno totale. Per coloro che sviluppano questa lotta e vi si trovano dentro in quanto mezzo di trasformazione, per loro si tratta di un impegno che assorbe completamente.

«L’uomo, dotato d’attività e d’intelligenza – insiste Proudhon – può smuovere l’ordine del mondo, del quale fa parte. Ma tutti i suoi traviamenti sono stati previsti, e si compiono in certi limiti che, dopo un certo numero d’andate e ritorni, riconducono l’uomo all’ordine.

«È da queste oscillazioni della libertà che si può determinare il giro dell’umanità nel mondo; e poiché il destino del mondo è legato a quello delle creature, è possibile risalire alla legge suprema delle cose, e fino alle fonti dell’essere.

«Così non domanderò più: come mai l’uomo ha il potere di violare l’ordine provvidenziale, e come mai la Provvidenza lo lascia fare? Pongo la questione in altri termini: come mai l’uomo, parte integrante dell’universo, prodotto della fatalità, può rompere la fatalità? Come mai un’organizzazione fatale, l’organizzazione dell’umanità, è avventizia, antilogica, piena di tumulto e di catastrofi?». (Sistema, p. 276). C’è un modo passivo e un modo attivo di vivere il proprio rapporto con l’eterogeneo sistema della necessità che attraversiamo e da cui siamo penetrati costantemente. Possiamo goderne gli effetti, lasciandoci plasmare come creta e venire fuori come pappagalli ammaestrati, restando a bocca aperta davanti alle paccottiglie esplicative fornite dai centri universali del sapere, ormai non più diviso in tecnologia e umanismo. Ma, in un’altra veste, possiamo attivamente disporci alla conquista di questa necessità, senza illuderci di inseguirla in tutte le sue folli ripetizioni, senza scarnificarla a pappetta per neonati. Capisco che questo programma volontarista risponde più che altro a necessità strumentali, ma non dobbiamo dimenticare che esso resta possibile solo a condizione di non fare più selezioni a priori tra apparenza e realtà. Il contrario sarebbe contrasto impossibile a sostenersi. La legge della forza, per vie indirette questa volta, finirebbe per mettere l’apparenza della ripetizione al servizio della realtà.

«La fatalità – precisa Proudhon – non dipende da un’ora, da un secolo, da mille anni. Perché la scienza e la libertà, se è deciso che debbano arrivare, non giungono più presto? Per ciò che soffriamo per l’attesa, la fatalità è in contraddizione con se stessa; col male, non vi è né fatalità né Provvidenza.

«In una parola, perché ad ogni istante una fatalità smentita dai fatti che succedono nel suo seno? Ecco ciò che i fatalisti debbono spiegare, come i teisti debbono spiegare ciò che può essere un’intelligenza infinita, che non sa né prevedere né prevenire la miseria delle sue creature.

«Ma ciò non è tutto. Libertà, intelligenza, fatalità, in fondo sono tre espressioni adeguate, che servono a designare tre facce differenti dell’essere. Nell’uomo, la ragione non è che una libertà determinata, che sente il suo limite. Ma questa libertà è, nel cerchio delle sue determinazioni, fatalità, una fatalità viva e personale. Dunque, quando la scienza del genere umano proclama che la fatalità dell’universo, cioè la più grande, la suprema fatalità, è adeguata ad una ragione come ad una libertà infinita, essa non fa che emettere un’ipotesi in ogni modo legittima, la cui verificazione si impone a tutti i partiti». (Ib., p. 276).

Proudhon non poteva andare al di là di questa affermazione. La scienza rivela all’uomo una spinta verso l’esterno, verso una profonda crudeltà critica. L’azione, cioè tutto quello in cui viene a tradursi lo stesso superamento della dimensione quotidiana, è quella che così bene ci raffiguriamo ma che difficilmente ammettiamo di volere rifiutare fino in fondo. Se penetrazione critica è sinonimo di vita, non può esercitare la propria critica negativa chi si trova a passare dalla contrada, un ospite della vita, il quale poco dopo tornerà a una sua prassi di normalità, esattamente nel momento in cui ha gettato lo scompiglio nella quotidianità ripetitiva brutalizzando crudelmente. Qui si prospetta l’attuazione di alcune intuizioni di Nietzsche dirette a interrompere l’assurdità di una posizione teologicamente dominante nella vita (e nel teatro). «Che il teatro non diventi signore delle arti. Che il commediante non diventi il seduttore degli esseri genuini». (Il caso Wagner [1888], II). Quello che bisogna evitare è che il commediante, secondo il concetto negativo di Nietzsche, equivalente al modo di sprecare la vita nella ripetitività, si ponga di fronte a una serie di individui in qualità di spettatori messi in fila, solleticandoli nella loro attenzione. Così egli continua: «In culture di decadenza, ovunque la decisione cada in mano alle masse, la genuinità diventa superflua, svantaggiosa, mette in secondo piano. Soltanto il commediante desta ancora il grande entusiasmo». (Ib., III). Il commediante è qui così sinonimo di essere ideologicamente dominante, facitore di parole e di senso, re di un mondo fittizio. Cancellarlo senza eliminare la rappresentazione, significa trasformare profondamente tutta l’espressione esistenziale in qualcosa di magico e di atroce, una brutalità rivelatrice esercitata sulla realtà, un modo di porsi che non ammette compromessi proprio perché l’essenzialità del suo rapporto di partecipazione consiste appunto nel non ammettere la rappresentazione di qualche cosa preventivamente descritta in forma repressiva.

Torniamo a Proudhon: «Attualmente gli umanisti, i nuovi atei, si presentano e dicono: l’umanità, nel suo insieme, è la realtà perseguitata dal genio sociale sotto il nome mistico di Dio. Questo fenomeno della ragione collettiva, specie di miraggio, nel quale l’umanità, contemplando se stessa, si crede un essere esteriore e trascendente che lo guarda e presiede ai suoi destini, questa illusione della coscienza, diciamo, è stata analizzata e spiegata: e d’ora innanzi è meglio ritornare indietro nella scienza che riprodurre l’ipotesi teologica. Bisogna attaccarsi unicamente alla società, all’uomo. Dio in religione, lo Stato in politica, la proprietà in economia, tale è la triplice forma sotto la quale l’umanità, divenuta straniera a se stessa, non ha cessato di lacerarsi con le proprie mani, e che deve oggi rigettare.

«Ammetto che l’affermazione o l’ipotesi della Divinità proviene da un antropomorfismo, e che Dio non è dapprima che l’ideale o, per meglio dire, lo spettro dell’uomo. Ammetto di più che l’idea di Dio è il tipo e il fondamento del principio d’autorità e d’arbitrio, che il nostro compito è di distruggere od almeno di subordinare dovunque si manifesti, nella scienza, il lavoro, la città. Così non contraddico l’umanismo, ma lo prolungo. Impadronendomi della sua critica dell’essere divino, ed applicandola all’uomo, osservo:

«Che l’uomo, adorandosi come Dio, ha posto da se stesso un ideale contrario alla propria essenza, e si è dichiarato antagonista dell’essere creduto sovranamente perfetto, in una parola, dell’infinito.

«Che l’uomo non è di conseguenza, a suo giudizio, che una falsa divinità, poiché affermando Dio, nega se stesso; e che l’umanismo è una religione tanto detestabile quanto tutti i teismi d’antica origine.

«Che questo fenomeno dell’umanità che si prende per Dio non si spiega coi termini dell’umanismo, e reclama un’ulteriore interpretazione. Dio, secondo il concetto teologico, non è solo l’arbitro sovrano dell’universo, il re infallibile ed irresponsabile delle creature, il tipo intelligibile dell’uomo; è l’essere eterno, immutabile, presente dovunque, infinitamente saggio, infinitamente libero. Ora, questi attributi di Dio contengono più che un ideale, più che un’elevazione a potenza degli attributi corrispondenti dell’umanità; dico che ne sono la contraddizione

«Dio è contraddittorio all’uomo; nello stesso modo che la carità lo è alla giustizia: la santità, ideale della perfezione, alla perfettibilità; la dignità regia, ideale della potenza legislativa, alla legge, ecc. Di maniera che l’ipotesi divina rinasce dalla sua risoluzione nella realtà umana ed il problema di un’esistenza completa, armonica ed assoluta, sempre allontanato, ritorna sempre». (Sistema, p. 276).

I procedimenti iniziali non furono di certo critici, essi obbedivano alla voce interiore che imponeva la ricerca di certezze piene. Queste ultime apparivano soltanto attraverso la magnificazione provvisoria di certi comportamenti, il coraggio in primo luogo, la scoperta di piccoli accorgimenti che miglioravano le condizioni di esistenza, ecc. Impossibili le analisi concrete e sottili cui siamo abituati oggi. L’uomo non sognava l’esotismo, era esso stesso esotico, la fecondità, il lavoro, la stanchezza, li viveva in maniera molto diversa da quelle forme di esperienza che possiamo immaginare allo stato presente della realtà. Qualcosa di indescrivibile e di indistruttibile stava di fronte a lui, e lo opprimeva scalfendone la modesta capacità concettuale. L’unica soluzione era immaginarsi un Dio simile a se stesso ma immensamente più dotato. Totalità e infinito prendevano così corpo vivificando quelle iniziali analisi concrete, distribuendole a poco a poco in una architettura poderosa.

L’intenzionalità teorica non cresce subito, Dio sta davanti come soluzione ma anche come macigno inamovibile. Il bisogno di sicurezza, parzialmente soddisfato, non scompare del tutto, non esaurisce il movimento del desiderio che vuole compiersi, colmarsi, soddisfarsi nella totalità e nell’infinità dello stesso. Dio è il desiderio ma è anche la soddisfazione, quindi la ripresentazione del desiderio e la paura di fronte al dominatore. La nuova paura prostra, la voce del dominatore chiama dall’esteriorità assolutamente irriducibile dell’altro e fa sentire infinitamente inadeguato. Dio è uguale solo all’eccesso ma, salvo casi speciali (Dioniso, per esempio), quasi sempre questo eccesso finisce per venire controllato dentro canoni precisi. La totalità non libera immediatamente, occorre un lungo percorso esperienziale, qualcosa di complesso, in caso contrario si chiude su lo sventurato sperimentatore. In questo senso scrive Nietzsche: «Avevo scoperto l’unico paragone e riscontro della mia più intima esperienza che abbia la storia – e con ciò stesso avevo capito per primo il meraviglioso fenomeno del dionisiaco. Al tempo stesso, riconoscendo in Socrate un décadent, provavo in modo affatto inequivocabile quanto poco la sicurezza del mio intuito psicologico era messa in pericolo da una qualunque idiosincrasia morale – aver visto la morale stessa come sintomo della décadence è una innovazione, un avvenimento di prim’ordine, senza precedenti nella storia della conoscenza. Con queste due scoperte ero saltato, e fino a quale altezza, al di là delle miserevoli chiacchiere delle teste piatte su ottimismo contra pessimismo! – Ero il primo a vedere il vero contrasto: – da una parte l’istinto degenerante, che si rivolta contro la vita con rancore sotterraneo (– il cristianesimo, la filosofia di Schopenhauer, in un certo senso già la filosofia di Platone, tutto l’idealismo ne sono forme tipiche –) e dall’altra una formula della affermazione suprema, nata dalla pienezza, dalla sovrabbondanza, un dire sì senza riserve, al dolore stesso, alla colpa stessa, a tutto ciò che l’esistenza ha, di problematico e di ignoto. Quest’ultimo, gioiosissimo, straripante, arrogantissimo sì alla vita non solo è la visione suprema, ma anche la più profonda, confermata e sostenuta col massimo rigore dalla verità e dalla scienza. Non c’è nulla da togliere da ciò che è, nulla è trascurabile – gli aspetti dell’esistenza rifiutati dai cristiani e altri nichilisti appartengono addirittura a un ordine infinitamente superiore, nella gerarchia dei valori, a tutto ciò che l’istinto della décadence approva, cioè prende per buono. Per capire questo ci vuole coraggio e, come sua condizione, un eccesso di forza: perché, nella misura della propria forza, ci si avvicina alla verità solo di quanto il coraggio può avventurarsi avanti. La conoscenza, il dire sì alla realtà, è una necessità per il forte, così come lo è per il debole, per ispirazione della debolezza, la viltà la fuga dalla realtà – l’«ideale». La conoscenza non è permessa, a loro: per i décadents, la menzogna è necessaria – è una condizione della loro vita. – Chi non solo comprende la parola “dionisiaco”, ma comprende se stesso nella parola “dionisiaco”, non ha bisogno di confutare Platone o il cristianesimo o Schopenhauer, fiuta la putrefazione». (Ecce Homo. La nascita della tragedia [1900], 2). Il desiderio è in queste condizioni separazione infinita, desiderare significa circoscriversi e difendere il desiderato perché non svanisca nella nientificazione dell’eternamente ripetibile. Ma la coscienza della separazione come coscienza infelice conduce prima o poi verso un viaggio hegelianamente interpretabile come progressiva liberazione. L’infelicità determina le condizioni del procedere oltre come necessità provvisoria di un movimento nell’orizzonte della riconciliazione, del ritorno a se stessi, della costruzione minimale del nuovo sapere. Il desiderio non si appaga nel Dio così delimitato all’interno delle procedure dell’esistenza, mai del tutto soddisfatto rimane infelice e non sa come rimuovere quell’ostacolo che esso stesso ha permesso di costruire e che impedisce ogni apertura verso la libertà. L’infinito desiderato si impone su tutte le esperienze, ma non può appagare con la sua presenza.

Così continua Proudhon: «Per dimostrare questa antinomia radicale, basta mettere i fatti in paragone delle definizioni.

«Di tutti i fatti, il più certo, il più costante, il più indubitabile, è certamente che nell’uomo la conoscenza è progressiva, metodica, riflessiva, in una parola, sperimentale; a tal segno che tutta la privata teoria della sanzione dell’esperienza, cioè della costanza e della serie delle sue rappresentazioni, manca per ciò stesso di carattere scientifico. A questo riguardo, non si saprebbe sollevare il minimo dubbio. I matematici stessi, qualificati puri, ma assoggettati alla serie delle proposizioni, per ciò stesso rivelano esperienza, e riconoscono la loro legge.

«La scienza dell’uomo, partendo dall’osservazione acquistata, progredisce e avanza in una sfera senza limiti. Il termine al quale mira, l’ideale che tenta di realizzare, senza mai poterlo raggiungere ed anzi tornando indietro senza posa, è l’infinito, l’assoluto.

«Ora, che cosa sarebbe una scienza infinita, una scienza assoluta; determinando una libertà pure infinita, come la speculazione la suppone in Dio? Sarebbe una conoscenza non solo universale, ma intuitiva, spontanea, pura da ogni esitazione come da ogni obiettività, quantunque abbracci in una volta il reale ed il possibile; una scienza certa, ma non dimostrativa; completa, non seguita; una scienza che, essendo eterna nella formazione, sarebbe spoglia d’ogni carattere di progresso nel rapporto delle sue parti.

«La psicologia ha raccolto numerosi esempi di questo modo di conoscere: le facoltà istintive e divinatorie degli animali; l’intelletto spontaneo di certi uomini nati calcolatori ed artisti, indipendentemente da ogni educazione; infine, la maggior parte delle istituzioni umane e dei monumenti primitivi, prodotti d’un genio incosciente e indipendente dalle teorie. Ed i movimenti così regolari, così complicati dei corpi celesti; le meravigliose combinazioni delle materie; non si dirà che tutto ciò è effetto di un istinto particolare, inerente agli elementi?... Dunque, se Dio esiste, qualche cosa di lui ci appare nell’universo e in noi stessi; ma questo qualche cosa è in opposizione flagrante con le nostre tendenze più autentiche, col nostro più certo destino questo qualche cosa si cancella continuamente dall’anima con l’educazione, ed ogni nostra cura è di farlo sparire». (Sistema, pp. 276-277).

L’ostacolo è qui l’infinitamente altro, è l’invisibile. La scienza apre solo l’esteriorità illusoria e modesta della teoria, non affranca dal bisogno. È questa esteriorità provvisoria che consumiamo per garantirci la sopravvivenza. Inaccessibile e invisibile è Dio, l’uomo lo vede come l’altissimo. Platone ci parla di questa definizione, ma non solo lui. L’altezza è riconoscimento di superiorità, ed è accettazione della condanna, fare propria l’inferiorità che riteniamo ci appartenga. L’inizio delle catena che sigilliamo con la nostra accettazione. L’eccesso superlativo nei riguardi di tutto quello che non conosciamo e che pensiamo stia di fronte a noi come montagna inaccessibile sigilla il rifiuto della lotta. La lontananza spaziale di Dio è solo una sorta di metafora della lontananza del completamento di cui ognuno è intuitivamente cosciente. L’altezza è sempre inaccessibile, quando la si raggiunge se ne scopre un’altra ancora più in alto. Occorre azzerare l’altissimo, ma è l’uomo che ha proiettato se stesso nell’altezza, togliersi di là non è facile. Con notevoli sfumature di diversità l’analisi di Nietzsche su questo stesso problema: «Alla gloria della passività contrappongo ora la gloria dell’attività, che illumina il Prometeo di Eschilo. Ciò che a questo riguardo il pensatore Eschilo aveva da dirci, ciò che egli però come poeta con la sua immagine simbolica ci fa solo intuire, il giovane Goethe ha saputo svelarcelo nelle temerarie parole del suo Prometeo:

«Qui io resto, formo uomini
a mia immagine,
una stirpe che mi sia uguale,
per soffrire, per piangere,
per godere e per gioire,
e non curarsi di te,
come me!

«L’uomo, crescendo ad altezza titanica, si conquista da sé la propria civiltà, costringendo gli dèi ad allearsi con lui, perché nella sua propria saggezza tiene in sua mano l’esistenza e i limiti di essa. La cosa più mirabile in questa poesia su Prometeo, che secondo il suo pensiero fondamentale è il vero e proprio inno dell’empietà, è la profonda tendenza eschilea alla giustizia: lo sconfinato dolore dell’ “individuo” temerario da una parte, e la miseria divina, anzi il presentimento di un crepuscolo degli dèi dall’altra; la potenza di questi due mondi di dolore, che costringe alla riconciliazione, all’unificazione metafisica – tutto ciò ricorda nel modo più forte il nucleo e il principio della concezione del mondo eschilea, che vede troneggiare la Moira, come eterna giustizia, su dèi e uomini. Di fronte alla stupefacente arditezza con la quale Eschilo pone il mondo olimpico sulla sua bilancia della giustizia, dobbiamo immaginare che l’animo profondo del Greco trovava nei suoi misteri un sostrato incrollabilmente saldo del pensiero metafisico, e che tutti i suoi impulsi scettici potevano sfogarsi sugli dèi olimpici. L’artista greco in particolare avvertiva, riguardo a queste divinità, un oscuro senso di reciproca dipendenza, e questo sentimento è simboleggiato proprio nel Prometeo di Eschilo. L’artista titanico trovò in sé la caparbia fede di poter creare uomini o almeno di poter distruggere dèi olimpici: e ciò mediante la sua superiore sapienza, che era però costretto a scontare con un’eterna sofferenza. Il magnifico “potere” del grande genio, che anche con un dolore eterno è pagato troppo poco, l’aspro orgoglio dell’artista – questo è il contenuto e l’anima della poesia di Eschilo, mentre nel suo Edipo Sofocle intona come preludio il canto di vittoria del santo. Ma neanche con l’interpretazione che Eschilo ha dato del mito viene scandagliato il suo stupefacente abisso di terrore: anzi la gioia dell’artista per il divenire, la serenità del creare artistico, che sfida ogni sventura, sono soltanto una luminosa immagine di nuvole e di cielo, che si rispecchia in un nero lago di tristezza. La leggenda di Prometeo è proprietà originaria dell’intera comunità dei popoli ariani e un documento delle loro doti di profondità tragica; non mancherebbe anzi di verosimiglianza il dire che questo mito possiede per la natura ariana esattamente la stessa caratteristica importanza che il mito del peccato originale ha per la natura semitica, e che fra i due miti esiste un grado di parentela come tra fratello e sorella. Il presupposto del mito di Prometeo è lo sconfinato valore che un’umanità ingenua attribuisce al fuoco, come al vero palladio di ogni civiltà ascendente: ma che l’uomo disponesse liberamente del fuoco e non lo ricevesse soltanto come un regalo del cielo, come folgore incendiaria o come vampa scottante del sole, apparve a quei contemplativi uomini arcaici come un sacrilegio, come una rapina ai danni della natura divina. E così il primo problema filosofico pone subito una penosa e insolubile contraddizione fra uomo e dio, e la sospinge come un macigno sulla soglia di ogni civiltà». (La nascita della tragedia dallo spirito della musica [1872], 9). Nessun aumento di altezza potrebbe misurare la distanza che separa dal completamento. L’esistenza dell’uomo appartiene allo spazio, fa parte del mondo, e in questi rapporti si riassume penosamente con un residuo che viene continuamente rinviato in avanti. Per quale motivo questa inscrizione nello spazio, quando c’è sempre qualcosa che eccede lo spazio? Il bisogno di trascendenza metafisica è accettazione dell’altezza spaziale, il suo rifiuto apre alla libertà.

«Dio e uomo – dice Proudhon – sono due nature che si fuggono, da quando si conoscono; non si riconcilieranno a meno d’una trasformazione dell’uno o dell’altro o di tutti e due? Come mai, se il progresso della ragione ha per scopo di allontanarci sempre dalla Divinità, Dio e l’uomo, nella ragione, sarebbero così identici? Come mai, in conseguenza, l’umanità con l’educazione potrebbe diventar Dio?

«Prendiamo un altro esempio.

«Il carattere essenziale della religione è il sentimento. Con la religione, l’uomo attribuisce a Dio il sentimento, come gli attribuisce la ragione; di più, afferma, seguendo il cammino ordinario delle sue idee, che il sentimento in Dio, nello stesso modo che la scienza, è infinito. Ora, solo ciò basta per cambiare in Dio la qualità del sentimento, e farne un attributo totalmente distinto da quello dell’uomo. Nell’uomo, il sentimento deriva da diverse sorgenti; si contraddice, si turba, si tormenta da se stesso; senza di ciò non si avvertirebbe. In Dio, al contrario, il sentimento è infinito, cioè pieno, fisso, limpido, al disopra delle tempeste, e non avente alcun bisogno d’inasprirsi col contrasto per arrivare alla felicità. Facciamo noi stessi l’esperienza di questo modo divino di sentire, allorché un unico sentimento, togliendoci tutte le facoltà, come nell’estasi, impone silenzio momentaneamente a tutti gli altri affetti. Ma questo rapimento non esiste che per mezzo del contrasto e con una specie di provocazione avvenuta altrove; non è mai perfetto, dove arriva alla pienezza, è come l’astro che raggiunge il suo apogeo in un istante indivisibile». (Sistema, p. 277). La cultura scritta ha sclerotizzato la comprensione affidandola alle regole, appunto scritte, della grammatica. Il sentimento si è scontrato con i muri dell’isolamento che si sono alzati quando la comunicazione è stata affidata alla scrittura, diventando praticamente insormontabili al momento della grande diffusione della stampa. Chi scrive trasmette il suo pensiero non a una persona precisa, ma a un ambiente sociale dal quale si aspetta una risposta, quasi sempre un riconoscimento e un assenso. Inoltre, trasmette per conto di un committente. Anche quando questo committente è un gruppo che nega tale committenza, la cosa non cambia. L’attesa riguardo l’effetto della scrittura entra così nella comunicazione che ne viene condizionata, allo stesso titolo, se non peggio, delle linee direttive del committente e dell’adeguamento alle presunte capacità di comprensione del destinatario. Il sentimento nega tutte queste corrispondenze e diventa così inintelligibile.

Continua Proudhon: «Così, non viviamo, non sentiamo, non pensiamo, che per una serie d’opposizioni e di scosse, per una guerra intestina; il nostro ideale non è un infinito, ma un equilibrio; l’infinito esprime una cosa diversa.

«Si dice: Dio non ha attributi che gli siano propri; i suoi attributi sono quelli dell’uomo; dunque l’uomo e Dio fanno una sola e medesima cosa.

«Tutto al contrario, gli attributi dell’uomo, essendo infiniti in Dio, sono per ciò stesso propri e specifici; è il carattere dell’infinito di diventare specialità, essenza, perciò esiste il finito.

«Dunque si neghi la realtà di Dio, come si nega la realtà di un’idea opposta; si respinga dalla scienza e dalla morale questo fantasma incomprensibile ed insanguinato, che più si allontana, più sembra perseguitarci; ciò può, fino ad un certo punto, giustificarsi, ed in ogni caso non può nuocere. Ma non si faccia di Dio l’umanità, poiché sarebbe calunniare l’uno e l’altra». (Ibidem).

La parola s’allarga a qualsiasi tipo di espressione, linguaggio di suoni, di oggetti, di movimenti, di atteggiamenti, di gesti. Nel suo allargarsi rende testimonianza della condizione umana, dell’effettiva impossibilità di racchiudere tutto questo, – la costruzione di Dio e la fuga da lui – tutta questa mirifica strategia interpretativa, nell’immediatezza della coscienza, nella fattività quotidiana. Alla fine il fantasma impallidisce pur non scomparendo mai del tutto. Quest’ultima eventualità impossibile porterebbe l’esistenza di fronte a un rifiuto ancora più difficile, quello di se stessa in nome della liberazione definitiva. La merce di scambio, la riproduzione accettabile, il discorso col potere dovrebbero cessare di sorreggere l’uomo e di svuotarlo dal di dentro. In Dio, anche nel caso in cui la partecipazione diventasse assuefazione, resta sempre un margine di inaccettabilità assoluta, la non accumulabilità di quanto predisposto nell’àmbito del rapporto tra dominio e libertà. Non si tratta di portare direttamente nella quotidianità le idee metafisiche che hanno rimpolpato Dio per millenni, ma di creare intorno a queste idee una nuova tensione, un movimento di apertura capace di sconvolgere le coscienze. Questa è certamente una proposta anarchica, la poesia con il suo simbolismo e le sue immagini lascia soltanto piccole tracce, suggerisce una prima nozione, il resto è ancora tutto da immaginare. Interessante la posizione di Adriano Thilger: «Reale e pensiero marciano in direzione opposta: il pensiero – la volontà dell’identità – tende a sopprimere il molto e vario che trova e non può generare da sé, tende a risalire dal molto all’uno, a distruggere il molto – il reale è l’uno che discende nel molto rimanendo sempre uno, che alienandosi in altro resta sempre in se stesso e accanto a se stesso. L’Idealismo ha perciò torto e ragione insieme. Ha torto quando fa del pensiero come tale il generatore del reale, perché il pensiero come tale non può che tentare di negare il reale – il molto e il vario – distruggerlo, annullarlo – ha ragione quando afferma che reale e pensiero sono della stessa stoffa. Il pensiero è il fondo del reale ma non come pensiero (perché come pensiero è l’uno che si è strappato dal molto, per ciò stesso se lo trova davanti come molto, non se ne può rendere ragione, tenta di annientarlo) bensì solo nel senso che questo fondo, cioè quell’ineffabile vita in cui l’uno genera da sé i molti e circola in essi senza perdere la sua unità, contiene in sé come possibilità il pensiero nel senso stretto della parola, cioè lo stato in cui l’uno è scisso, dal molto e vario, se lo trova di contro come nemico e tenta ridurlo alla vuota unità sua. Pensato a fondo, l’idealismo conduce a porre il reale come limite dinanzi a cui la coscienza spira, come fondo da cui essa emerge, come base che la sostiene e sottende, ma questo reale non è altro che la vita inconscia, che non entra come oggetto nella coscienza perché la coscienza con la sua scissione di soggetto e oggetto non sorge che sulla base dell’inconscio. Pensato a fondo, l’idealismo sbocca nel realismo non della cosa, ma della vita». (Il casualismo critico, Roma 1942, pp. 86). La via attraverso la vita e verso la vita, come duplicazione del significato, quindi come mascheramento, come interpretazione. L’ironia e l’immaginazione sono due metodi interpretativi che hanno come possibilità quella di sconfiggere tutti i limiti troppo immediati. Naturalmente non possono sconfiggere ogni sorta di limite, ma questo è un altro discorso. La partecipazione costituisce un allargamento conducendo gli altri nel sogno, non come fuga dalla realtà ma come costruzione possibile, sulla base di un’idea critica negativa che è anche parola, quindi su qualcosa di circoscritto ma non reso schiavo della ragione dominante, di un Dio creatore assoluto e tiranno, ineliminabile, continuamente incombente.

Ancora Proudhon: «Si dirà che l’opposizione tra l’uomo e l’essere divino è illusoria, e che proviene dall’opposizione che esiste tra l’uomo individuale e la natura dell’umanità intera? Allora è necessario sostenere che l’umanità, poiché si deifica, è infinita in tutto; ciò che è smentito non solo dalla storia, ma dalla psicologia.

«Non è così che bisogna intenderla, esclamano gli umanisti. Per avere l’ideale dell’umanità, bisogna considerarla non nel suo sviluppo storico, ma nell’insieme delle sue manifestazioni, come se tutte le umane generazioni, riunite in un medesimo istante, formassero un sol uomo, un uomo infinito e immortale.

«Vuol dire che si abbandona la realtà per cogliere una proiezione, che l’uomo vero non è l’uomo reale; che per trovare il vero uomo, l’ideale umano, bisogna uscire dal tempo ed entrare nell’eterno, che dico? abbandonare il finito per l’infinito, l’uomo per Dio! L’umanità, quale la conosciamo, quale si sviluppa, quale in una parola può esistere, è diritta; ci si fa vedere l’immagine al rovescio come in un cristallo, e poi ci si dice: Ecco l’uomo! Ed io rispondo: Non è più l’uomo, è Dio. L’umanismo è il più perfetto teismo». (Sistema, pp. 277-278).

Ciò ha bisogno di una diversa distribuzione del rapporto conoscitivo con la realtà, inteso non in senso strettamente fisico, come distanza conteggiabile, per quanto anche questo aspetto rientrando nelle convenzioni di campo finisce per avere il suo peso, trattandosi sempre di luoghi a ciò predisposti, aperti o chiusi a questo punto non ha importanza. Spazio come esistenza. Muovendosi nello spazio conoscitivo, l’avvenimento statico si anima e diventa concretamente penetrabile, proprio perché ha aperto verso l’inquietudine tutte le condizioni di sicurezza e di controllo, quindi di rispettosa distanza, che vigevano precedentemente. In questa apertura, non avendosi ancora nulla delle possibili concretezze trasformative, non trovandosi ancora nell’azione vera e propria, che in definitiva resta fuori dai movimenti preventivi diretti alla conoscenza e alla quale bisogna guardare come lo strumento guarda al suo possibile impiego, in questa apertura si deve inserire la parola, il legante possibile che racchiude nel cerchio magico l’esistenza riconsegnata a nuove capacità, del tutto differenti dalle precedenti.

Onde liberarsi di questa pericolosa oppressione, sempre lavorando nel campo del doppio movimento tra ignoto e conosciuto, esistono alcuni espedienti esclusivamente esterni in parte capaci di salvare l’uomo dall’oppressione divina. Ogni conoscenza deve contenere un elemento fisico e oggettivo percepibile da tutti. Non ci sono lamenti o apparizioni, sorprese o colpi di scena che possono acconsentire a un ritorno della cattiva infinità, di una totalità surrettizia diretta solo a schiacciare le possibilità dell’uomo. È questo lo scopo dell’analisi di Proudhon. La magica bellezza di certi procedimenti ispirati a modelli rituali, lo splendore delle tradizioni, il luccicante fascino delle voci immerse nel canto, l’armonia, gli accordi traditori della musica, i colori di tutte le tavolozze, il ritmo dei movimenti, la pulsazione dei gesti più familiari e rassicuranti, le apparizioni di nuove e sorprendenti maschere, il caldo e il freddo, tutto questo deve essere ricondotto lontano dall’idea di Dio. L’esistenza può essere una bellissima esperienza, solo a questa condizione.


[Per la redazione di questa quarta parte ho utilizzato il mio libro: Dio e lo Stato nel pensiero di Proudhon, Ragusa 1976, con considerevoli modificazioni e aggiunte].

Parte quinta (conclusiva)

Proudhon non è un economista. Lui stesso lo ammette in più punti della sua opera e chiaramente in molte lettere. In ogni caso è un forte lettore di opere di economia. Comunque la sua critica dell’economia classica è corretta, malgrado gli appunti – a volte inconsistenti – di Marx. Forse in Proudhon c’è di più interessante il richiamo per la costruzione di una sociologia economica. Non c’è dubbio però che le contraddizioni economiche esposte così meccanicamente presentano molti limiti e spesso non appaiono convincenti. Troppo dottrinale questa analisi non lo è mai, ma anche nella passione qualche volta traspaiono limiti tecnici che non possono essere nascosti.

Detto questo bisogna però dire che la critica del liberalismo economico e dello statalismo sono molto ben fatte. Non ci sono pagine migliori di quelle dedicate al capitalismo concorrenziale, al capitalismo organizzato e al capitalismo di Stato. Il marxismo non ha potuto fare di meglio, ammettendo la consegna dei mezzi di produzione allo Stato dopo la rivoluzione solo come mezzo temporaneo per meglio fare procedere i processi in corso. Le disillusioni in questo senso sono senza limiti. L’avvento della “federazione industriale-agricola” di cui parla Proudhon ancora non c’è stato, ma sarebbe un punto interessante da approfondire.

Proudhon non è però in grado di specificare meglio la particolarità delle singole condizioni produttive, delle congiunture, delle strutture e delle loro modificazioni, all’interno di un meccanismo economico che insiste a definire “dialettico” – da cui la malcomprensione di Marx – ma che è dialettico sui generis, non avendo nulla del processo logico hegeliano. In lui non ci sono approfondimenti riguardo le scelte strategiche in economia in base alle quali ottenere il raggiungimento dei diversi equilibri produttivi. La sua ostilità contro gli scioperi (da lui definiti “coalizioni”) non è comprensibile in una situazione che si avviava a diventare sempre più calda. Difatti, alla tribuna parlamentare egli stesso, il 31 luglio 1848, parlerà di necessità dell’insurrezione come unico mezzo col quale il popolo può liberarsi dall’oppressione. Eppure nella sua opera economica non affronta se non negativamente il mezzo dello sciopero che all’epoca era senza dubbio un mezzo efficace, vedendovi il rischio di indebolire la forza di resistenza dei lavoratori. Per il medesimo motivo, pensando di rafforzare questa forza, sostiene la costituzione del credito gratuito.

Non è vero – come afferma Marx – che Proudhon prende in prestito il suo ideale di giustizia eterna dai rapporti giuridici del regime borghese. Non è vero che egli vuole rassicurare i borghesi affermando che questi rapporti sono eterni come la giustizia. Marx non solo non fa alcuno sforzo per comprendere Proudhon, ma non vuole comprenderlo. Quest’ultimo ha sempre affermato che il diritto borghese, in quanto basato sul diritto romano, deve morire per essere sostituito da un nuovo diritto: il diritto all’integrazione in strutture non gerarchiche, sostituito dal diritto economico e dal diritto sociale organizzati in una Costituzione sociale del tutto contraria alle esistenti costituzioni politiche. Sostituendo in ogni rapporto il diritto relativo e modificabile della reciprocità industriale al diritto assoluto della proprietà, si finisce per distruggere dalle fondamenta il palazzo di cartone dello Stato dentro cui al momento siamo ospitati.

Il vecchio diritto, insiste Proudhon, aveva il carattere generale in ogni sua parte di essere negativo, di impedire piuttosto che di consentire, di prevenire i conflitti invece di creare garanzie. Il nuovo deve avere un carattere positivo, il suo scopo deve essere quello di permettere semplicemente di fare. Da qui la necessità di eliminare il potere statale e della banche in particolare.


[1970], [1982]

 
 

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