Titolo: Pëtr Kropotkin
Sottotitolo: Contro la scienza
Note: Pensiero e azione N. 30
Prima edizione: novembre 2013
SKU: pensiero-000030
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“Completamente diverso è il compito dell’indagine filosofica per le filosofie a indirizzo antimetafisico. Tipico l’esempio del positivismo di Auguste Comte, che non parla mai esplicitamente di indagine filosofica ma la fa implicitamente consistere nell’opera di propulsione delle nostre conoscenze dalla fase teologica e metafisica a quella scientifica o positiva. Quest’ultima fase sarebbe costituita dalla determinazione delle leggi dei singoli campi fenomenici senza alcuna pretesa di spiegarli o di scoprirne le cause. Anche per il neopositivismo come per il positivismo di Comte il compito della filosofia è soprattutto critico, e precisamente è quello di snidare la metafisica che si cela (diversamente da ciò che riteneva Comte) nelle pieghe delle stesse scienze positive, allo scopo di dare a queste scienze un carattere interamente empirico eliminando da esse ogni problema in apparenza insolubile, ma in realtà privo di senso. Secondo l’anti-neopositivista Popper il compito della filosofia è ancora quello di stabilire una netta demarcazione fra scienza e metafisica, ma il criterio di tale demarcazione non va cercato nella scrupolosa fedeltà ai dettati dell’esperienza, bensì nella falsificabilità (in quanto le teorie metafisiche sarebbero per la loro stessa struttura infalsificabili). Oggi vi sono però alcune correnti di pensiero che, pur prendendo le mosse dalle ricerche dei positivisti, dei neopositivisti e dei postneopositivisti, ritengono che la scienza e la metafisica siano inscindibilmente collegate fra loro, sicché la pretesa di contrapporle l’una all’altra o anche solo di separarle non potrebbe essere che illusoria e ingannatrice. Le prove a favore di questa tesi sarebbero fornite dalla stessa storia della scienza e in particolare delle più rigorose fra le scienze, cioè la matematica e la fisica. A questo punto occorre distinguere immediatamente la quaestio facti dalla quaestio juris. Per quanto riguarda la prima, è certo incontestabile che pressoché tutte le teorie scientifiche trassero origine da concezioni più o meno apertamente metafisiche e perfino teologiche […]. Va comunque sottolineato che anche Auguste Comte, così spesso accusato di dogmatismo, riconosceva alla metafisica, e soprattutto alla teologia, dei meriti decisivi nella preparazione della fase positiva (ovverossia scientifica) delle nostre conoscenze. Per valutare tali contributi occorre affrontare la quaestio juris di cui abbiamo fatto cenno, e cioè analizzare ciò che ha caratterizzato la scienza rispetto alle fasi precedenti della conoscenza. Orbene una riflessione anche minimamente accurata su questo problema ci fa concludere che il carattere più importante che è presente nella scienza e assente nelle altre fasi della conoscenza è il rigore o per lo meno la ricerca del rigore. In altri termini: mentre nella teologia e nella metafisica si discute di problemi generici e quindi vaghi, che non possono essere risolti se non con l’appello a intuizioni, a sentimenti, a percezioni immediate, nella scienza ci si sforza sempre di formulare i problemi con la massima esattezza, e si lascia sempre aperta la porta a una loro riformulazione appena ci si accorga che la loro precedente formulazione fa uso di qualche concetto non ben definito o di qualche processo dimostrativo lacunoso. E se, come non di rado accade, questa esigenza di rigore non risulta soddisfatta, si può tuttavia affermare che essa costituisce un carattere costantemente presente nel modello ideale di scienza”.

(L. Geymonat e G. Giorello, Le ragioni della scienza)

Introduzione

In tante occasioni mi sono soffermato su Kropoktin, sulle sue tesi scientifiche e sulle sue analisi rivoluzionarie e anarchiche. Via via con minore entusiasmo, fino a distogliermene, negli ultimi anni, quasi del tutto, almeno dopo la stesura e la pubblicazione delle mie postfazioni a La conquista del pane e a Il mutuo appoggio, punti nodali del pensiero di questo affascinante studioso anarchico. Il fatto è che con l’andare del tempo due cose sono andate crescendo dentro di me: la sfiducia nelle chiare e luminose prospettive dell’animo umano e la parallela sfiducia sulle possibilità della scienza, più o meno ammodernata, di dar sostegno a qualunque progetto di questo tipo.

Non che avessi mai avuto una grande fiducia in processi interni alla realtà, processi in fondo di natura deterministica anche se vissuti attraverso insinuazioni probabilistiche, ma anche le mie ampie ricerche sull’indeterminismo non riuscivano a nascondere il sogno, così ben radicato in ogni anarchico, del buon selvaggio di Rousseau che prima o poi finisce per venire fuori. Adesso non guardo più al futuro – visto peraltro che questo, per me, non può che essere vicenda di poco respiro – per quanto non possa surrettiziamente affermare che la melma che ho trovato dentro la realtà, qualunque tipo di realtà, continuerà così fino al termine dei tempi. Se la bestia umana potrà un giorno librarsi verso quella libera “presa nel mucchio” di cui parla Kropotkin, non circoscrivendola peraltro all’ambito economico soltanto, non lo so, ma non ho da tempo fondato il mio agire su questa ipotesi. In fondo al mio cuore altre preoccupazioni sono sorte e di ben altro significato.

Contro la scienza, come contro la storia. Il parallelo non può essere attutito, le responsabilità sono tante, i milioni di morti diventano sempre di più, i macelli si aprono dappertutto e pochi sembrano accorgersene, visto come sono impegnati a svangare la tutela dei propri interessi. Raccogliersi sotto le file scientifiche o sotto quelle storiche, come i miei pochi lettori sanno, per me non ha molta efficacia di distinzione. Responsabili si è sotto l’egida della scienza come sotto quella della storia, e le consociate pullulano disordinatamente, confondendo i ranghi, tanto che diventa solo faccenda nominalistica distinguere tra chi abbraccia come proprio idolo la scienza e chi la storia. Trovo, da questo punto di vista, più conseguente, nella sua affiliazione altezzosa e conscia di sé, Gentile e non Croce. Eppure questi due lottatori del positivismo imperate in nome dell’idealismo da sostenere, andavano gridando ai quattro venti di essere per l’unità, il primo, per la distinzione, il secondo. Fascismo e liberalismo, sfumature da chiacchieroni. Lasciamole alle tarme del ricordo di chi si interessa di cadaveri.

Rinvenire le segnature di cui ho parlato a lungo nel lavoro su Bakunin sarebbe qui ripercorrere un lavoro di già fatto. Lascio questo compito al lettore. Preferisco andare avanti, ho ormai troppa fretta. Per questo motivo scelgo di disperdere, frantumare, chinarmi a raccogliere non tanto segnature ma piccole tracce, segnali giacenti negli interstizi. Mi manca il gesto elegante di chi sa quello che vuole dire. Le antiche polemiche contro il determinismo (“seme sotto la neve”) o contro l’ottimismo buonista (implicito in ogni progressivismo politicamente corretto) sono ormai dietro le mie spalle. Davanti mi restano chiare le indicazioni distruttive. Questa società vecchia va distrutta dalle fondamenta.

Con buona pace di Kropotkin.


Trieste, 24 settembre 2011

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

“Ogni determinazione psicologica è già psicofisica, vale a dire nel senso più ampio, poiché possiede cioè una immancabile cosignificanza fisica. Anche quando la psicologia – la scienza dell’esperienza – ha inteso determinare semplici accadimenti di coscienza e non ha considerato le subordinazioni psicofisiche nel consueto senso stretto, questi accadimenti sono comunque pensati come accadimenti della natura, appartenenti cioè a coscienze umane o animali, che dal canto loro hanno un collegamento ovvio ed evidente con i corpi umani e animali”.

(E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa)

La conquista del pane

Se resta fuor di dubbio che La conquista del pane sia uno dei classici fondamentali dell’anarchismo, non altrettanto certa ne è la sua validità attuale, potendo sembrare, quest’ultima, legata a situazioni precise dello scontro di classe, situazioni tali che difficilmente possono trovare chiarificazione rifacendosi alle analisi contenute nel lavoro di Kropotkin.

Metterlo da parte? Consegnarlo alle amene ricerche degli storiografi, capaci, nel pallore delle mummie che maneggiano, di far apparire vivente quello che non lo è più? Fare opera di separazione del grano dalla pula, indicando con pazienza e solerzia quelle parti ancora valide e quelle altre decisamente fuori del tempo? E, in questo caso, che cosa resterebbe dell’unità dell’opera che, seppure accidentale nel momento in cui l’autore vi pose mano, trovando le singole parti origine da scritti precedenti, non può non balzare subito all’occhio anche del lettore più svogliato?

In fondo queste titubanze non hanno ragione di esistere. La conquista del pane ha una sua chiave unitaria di lettura che non ci pare sia stata posta in rilievo nemmeno nell’edizione americana curata da Avrich, e questa chiave consente una legittima fruizione, non più come monumento del passato, ma come segno tangibile di quel qualcosa di duraturo e di continuamente in trasformazione che il potere riesce con più o meno fatica a nascondere.

È stato detto di Kropotkin tutto il bene possibile, da quel sant’uomo che era non poteva trarsi nulla di diverso. La sua concezione della vita, il suo ottimismo, la sua olimpica freddezza scientifica delle analisi, che qua e là si accalora con qualche tratto di incitamento alla rivolta, in fondo tutto ciò rasenta l’oleografia. E La conquista del pane è un libro che si presta molto a dare man forte al quadro oleografico che una certa storiografia dell’anarchismo ha interesse venga tratteggiato. Solo che la distruzione del potere non è quel processo schematico che siamo soliti affidare alle grandi esplosioni di violenza, o ai piccoli attacchi contro le strutture della repressione. La distruzione dell’ordine costituito passa anche attraverso la lenta ed ottimistica valutazione delle forze disponibili per attaccare. Se per un atto disperato e unico non occorre tanto menarla per le lunghe, solo la riflessione e l’analisi possono far comprendere quell’atto e dispiegare quelle forze necessarie a trasformare la disperazione degli sfruttati in forza rivoluzionaria organizzata.

E per far ciò occorre un profondo ottimismo. Non nelle cose o negli uomini, per cui sarà sempre possibile trovare chi ci indichi con degnazione le cose e gli uomini che quell’ottimismo non meritano, ma nella volontà dell’individuo che si somma e si ricompone all’interno del progetto complessivo della totalità rivoluzionaria.

Qui si colloca, almeno mi pare, la chiave di lettura che rende unitario il libro. La solidarietà è fatto biologico – dice Kropotkin – e come un seme nascosto dal manto nevoso giace come morto tutto l’inverno per poi riprendere vita in primavera, così questo principio essenziale dell’umanità sopporta le peripezie angosciose della tirannide per risvegliarsi al sole della rivoluzione dell’avvenire. Su questo punto molti pensatori attuali avanzano dei dubbi. Non tanto rinverdendo le tesi secolari degli uomini che simili a lupi si mangiano fra loro, quanto sottoponendo la troppo idilliaca visione scientifica tardo-ottocentesca, alle critiche di un materialismo storico che considera (almeno fino a ieri l’altro) la biologia come il diavolo l’acqua santa. Le forme storiche della distribuzione dei rapporti di produzione contribuiscono (attenuazione paleo-anarchica) a determinare la società (e quindi anche l’individuo).

Di quale comunismo parla questo libro? Evidentemente di quello anarchico. Quindi vi si legge: «Ma il nostro comunismo non è quello di Fourier o dei falansteriani, né quello dei teorici autoritari tedeschi. È il comunismo anarchico, il comunismo senza governo – quello degli uomini liberi. È la sintesi dei due fini perseguiti dall’umanità attraverso i secoli: la libertà economica e la libertà politica.

«Prendendo “l’anarchia” come ideale dell’organizzazione politica, non facciamo ancora che formulare un’altra tendenza pronunciata dell’umanità. Ogni volta che il cammino dello sviluppo delle società civili l’ha permesso, esse scuotono il giogo dell’autorità e abbozzano un sistema basato sui princìpi delle libertà individuali. E noi vediamo nella storia che i periodi, durante i quali i governi furono sgominati da rivolte particolari o generali, sono stati epoche di progresso repentino sul terreno economico e intellettuale. Talvolta è l’affrancamento dei comuni, di cui i monumenti, frutto del libero lavoro di libere associazioni, non hanno mai avuto uguali; talvolta è il sollevamento dei contadini che fecero la Riforma e misero in pericolo il Papato; talvolta è la società, libera per un momento, creata dall’altra parte dell’Atlantico dai malcontenti venuti dal vecchio mondo.

«E se osserviamo lo sviluppo presente delle nazioni civili, ci vediamo, tanto da non ingannarci, un movimento sempre più accentuato per limitare la sfera d’azione del governo e lasciare sempre più libertà all’individuo. È l’evoluzione attuale, impacciata, è vero, dai guazzabugli delle istituzioni e dai pregiudizi ereditati dal passato; come tutte le evoluzioni essa non aspetta che la rivoluzione per ribaltare le vecchie catapecchie che gli fanno ostacolo, per prendere un libero volo nella società rigenerata.

«Dopo aver tentato vanamente a lungo di risolvere questo problema insolubile di darsi un governo “che potesse costringere l’individuo all’obbedienza, senza tuttavia cessare di obbedire esso stesso alla società”, l’umanità tenta di liberarsi di tutte le specie di governo e di soddisfare i propri bisogni di organizzazione con la libera intesa tra individui e gruppi che perseguono lo stesso fine. L’indipendenza di ogni minima unità territoriale diviene un bisogno pressante; il comune accordo sostituisce la legge e, al di sopra delle frontiere, regola gli interessi particolari in vista di un fine generale.

«Tutto ciò che fu un tempo considerato come funzione del governo gli è oggi conteso: ci si aggiusta più facilmente e meglio senza il suo intervento. E studiando i progressi fatti in questa direzione siamo portati a concludere che l’umanità tende a ridurre a zero l’azione del governo, cioè ad abolire lo Stato, questa personificazione dell’ingiustizia, dell’oppressione, del monopolio.

«Possiamo già intravedere un mondo in cui l’individuo, cessando di essere legato dalle leggi, non avrà che abitudini sociali – risultate dal bisogno provato da ciascuno di cercare l’appoggio, la cooperazione, la simpatia dei propri vicini.

«Certamente l’idea di una società senza Stato susciterà, per lo meno, tante obiezioni quanto l’economia politica di una società senza capitale privato. Tutti siamo stati nutriti di pregiudizi sulle funzioni provvidenziali dello Stato. Tutta la nostra educazione, dall’insegnamento delle tradizioni romane fino al codice di Bisanzio che si studia sotto il nome di diritto romano e le diverse scienze insegnate all’università, ci abituano a credere al governo e alle virtù dello Stato-Provvidenza». (La conquista del pane, tr. it., Catania 2001, pp. 57-58).

Buono? Cattivo? Né buono, né cattivo? L’unico fatto certo, sembrerebbe quello di una proposta d’intervento: cosa fare? In queste precise condizioni teoriche; come agire? In un momento come questo, in cui lo scontro di classe è in atto.

L’espropriazione. Ecco il punto da cui partire. Kropotkin scrive: «Non vogliamo spogliare nessuno del suo cappotto, ma vogliamo rendere ai lavoratori tutto ciò che permette, a non importa chi, di sfruttarli: e faremo tutti gli sforzi perché, nessuno mancando di niente, non ci sia un solo uomo costretto a vendere le sue braccia per esistere, lui e i suoi figli. Ecco come concepiamo l’espropriazione e il nostro dovere durante la Rivoluzione di cui speriamo l’arrivo; non fra cento anni, ma in un avvenire prossimo.

«L’idea anarchica in generale e quella dell’espropriazione in particolare trovano molte più simpatie di quello che si pensi tra gli uomini indipendenti di carattere e fra coloro per i quali l’ozio non è l’ideale supremo. “Però” ci dicono spesso i nostri amici “guardatevi dall’andare troppo lontano. Poiché l’umanità non si modifica in un giorno, non camminate troppo in fretta coi vostri progetti di espropriazione e di anarchia. Rischierete di non far niente di durevole”.

«Ebbene, quello che crediamo in fatto di espropriazione non è assolutamente di andare troppo lontano. Noi temiamo, al contrario, che l’espropriazione si faccia su una superficie troppo piccola per essere durevole; che lo slancio rivoluzionario si arresti a metà cammino; che si esaurisca in mezze misure che non sapranno contentare nessuno e che, il tutto producendo uno sconvolgimento formidabile nella società e un arresto delle sue funzioni, non sarebbero però durature, seminerebbero il malcontento generale e condurrebbero fatalmente al trionfo della reazione.

«Ci sono infatti nelle nostre società dei rapporti stabiliti che è materialmente impossibile modificare se se ne tocca solo una parte. Le diverse ruote dell’organizzazione economica sono così intimamente legate fra loro che non se ne può modificare una sola senza modificare l’insieme; ce ne accorgeremmo fin dal primo momento in cui si comincerà.

«Supponiamo infatti che in una regione qualunque si faccia una espropriazione limitata: che ci si limiti, per esempio, ad espropriare i grandi signori terrieri senza toccare le officine, come chiedeva recentemente Henry Georges; che in quella città si esproprino le case senza mettere in comune le derrate; o che in quella regione industriale si esproprino le officine senza toccare le grandi proprietà fondiarie.

«Il risultato sarà sempre lo stesso. Sconvolgimento immenso della vita economica, senza i mezzi per riorganizzare questa vita economica su delle basi nuove. Arresto dell’industria e dello scambio, senza il ritorno ai princìpi di giustizia; impossibilità per la società di ricostruire un tutto armonico.

«Se l’agricoltura si libererà del grande proprietario terriero senza che l’industria si liberi del capitalista industriale, del commerciante e del banchiere, non ci sarà niente di fatto. Il coltivatore soffre oggi non solo di dovere pagare dei canoni al proprietario della terra, ma dell’insieme delle condizioni attuali: soffre dell’imposta prelevata dall’industria, che gli fa pagare tre franchi una vanga che non vale, paragonata al lavoro dell’agricoltore, che quindici soldi; soffre delle tasse prelevate dallo Stato, che non può esistere senza una formidabile gerarchia di funzionari; soffre delle spese di mantenimento dell’esercito che sostiene lo Stato, perché le industrie di tutte le nazioni sono in lotta perpetua per i mercati, e che ogni giorno può scoppiare in seguito ad una lite sopravvenuta per lo sfruttamento di certe parti dell’Asia o dell’Africa.

«L’agricoltore soffre dello spopolamento delle campagne, della gioventù entrata nelle manifatture delle grandi città sia per l’attrattiva di salari più elevati pagati temporaneamente dai produttori di oggetti di lusso, sia dai piaceri di una vita più animata; soffre ancora della protezione artificiale dell’industria, dello sfruttamento commerciale dei paesi vicini, dell’aggiotaggio, della difficoltà di migliorare la terra e di perfezionare l’attrezzatura, ecc. In breve, l’agricoltore soffre, non solo della rendita, ma dell’insieme delle condizioni delle nostre società basate sullo sfruttamento; e quand’anche lo sfruttamento permettesse a tutti di coltivare la terra e di farla valere senza pagare canoni a nessuno, l’agricoltura – quand’anche avesse un periodo di benessere, ciò che non è ancora provato – ricadrebbe ben presto nel marasma nel quale si trova oggi. Tutto sarebbe da ricominciare, con nuove difficoltà in più.

«Lo stesso per l’industria. Ridate domani le officine ai lavoratori, fate quello che si è fatto per un certo numero di contadini a cui si è reso la proprietà della terra. Sopprimete il padrone ma lasciate la terra al padrone, i soldi al banchiere, la Borsa al commerciante, conservate nella società questa massa di oziosi che vivono del lavoro dell’operaio, mantenete i mille intermediari, lo Stato con i suoi innumerevoli funzionari, e l’industria non progredirà. Non trovando compratori nella massa dei contadini rimasti poveri; non possedendo la materia prima e non potendo esportare i suoi prodotti, in parte a causa dell’arresto del commercio e soprattutto per l’effetto della decentralizzazione delle industrie, essa non potrà che vegetare, abbandonando gli operai sul selciato, e queste schiere di affamati si sottometteranno presto al primo intrigante venuto, e torneranno verso l’antico regime, che provvede a garantire loro la mano d’opera.

«Ebbene, espropriate infine i signori della terra e rendete le officine ai lavoratori, ma senza toccare questi nugoli di intermediari che speculano oggi sulla farina e sul grano, sulla carne e sulle spezie nei grandi centri, mentre essi smerciano i prodotti delle manifatture. Ebbene quando lo scambio si arresterà ed i prodotti non circoleranno più; quando Parigi mancherà di pane e Lione non troverà più acquirenti per le proprie sete, la reazione diventerà terribile, marciando sui cadaveri, mandando la mitragliatrice nelle città, nelle campagne, facendo orge di esecuzioni e di deportazioni come ha fatto nel 1815, nel 1848 e nel 1871.

«Tutto si sostiene nelle nostre società ed è impossibile riformare quello che sia senza scuotere l’insieme. Dal giorno in cui si colpirà la proprietà privata sotto una delle sue forme – fondiaria o industriale – si sarà costretti a colpirla sotto tutte le altre. Il successo stesso della Rivoluzione lo imporrà.

«D’altra parte, lo si vedrebbe, non ci si potrebbe limitare ad una espropriazione parziale. Una volta scosso il principio della Santa Proprietà, i teorici non impediranno che essa venga distrutta qua dai servi della gleba, là dai servi dell’industria». (Ib., pp. 65-67).

La cosa curiosa è che in questo libro veramente unico si cercherebbe invano uno spunto di tipo organizzativo che riguardi gli aspetti della lotta rivoluzionaria. Cosa fare, prima della rivoluzione, per avvicinarsi ad essa? Come organizzarsi? Va bene il sindacalismo? Vanno bene le federazioni dei gruppi di affinità? Vanno bene le organizzazioni clandestine?

Come mai Kropotkin si è dimenticato di ciò? Perché si trattava di un libro destinato al problema di cosa fare al momento della rivoluzione e subito dopo, di come organizzare la produzione e la distribuzione, risponderebbero subito i lettori attenti del libro. E farebbero male.

Il grande soggetto che anima le pagine de La conquista del pane è il movimento degli sfruttati, nulla è concesso a questo o a quel gruppo storico d’intervento. E gli anarchici, in quanto minoranza cosciente, vi trovano posto solo perché facenti parte di quel grande movimento, non in quanto esponenti di un’organizzazione specifica intesa in termini di spazio politico.

Questo fatto, apparentemente banale, è stato considerato dalla critica a Kropotkin, almeno a quanto ci risulta, come una conseguenza della sua olimpica superiorità nei confronti delle parti in lotta all’interno del movimento rivoluzionario, e a conferma si indicano i passi in cui Kropotkin sottolinea le differenze tra gli anarchici e i collettivisti, e poi tra gli anarchici e i socialisti autoritari. In più, insistono i critici, si tratta di un difetto dell’analisi in se stessa, una limitatezza riconducibile al temperamento, alla disposizione di studi di Kropotkin, al suo amore per le tradizioni del passato – da quelle medievali alla Grande Rivoluzione. Come se il non indicare esattamente un luogo politico sia quel gran peccato che tutti vogliono farci credere, come se l’insistere sulla crescita politica di questa o quella parte del movimento sia quel gran passo avanti che tutti ci indicano.

Mi pare che Kropotkin si sia convinto di una cosa molto importante: la rivoluzione sarebbe impossibile se non fosse di già in atto. Il considerare la rivoluzione come qualcosa che un “bel giorno” incontreremo di colpo, al di là di una linea di demarcazione che oggi non ci è possibile oltrepassare, è mito blanquista, estraneo a Kropotkin e a tutti gli anarchici. Questo pensiero è veramente importante, e non significa nulla che Kropotkin non sia riuscito a vederne le conseguenze ultime, come neppure sia riuscito a ben giustificare i motivi che glielo suggerirono. Questo è un compito immenso, che ricostruiamo giorno per giorno sul piano dello scontro di classe tra sfruttati e sfruttatori, dai cui risultati riusciamo a ricavare quel materiale indispensabile alla continuazione della lotta.

Cerchiamo di chiarire meglio. Il punto di partenza di Kropotkin è il determinismo scientifico della sua epoca: la scienza avrebbe risolto tutto, avrebbe trasformato la condizione dell’uomo sottraendolo definitivamente allo sfruttamento, perché depositaria della verità sinonimo di saggezza. La natura stessa, di cui la scienza non era solo interprete ma anche conseguenza e premessa per ogni ulteriore approfondimento, non poteva essere maligna, in caso contrario non avrebbe prodotto uno strumento di liberazione. L’uomo può essere liberato perché ha in sé le condizioni della liberazione, le condizioni naturali della bontà: il resto sono accidenti di errata applicazione dei suggerimenti che la natura propone.

È evidente che questa prospettiva, da un punto di vista politico, necessita di un sostegno ulteriore. Anche la vecchia avventura metafisica hegeliana – meno accreditata in paesi di pescatori e pirati come l’Inghilterra, ma di dominio pubblico sul continente – era andata a finire nel partito socialdemocratico. Lo sviluppo indefinito della scienza non poteva non comprendere anche lo sviluppo delle forme organizzative precedenti alla rivoluzione, sia quelle del dominio capitalista, come quelle del contropotere proletario, e per quanto riguardava quest’ultimo, la cosa diventava possibile solo attraverso il superamento del primo livello (quello economico-sindacale), in un livello più ampio e comprensivo, quello del partito politico.

Che i marxisti continentali abbiano vissuto questa avventura sulle tracce di uno scontro con la neonata ma potente borghesia teutonica, è un fatto che non fu certo privo di conseguenze. Non si saprà mai bene in che modo quelle vicissitudini influirono sull’elaborazione della teoria e, parallelamente, in che modo la teoria marxista soggiacque alle apparenti conquiste (quantitative) della socialdemocrazia tedesca. Quello che possiamo vedere è solo un rapporto abbastanza chiaro tra determinismo scientifico e partito politico. Ma anche buona parte degli anarchici, e Kropotkin in testa, erano deterministi, e si contrapponevano alla corrente che insisteva sulla funzione del volontarismo (malatestiani). Sarebbe legittimo dedurne che i primi erano, sotto sotto, fautori di un partito operaio e i secondi no? Una simile conclusione sarebbe errata. Purtroppo in questo campo le apparenze sono quanto mai menzognere. Quello stesso determinismo che conduceva i marxisti a una rilettura quantitativa delle analisi originarie, contribuendo a fortificare il partito socialdemocratico in attesa di uno scontro che non poteva in alcun modo arrivare per quella strada, quello stesso determinismo, con tutti i suoi errori e le sue limitatezze scientifiche (e quale modello analitico non ne possiede?), portava gli anarchici verso un riconoscimento della totalità del movimento degli sfruttati, del processo rivoluzionario in corso, qui e subito, come progressivo coinvolgimento di forze che, in un modo o nell’altro, lavorano alla realizzazione dell’autorganizzazione della libertà umana.

Per via contraria, invece, quello stesso volontarismo che in alcuni marxisti assurgeva a corpo estraneo o a elemento strategico e demagogico da utilizzarsi al momento opportuno, o finiva (nel migliore Marx) per contraddire le sue stesse tesi di fondo, senza per altro porle seriamente in dubbio; quello stesso volontarismo, con tutte le sue dichiarazioni per la libertà e la inviolabilità dell’individuo, e con tutta la sua buona fede negli esponenti migliori e più vicini alla realtà delle lotte, come Malatesta, non poteva non andare a finire nell’organizzazione oggettiva del partito operaio anarchico.

Diversi i punti di partenza, diverse le motivazioni e gli obiettivi, ma identica l’illusione del quantitativo, il progetto della crescita, la strategia dell’attesa e dell’attacco strategico, gestito e coordinato da un’organizzazione da costruirsi non al di sopra delle masse (caso valido per i marxisti) ma tra le masse, cogliendone i momenti economici di sofferenza e di disgusto verso lo sfruttamento, ma sempre come qualcosa che deve andare a collocarsi al suo giusto posto, che deve compiere una funzione, trovare uno spazio politico, il tutto in attesa che si maturino gli eventi. Perché nulla di quella magnifica utopia della rivoluzione oggi è visibile, perché tutto, quando occorre, può ridursi, al limite, a un atto di volontà, capace di squarciare le tenebre che avvolgono la lotta.

Giustamente Malatesta accusava Kropotkin di avere “addormentato” il movimento anarchico internazionale, proponendo un’ideologia dell’attesa, in quanto, comunque, la rivoluzione “verrà”, solo che quell’accusa andava rivolta non tanto alle tesi di Kropotkin e al modo in cui furono formulate, quanto a quello che il movimento “volle” leggere in quelle tesi. Voleva l’attesa, e gliela trovò, voleva la sospensione dell’impegno dopo l’apparente inutilità del periodo caldo della propaganda col fatto, e gliela trovò, voleva un alibi per l’interventismo contro gli Imperi centrali, e glielo trovò. In fondo un teorico è non solo un punto di riferimento, non solo quello che egli stesso ritiene sia da considerarsi come punto di riferimento nella propria opera, ma è anche quello che la realtà delle lotte finisce per rendere visibile: e non c’era, in quegli anni, altra lettura possibile. La patriarcale figura dello scienziato aveva definitivamente sommerso la forte fisionomia dell’agitatore e del ribelle. Il tempo non richiedeva più le parole di chi aveva pur esaltato l’uso del “pugnale, della pistola e della dinamite” contro gli sfruttatori del popolo.

Inversamente, in Malatesta, il movimento avrebbe potuto ritrovare gli insegnamenti del Matese. L’impulso alla volontà di distruggere il potere sotto ogni forma e in ogni occasione, il sospetto verso i patteggiamenti e i cedimenti, la calma necessità degli strumenti organizzativi di attacco e di difesa. Ma non voleva ciò, voleva la progressiva crescita numerica, e gliela trovò, voleva la regolata organizzazione della difesa economica, e gliela trovò, voleva una forma di partito che mirasse a correggere le pecche del partito marxista, e gliela trovò.

Così nascono, si accrescono e diventano storia, gli equivoci dettati dalle necessità dello scontro di classe. Farne giustizia non è semplice né facile.

Più che andarci a impelagare in questi meandri, spesso, preferiamo andare per le spicce. Kropotkin, lo scienziato determinista, responsabile dell’insabbiamento del movimento internazionale, va collocato da un lato, quindi condannato in blocco, Malatesta, l’erede dell’insegnamento veritiero di Bakunin, l’agitatore instancabile, il rivoluzionario assertore della capacità organizzativa del proletariato, il teorico della volontà che sposa felicemente la forma dell’organizzazione operaia, va collocato dall’altro lato, quindi accettato in blocco.

Così non si rende nessun utile contributo alla chiarificazione delle lotte in atto.

Prendiamo i neo-kropotkiniani inglesi. Hanno ripreso a scavare sotto la neve per ritrovare quel piccolo seme che il geologo ed esploratore Kropotkin affermò di avere visto. E insistono, spesso con patetica monotonia, di vederlo ora qua ora là, ora in questa curiosa forma degenerativa della struttura del capitale, ora in quel tentativo socialdemocratico di fare partecipare le masse alle decisioni in merito al proprio sfruttamento. Evidentemente, così agendo, si tradisce non la lettera ma il significato profondo del pensiero di Kropotkin.

Prendiamo i malatestiani di casa nostra. Ristampano a più non posso Il programma anarchico e si battono contro ogni tentativo di riportare sul tappeto delle lotte attuali le formulazioni di un momento storico che non ha più senso se cristallizzato nelle pagine di un catechismo. Quando sono in vena migliore, si precipitano subito a stamparne di nuovi, di catechismi, contando e ricontando i compagni che dichiarano di accettare quelle linee programmatiche, salvo poi ad azzannarsi dietro le quinte per l’interpretazione di un problema astratto, come quello della violenza, che astratto non sarebbe di per se stesso, ma che astratto diventa se chi lo esamina e ci litiga sopra non ha alcuna intenzione di attaccare violentemente lo Stato.

Il segno caratteristico, quindi, dell’indicazione di Kropotkin non è solo quell’ottimismo benefico, frutto dei sogni della scienza del suo tempo, ma è anche, e principalmente, la sua capacità di intendere il progetto rivoluzionario come totalità, sottraendolo ai tentativi di affidarlo al naturale evolversi delle cose, o alla violenta decisione di un gruppo minoritario.

Ma questa totalità è profondamente contraddittoria, non ammette i modelli deterministici, come non ammette gli incitamenti volontaristici. Accetta solo di comprendere in se stessa l’uomo, la storia e i rapporti economici e sociali che legano il primo alla seconda. Nel seno della totalità rivoluzionaria il movimento trova il suo senso direzionale, diventa processo e progetto, tende a rimuovere gli ostacoli che la reazione accuratamente costruisce giorno per giorno, subisce sconfitte apparenti che sono sostanziali vittorie, costruisce immani realizzazioni vittoriose che sono pesanti sconfitte. Scava trincee malinconiche tra i simboli e le bandiere, tra i colori e i tradimenti, per trovare una strada che altri – i depositari della verità del tempio – insistono nell’indicare altrove. Tutto ciò sarebbe impossibile se il sogno finale non fosse realtà fin d’adesso, realtà parziale e distorta, tale che quanto più si cerca di tradurla in termini comprensibili alle nostre limitate capacità attuali, tanto più si nasconde e riemerge vestita con i simboli dell’ideologia ingannatrice.

In questo risiede l’illogicità della rivoluzione, ed è questo che non poteva risultare chiaro a Kropotkin, uomo e scienziato del suo tempo. Ma anche in ciò risiede il compito nostro oggi, sottrarsi a questa problematica contraddittoria significherebbe, anche riguardo la lettura de La conquista del pane, consegnare definitivamente il libro alla polverosa atmosfera delle biblioteche.


Catania, 19 aprile 1978

 


[Introduzione a La conquista del pane, tr. it., prima edizione, Catania 1978, pp. 7-11, seconda edizione, Catania 2001, pp. 5-10]

Postfazione del 2001

Leggere Kropotkin non è agevole. Dietro l’apparente semplicità di certe riflessioni si nasconde qualcosa d’altro, una certezza recondita che non ammette elusive titubanze. Lo scienziato occhieggia sotto sotto e si dichiara certo che alla fine delle sue analisi, vinti dalle documentazioni accumulate, gli interlocutori si dichiareranno convinti.

Non deve impressionare negativamente la palese obsolescenza di queste documentazioni. Il punto non sta qui. Nuovi riferimenti si potrebbero accumulare, e molto più impressionanti. Immaginate, solo per limitarci a un esempio, lo scenario possibile di una società in possesso di una tecnologia capace di trasportare l’energia elettrica senza dispersione, utilizzando nuovi materiali in grado di fungere da accumulatori. Oppure, per fare un altro esempio, una società in possesso di una tecnologia in grado di fare a meno del petrolio.

Sarebbe facile tirare conclusioni liberatrici, possibilità produttive a basso costo, scomparsa definitiva della miseria, ecc. Ma sarebbero discorsi privi di fondamento concreto, anche se non privi delle solite due once di logica. Altro che invenzione della linotype o della lavatrice, oggi la tecnologia potrebbe proporre eventualità al di fuori di ogni previsione. Ma il problema non sta qui.

In fondo, ed è facile scoprirlo, Kropotkin non riferisce le sue briciole di documentazione con l’intento preciso di indirizzarle al chiarimento delle concrete possibilità del comunismo anarchico, esse svolgono un compito più remoto e indiretto, stanno a testimoniare l’esistenza di un processo in corso di cui esse – fenomeni e documenti portati a sostegno di una tesi – non sono che la ridondanza traditrice e lontana. La passione del comunismo anarchico non potrebbe mai riscaldarsi al tiepido focherello di quelle notazioni (o delle loro correlazioni aggiornate). Il punto non sta qui.

Rifiutando questa guida indiretta, questa stella polare, tutto si confonde nel mare delle ambiguità. O, meglio, bisogna trovare altrove la forza per ricordare quello che potrebbe essere l’avvenire che deve pur venire fuori dai nostri progetti attuali, oltre che, per quanto molti non se ne rendano conto fino in fondo, dai nostri attualissimi sogni. Eppure il progetto del futuro non può essere il ricordo di qualcosa del passato, sia pure qualcosa di riverniciato con tanta accuratezza da sembrare del tutto nuovo. Dietro ogni finestra dai mille colori sgargianti e appetitosi, si scorge il gelido ambiente dei calcoli e delle corrispondenze, i sortilegi della penombra dove cerchiamo di fare tornare conti che insistono nel non tornare, dove i nostri occhi si addormentano ogni sera nel sospetto reciproco e nell’irreparabilità di quel che è stato fatto.

Kropotkin si sofferma nel farci vedere come, sotto la neve che cade continuamente, un germe continua a vivere e a muoversi, progredisce e si sviluppa, aspettando solo che il cielo schiarisca per venire alla luce. Ma i nostri occhi, guardando il cielo grigio e freddo, sono scoraggiati e fanno capire soltanto il male dell’anima, il rumore delle pulegge che mandano avanti l’esistenza meccanizzata che ci ha imprigionato, i ritmi dell’acqua che sgocciola nelle grondaie arrugginite delle nostre vene, l’angoscia dei ricordi, le incomprensioni, i tronfi e pettoruti urli nel cortile dietro casa. Il tema resta sempre quello, che avevo sottolineato più di un quarto di secolo fa: il movimento. Kropotkin, come prima di lui Proudhon col suo concetto di “serie”, coglie bene questa forza che penetra le cose, che sollecita la realtà. «In ogni movimento – scrive però Nietzsche – occorre distinguere: 1) che esso in parte è l’infiacchimento di un movimento precedente (sazietà, risentimento della debolezza contro di esso, malattia); 2) che esso in parte è una forza accumulata appena risvegliatasi da un lungo letargo, gioiosa, tracotante, violenta: salute». (Frammenti, Estate 1883, 8, 27). Il suggerimento del folle è di gran lunga più fondato della riflessione del saggio. Non mi sembra che si possa concludere per un processo ineluttabile, diretto verso l’anarchia, oppure verso quell’autodeterminazione dell’uomo che è stata sottolineata – anche di recente – come fondamento della libertà. La realtà non ha una gran voglia di dormire, si agita continuamente, non accetta lezioni di comportamento, non aspetta che qualche pappagallo filosofo gli porga la carta stradale per iniziare il viaggio verso il verde paese dell’arcobaleno.

Un movimento precedente si deve infiacchire, fino a scomparire. Non so bene quale aspetto della realtà possa oggi essere identificato con questa parte del movimento sociale. Di certo alcuni aspetti del cosiddetto movimento progressista, sollecitanti l’avvento di una società più giusta e più ugualitaria, hanno fatto il loro tempo, perdendo l’afflato propositivo che avevano in passato. Non che si possa tranquillamente sputare sul piatto di lenticchie passato alla chetichella dalla tavola del ricco, non dico questo, dico soltanto che dietro quei piccoli miglioramenti, nelle lotte intermedie, metodi rivoluzionari potevano far pensare a una generalizzazione dello scontro, a un passo decisivo verso la rivoluzione. Oggi, per molte avvisaglie, ma principalmente per l’incapacità di capire da parte di chi dovrebbe capire proprio per principio se non per definizione, questo aspetto del movimento si è infiacchito, quindi è destinato a concludere la sua avventura terrena. Resta l’altra parte, la forza accumulata, la sostanza estrema che priva di consapevolezza agisce in ognuno di noi, producendo malessere e diatribe a non finire, oppure accondiscendenza e stupidità, perfino malcelata soddisfazione per quello che passa il governo, agisce disertando l’azione, sognando accessibili pendii e prati dove sdraiarsi e dormire a morte, sentieri praticabili nella confusione della babilonia crescente, preoccupazioni signorili quando tutto alberga soltanto malattie servili. Mille mezzi la società possiede, e in mille raggiri e scarabocchi è obnubilata la sua coscienza, in mille fogli di carta assorbente sono annegati i suoi succhi vitali, ormai putrefatti per il lungo contatto con il letame al potere. Ma non è del treno che è arrivato alla stazione che voglio occuparmi, quanto di quello che si accinge a partire, su cui salgo con la mia vecchia valigia di cartone, con i miei sogni assonnati, con il mio vago stupore, con le mie movenze di gatto che cerca un piccolo spicchio di sole. Salgo e visito solennemente i vagoni, dilettandomi a osservare la facce aggrinzite dei passeggeri. Anche gli adolescenti che trovo come miei compagni di viaggio non sanno nulla (come me, del resto) del motivo del viaggio e della sua destinazione. Siamo tutti qui, seduti uno accanto all’altro o stipati uno nell’altro in tutti gli interstizi, perché il sangue ci bolle nelle vene, perché la vita che ci siamo lasciati alle spalle, fuori della stazione, minacciava di essere venduta all’asta come gli arazzi della casa avita che avevo portato dal rigattiere tanti decenni or sono. Minacciava di cadere in rovina come quella casa, come minaccia di non partire questo treno mentre il chiaro di luna persiste nell’illuminare una stazione ormai deserta, fredda e insignificante come i ruderi sdentati dell’antica fede in un mondo migliore.

Guardo nel bagaglio: non c’è La conquista del pane.

Una dimenticanza? Non lo so. È nel grembo delle mie decisioni una ulteriore lettura di questo libro. Quello che adesso so per certo è che non c’è nulla che riposa gelidamente pregno sotto la neve. Sentire la vita, toccare le cose per quello che sono, vive nell’esperienza che il temperamento di ognuno di noi ci consente, sentire la realtà, la vita degli altri, questi processi dolorosi ma essenziali si sono sovrapposti tumultuosamente a quelle condizioni di appagamento che fino a qualche anno fa ci venivano suggerite. L’ultimo, cruciale decennio, ci ha isolati con noi stessi, esacerbando i confini della nostra stessa sensibilità, riproducendoli come limitatezze senza rimedio. Molti di noi hanno cercato di spezzare questo principio di isolamento attribuendo, in primo luogo, a se stessi la colpa di non essere sufficientemente “efficaci” nel superare il soliloquio, l’afasia, la mortale incapacità di incidere sulla realtà. I migliori non hanno ceduto all’illusione di qualche servo meccanico, nascosto nelle viscere della realtà, in grado di lavorare al proprio posto, stratagemma non solo di Kropotkin ma perfino di Marx, per non dire di Gramsci. Proprio i più rigidi su questa linea di combattimento, vogliosi di non cedere al “farà da sé” che aleggia qua e là proprio nel presente libro di Kropotkin, hanno fatto la fine più dolorosa: sono stati trascinati via dalla propria stessa incapacità di interrogarsi, di accedere a un terreno appena più solido, comunque diverso da quello del semplice disgusto di vivere. Non si sono suicidati perché il loro odio per la vita non era altro che una forma piuttosto contorta di amore per la vita. Ma non basta amare la vita, occorre anche viverla. E chi non ha denti buoni per mordere, chi non ha mezzi intellettivi per capire, non può vivere che una pseudo-vita, una esistenza qualsiasi, una vita vicaria. Malgrado i reboanti discorsi di qualcuno, questo modello, che qui vado delineando, corrisponde a quello che milioni di persone hanno fatto (involontariamente) proprio, accettandolo fino in fondo.

Almeno Kropotkin, e quindi anche i suoi sostenitori, aveva questo di buono: confidava nel seme sotto la neve, quindi poteva consegnare come prospettiva a coloro che facevano di questa illusione un modello di lotta anarchica nella società, il compito di impedire che qualcuno, per sconsideratezza o per pura malvagità, contribuisse a schiacciare quel seme, oppure, sciolta la neve, corresse su due piedi a sradicarlo prima che potesse dare i primi segni di vita. E questo compito, quotidianamente praticabile con parecchia fatica (e, per la verità, quasi sempre con rischi trascurabili) poteva a volte sconfinare in aberrazioni del tipo “Manifesto dei Sedici”, schierandosi coerentemente, per difendere il seme sotto la neve, in quelle regioni geografiche (nazioni e patrie di qualcuno, nemiche di nazioni e patrie di qualcun altro) supposte più disponibili a far venire alla luce quel movimento sotterraneo di cui Kropotkin giurava l’esistenza. Era, ed è, una specie di scotto da pagare. I realisti, ponendo saldamente (loro pensano) i piedi a terra, convivono muro con muro con la politica, proprio dalle parti della foce, dove i raggi dell’ideale arrivano ormai estinti, dove la luce della gioia e della forza vitale muore in un biancore livido. Alla lunga questi facitori di organizzazioni scoprono che sotto il loro cielo non sorge mai il sole dell’azione, dopo tutto, parliamoci chiaramente, direbbe un caro amico estinto al mio cuore, non vale di certo la pena darsi tanto da fare se qualcuno, anzi, per la precisione, una forza così potente, direi immane, lavora al nostro posto. Basta aspettare, osservare con attenzione e dare al momento opportuno il nostro contributo chiarificatore e perfino attivo, giungendo tanta magnanima osservazione dei fatti “nudi e crudi” ad ammettere pure (ma solo all’ultimo momento, quando i segni dei tempi saranno maturi) il momento insurrezionale.

Il fatto è che questo meccanismo, per buono che sia, non lavora tanto efficacemente da risolvere i guai nostri. E qualora riuscisse a farlo? Qualora l’utopia capitale muovesse passi gloriosi e mietesse successi ben più solidi e confortanti di quanto non faccia oggi, potrebbe riuscire davvero a creare quell’Eden di felicità che i suoi corifei vanno propugnando? Schopenhauer acutamente notava: «A tormentare la nostra esistenza contribuisce non poco anche il fatto che il tempo ci urge continuamente da presso, non ci lascia prender respiro, e sta dietro a ognuno come il severo maestro con la ferula. – Il tempo risparmia soltanto colui che ha già consegnato alla noia. Tuttavia, come il nostro corpo scoppierebbe se gli fosse tolta la pressione dell’atmosfera, – così, se la pressione del bisogno, della fatica, degli sforzi insopportabili e vani fosse tolta alla vita degli uomini, la loro tracotanza aumenterebbe, anche se non fino a farli scoppiare, certo fino alle manifestazioni di stoltezza, o meglio pazzia furiosa, più sfrenata. – Ognuno ha addirittura sempre bisogno di una certa quantità di preoccupazioni, sofferenze o necessità, come la nave, per procedere fermamente e in linea retta, ha bisogno della zavorra. Il lavoro, il tormento, la fatica e il bisogno sono, certamente, per tutta la loro vita, la sorte di quasi tutti gli uomini. Ma, se tutti i desideri, appena nati, fossero esauditi, come allora riempire la vita umana e trascorrere il tempo? Se si trasportasse questa schiatta in un paese di Cuccagna, dove tutto crescesse da sé e i piccioni volassero intorno già arrostiti, dove anche ciascuno trovasse immediatamente la sua amata prediletta e la ottenesse senza difficoltà: – allora gli uomini, in parte, morirebbero dalla noia o si impiccherebbero, in parte, invece, si combatterebbero, scannerebbero e assassinerebbero a vicenda per procurarsi in tal modo più dolore di quanto gliene imponga la natura. – Pertanto, a una tale schiatta, non conviene altra arena, non conviene altra esistenza». (Aggiunte alla dottrina della nullità dell’esistenza, in Parerga e paralipomena, vol. II, tr. it., Milano 1983, pp. 384-385). Raggiungeremo mai l’incoscienza beata del regno dei godimenti appagati? È certo di no, non assaporeremo più il frutto eternamente succoso del paradiso primordiale, il tempo sonnecchia nella sua struttura e spia continuamente i palpiti della nostra aspirazione alla completezza, tradendoli continuamente. Non ci sono zone privilegiate nella realtà dove, nella gradevole penombra della sera, sotto gli alberi dalle foglie protettrici si stende pigramente il flusso della certezza. Dappertutto, nel mondo, quindi nella nostra vita che il mondo racchiude e carica continuamente di significato, è un vano persistere della pioggia. Ed è meglio che sia così.

Sognare intervalli benefici, condizioni privilegiate – condizioni di bontà e di amore fraterno – insite nell’animo umano, strade che solo il dio del perdono e della compassione può percorrere, è illusione troppo gravida di conseguenze nel grigiore che ci circonda. L’apertura a quello che ci batte in cuore è pur sempre una fessura di luce, che da qualche parte conduce un debole chiarore nella tristezza dove abitiamo, ma non si tratta di uno scheletro forte, quella fessura non è contenuta nelle cose, che se ne infischiano di qualsiasi esecuzione preventiva, le cose vanno avanti per la loro strada, assolutamente indifferenti a tutti i modelli interpretativi che suggeriamo loro. Accettare la compagnia inevitabile della distretta è riconoscersi per quello che siamo, condizione imprescindibile per diventare quello che siamo. E questo riconoscimento è altro dal processo che osserviamo fuori di noi attraversare i tempi e la storia – elettrificazione leninista e autostrade hitleriane –, oggi la tecnica penetra dappertutto nel mondo e vuole accoglierci nel suo grembo protettivo, vuole farci diventare avvenimenti di una quotidianità controllata fin dal levarsi dal letto la mattina, vuole presentarsi come l’amazzone che difende il guanciale del pargolo, mentre non è altro che l’ultima, forse la più terribile, incarnazione delle Madri. Ed è dall’interno di questo quadro se si vuole desolante che dobbiamo ricominciare un discorso di costruzione, oppure rileggere lo stesso testo di Kropotkin, mettendo da parte la spossatezza del vagabondo, il sottile scetticismo di chi ha ormai visto troppo male nella sua esperienza per non dichiararsi convinto che tanto una scelta vale l’altra. Non è vero che non ci siano scelte da privilegiare ad altre, non è vero che non sia possibile scegliere. Solo che per farlo occorre avere il cuore caldo, essere capaci di una carezza ma anche della dura decisione che porta a tagliare il cordone ombelicale che continua a legarci al nemico.

Non so se la cosiddetta soggettività sia l’interiorità o la verità. Forse, andando avanti nel cercare di diventare quello che si è, si arriva a una costruzione ulteriore, a qualcosa che possa equivalere a un’espressione più interiore. So che la soggettività è la mia esistenza, un punto ipotetico di assoluta mancanza di certezza, qualcosa che getto sul tavolo da gioco perché l’altro avverta la mia presenza e apra i suoi occhi stanchi. Ma questa esistenza è tale quando non voglio capire che io sono la vita, o almeno il mio diventare me stesso è la vita, e pretendo, tanto per fare un esempio, di presentarmi come forza oggettiva, procedente nella storia senza che me ne curi o me ne renda conto, movimento da cogliere più per fede che per consapevole acquisizione di dati empirici di riconoscimento. In un certo senso, almeno per quel che mi pare di capire dopo una trentennale riflessione sui testi di Kropotkin, il dramma di questo anarchico, scienziato ma non filosofo, uomo d’azione ma non ribelle, sta tutto qui: nel rapporto tra soggettività e oggettività, tra individuo che vuole diventare se stesso e processo storico che gli si presenta con la forza delle cose, con l’evidenza appena appena velata dalla distinzione scientifica non ancora compiuta, evidenza quindi che il compito del ricercatore, dell’analizzatore di dati, può portare alla luce una volta per tutte. Ma si tratta di un dramma condannato a una triste conclusione. La soggettività, volendo diventare la vita, rinnega la sua condizione di esistenza minoritaria, incerta e personale, vuole che questa intuizione si ribalti in qualcosa di più importante – almeno di più universalmente visibile –, quindi in qualcosa di non soggettivo, in grado cioè di superare i limiti e le difficoltà dell’esistenza dimidiata. Ma in questo modo si ribalta nel contrario del processo che intende realizzare fino in fondo. La soggettività diventa interiorità, se non proprio solipsismo, produce la cieca ribellione dell’assenza di scelta: il nemico, qualsiasi nemico, è sempre a portata di muso, basta morderlo, qua o là, non fa differenza. Quanti stupidi rinnegatori di progetti rivoluzionari assomigliano ad animali grugnenti incomprensibili rimuginature di pasti altrui. Il cammino verso l’oggettivo adesso diventa più tortuoso, quasi impossibile. Ma l’individuo non può restare eternamente racchiuso nella condizione di banale esistenza, può cercare di uscire da questa fase infelice, dove la sua coscienza opaca guarda con tristezza i vetri della finestra e intuisce l’aria fresca di fuori ma non trova il coraggio di uscire allo scoperto. Vorrebbe rinfrescarsi, vivere il gioco terribile delle alternative e dell’amalgama proposto dalla perdita di ogni garanzia, ma non trova il coraggio. L’efficienza, perdio, ecco quello che occorrerebbe, sento dire da ogni parte, ma basta un gesto più brusco del solito perché queste animucole in cerca di Dio corrano subito ai ripari, quando non proprio alla respirazione artificiale. Eccole, alla fine, che si accontentano della loro soggettività, del loro restare eternamente esistenti come grossi animali al fresco delle illazioni, spossati dal continuo vagabondare fra concetti che non capiscono ma che spacciano per entità metafisiche solo a loro note, vogliosi di lanciarsi in un progressivo e inane tentativo di diventare altro da sé, piena soggettività che si riconosce come interiorità e si presenta come un work in progress, non riuscendo a immaginare che il vuoto dell’esistenza scompare solo quando ci si riconosce per quello che si è, cioè quando si vive la propria vita, fino in fondo, suggerimento mai compreso che l’anima confusa del folle dettò una volta per tutte.

La volontà di rifiutare il padre attraversa tutto il pensiero filosofico, non solo, ma anche la gran parte dei pensieri di tutti noi, proprio quando gonfiamo i muscoli e digrigniamo i denti per mettere paura al convitato di pietra. Si può affermare che questo desiderio, spesso inadeguato nel passaggio all’azione, è parte del fondamento della storia. In modo particolare l’epoca in cui viviamo, contrassegnata da ciò che è stata chiamata “la civiltà della tecnica”, punto di svolta di un disfacimento che non sfugge a nessuno, proprio a causa dell’oscurità calata sui grandi concetti che una volta illuminavano gli ideali di redenzione e di fraternità, si può riconnettere con lo spaventoso pensiero di Parmenide. Negando questo punto di riferimento, avanzando la necessità tecnologica della distinzione che ci consente il dominio del mondo, ecco apparire accanto al letto della madre ormai perduta, proprio nei suoi occhi quasi spenti, il ghigno orribile della “follia”. Il rifiuto del padre, misfatto contro tutto quello che ci appare “venerando e terribile”, è la difesa del di già accaduto, dell’accadimento consolidato, di quella porzione di completamento che siamo diventati (povera cosa, ma sempre qualcosa, quindi meglio di niente), dell’erba alta che vogliamo tagliare perché angosciati dal comodo luogo in cui ci siamo nascosti per tanto tempo. Ma la pianura calva ci fa paura, non ha anfratti dove nasconderci, e così finiamo per mostrare le nostre povere nudità, pusillanimi certezze che non riescono a farci uscire dall’ottica difensiva che è la sola accettata dal mondo. Parmenide non ammette alternative. La soluzione non è tanto quella di convivere col padre, e meno di tutte quella di accettarne la superiorità stocastica. Occorre presentarsi per quello che siamo, occhi stanchi, sbadigli che pesano, spossatezza, momenti equivalenti all’audacia dei colpi di mano, alle delizie dello scontro amoroso, alla minuziosa preparazione della lotta, i due tipi di movimento, il tiepido e l’ardente, si equivalgono, non ci sono portabandiera in vena di eroismi, come non ci sono disingannati che ritornano a poppare sul guanciale della nutrice. Ognuno è quello che è, solo che lo deve diventare, cioè deve essere quello che è per sé, visto che non potrà mai esserlo per gli altri. E in questa vicenda dell’amore e dell’odio, non c’è nessuno che ci possa venire in aiuto. Nemmeno questo libro.


Trieste, 12 febbraio 2001

 


[Postfazione a La conquista del pane, seconda edizione, Trieste 2001, pp. 174-180]

* * * * *

“L’idealismo non può dedurre il finito, non può rispondere alla domanda del come l’Io sia empirico, se non negando che esso lo sia. L’idealismo non è ‘pensabile che come l’idea (dell’ultimo fine) da un punto di vista pratico, infatti come idealismo teoretico esso si nega da sé, e, poiché l’idealismo empirico non è idealismo, non c’è in filosofia teoretica nessun idealismo’. Con tale tesi Schelling è del tutto fuori della problematica fichtiana, che pone come compito della Dottrina della Scienza la deduzione del realismo stesso e pertanto la possibilità stessa della coscienza empirica. Se ci rifacciamo alla posizione di Jacobi, è evidente come Schelling ne accetti il dilemma: realismo o idealismo. Il suo idealismo è, in fatti, antitetico al realismo che non soltanto non è da esso deducibile, ma ne costituisce, con il suo solo esserci, una completa negazione. È da porre immediatamente in luce che questa natura antitetica dell’idealismo costituisce il primo fondamento della futura critica schellinghiana all’idealismo trascendentale e alla sua pretesa di presentarsi come l’intero della filosofia”.

(A. Massolo, Il primo Schelling)

Il mutuo appoggio

Questo libro può considerarsi come uno dei più grandi tentativi di dare una base scientifica all’anarchismo inteso come dottrina sociale. Nessun altro scienziato o filosofo aveva prima portato a termine un tentativo del genere, nessun altro, fino ad oggi, ha cercato di farlo. Ecco perché questo libro, in qualsiasi maniera si considerino le cose, è un “grande” libro e, come tutti i “grandi” libri, ha avuto conseguenze notevoli, non tutte positive.

Non essendo il nostro compito quello degli apologisti, come più volte abbiamo sottolineato, e non avendo il movimento anarchico più bisogno di contributi ottusamente elogiativi, cercheremo di esaminare criticamente – allo stato attuale dello scontro di classe – il valore di quest’opera che permane come qualcosa di organicamente compatto, una costruzione geniale e affascinante, per quanto segnata dal lento trascorrere del tempo.

Esamineremo, nell’ordine, i problemi relativi alla posizione scientifica di Kropotkin (nei riguardi del darwinismo dell’epoca) e nei riguardi dell’evoluzionismo positivista in sede sociologica (Herbert Spencer), rapportando quella posizione agli sviluppi scientifici e sociologici successivi. Poi ci occuperemo del grosso problema del solidarismo comunalista medievale che viene, da Kropotkin, considerato come un esempio a cui riferirsi nella storia del “mutuo appoggio”. Questa parte ci porterà alle conclusioni metodologiche che riteniamo fondamentali intorno al determinismo, al rapporto scienza-lotta di classe, al rapporto tra “seme sotto la neve” e volontà rivoluzionaria.

Il cosiddetto darwinismo si può riassumere in quell’insieme di dottrine che studiano la vita associata delle piante e degli animali, i loro rapporti con l’ambiente inorganico e le conseguenti interazioni: usando una parola oggi di moda si tratta di quella ricerca che Ernst Haeckel aveva chiamato “ecologia”. La tesi di Charles Darwin, nella sua primitiva esposizione, si fondava, oltre che sulle sue personali osservazioni di naturalista, anche sugli studi di Jean-Baptiste de Lamarck, di Charles Lyell e sulle riflessioni sulla popolazione di Thomas Robert Malthus. L’aumento dei viventi con la riproduzione, che finisce per superare i limiti della stessa possibilità di conservazione, condiziona la lotta per l’esistenza e quindi determina una selezione naturale, che può essere paragonata alla volontà dell’allevatore che agisce sugli animali domestici, la quale selezione elimina le forme meno valide. Questa eliminazione diventa un elemento di condizionamento della specie, in quanto agisce sulla teorica capacità di differenziazione degli esseri sopravvissuti e permette una modificazione delle variazioni infinite in forme più stabili che consolidano le proprietà che restano fuori della lotta selettiva.

Appare fondamentale, in Darwin, l’idea della molteplicità degli organismi e della loro relazione comune in funzione di una trasformazione ereditaria, che si verifica sul piano generazionale. Mentre, solo in via ipotetica, viene esposta la tesi che questa trasformazione, nell’ambito della storia della terra, sia da collegare al processo di selezione naturale di piccole varianti nella “lotta per l’esistenza”, cioè alla teoria della selezione. È questo altro punto che caratterizzerà, poi, il darwinismo, specie nelle sue elaborazioni non precisamente biologiche, ma più ampiamente sociologiche e filosofiche. Il teleologismo sarà l’obiettivo più ricorrente di quelle dottrine che cercheranno di ripresentare le vecchie tesi spiritualiste sotto le nuove spoglie dello scientismo meccanicistico della nuova scienza.

Kropotkin ha presente sia le involuzioni sociologiche di una certa letteratura (come vedremo) ma anche quelle di una certa posizione scientifica che esalterà proprio il lato negativo della “lotta per la vita” (Haeckel, Thomas Henry Huxley). Mettendo l’accento sul lavoro successivo di Darwin, The Descent of Man and Selection in Relation to Sex, London 1871, Kropotkin sviluppa il concetto della solidarietà o del “mutuo appoggio” come uno dei fattori dell’evoluzione, fattore che non esclude quello della lotta per l’affermazione del soggetto, ma che deve trovare il proprio posto per evitare una deformazione dei meccanismi reali che consentono l’evoluzione della specie stessa. A proposito del presente lavoro Kropotkin avverte la necessità di precisare: «Si può obiettare a questo libro che tanto gli animali quanto gli uomini vi sono presentati sotto una luce troppo favorevole; che si è insistito sulle loro qualità socievoli, mentre i loro istinti antisociali ed individualisti sono a mala pena considerati. Ma questo era inevitabile. Noi abbiamo udito ultimamente parlar tanto dell’aspra e spietata lotta per la vita che si pretendeva sostenuta da ogni animale contro tutti gli altri animali, da ogni “selvaggio” contro tutti gli altri “selvaggi” e da ogni uomo civile contro tutti i suoi concittadini, e queste asserzioni sono così bene divenute articoli di fede, che era necessario, a bella posta, opporre loro una vasta serie di fatti mostranti la vita animale ed umana sotto un aspetto completamente diverso. Era necessario indicare la capitale importanza che hanno le abitudini sociali nella natura e nell’evoluzione progressiva, tanto delle specie animali quanto degli esseri umani; di provare che esse assicurano agli animali una migliore protezione contro i loro nemici, e molto spesso facilitazioni per la ricerca del loro alimento (provvigioni per l’inverno, migrazioni, ecc.), una maggiore longevità e, di conseguenza, una più grande probabilità di sviluppo delle facoltà intellettuali; in fine era necessario dimostrare che esse hanno dato agli uomini, oltre a questi vantaggi, la possibilità di cercare le istituzioni che hanno permesso all’umanità di trionfare nella sua lotta accanita contro la natura e di progredire, nonostante tutte le vicende della Storia. È questo che ho fatto. Questo è certo un libro sulla legge dell’aiuto reciproco, considerato come uno dei principali fattori dell’evoluzione; ma non è un libro su tutti i fattori dell’evoluzione e sul loro rispettivo valore». (Il mutuo appoggio, tr. it., Trieste 2008, p. 24).

Riassumendo i punti essenziali della posizione di Kropotkin nei riguardi del darwinismo egli accetta la tendenza evolutiva delle forme vitali e critica il cosiddetto principio della “lotta per la vita” ritenendolo insufficiente da solo a spiegare l’evoluzione e sottolinea l’importanza del principio solidaristico come complemento al precedente principio che, comunque, viene corretto e limitato a quanto avviene tra specie, classi e gruppi in contrasto fra loro e non viene considerato operante all’interno della stessa specie. C’è da dire che il nominalismo dello stesso Darwin, per quanto riguarda il “contenuto” sperimentale e scientifico del termine “specie”, non viene superato dallo stesso Kropotkin che, su questo argomento, resta allo stesso livello degli altri scienziati dell’epoca.

In prospettiva, poi, si colloca la vera polemica di Kropotkin, che non è tanto quella diretta contro Huxley e le sue conclusioni dicotomiche, quanto contro l’elaborazione che l’evoluzionismo darwinista andava assumendo in sede sociologica e filosofica, specie a opera di Spencer. Questo pensatore, partendo dalle tesi del positivismo comtiano e dalle elaborazioni scientifiche connesse con le intuizioni di Darwin, aveva sviluppato un’interessante posizione con caratteristiche liberali. La massima libertà dell’individuo (contro lo Stato) ma all’interno di quella gradualità dello sviluppo che è caratteristica dell’interpretazione meccanicista dell’evoluzionismo che egli propugnava. Spencer non affermava nulla di rivoluzionario, al contrario egli aveva terrore delle rivoluzioni e riconosceva che riducendo le pretese dello Stato di risolvere tutti i problemi, e sviluppando una “certa” autonomia dell’individuo, si sarebbero ridotte le esplosioni di collera contro lo Stato, determinate, il più delle volte, proprio dalle promesse non mantenute. A confortarlo in questa sua teoria era il fatto che se da un lato egli accettava i concetti scientifici della sua epoca, e quindi elevava il “fatto” a elemento costruttivo della teoria, dall’altro finiva per costruire un monismo fideistico interrompendo la catena dei fatti nel regno, modificabile ma al momento inconoscibile, della religione. Per questo motivo, secondo Spencer, la realtà, nel suo significato definitivo, risulta “inconoscibile”, e il mistero (sempre rinviato indietro all’infinito) indica la separazione tra religione e scienza. Per Kropotkin questa posizione di Spencer non poteva avere che un significato solo: quello reazionario. La religione ha soltanto il compito di distruggere e mistificare la realtà, non può mai avere quello di indicare orizzonti positivi alle capacità di conoscenza dell’uomo.

In Spencer si aveva, quindi, una considerazione della teoria dell’evoluzione nel solo significato di “lotta per la vita”, a questo si aggiungeva l’errore di partenza che gli faceva vedere l’uomo primitivo come un essere isolato non capace di sentire lo stimolo solidaristico del vivere in comunità, in più si aveva una grossa componente metafisica e filosofica riproducente molte caratteristiche del pensiero di Auguste Comte. Così Spencer definisce la teoria dell’evoluzione: “L’evoluzione è una integrazione di materia e una concomitante dissipazione di movimento, durante la quale la materia passa da una omogeneità indefinita e incoerente ad una eterogeneità definita e coerente, e durante la quale il movimento conservato soggiace ad una trasformazione parallela”. (First Principles, ns. tr., London 1862).

Le considerazioni intorno all’inconoscibile che segnano il limite da un lato e la necessità di procedere per gradi (caratteristica, questa, del pensiero scientifico socialdemocratico e progressista di tutti i tempi) portano Spencer a negare la possibilità della rivoluzione. Egli scrive: “Allo stesso modo che non si può abbreviare la via tra l’infanzia e la maturità, evitando quel noioso processo di accrescimento e di sviluppo che si opera insensibilmente con lievi incrementi, così non è possibile che le forme sociali più basse divengano più elevate, senza attraversare piccole modificazioni successive”. (The Principles of Sociology, ns. tr., London 1874-1875).

La lotta contro queste posizioni non poteva, evidentemente, essere condotta dal di dentro dello schema scientifico del darwinismo, nemmeno attraverso un’accumulazione imponente di “dati” favorevoli alla tesi del fattore “mutuo appoggio”, da contrapporsi al fattore “lotta per la vita”. Essa doveva condursi su di un altro terreno, quello che tenendo conto della volontà dell’individuo si apre all’ammissione che è possibile capovolgere il corso degli eventi, spostare qualitativamente ciò che l’accumulazione quantitativa dei dati scientifici non riesce a spostare. E, in effetti, Kropotkin si differenzia da Spencer non solo per la diversa concezione riguardo i fattori dell’evoluzione, ma anche riguardo il problema di fondo dell’impegno qualitativo dell’individuo di fronte alla repressione (lo Stato). Per Kropotkin non si tratta tanto di adeguarsi al male minore, ma di abbattere il male, dalle radici, con quel processo rivoluzionario che però – qui si colloca il suo pensiero originale e, se si vuole, criticabile – è in corso instancabilmente e si manifesta non solo nelle forme violente dell’insurrezione o dell’azione diretta a distruggere il potere, ma anche nelle forme meno appariscenti ma altrettanto efficaci del “seme sotto la neve”.

Vediamo adesso in che modo si sono sviluppati, negli anni successivi al lavoro di Kropotkin, sia le ricerche biologiche riguardanti l’evoluzione, sia le riflessioni metodologiche e filosofiche che sono subentrate al vecchio positivismo di cui Spencer fu il pensatore più rappresentativo.

Nelle ricerche condotte in biologia in questi ultimi decenni si è verificata una ripresa del cosiddetto darwinismo, sia riguardo il decorso evolutivo degli organismi, sia riguardo le cause della stessa evoluzione. Si è tornato ad affermare (dopo la parentesi vitalistica o, se si preferisce, del predominio delle dottrine basate sul vitalismo) l’esistenza di una evoluzione come evento biologico di base, mentre le sue cause si cerca un’altra volta di interpretarle in funzione del meccanismo selettivo. Una forte accentuazione in questo senso si è avuta a partire dagli anni Quaranta, senza però mancare di mettere in evidenza che diversi elementi (o fattori) devono essere tenuti presenti nell’indagine filogenetiva o evolutiva. In questo senso si è indicata tutta una serie di ricerche: la presenza di determinate sostanze chimiche, le condizioni ecologico-fisiologiche delle diverse strutture, le indicazioni provenienti dal comportamento animale. Fermandosi su quest’ultimo elemento, bisogna riconoscere che si è andati molto avanti, cercando di evitare – per quanto è possibile – l’equivoco antropocentrico.

La biologia più recente ha distinto tra processi relativi alla microevoluzione e processi della macroevoluzione. Nel primo caso si sono prese in considerazione le unità più basse di gruppi di organismi, nel secondo caso l’origine delle categorie superiori del sistema naturale costituenti le grandi linee dell’evoluzione.

Nel campo delle ricerche microevolutive si è accertato che accanto al fattore della selezione degli esseri più adatti a certe specifiche condizioni ambientali, si collocano fattori diversi come l’esuberanza della prole nella riproduzione e le modificazioni ereditarie. Su quest’ultimo punto ha avuto una grande importanza la riscoperta delle leggi di Gregor Mendel, avvenuta ai primi dell’Ottocento, che ha fatto identificare molteplici forme di mutazione. Studiando il comportamento genetico di gruppi di organismi chiamati “popolazioni” si sono scoperti ulteriori fattori dell’evoluzione, come la consistenza genica della popolazione presa in esame, la sua ampiezza, la sua capacità di rinnovamento nelle combinazioni. Anche l’emersione di nuove forme non è stato un fenomeno raro, tanto da dar corso a un vero problema della “speciazione”, riproponendo – a livello morfologico – la difficoltà della caratterizzazione della “specie” che, come abbiamo detto, era stato avvolto in un vago nominalismo a partire dallo stesso Darwin. Indagini più recenti hanno messo in risalto principalmente il fattore determinato dalla grandezza numerica di una popolazione e delle sue variazioni. Questa consistenza può accrescersi o diminuire notevolmente a seguito di eventi estrinseci alla popolazione stessa, come pure a seguito di tendenze intrinseche. Una eventuale diminuzione comporterebbe la rottura di un equilibrio del patrimonio genetico complessivo, con conseguenti mutazioni anche di natura consistente. È proprio qui che si colloca l’interpretazione più coerente della “scelta nella lotta per l’esistenza” che è stata, adesso, liberata da tutte le implicazioni psicologiche e metafisiche che l’accompagnavano costantemente ai tempi di Darwin. A nostro avviso, ci pare scorretto affermare, come fa Ashley Montagu, che abbia finito per prevalere la posizione dei “solidaristi”, con in testa Kropotkin, di fronte alla posizione degli “apocalittici”, con in testa a tutti Huxley. Quello che è accaduto è che si è modificata la metodologia della scienza più recente – presa in senso generale – con conseguenze notevoli anche per la biologia e per le ricerche di filogenetica. Il concetto di popolazione comprende, al suo interno, gli elementi della selezione, ma comprende anche gli elementi che fanno vedere le possibilità di conservazione dei rapporti di totalità degli organismi all’interno della popolazione stessa, caratteristica che non si spiegherebbe se non attraverso il concetto solidaristico di “mutuo appoggio”. Gli organismi della popolazione si trasformano e si conservano, modificando, quindi, la loro struttura morfologica e funzionale, in un rapporto ottimale (o di equilibrio) rispetto alle condizioni ambientali, facendo spuntare una esigenza di adattamento. Come vedremo meglio subito dopo, questa posizione corrisponde ad un nuovo atteggiamento scientifico generale, che valutato in sede politica si potrebbe definire socialdemocratico, atteggiamento che ha finito per prevalere sul precedente atteggiamento di stampo liberale. Questo modo di vedere le cose parte dal concetto di equilibrio, di adeguamento ambientale, o dal concetto di “causalità”. Il vecchio presupposto determinista o meccanicista, fondato su valori assoluti, si è modificato in un presupposto relativistico, fondato su valori statistici, ma non per questo si è modificata la pericolosità di fondo di simile posizione. Si ha, pertanto, che nella selezione dell’individuo, le resistenze all’ambiente, le diverse forme di protezione contro i nemici e lo sfruttamento di quanto viene conseguito per il proprio fabbisogno vitale, ricevono una valutazione causale in funzione della selezione di gruppo, presupposta agente all’interno della popolazione.

Il pericolo di questa posizione si ripresenta anche a livello dei modelli macroevolutivi. Le leggi (o meglio, i fattori evolutivi) riscontrate nell’ambito del processo microevolutivo, vengono considerate valide anche a livello macroevolutivo. I salti di transizione – a livello paleontologico – vengono giustificati con la tesi che solo una parte minima ci è pervenuta come documentazione di quella grande varietà di specie e mutazioni che la natura ebbe a realizzare nel corso di milioni di anni. Ciò lascia aperta l’ipotesi dell’equilibrio, dell’adattamento, della collaborazione e della selezione, un insieme di fattori evolutivi, aventi tutti – più o meno – eguale valore scientifico, alimentando modelli di ragionamento che portano avanti ricerche sul campo, a loro volta prive di una chiara visione dei presupposti metodologici di fondo.

A proposito di questi presupposti c’è da dire che essi risultano più evidenti una volta che si esaminano le deduzioni che nel campo sociologico e filosofico sono state sviluppate, tenendo conto delle analisi fornite dalle indagini biologiche. Al positivismo evoluzionistico, di cui Spencer fu un degno rappresentante, è succeduto un neopositivismo sotto forma di razionalismo apparentemente antidogmatico, ma sostanzialmente figlio dello stesso presupposto borghese che aveva alimentato il liberalismo. Questa volta si tratta di “provare e modificare, correggere gli errori”, come prima si trattava di “lasciar fare, lasciar passare”.

L’insieme di tutti i contributi teorici diretti a mettere in luce il ruolo di questo o quel fattore dell’evoluzione, costituisce, a sua volta, una teoria abbastanza complessa, che si presenta come punto di riferimento per alcune riflessioni di natura metodologica e scientifica in senso generale. La scienza, oggi, ha quasi del tutto abbandonato la posizione meccanicistica del determinismo ottocentesco e l’ha sostituita con una posizione di cauta attesa, di equidistante mancanza di impegno, di prudente valutazione dei risultati. In un certo senso ciò può anche essere giustificato dal grande quantitativo di risultati stravolgenti che si producono in ogni campo della ricerca scientifica, per cui non ci si sorprende più e non è tanto facile che una scoperta scientifica determini una nuova interpretazione del mondo. Anche la filosofia ha cominciato a essere cauta, riducendosi quasi sempre – nei suoi autori più ragionevoli – a metodologia della scienza. Sussistono i territori, sempre più indifendibili, del materialismo dialettico (che serve da supporto a un socialismo di Stato che ne inventa una al giorno per scoraggiare ogni tentativo onesto di riflettere sulle basi filosofiche dal marxismo stesso), e dell’idealismo vecchia maniera che si suddivide in tanti affluenti di ideologie che vanno dal neo-liberalismo al neo-fascismo, senza però avere molto credito.

Quello che sembra imporsi è la posizione socialdemocratica. Questa appare molto ragionevole e allettante. Parte dall’affermazione che non c’è nulla di assoluto, nemmeno la conoscenza oggettiva, per cui tutte le costruzioni scientifiche del passato (anche quel positivismo che aveva alimentato l’evoluzionismo di stampo spenceriano) si elevavano su di una palude, anche quando affermavano di essere costruite sulla roccia. Una delle tesi correnti è quella sviluppata da Karl Popper. Egli afferma che le leggi naturali e le teorie relative sono asserzioni solo parzialmente accettabili come vere, in quanto in se stesse non sono verificabili, ma solo si può procedere, nei loro confronti, a un processo sistematico di “falsificazione”, cioè a una serie di tentativi che possono denunciare quanto di falso in esse si nasconde. Questo rifiuto dell’induzione sembrerebbe togliere alla scienza il suo strumento principale per eliminare i residui metafisici che in essa si nascondono, ma questa corrente di pensatori sostiene che ciò non è vero, che solo una teoria generale del controllo per “congetture e confutazioni”, che si fondi sulla deduzione, può dare il risultato che il positivismo si era illuso di ottenere, cioè l’eliminazione del pericolo metafisico. Queste affermazioni hanno l’aspetto di un accordo che consente di discutere ragionevolmente sui problemi che interessano gli scienziati e i filosofi, senza costruire a priori barriere che rendono poi inutilizzabile ogni contributo critico.

I controlli che vengono suggeriti sono: a) confronto logico delle conclusioni tra di loro in base al quale si misura la coerenza interna del sistema, b) esame della forma logica della teoria, per constatare se questa abbia la forma di teoria empirica o di teoria scientifica, oppure se sia solo una tautologia, c) confronto con le altre teorie, per vedere se la teoria costituisce un progresso scientifico, una volta superati i controlli precedenti, d) controllo tramite le applicazioni empiriche che si possono realizzare a partire da essa.

Secondo questa posizione la scienza non è un insieme di asserzioni “vere”, per cui una volta stabilite non ci si ritorna più sopra, e non è neppure un sistema organico che avanza definitivamente verso uno stato conclusivo (determinismo del passato). La scienza non è “conoscenza” nel senso di conquista della verità e neppure nel senso di conquista di una verità di seconda categoria come la probabilità. Per cui l’unico metodo è quello “per prova ed errore”, esso si concretizza nel fatto che un teorico propone una soluzione, una teoria. Questa viene accettata a titolo provvisorio dalla scienza. I ricercatori non smetteranno di criticare e controllare la teoria in questione. Critica e controlli si sviluppano parallelamente. Individuati i punti deboli, questi saranno sottoposti a prove, se il controllo dimostra erronea la teoria, essa viene eliminata e sostituita con un’altra.

Riflettendosi sul piano delle ricerche sociali, questa posizione scientifica critica fortemente la possibilità della rivoluzione, cioè di un cambiamento di immensa portata, le cui conseguenze pratiche non è possibile prevedere, data la limitatezza delle nostre esperienze. L’alternativa è quella delle riforme, di una specie di ingegneria gradualistica (Popper), un progetto relativamente più semplice che riguarda istituzioni singole e parziali modifiche. In questo modo, qualora nel fare delle riforme si commettessero errori, il danno sarebbe poco grave, potendo sempre tornare a provare correggendo gli errori precedenti.

Come si vede, dalle posizioni monistiche e metafisiche, tipiche di un certo positivismo evoluzionista, che accettava come unico o predominante fattore dell’evoluzione la “lotta per la vita”, si è sviluppato un pensiero scientifico e metodologico che ha tratto insegnamento principalmente dalle ricerche scientifiche sul campo biologico, le quali ultime hanno provato l’esistenza di un notevole numero di fattori evolutivi, per poter concludere con una specie di relativismo agnostico che collima con la posizione socialdemocratica. La realtà è, come abbiamo detto, che non si può chiedere alla scienza, in prestito, il fondamento “oggettivo” per la propria posizione politica d’intervento nella realtà. Ciò non è possibile né per l’autoritarismo marxista e nemmeno per l’antiautoritarismo anarchico. Ridurre il ragionamento a ciò che erroneamente si ritiene essenziale è ancora peggio. Infatti non è affatto essenziale lo scontro tra la concezione dell’evoluzionismo che si basa sulla “lotta per la vita” e la concezione che si basa sul “solidarismo”, le cose non stanno in questo rapporto così semplice. Un allargarsi della ricerca ha dimostrato la presenza e l’interazione di un gran numero di fattori, questa ammissione ha condotto molti pensatori a una specie di relativismo socialdemocratico, non li ha certo portati verso la rivoluzione sociale. Dal nostro punto di vista non c’è tanta differenza tra chi insegnava che la realtà della natura è la lotta di tutto contro tutti e coloro che insegnano che la realtà della natura non è conoscibile oggettivamente e che quindi dobbiamo solo provare ed eliminare gli errori. Quest’ultima affermazione significa, in parole povere, che il capitalismo e lo sfruttamento non fanno altro che “provare” e modificare gli errori che commettono, per far stare sempre meglio la gente. Conclusione che ci rifiutiamo di accettare. Quello che è scomparso, in questo processo e in questo sviluppo scientifico, è il ruolo della volontà dell’individuo e degli individui associati. Questo ruolo viene preso in considerazione solo nell’eventualità che rientri negli schemi fissati dallo stato di fatto, in caso contrario si passa subito nella categoria dell’errore da correggere per andare avanti. Nessuna creatività, nessuna possibilità di capovolgimento radicale dello stato di cose esistente. Il determinismo cacciato dalla porta è rientrato dalla finestra.

Se il solidarismo è uno dei fattori dell’evoluzione, non mi è sufficiente se lo si colloca – insieme a tutti gli altri fattori – all’interno di una metodologia che finisce per impedirmi di superare il rapporto prova-errore, che blocca qualsiasi salto di qualità. Solo in quest’ultima evenienza l’elemento evolutivo del mutuo appoggio può essermi utile, quando cioè, mutate improvvisamente, e violentemente, le condizioni oggettive in cui quell’elemento si trovava a operare come il “seme sotto la neve”, esso dà frutti rigogliosi e inaspettati. In caso contrario non è che una delle tante ipotesi scientifiche che è meglio lasciare al lavoro degli specialisti.

Veniamo, adesso, alla seconda parte del libro, quella che tratta del periodo comunalista, in cui, secondo Kropotkin, si svilupparono esempi di mutuo appoggio a notevole livello. Su queste pagine di già Camillo Berneri aveva avvertito in merito alla necessità di una lettura critica, potendosi deformare sia l’idea di fondo dell’autore e potendosi giustificare conclusioni contrarie a quelle di partenza.

Gli elementi caratteristici della comunità sono: la comprensione reciproca, la conoscenza determinata della comunanza di sangue, la lingua materna, la pace. Quando gli spostamenti divennero necessariamente più veloci, sia per la spinta di popoli nemici, sia per il progressivo impoverimento del suolo, questi elementi comunitari si trasformarono, riducendosi alla struttura militare di difesa.

Restò intatto l’elemento del possesso comune di un certo territorio. È in pratica questo l’elemento attivo del vivere in comunità. Il comune di villaggio si basa su di un’economia di consumo, ma non è privo di un embrione di quella che sarà poi l’economia di sviluppo. La caccia e il raccolto di frutti spontanei distruggono in parte il patrimonio, ma l’allevamento e i rudimenti di una coltura costituiscono il tentativo di ripristinare lo stesso patrimonio comune. Anche la funzione di “capo” riceve un condizionamento fortissimo da questo stato di cose. Nessun carisma nel bene e nel male, ma solo un’investitura funzionale. La presenza di un’attività solo distruttiva avrebbe determinato la solidificazione di un’istituzione soltanto a carattere militare, l’ambivalenza degli interessi comunitari finisce per trasformare la matrice dell’istituzione.

L’impronta fortemente individuale assunta da molte attività del comune di villaggio derivò dal valore dato al possesso di fronte al correlativo valore del bene comune da consumarsi. L’individuo crebbe e si sviluppò, fino a raggiungere completa coscienza di se stesso, all’interno di una dimensione comunitaria che, oggettivamente, tendeva ad esaltarlo nel quadro stesso delle istituzioni di gruppo. Il possesso comunitario qualificava il singolo allo stesso modo in cui qualificava il gruppo e il comune di villaggio nel suo insieme. Il tutto era amalgamato dal costume e dal diritto consuetudinario, imperanti nei rapporti all’interno della comunità e tra comunità diverse. La pace e il costume sono legati insieme, ed è solo quando modificazioni reali nelle possibilità di un mantenimento dell’economia di consumo o l’impedimento totale degli sbocchi rompono il legame, che il conflitto si scatena permettendo l’ingresso di culture e tradizioni di estrazione diversa: il diritto romano si sostituisce al diritto consuetudinario, alla comunanza sopravviene la società strutturata in forma moderna, all’economia di consumo e di sviluppo l’economia di distruzione.

In conclusione, due princìpi vengono contrapposti: la tradizione autoritaria di tipo romano e quella federalista di tipo comunitario. Come ha notato acutamente Martin Buber, si tratta di un tentativo di impostare il discorso positivista inserendo il processo naturalistico all’interno del ragionamento storico. Le contraddizioni di Pierre-Joseph Proudhon vengono assunte e semplificate sotto l’influsso degli antropologi inglesi e tedeschi.

Nell’esame e nella valutazione rivoluzionaria dell’esperienza comunitaria del passato, Kropotkin apre un grosso problema teorico che si viene ad aggiungere al problema storico della ricostruzione dei documenti di un’epoca che è passata sotto valutazioni di tipo contraddittorio. Quello che ci sembra più importante è il problema teorico. È possibile considerare positivamente esperienze verificatesi nei secoli del Medioevo, correndo in questo modo il rischio di apparire reazionari? Non si presta facilmente il fianco a critiche distruttive che possono dimostrare i limiti morali e sociali di quei secoli e la barbarie che circondava le piccole isole di civiltà?

In sostanza, se Kropotkin ragiona in termini deterministi, la sua visione dello svolgimento storico nella sua integralità non può essere misurata che con strumenti di costruzione idealista. Riguardo il meccanismo di sviluppo della storia egli non si discosta molto dall’empirismo di fondo che caratterizza tutto il positivismo evoluzionista. Forme e strutture si susseguono, le une spinte dalle altre, determinate da certe condizioni di fondo che prevalentemente hanno carattere economico, religioso, militare. Se a tratti appare lo schema di Proudhon e le letture fatte in gioventù dal Kropotkin geografo in Siberia, non risulta identificabile un qualsiasi processo meccanico di “movimento ideale”. Da un lato egli colloca le istituzioni di solidarietà, dall’altro quelle di oppressione. Le prime si alimentano delle necessità vitali dell’individuo, le seconde sorgono e si rafforzano a seguito di devianze favorite da specifiche modificazioni nella struttura. Ma anche se costretti sotto l’autorità, gli stimoli della solidarietà e del mutuo appoggio non muoiono mai e risorgono sempre sotto forme diverse.

Infatti, il progetto indagativo del passato non scade mai in un’apologia cieca e ristretta, ma si colloca in una giusta valutazione delle forze agenti in una data epoca storica. Le città medievali, dove si sviluppò al massimo grado il comune di villaggio, non costituiscono un modello per nessun aspetto. Sono indicate, con grande simpatia, come un preciso momento storico in cui gli istinti di solidarietà raggiunsero certe realizzazioni. Non vale contrapporre alle affermazioni di Kropotkin che gli uomini che portarono a compimento quelle istituzioni erano artigiani e che il momento di sviluppo storico non aveva ancora fatto sorgere la grande massa dei lavoratori salariati che oggi si chiama proletariato. Una critica in questo senso si dimostra incapace di comprendere il vero significato del lavoro di Kropotkin.

Lo sviluppo del lavoro e dell’arte nelle città medievali non è accidentale, ma corrisponde a certe condizioni rese possibili dalle premesse comunitarie. È lo spirito comunale che determina la grandezza di quelle città, condiziona la loro arte, spinge il popolo a realizzazioni sociali, fissa una concezione della fratellanza, della partecipazione, della simbiosi tra tutto sociale e individuo. L’atmosfera è costantemente mantenuta su questi livelli grazie a una “idea” centrale, quella “comunale”, che costituisce uno stimolo e un punto di raccordo per ogni interesse individuale. L’individuo non viene ucciso per il rafforzamento di un mostro burocratico, un grande Leviatano che anonimamente prende il posto dei valori della tradizione e del diritto d’usanza, ma viene riassorbito in una dimensione locale che lo riproduce esaltandolo nelle diverse sfere della sua attività di produttore.

Molte riflessioni possono ricavarsi da questa tesi.

Impossibilità di rigettare completamente il passato in una distruttiva follia, che poi sarebbe l’equivalente del “tanto peggio, tanto meglio”. Gli anarchici si sono sempre rifiutati di seguire questa massima. Se l’organizzazione è il punto di partenza ineliminabile del comunismo anarchico, questa non è pensabile al di là di un concetto di “continuità” che presuppone il valore almeno parziale di quanto si è realizzato in passato. Ma questa accettazione avviene in forma critica, e Kropotkin impiega metodi d’indagine quanto mai cauti.

Rifiuto del mito del passato, anche di quello del comune di villaggio. Infatti, in questa prospettiva sarebbe stato possibile contrabbandare valori non verificabili e fittizi. Non si tratta di un’esaltazione irrazionale del passato, trasferito a un livello simbolico per essere sfruttato sia pure come strumento di propaganda. Non bisogna dimenticare, in questo senso, l’utilizzazione di massa fatta dal fascismo di certe tradizioni antiche, trasportate a livello mitico.

Presenza di un’idea guida, identificata nell’idea comunale, per il passato, e riproposta, per il futuro, nella versione dell’idea federativa. In questo senso Kropotkin utilizza il progetto rivoluzionario nel senso di sollecitazione di forze presenti costantemente nella Storia e non nel senso di instaurazione di ignoti stimoli distruttivi. La continuità evolutiva è assicurata in senso determinista, ma non per questo può, anche oggi, essere rigettata in blocco, potendosi parlare della persistenza di una validità al di là dello schema. In sostanza, la rivoluzione se è fatto sconvolgente e distruttivo, non è mai fatto “totalmente nuovo”.

Forma dicotomica del contrasto. La lotta di classe emerge dalla lotta degli interessi economici. Di fronte agli interessi comunitari, di base, emergono e prendono via via corpo interessi di una o più caste di privilegiati: guaritori, sapienti, facitori di pioggia, capi militari. Sono queste caste che si contrappongono a tutto quell’insieme vitale di tradizioni e usanze comunitarie, strappando la storia dal suo corso naturale – sviluppo comunitario – e imponendo una trasformazione in senso autoritario, sostituendo le consuetudini con il diritto romano, organizzando lo Stato assolutista moderno.

Flessibilità della controparte. È uno degli elementi più difficili da cogliere nello scritto di Kropotkin. Riportandosi a Otto Gierke, Buber ha visto una cristallizzazione in forma bivalente della lotta di classe. Leggendo il testo, ma con attenzione, ci si accorge che la lotta non coinvolge mai il momento razionale dell’idea, che resta agente e valida all’interno di istituzioni che nulla hanno a che vedere con le strutture comunitarie del passato, anzi ne sono la negazione più assoluta. Solo che all’interno di queste istituzioni, per così dire, l’idea resta (seme sotto la neve) allo stato latente. Prendiamo l’esempio delle cooperative, che lo stesso Kropotkin affronta qui stesso e in altri suoi lavori, in sostanza egli denuncia quello che sarà lo sviluppo futuro della società permissiva moderna, la quale sostituendosi al mondo assolutista del passato, e alle transitorie gestioni fasciste, ha bisogno del consenso per perpetuare il dominio. La critica delle cooperative, che qualche decennio dopo sarà ripresa da Max Weber con una grossa documentazione riguardante le cooperative dei minatori tedeschi, è indicativa di come l’idea non possa emergere attraverso lo strato dell’istituzione dominante della borghesia, in tempi normali, o meglio si potrebbe dire, attraverso operazioni riformiste. Per aversi questa emersione il processo evolutivo deve essere sostituito dal salto qualitativo del processo rivoluzionario.

Così scrive Kropotkin: «La tendenza al reciproco aiuto ha nell’uomo un’origine così lontana, ed è così profondamente fusa con tutta l’evoluzione della razza umana, da essere conservata dal genere umano fino all’epoca attuale, attraverso tutte le vicissitudini della storia. Si svolse soprattutto durante i periodi di pace e di prosperità; ma, anche quando le più gravi calamità oppressero gli uomini – quando regioni intere furono devastate dalle guerre, e popolazioni numerose furono decimate dalla miseria, o gemettero sotto il giogo della tirannia – la stessa tendenza continuò ad esistere nei villaggi e tra le classi più povere delle città; continuò ad unire gli uomini tra loro e, a lungo andare, reagì anche sulle minoranze dominatrici, combattive e devastatrici che l’avevano respinta come una sciocchezza sentimentale. Ed ogni volta che il genere umano dovette creare una nuova organizzazione sociale, corrispondente ad una nuova fase della sua evoluzione, è da questa medesima tendenza, sempre viva, che il genio costruttivo del popolo trasse l’ispirazione e gli elementi del nuovo progresso. Le nuove istituzioni economiche e sociali, in quanto furono una creazione delle masse, i nuovi sistemi di morale e le nuove religioni hanno avuto origine dalla stessa sorgente; ed il progresso morale della nostra razza, visto nelle sue grandi linee, appare come un estendersi graduale dei princìpi del reciproco aiuto, dalla tribù alle agglomerazioni sempre più numerose, fino a che abbraccerà tutta l’umanità con le sue differenti credenze, le sue lingue e le sue razze diverse.

«Dopo avere attraversato lo stato di tribù selvaggia, poi di comune rurale, gli Europei erano arrivati nel Medioevo a trovare una nuova forma d’ordinamento che aveva il vantaggio di lasciare una grande larghezza all’iniziativa individuale, pure rispondendo largamente al bisogno mutuo di appoggio dell’uomo. Una federazione di comuni rurali, coperta da una rete di corporazioni e di fraternità, vide la luce nella città del Medioevo. Gli immensi risultati raggiunti con questa nuova forma d’unione – il benessere per tutti, lo sviluppo delle industrie, delle arti, delle scienze, e del commercio – sono stati analizzati nei due precedenti capitoli; abbiamo anche tentato di spiegare perché, verso la fine del XV secolo, le repubbliche del Medioevo – circondate dai domini dei signori feudali ostili, incapaci di liberare i contadini dalla servitù e corrotte a poco a poco dalle idee del cesarismo romano – si trovarono condannate a diventare preda degli Stati militari che cominciavano a svilupparsi.

«Tuttavia, prima di sottomettersi durante i tre secoli successivi all’autorità assorbente dello Stato, le moltitudini del popolo fecero un formidabile sforzo per ricostituire la società sull’antica base del reciproco aiuto e del mutuo appoggio. Si sa oggi che il grande movimento della Riforma non fu una semplice rivolta contro gli abusi della Chiesa cattolica. Aveva anche il suo ideale costruttivo, e questo ideale era la vita in comunità, fraterne e libere. Quelli fra i primi scritti e i primi sermoni della riforma che toccavano di più il cuore delle masse erano imbevuti di idee di fratellanza economica e sociale. I “Dodici Articoli” e le professioni di fede del medesimo genere, che circolavano tra i contadini e gli operai tedeschi e svizzeri, non sostenevano solamente il diritto di ciascuno di interpretare la Bibbia seguendo il proprio giudizio: domandavano anche la restituzione delle terre comunali ai comuni rurali, e l’abolizione delle servitù feudali. Sempre vi si faceva appello alla “vera” fede – una fede di fratellanza. Nella stessa epoca, decine di migliaia di uomini e di donne si univano nelle confraternite comuniste di Moravia, dando loro tutti i beni e formando istituti numerosi e prosperi, organizzati secondo i princìpi del comunismo». (Il mutuo appoggio, op. cit., pp. 164-165).

E più avanti: «Durante i tre secoli successivi, gli Stati, tanto sul continente quanto nelle isole britanniche, lavorarono sistematicamente ad annientare tutte le istituzioni nelle quali la tendenza all’aiuto reciproco aveva in altre occasioni trovato la sua espressione. I comuni rurali furono privati delle assemblee popolari, dei tribunali, e dell’amministrazione indipendente; le loro terre furono confiscate. Le corporazioni furono spogliate dei beni e delle franchigie e poste sotto il controllo dello Stato, ed alla mercé del capriccio e della venalità dei suoi funzionari. Le città furono spogliate della sovranità, e le principali istituzioni della loro vita interna: l’assemblea del popolo, la giustizia e l’amministrazione elettiva, la parrocchia e la corporazione sovrana – furono distrutte; i funzionari dello Stato presero possesso di ciascuna delle parti le quali formavano un tutto organico. Sotto questa politica funesta e durante le guerre senza fine che essa generò, delle regioni intere, altra volta popolose e ricche, furono totalmente rovinate e devastate, delle città fiorenti diventarono borghi insignificanti; le strade stesse che le univano ad altre città divennero impraticabili. L’industria, l’arte e la scienza caddero in decadenza. L’istruzione politica, scientifica e giuridica fu messa al servizio dell’idea dell’accentramento dello Stato. Si insegnò nelle Università e nelle Chiese che le istituzioni che avevano permesso agli uomini di manifestare in altro tempo il loro bisogno d’aiuto reciproco, non potevano essere tollerate in uno Stato bene ordinato. Lo Stato solo poteva rappresentare i legami d’unione tra i soggetti. Il federalismo ed il “particolarismo” erano i nemici del progresso, e lo Stato era il solo iniziatore del progresso, la sola vera guida verso il progresso. Alla fine del XVIII secolo i re nell’Europa centrale, il Parlamento nelle isole britanniche, e la Convenzione rivoluzionaria in Francia, benché tutti questi paesi fossero in guerra gli uni contro gli altri, erano d’accordo tra loro nel dichiarare che nessuna unione distinta tra cittadini dovesse esistere nello Stato; che i lavori forzati o la morte erano i soli castighi che convenissero ai lavoratori che osavano entrare nelle “coalizioni”. “Nessuno Stato nello Stato!”. Lo Stato soltanto e la Chiesa di Stato dovevano occuparsi degli affari d’interesse generale, mentre i sudditi dovevano rappresentare indeterminate agglomerazioni di individui, senza alcun legame speciale, obbligati a fare appello al governo ogni volta che sentivano una comune necessità. Fino alla metà del XIX secolo, questa fu la teoria e la pratica nell’Europa. Si guardavano con diffidenza finanche le società commerciali e industriali. Quanto ai lavoratori, le loro associazioni erano trattate come illegali in Inghilterra fino alla metà del XIX secolo e nel resto d’Europa fino a questi venti ultimi anni. Tutto il sistema della nostra educazione di Stato fu tale che fino all’epoca attuale, anche in Inghilterra, una grande parte della società considerò come una misura rivoluzionaria la concessione di quei medesimi diritti che ciascuno, fosse egli uomo libero o servo, esercitava cinquecento anni prima nell’assemblea popolare del suo villaggio, nella corporazione, nella parrocchia, nella città.

«L’assorbimento di tutte le funzioni da parte dello Stato favorì necessariamente lo svolgersi di un individualismo sfrenato, ed insieme limitato nelle sue vedute. A misura che il numero delle obbligazioni verso lo Stato andava crescendo i cittadini si sentivano dispensati dalle obbligazioni degli uni verso gli altri. Nella corporazione – e nel Medioevo, ciascuno apparteneva a qualche corporazione o fratellanza – due “fratelli” erano obbligati a vegliare ciascuno a sua volta il fratello malato; oggi si considera come sufficiente dare al vicino l’indirizzo dell’ospedale pubblico più prossimo. Nella società barbara, il solo fatto d’assistere ad un combattimento tra due uomini, sopravvenuto in conseguenza di una lite, e non impedire che avesse uno scioglimento funesto, esponeva a persecuzioni come assassinio; ma con la teoria dello Stato protettore di tutti, lo spettatore non ha necessità di mischiarsene; c’è l’agente di polizia che interviene, o no. E mentre in un paese selvaggio, presso gli Ottentotti, per esempio, sarebbe scandaloso mangiare senza avere chiamato ad alta voce tre volte per domandare se c’è qualcuno che desidera prendere parte al pasto, tutto ciò che un rispettabile cittadino deve fare oggi, è pagare le imposte e lasciare che gli affamati se la cavino come possono. Così la teoria, secondo la quale gli uomini possono e devono cercare la loro felicità nel disprezzo dei bisogni degli altri, trionfa su tutta la linea – nel diritto, nella scienza, nella religione. È la religione del giorno, e dubitare della sua efficacia significa essere un pericoloso utopista. La scienza proclama che la lotta di ciascuno contro tutti è principio dominante della natura, come delle società umane. La biologia attribuisce a questa lotta l’evoluzione progressiva del mondo animale. La Storia adotta il medesimo punto di vista, e gli economisti, nella loro candida ignoranza, attribuiscono tutto il progresso dell’industria e della meccanica moderna ai “meravigliosi effetti” dello stesso principio. La religione stessa dei predicatori della Chiesa è una religione d’individualismo, leggermente mitigata da rapporti più o meno caritatevoli verso il prossimo, particolarmente la domenica. Uomini di azione “pratica” e teorici, uomini di scienza e predicatori religiosi, uomini di legge e politicanti, tutti sono concordi su di un punto: l’individualismo, dicono, può ben essere più o meno addolcito nelle sue conseguenze più aspre mediante la carità, ma resta la sola base certa per la conservazione della società ed il suo progresso ulteriore.

«Sembrerà, per conseguenza, inutile cercare istituzioni e abitudini di mutuo aiuto nella società moderna. Che cosa potrebbe restare? Però, appena tentiamo di capire come vivono milioni di esseri umani, ed incominciamo a studiare le loro relazioni quotidiane, siamo colpiti dalla parte immensa che i princìpi di aiuto reciproco e di mutuo appoggio hanno ancora nella vita umana. Benché la distruzione delle istituzioni di mutuo appoggio sia stata proseguita, in pratica ed in teoria da più di trecento o quattrocento anni, centinaia di milioni di uomini continuano a vivere con tali istituzioni, le conservano piamente e si sforzano di ristabilirle là dove hanno cessato di esistere. Inoltre, nelle nostre scambievoli relazioni, ciascuno di noi ha i suoi moti di rivolta contro la fede individualista che oggi domina, e le azioni nelle quali gli uomini sono guidati dalle loro inclinazioni d’aiuto reciproco costituiscono una così grande parte nei nostri rapporti giornalieri che se tali azioni venissero soppresse, ogni specie di progresso morale verrebbe immediatamente arrestato. La società umana stessa non potrebbe conservarsi per la durata di una sola generazione. Questi fatti, in maggior parte trascurati dai sociologi, e tuttavia di capitale importanza per la vita e per il progresso del genere umano, ci accingiamo ad analizzarli, cominciando dalle istituzioni permanenti di reciproco aiuto e passando agli atti di mutuo aiuto che originano dalle simpatie personali o sociali». (Ib., pp. 165-168).

Continuità logica e storica. La città del futuro si lega all’esperienza comunitaria del passato. Il filo passa attraverso lo sviluppo storico delle istituzioni, rifiutando qualsiasi elaborazione mitica. La costanza ideologica è garantita dall’idea anarchica della comunanza.

La crescita dell’autonomia personale dell’individuo è segno indiscutibile di presenza attiva all’interno del gruppo omogeneo di cui l’individuo fa parte. Purtroppo questa presenza viene costantemente limitata dalla sfera politica in senso stretto, cioè dallo Stato e dal suo potere poliziesco, dalla burocrazia e dal suo potere gestionale, dai padroni e dal loro potere economico.

Il passaggio rivoluzionario deve potere avvenire in modo che, nel corso degli avvenimenti di trasformazione, non prenda il sopravvento un’altra forza repressiva, altrettanto reazionaria delle forze emerse nel passato, sebbene derivante dallo stesso fenomeno rivoluzionario. Si tratta della tragedia delle rivoluzioni. Se nessun mutamento sostanziale può verificarsi senza rivoluzione, se la giustizia – in senso proudhoniano – non può manifestarsi nell’umanità fuori del fatto rivoluzionario, può aversi, in contrasto, la nascita di una forza nuova, capace ancora una volta di sottomettere il tutto a una nuova forma di sfruttamento e di dittatura.

Kropotkin è convinto che la spinta in senso rivoluzionario delle vecchie istituzioni, la liberazione delle forme comunitarie implicite nelle strutture autoritarie dove sono costrette e rese inutili, determini l’affrancamento definitivo delle forze produttive. In questo modo, secondo il suo pensiero, il passato o il futuro si collegano, la città dell’utopia resta legata a quanto di più intimo esiste nell’uomo: l’istinto di solidarietà affinatosi nei secoli, allenato a sopravvivere in condizioni disastrose, appare in mezzo al più bieco autoritarismo, indistruttibile come la forza che guida l’uomo verso la liberazione.

L’utopia sarebbe pesantemente negativa e getterebbe una luce improduttiva sulla concezione della città del futuro, se venisse tagliata in uno dei due sensi. Indietro, nei riguardi del passato, lasciando libero corso alla fantasia e accettando solo l’aspetto creativo della rivoluzione. Avanti, nei riguardi del futuro, mitizzando con un processo di trasposizione la reale validità delle esperienze del passato e accettando solo l’aspetto liberatorio della rivoluzione.

Per Kropotkin, la città del futuro, uscita dalla rivoluzione libertaria, sarà il prodotto delle due cose, delle due tendenze, la simbiosi produttiva di due elementi che caratterizzano la rivoluzione: la creazione e la liberazione. In essa non sarà più possibile identificare in forma separata questi elementi. La comunità del futuro non sarà quella medievale, o quella che è possibile rintracciare oggi col microscopio all’interno di certi fenomeni sociali fondati su strutture autoritarie. Essa sarà una comunità reale, non romanticamente ideale. Partendo dalla comunanza del bisogno farà propria ed esalterà la comunanza dello spirito. L’idea antiautoritaria, emersa a nuova vita, imporrà nuova determinazione alla stessa comunanza del bisogno, ripartendo le varie soluzioni secondo quanto vengono dettando lo spirito creativo e lo spirito liberatorio nella loro sempre rinnovellata fusione.

Non bisogna però attribuire a Kropotkin intenzioni che egli non ebbe mai e chiarezze che non riuscì a raggiungere. La sua idea del processo sotterraneo dei rapporti di base, il “seme sotto la neve”, anche se oggettivamente può essere ricondotta all’idea “oggettiva” di un movimento solidarista (e quindi rivoluzionario) che si svolge al di là delle condizioni soggettive dei singoli che forniscono i propri contributi partendo dalle proprie decisioni volontarie, non presenta mai la forma che oggi possiamo individuare nel “movimento rivoluzionario degli sfruttati”, inteso come altro dalle organizzazioni specifiche. Per lui la rivoluzione non è qualcosa di ipotizzabile se non la si considera come qualcosa di già in corso, al di là della volontà dei singoli sfruttati, qualcosa che è in marcia nel meccanismo stesso della società e nel meccanismo, ancora più profondo, dell’evoluzione biologica della specie.

C’è una perplessità. Questa tesi lascia intendere che le forze spontanee dell’autorganizzazione si sviluppano parallelamente alle forze della repressione autoritaria, conquistando lentamente posizioni in base ad aggiunte progressive. Non c’è uno spazio preciso, nella teoria di Kropotkin, che lascia vedere i modi e le conseguenze dello scontro tra queste due forze. In caso contrario Kropotkin si sarebbe subito chiesto quale spazio assegnare alla volontà e la nota critica di Errico Malatesta sarebbe stata destituita di fondamento. Ora, per Kropotkin, il modello scientifico di fondo gli suggerisce un’analisi sociale che è quella dell’“aggiunta”. Questa permette la crescita dell’ordine spontaneo, che essendo più intelligente dell’ordine imposto attraverso l’autorità, finirà per avere la meglio. Non possiamo tacere la preoccupazione che ci prende riflettendo su tutto ciò. Quest’ordine spontaneo, finché resta nascosto sotto la neve può – dentro certi limiti – risultare utile al potere e quindi da questo essere tollerato, ma quando dovesse venire alla luce, spaccando lo strato ghiacciato, in che modo il potere si comporterà? La risposta a questa domanda è facile: il comportamento del potere sarà sempre quello della distruzione e della guerra, una volta resosi impossibile l’inglobamento e la mistificazione. Ma il guaio più serio è che, trattandosi di uno schema logico fondato sull’aggiunta e non sulla contraddizione, lo stesso seme sotterraneo non si accorgerà di stare crescendo e di rompere il livello di guardia, per cui potrebbe trovarsi indifeso di fronte alla repressione, nel momento in cui il potere decidesse di attaccare.

E come non pensare che lo stesso schema dell’“aggiunta” non convinse Kropotkin a firmare il “Manifesto dei sedici”? Il livello di crescita dell’ordine spontaneo, a cui si era pervenuti, non era forse messo in pericolo dagli Imperi centrali, e quindi non diventava logica la guerra contro di essi?

Il grande scienziato finiva per essere preso nel meccanismo delle sue stesse premesse. La grande bontà dell’uomo si piegava davanti alla ineluttabile “oggettività” della scienza. Quanto gli dovette costare tutto ciò!

Ecco perché Il mutuo appoggio è un libro che affascina ancora oggi, proprio perché non è una collezione di verità, ma una palestra di dubbi e di stimoli alla riflessione.


Stockholm, 28 marzo 1979

 


[Introduzione a Il mutuo appoggio, tr. it., prima edizione Catania 1979, pp. 7-20, seconda edizione Trieste 2008, pp. 5-18]

Postfazione del 2008

Dopo quasi trent’anni molto è cambiato all’interno del dibattito filosofico e scientifico che si riassume con il nome, ormai improprio, di darwinismo. Eppure in questa Postfazione preferisco non suggerire al lettore un’ipotesi di approfondimento, un briciolo di attenzione verso questo specioso dibattito.

Non mi sembra utile per un’opportuna fruizione del grandioso lavoro di Kropotkin andare al di là delle note che a suo tempo [1979] ebbi a scrivere come Introduzione. Non è infatti questo il formidabile problema che Kropotkin solleva, anche se all’epoca sua, e perfino lui stesso, ci si poteva convincere del contrario.

Il darwinismo sociale è faccenda da obitorio e il lavoro di Kropotkin, a guardarlo con l’ottica odierna, non vi resta del tutto prigioniero, se fosse rimasto impastoiato dentro queste beghe metodologiche di natura determinista non avrebbe oggi, nemmeno per gli anarchici, maggior valore di un qualsiasi libro di Spencer.

Non è di un banale meccanismo che parla l’anarchico Kropotkin, anche se pure di meccanismo si tratta, ma non è qualcosa di simile all’hegeliano mostro dialettico e al derivato marxista superamento delle contraddizioni in una contraddizione finale insuperabilmente rivoluzionaria.

Kropotkin era convinto, da scienziato dell’Ottocento quale era e quale rimase per tutta la vita, dell’esistenza di un movimento sotterraneo, intrinseco alla società, diretto e sostenuto da un principio di natura solidarista, che, come un seme sotto la neve, alla fine sarebbe fiorito nel corso del movimento rivoluzionario, con una grandiosa fioritura, impossibile da immaginare considerando le cose nella condizione in genere subordinata e coatta che esse presentano sotto la cappa dello sfruttamento e del dominio della classe dominante.

Malatesta, come tutti sappiamo, ebbe a criticare l’anima determinista di questo concetto, e io stesso più volte ho richiamato il pericolo di qualsiasi meccanicismo che vuole sostituirsi, o comunque collaborare dall’interno, come una talpa a tutti invisibile, alla lotta che il movimento rivoluzionario, nel corso dei suoi alti e bassi storici – ma questo è un altro problema – continua a condurre.

Ho fatto anche notare che la dichiarazione favorevole alla Prima guerra mondiale, a fianco della Francia contro gli Imperi centrali, trovava una triste spiegazione proprio in questa sorta di meccanismo progressivo che doveva tutelare le conquiste della grande rivoluzione francese. Un pericoloso equivoco, per altro non ignoto a tutti gli scienziati che si trovano a scambiare la realtà concreta con le loro ipotesi di ricerca.

Ma, a parte questi infortuni, e leggendo con spirito aperto il libro di Kropotkin, non si può non restare sbalorditi di fronte allo sforzo compiuto per sottolineare e fare vedere come nell’uomo, e nella sua storia, ci sia accanto al movimento della lotta per la vita quello della collaborazione per la vita. La solidarietà è puntualmente sottolineata da Kropotkin non per sostituirla alla tesi darwinista, che in fondo resta per lui sempre valida, ma per mostrare come siano ambedue forze presenti nello sviluppo dell’avventura umana.

Non è vero, come mi è stato fatto notare, che oggi queste tesi hanno fatto il loro tempo, la bestia umana è in grado di compiere spaventosi genocidi ma anche incredibili atti di solidarietà.

In fondo, la rivoluzione sarà senza dubbio il prodotto di processi di autorganizzazione della lotta e della vita, quindi anche della produzione, oppure non sarà, ancora una volta, che una tragica farsa. La presenza di questa forza autorganizzatrice è negli uomini, anche nei peggiori, non solo nei santi laici come Kropotkin, e solo la paura dell’altro, del diverso, dell’incertezza per il proprio futuro, non consente di vederla.

Perché la lotta contro il nemico? Perché un nemico? Le tante giustificazioni esistenti rendono più che comprensibile, e quindi ragionevole, l’identificazione del nemico, ma non rispondono al perché esso esiste. Potrei non trovarlo? Nel fare potrei ricavarmi una nicchia accomodante? Certo che potrei, ma prima o poi finisco per scoprire che questa nicchia mi inquieta e mi rinserra in una tomba che minaccia di soffocarmi. Comincio a fare resistenza, ritaglio spazi e illusioni, non cambia nulla, l’inquietudine cresce e non si può fronteggiare che distogliendomi dall’accomodamento e dall’affratellamento indiscriminato. Il carattere utopico di questa ultima soluzione nasconde l’irriducibilità sostanziale del conflitto. Per questo cerco i miei compagni, coloro che come me sono capaci di vedere quello che vedo io, di sentire dove è il nemico. Ed è qui che scopro un’affinità molto più estesa di quella immaginata, una forza che mi spinge e che non si estingue per autoconsunzione, una forza incomprensibile che alimenta lo sforzo di liberazione e che non può essere messa a tacere definitivamente.

La tensione ostile contro il nemico, che circola come eccezione nella quotidianità della vita coatta, ammorbando l’aria, nell’azione non è più un impulso competitivo, non voglio solo misurare i miei muscoli, non mi interessa di rendere possibile una qualsiasi vittoria, né facilitare un processo intrinseco che va verso l’anarchia futura. In fondo non credo sia questo quello che voleva dire Kropotkin. Il suo pensiero è di molto più grandioso. Nell’agire non ci sono collaboratori occulti, forze nascoste su cui poter contare, capaci di colpire il nemico al mio posto, nei momenti di scoraggiamento o di stanca, come di certo è quello che stiamo attraversando oggi. Io colpisco per primo e lo faccio per uccidere, ma non mi interessa nulla delle giustificazioni morali riguardanti il colpire per primo o l’uccidere, tutto il ciarpame morale e contabile che avevo introiettato nella immediatezza acculturata, nei lunghi accostamenti ai dibattiti filosofici e scientifici, adesso sono posti da parte, nell’agire sono fantasmi muti e ciechi che nemmeno degno di uno sguardo. Non ho bisogno della collaborazione di una dottrina, né di un incitamento alla lotta in nome di un processo sotterraneo e invisibile. Se continuo a leggere in questo modo il libro di Kropotkin, è meglio chiuderlo subito e pensare ad altro. Ogni sentimento di appartenenza a un gruppo che, in un modo o nell’altro, finisce sempre per avere ragione perché combatte in nome della verità, mi può colpire come qualunque affezione del passato. Io sono il fulcro dell’agire nell’azione, il mondo ruota attorno a me e posso attaccarlo visto che è caduto nelle mani del nemico, almeno nella sua stragrande maggioranza, e non ho memoria di quell’altra forza sotterranea che mi sollecita ad agire nella “giusta” direzione. Non ho più bisogno di gratificazioni vitali. Adesso sono io la mia vita e la mia vitalità, non ho nessuno nei confronti del quale mi debbo fare valere, nemmeno il mio nemico, tanto meno il mio amico del sottosuolo. La mia azione non deve colpire il nemico, lo deve annientare. Per questo motivo sono io stesso la verità, sono io stesso la mia giusta misura, il mio riconoscimento vero, la mia realizzazione libera.

E dell’altra forza? La vedo solo quando ho cominciato il mio attacco. Ecco il punto. Malatesta e Kropotkin, a mio modo di vedere, si distanziano solo per una questione di tempi, oltre che per gli ostacoli scientifici che facevano aggio al secondo e rendevano più lungimirante il primo. Ma molto si potrebbe dire sul ruolo metafisico che la volontà gioca nel pensiero di Malatesta, volontà-demiurgo tutt’altro che privo di responsabilità, non avendo Malatesta mai cercato di chiarire le responsabilità della volontà nei riguardi della delega e del controllo. Ma questo resta un altro problema.

Che sia presente questa forza autorganizzativa è possibile, ma non può essere la molla del mio determinarmi all’azione, non può essere la mia verità. Mai come oggi questo principio è stato tanto chiaro, tanto palpabile in tutti i suoi risvolti. Quando i grandi movimenti di massa si affacciano alla ribalta della Storia è facile entusiasmarsi vedendo come questo immenso gigante sposti le montagne e riduca in briciole le forze del nemico. È facile allora decidersi all’azione, oppure se non è facile è più probabile che qualcuno, provvisto di un minimo di sentimento rivoluzionario e di disgusto per la vita coatta alla quale il potere lo obbliga, decida di battersi. Ma in situazioni come quella di oggi è nel proprio cuore che bisogna rivolgere lo sguardo.

L’attacco immediato può risolversi in una insoddisfazione e in una frustrazione, non essendo in grado la vita di fornire uno scopo corrispondente alle decisioni imposte dalla volontà. Un metodo può certamente indirizzare queste forze verso una profonda modificazione del rapporto con la volontà, ma non può fare tutto da solo. Un metodo è uno strumento della parzialità, ed è esso stesso parziale. Occorre principalmente dell’altro, non comprenderò mai questo ingrediente straordinario della rivolta se non affrontando una vera e propria catastrofe, cioè un rinnovamento del tutto lontano dai continui aggiustamenti di metodo che comunque sono anch’essi necessari. Se non sono per me stesso un interlocutore attendibile, devo cercare altrove, guardare altri specchi, studiare altre fisionomie.

Alzare le vele significa andare oltre le attese a cui mi costringe la mia vita presente, tutto quello che ho lasciato sul molo, adesso, non mi appartiene più, sono un uccello marino, un albatros pesante ma capace di volare, non ammetto che qualche imbecille terricolo travestito da marinaio stuzzichi il mio becco con la sua pipetta. Io sono la nave e il mare, le vele e l’orizzonte, le onde e l’immensità del possibile, sono l’azione nel momento preciso in cui il mio coltello affonda nella gola dell’avversario, non guardo tutto ciò dall’esterno con la velleità di raccontarlo, sono io tutto questo.

Alzo le vele al vento della rivolta, cioè della verità, e sono quello che sono, per un momento senza momenti sono io quello che sono, ho il mio ritmo, le mie pulsioni, i miei impulsi distruttivi. Non sono in attesa di un’attestazione di aiuto sotterranea che da qualche parte protocolli le mie straordinarie nuove condizioni, sono io quelle condizioni straordinarie, sono io la verità primordiale separata ma, evidentemente, ritrovata. Non ho paura di toccare ciò che non può essere toccato, l’assolutamente altro, anzi non mi limito a toccare, tutti i miei sensi, scaricati dalla responsabilità di avere un senso da custodire e da tramandare, pulsano unitamente all’universo, assorbono tutto quello che ora mi circonda, la solitudine della mia condizione e la sottile voce di quel movimento solidarista di cui parlava Kropotkin. L’antica, povera e soffocante arroganza progettuale non c’è più.

E che la festa cominci.


Trieste, 29 giugno 2008

 


[Postfazione a Il mutuo appoggio, seconda edizione, Trieste 2008, pp. 232-235]

* * * * *

“La concezione di Comte considera lo studio dello spirito umano come dipendente dalla scienza fisiologica, e l’aspetto di uniformità che può venir osservato nella successione degli stati spirituali come l’effetto dell’uniformità riscontrabile negli stati corporei, negando perciò che la regolarità presente negli stati psichici possa essere studiata di per sè. A questo stato di cose corrisponde, secondo lui, la posizione della scienza della società nella storia delle scienze. Avendo come proprio presupposto le verità enunciate da tutte le scienze della natura, essa perviene soltanto dopo di esse alla maturità, cioè alla determinazione di quelle verità che collegano le verità particolari scoperte in un complesso scientifico unitario”.

(G. Lukacs, Über das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen der Gesellschaft und dem Staat)

Prefazione per una nuova edizione de L’Etica

Nella precedente Prefazione, da me scritta per la prima edizione dell’Etica (Edigraf, Catania 1969, ora in La dimensione anarchica, terza edizione, Trieste 2013, pp. 190-209), avevo tracciato in dettaglio i problemi dell’evoluzionismo di Kropotkin: in particolare il rapporto col darwinismo e quello con Spencer.

In questi dieci anni molti libri sono usciti su Kropotkin e molte ristampe sono state fatte delle sue opere. Ward (Anarchia come organizzazione, tr. it., Milano 1976) tiene conto di queste pubblicazioni e fa il punto del kropotkinianesimo oggi. Sono di certo importanti anche le riflessioni sulla “società aperta” che coinvolgono il pensiero di molti studiosi di estrazione diversa, ecc. Alcuni dei problemi che affrontavo in quella Prefazione del 1969 sono stati poi sviluppati da me nelle introduzioni al Mutuo appoggio (1979) e alla Conquista del pane (1978), in particolare una migliore trattazione ha avuto il discorso sull’evoluzione sviluppato da Kropotkin. Queste ricerche mi hanno convinto della necessità di approfondire meglio la problematica dell’Etica, scavando nella direzione del dibattito filosofico dell’epoca, con particolare attenzione ai positivisti, riconsiderando la sopravvivenza oggi di un’etica naturalistica e cercando di risolvere le stesse preoccupazioni sul metodo filosofico che Kropotkin indica nel suo lavoro.

Ma prima di addentrarci nel nostro compito riassumiamo quanto dicevamo nella precedente Prefazione a proposito del darvinismo e dei rapporti con Spencer.

Schematizzando, riguardo Darwin la posizione di Kropotkin è la seguente: 1) Ammissione della tendenza evolutiva del progresso delle forme organiche, senza che l’analisi venga allargata a un esame del principio di variabilità e ai relativi problemi statistici. 2) Lotta per la vita. Costituisce l’elemento fondamentale della polemica di Kropotkin. La lotta viene ammessa in quanto fatto documentabile, ma è negata all’interno della specie in quanto essa avviene solo tra specie e classi o gruppi in contrasto tra loro. 3) Si tratta di una correzione a cui era giunto lo stesso Darwin. Dalla sua trattazione Kropotkin trae il principio del “mutuo appoggio”. 4) Il concetto di “mutuo appoggio” viene impiegato nell’interpretazione della dinamica collettiva della specie tramite l’uso del principio di “socialità”.

In una Lettera a Edward Lott, del 23 aprile 1852, Spencer aveva scritto: «Non è possibile trarre alcuna inferenza dai fatti della storia, o da quelli che si presumono tali senza che vi intervengano le vostre idee sulla natura dell’uomo: e se la concezione che avete della natura umana è erronea, l’inferenza sarà sbagliata. Ma se la vostra concezione della natura umana è giusta, potrete procedere senza alcun bisogno delle inferenze tratte dalla storia. Se chiedete come è possibile pervenire a una teoria vera della natura umana, rispondo: studiatela nei fatti che vedete intorno a voi e nelle leggi generali della vita. Quanto a me, poiché considero l’umanità il risultato più alto dell’evoluzione della vita sulla terra, preferisco considerare l’intera serie dei fenomeni accertabili fin dalle origini. Amo anche la storia, ma quella del cosmo come un tutto». Riguardo questo autore la posizione di Kropotkin è la seguente: 1) Critica dell’analisi che riduce alla “lotta per la vita” tutta l’evoluzione. 2) Critica dell’ipotesi che considera l’uomo primitivo vivente isolato o, eccezionalmente, in piccoli gruppi. 3) Critica dell’eccessiva manipolazione metafisica. Critica dello strutturalismo di Comte come si presenta in Spencer.

Studiando le basi di una “nuova” etica, Kropotkin dà delle indicazioni molto significative che poi prevedeva di sviluppare nel secondo volume del suo lavoro, interrotto per l’aggravarsi della malattia e per la morte.

Uno dei motivi per cui la filosofia empirica, nel senso di una filosofia che trovi fondamento sullo sviluppo delle scienze naturali, non ha prodotto un’etica naturalistica capace di diventare veramente scientifica, è senz’altro la presenza delle divagazioni metafisiche. Predestinazione, scopi dell’esistenza, fini della natura, sono stati altrettanti elementi negativi per questa costruzione.

Secondo Kropotkin lo studio della scienza naturale e della storia indica chiaramente che esiste nella società e nell’uomo una doppia tendenza: la tendenza alla socialità e quella all’individualità. In questo modo lo scienziato e lo storico danno all’etica quella certezza che le vaghe ipotesi metafisiche non possono dare.

Kropotkin rigetta l’obiezione che lo studio scientifico dell’etica possa dare un’aridità matematica ai risultati ottenuti, in quanto l’amore e il possesso della verità costituiscono da per se stessi la migliore dottrina morale.

Kropotkin documenta che le nozioni di virtù e di vizio non sono soltanto umane ma sono zoologiche. Queste nozioni, insieme ad altre altrettanto fondate, determinano lo sviluppo delle idee che hanno una grande influenza sulle nozioni morali stesse in quanto le perfezionano e le rendono adatte a influenzare, a loro volta, la caratteristica di un’epoca. Queste idee sono anche identificate come idee-forze, in quanto essendo sufficientemente diffuse, creano una morale in grado di influenzare tutta la società.

Il compito principale della nuova etica viene indicato da Kropotkin come quello di apportare all’uomo un ideale capace di risvegliare l’entusiasmo, dando le forze necessarie per far passare nella vita reale ciò che può conciliare l’energia individuale con il lavoro per il bene di tutti.

In merito all’obiezione riguardante la mancanza dell’autorità necessaria perché questo sistema etico possa essere accettato, Kropotkin ricorda che non si può ricorrere, giustamente, all’imperativo kantiano in quanto la caratteristica necessità di questo si è rivelata per quello che è, una banale necessità astratta della categoria filosofica e non una realtà riscontrabile. Infatti, egli aggiunge, quando lo stesso Kant si provò a dare all’imperativo categorico un reale fondamento dovette ripiegare sull’idea di “utilità sociale”. La confusione può essere eliminata – continua Kropotkin – chiarendo che l’etica non si occupa del problema della necessità o meno di una legislazione. Compito dell’etica non è quello di indicare i limiti dell’uomo, ma di sollecitare i suoi istinti migliori, spiegando quali sono i princìpi fondamentali in base ai quali gli uomini e gli animali possono vivere in società.

L’etica non indica nessuna rigida regola di condotta, lasciando che l’uomo stesso se ne fissi una consona ai suoi ideali. Essa sollecita i grandi sentimenti umani: l’amore, il coraggio, la fraternità, il rispetto di sé, una vita secondo l’ideale. Essa utilizza gli elementi già esistenti della vera moralità: la spontaneità, la socialità, il mutuo appoggio, la giustizia, l’uguaglianza, l’altruismo, l’abnegazione, ecc.

E concludendo: «Il “mutuo appoggio”, la giustizia, la morale, sono i gradi della serie ascendente degli stati psichici che ci sono stati fatti conoscere dallo studio del mondo animale e dell’uomo. Essi sono una necessità organica, portando in loro stessi la propria giustificazione e confermanti tutta l’evoluzione del mondo animale, dai primi scalini (sotto forma di colonie di molluschi), alla successiva elevazione graduale fino alle società perfette dell’uomo. Possiamo dire che in questo vi è una legge generale e universale dell’evoluzione organica». (L’Etica, cap. II, par. 7).

Queste, in poche righe, le tesi etiche di Kropotkin, come vengono sviluppate nel presente libro con quella conoscenza abilità scientifica, scorrevolezza di stile e amabilità di opinioni che gli sono congeniali.

Vediamo adesso di studiare alcune fonti dell’etica naturalistica in cui Kropotkin innesta il suo lavoro. Diremo quindi qualcosa sui limiti di questa impostazione filosofica per concludere con la validità (e quindi anche con i limiti), oggi, della lettura di Kropotkin come scienziato e filosofo.

Spencer aveva riassunto nel cap. II del suo lavoro (The data of Ethics, London 1879) un pensiero che ammetteva due elementi importanti anche per la tesi di Kropotkin: lo sviluppo progressivo dei sentimenti, delle istituzioni e della società, e l’abbandono della forza per l’accettazione del mutuo appoggio. Così egli scriveva: «Siamo arrivati alla conclusione che l’etica ha come suo oggetto la forma che la condotta universale assume durante gli ultimi stadi della sua evoluzione. Abbiamo anche concluso che questi ultimi stadi sono quelli messi in opera dal tipo più alto di essere quando, per l’aumento del numero, è costretto a vivere sempre più in presenza dei suoi simili. E ne è seguito il corollario che la condotta raggiunge la sanzione etica a misura che le attività, divenendo sempre meno militari e più industriali, sono tali da non richiedere le offese e gli ostacoli reciproci, ma si accordano piuttosto con la cooperazione e il mutuo appoggio, e ne traggono forza di sviluppo». (Ib., ns. tr., cap. II).

Wilhelm Wundt aveva scritto: «Nel corso di ogni sviluppo individuale o sociale si generano valori spirituali che non erano originariamente presente nelle loro qualità specifiche, e questo vale per tutti i valori, logici, estetici ed etici». (Logik, vol. II, ns. tr., Stuttgart 1921, p. 264). E altrove: «Lo scopo della filosofia consiste nella ricapitolazione delle conoscenze particolari in una intuizione del mondo e della vita che soddisfi le esigenze dell’intelletto e i bisogni del cuore». (System der Philosophie, ns. tr., Leipzig 1889, p. 1). Questi “bisogni del cuore” sono la caratteristica della battaglia che una parte del movimento evoluzionista combatteva contro la parte sostenitrice del materialismo meccanicistico (Du Bois-Reymond, Haeckel, Le Dantec). L’appello ai sentimenti di Kropotkin, la sua utilizzazione dell’entusiasmo sono nettamente da collocarsi in questa prospettiva filosofica. Per quanto possa sembrare remoto, sullo sfondo, c’è una buona parte di Pascal, il Pascal scienziato, non lo scienziato obnubilato dal misticismo, beninteso. Scrive esattamente C.-A. Sainte Beuve: «In Pascal (non bisogna mai perdere questa chiave) il ragionamento non si separa dal sentimento. Pascal, servendosi del solo ragionamento, non pensa di giungere alla dimostrazione desiderata: ma nel medesimo istante il cuore si rivolta, dice a se stesso che quel nulla non può essere; e questo movimento disperato lo precipita nel cristianesimo. Quelle colonne o quelle piramidi del deserto, come le chiamava Chateaubriand, non sono più in piedi oggi; sono state religiosamente demolite, e ci si è adoperati a rimetterne le pietre com’erano, giacenti a terra, a metà sepolte nella cava, a metà tagliate nel blocco. È il risultato più netto di questo gran lavoro critico sui Pensieri. Evidentemente il libro, nel suo stato di decomposizione, e traforato com’è, non può più avere alcun effetto di edificazione sul pubblico. Come opera apologetica, si può dire che ha fatto il suo tempo. Non è più che una prova straordinaria dell’anima e del genio dell’uomo, una testimonianza individuale della sua fede. La questione è a tal punto divenuta personale, da generale che era, che un vivo dibattito (non si può averlo dimenticato) si accese anzitutto, non più per sapere se la causa di Pascal fosse fondata o meno, ma per esaminare se Pascal medesimo avesse avuto la fede, e in qual grado l’avesse avuta. Si credette di cogliere, in certe parole mozze, quelli che si chiamavano indizi del suo scetticismo. Peraltro una tale idea, secondo il senso ordinario che le si attribuisce, non poté reggere alla discussione. Che il libro di Pascal non aiuti più i lettori a credere, è forse abbastanza vero; ma che esso non provi quanto l’autore abbia profondamente creduto, questo sarebbe troppo forte. Così l’errore, nato da un primo equivoco, si è tosto chiarito. Questo libro dei Pensieri, nel suo insieme, così vestito di magnificenza, così armato di rigore e come di spavento all’esterno, e così tenero, così umile nel fondo, si raffigura ai miei occhi come un’arca di cedro dai sette recessi, rivestita di lamine d’oro e d’acciaio impenetrabile, e che, proprio nel centro, tiene celato ignudo, amoroso, doloroso, gioioso, il cuore più sanguinante e immolato dell’Agnello. San Giovanni, l’Apostolo dell’amore, ebbe mai più tenerezza e soavità sensibile di questo Archimede in lacrime a piedi della Croce? Pascal era per natura un grande scrittore, e non ha potuto impedirsi di esserlo. Ha avuto inoltre un accidente singolare, che è diventato una fortuna: il suo stile dei Pensieri, che sarebbe sempre rimasto così vero, lo sembra ancora più manifestamente, essendo stato colto così vicino alla sorgente e nel getto dello spirito». (Port-Royal, vol. III, ns. tr., Paris 1923).

Alfred Fouillée così descrive l’“idea-forza”: «L’idea, con le rappresentazioni, i sentimenti e i desideri che implica, è un incontro dell’interno e dell’esterno, è una forma che l’interno prende per l’azione dell’esterno e per la reazione propria della coscienza, implica perciò dei movimenti e non agisce dal di fuori, dall’alto di una sfera spirituale, sul corso materiale delle cose, tuttavia agisce». (L’évolutionisme des idées-forces, ns. tr., Paris 1890, p. XV). Questa idea particolare è quindi in grado, una volta messa in movimento, di generare un modo di vedere le cose, una credenza o, più esattamente, un ideale che, a sua volta, rende l’idea realizzabile. Tramite l’idea stessa si producono sentimenti e inclinazioni che svilupperanno essi stessi i mezzi della trasformazione dell’idea in realtà. (Cfr. A. Fouillée, Critique des systèmes de morale contemporaine, Paris 1887, p. 25). Anche per Kropotkin l’idealità diventa domani realtà. Dalla prevalenza dei motivi egoistici di oggi si arriverà alla moralità di domani che sarà altruistica e impersonale. Questa morale non ha obbligazioni in quanto non dice: “debbo dunque posso” ma “posso dunque debbo”.

Sviluppa il principio della solidarietà anche Paul A. Janet, filosofo francese che così affronta l’argomento: «Vi è fra gli uomini un vincolo interno che si manifesta mediante gli affetti, la simpatia, il linguaggio, la società civile, ma che deve essere qualcosa di più profondo di tutto ciò, nascosto nel più profondo dell’essenza umana. Essendo gli uomini vincolati da una comunità di essenza, nessuno può dire: ciò che riguarda gli altri mi è indifferente». (La morale, ns. tr., Paris 1874, p. 123). E più avanti, nello stesso libro: «La virtù è […] un atto libero e individuale che genera forme inattese di grandezza e di generosità. La forma inferiore della virtù è la forma legale che – senza nessuna spontaneità – segue fedelmente una regola data […]. Ma la vera virtù […] sfugge alla regola o piuttosto la crea». (Ib., p. 239). Il rapporto tra solidarietà e virtù è puntualmente sviluppato anche da Kropotkin, come pure il rapporto attivo delle idee sulla convivenza civile. Le idee, in Kropotkin come in Janet, fanno nascere le grandi imprese e svegliano i buoni sentimenti, agiscono cioè rendendo possibile quello che la sola scienza e la sola natura, in un rapporto diretto e isolato, non riuscirebbero mai a causare. Molto perspicace l’analisi di Karl Jaspers: «Poiché nell’esserci la comunicazione è un processo e non un compimento, nella sua realtà è cosciente della propria mancanza. Questa mancanza si rivela in forme diverse: ora come impulso, ora come componente indispensabile della manifestazione, ora come limite inafferrabile che scuote. Esperienza indeterminata della mancanza di comunicazione. È tipico dell’esperienza giovanile non sapere cosa si vuole. Se rifiuto di sottomettermi interiormente alle convenzioni sociali e a un interesse incondizionato nascondendo in questo modo qualcosa d’essenziale che è ancora sconosciuto; se non trovo soddisfazione nel contatto impersonale con quanti si applicano a contenuti oggettivi in cui, a prescindere da qualsiasi soddisfazione che può nascere dalla comunità, ha luogo solo una comprensione distaccata di contenuti; se non sopporto quella diffusa tendenza che, in base alla comunità d’interessi, riunisce i nostri esserci nelle situazioni in cui si manifesta e nella reciprocità di riconoscimenti che da essa risulta senza un’effettiva penetrazione, allora mi rendo conto della distanza inavvertita che esiste tra gli uomini, e del fatto che il mio non sentirmi interlocutore di nessuno determina, nei confronti dei miei simili, una vicinanza solo esteriore e una profusione di parole. Se ad animare questo atteggiamento c’è la nobile speranza di voler evitare ogni sorta di ingannevole illusione, alla radice c’è la consapevolezza di venir meno nei confronti del prossimo. Col mio amare ed il mio essere-amato non soddisfo la mia cordialità e stabilità, se l’espressione di questi sentimenti non si inserisce nell’origine di quel processo indefinito da cui tutto sembra dipendere, una volta che ci si è resi conto che l’autentico se-stesso può essere deciso solo nel rapporto con l’altro. Vorrei trovare la parola e perciò continuo a cercare, se però muoio la parola non è detta, l’essenziale non è stato fatto [...], la comunicazione assoluta non s’è veramente realizzata. Di fronte alla mancanza di comunicazione gli uomini che sono vicini per un prolungato vincolo del loro esserci nella situazione concreta avvertono certamente, anche se indistintamente, il dolore che si prova di fronte a qualcosa che va in rovina. Non nasce cioè quel momento culminante in cui la coscienza comunicativa dell’esistenza annulla a tal punto il dolore che sorge dal dissolvimento di ogni manifestazione temporale da non consentire, al limite della coscienza assoluta, di avvertire la tristezza della fugacità. C’è solo una comunicazione possibile, non una comunicazione chiara e reale. Nella tristezza che irrompe c’è solo un anelito di comunicazione, la parola, il fatto e la verità non sono propriamente presenti. Ombra che non ci sia nulla da apprendere, nessuna reale carenza da eliminare, nessun compito da abbracciare; si è buoni l’uno con l’altro, si parla, si considera, si è disponibili; non si accetta alcuna forma di superficialità e si tace. Ci sono sentimenti particolari che manifestano in diverse forme il dolore che nasce dalle possibilità non realizzate della comunicazione. Sollecitando l’interiorità, essi non hanno alcun valore nel mondo, dove addirittura sembrano insignificanti, perché sono un delicato appello che proviene da un’indeterminata esigenza dell’esistenza. Mentre il nostro esserci vitale e sociale si attiene al senso delle cose finite, qui parla qualcosa che non si propone dei fini, ma in cui sembra che tutto sia in gioco; è come se l’eterno significato della comunicazione fosse presente come decisione dell’essere autentico. Silenzio. Tacere è un modo di non-agire, come tale esso paralizza solo la comunicazione empirica. Ma non sempre. Come attività specifica il silenzio svolge una funzione nell’ambito stesso della comunicazione. La possibilità di tacere esprime la forza del sé-stesso disposto alla comunicazione. Il silenzio che ha luogo nella comunicazione autentica non è il silenzio che si ostenta per provocare la parola dell’altro, né il silenzio altero che si impiega per darsi importanza, per assumere un tono di superiorità, per far intendere che ci sarebbe qualcosa che si potrebbe sapere o dire, non è neppure il silenzio che nasce dalla compassione quando non si vuol dire la verità, o, quando, senza comunicazione, si agisce e si aiuta tacendo; infine non è il silenzio con cui io interrompo bruscamente la relazione. Il silenzio è il momento di tacere nella continuità di un processo comunicativo. Questo silenzio è tanto un’oppressione quanto una colpa. Se l’altro lo nota, ci soffre. Solo la comune sospensione della parola che tace per rinviare la comunicazione potrebbe giustificare il silenzio. Nell’intervallo, che in questo modo inevitabilmente si crea, ci si dispone a un’attesa, si attende, cioè, che giunga l’ora della reciproca apertura». (Filosofia, tr. it., Torino 1978, pp. 544-546).

Una delle voci più autorevoli è stata quella di Edvard Alexander Westermarch. Così affronta il problema dell’universalità della benevolenza e del corrispondente ideale di solidarietà: «Ma il dovere di aiutare il bisognoso e di proteggere quelli che sono in pericolo va oltre i limiti della famiglia e della gens. I popoli non civilizzati sono normalmente descritti come gentili verso i membri della propria comunità o tribù, tra loro la carità è prescritta come un dovere, e la generosità è lodata come virtù. Anzi le loro consuetudini, per quanto riguarda il mutuo appoggio, sono spesso molto più rigorose delle nostre». (The Origin and Development of Moral Ideas, vol. I, ns. tr., London 1906-1908, p. 540). Questo ideale di unità morale fondato sulla solidarietà contribuisce a modificare il sentimento dell’“io” in un sentimento del “noi”, mentre il bene non diventa più quello personale ma quello dell’intero gruppo. Scrive Jane Addams: «L’individuo perde a poco a poco il senso dell’affermazione personale e si accontenta di realizzare la sua attività soltanto in connessione con l’attività degli altri […] mentre l’animazione e l’edificazione che si generano con la simpatia e l’intelligenza individuale vengono prese nel movimento intuitivo della massa». (Democracy and Social Ethics, ns. tr., New York 1902, pp. 272-275).

Ma Jean-Marie Guyau resta il più rappresentativo di un clima, come è dimostrato dal fatto che lo stesso Kropotkin gli dedica parecchio spazio nell’Etica. La morale secondo questo autore non deve schiacciare la vita dopo essere stata prodotta dalla vita stessa, al contrario deve svilupparla in ogni senso. Anche la cellula più piccola – dice Guyau – possiede un principio di espansione, per cui tanto più ricca è la vita, tanto maggiormente è adatta a fare qualcosa per gli altri. L’ideale è quindi la solidarietà e la vita in comune. Ma per provare questo ideale la sola scienza non basta, occorre anticipare la scienza come l’idea che illumina l’ideale. Poeticamente egli scrive: «Noi siamo come sul Leviatano a cui un’onda aveva strappato il timone e un colpo di vento aveva divelto l’albero maestro. Era perduto nell’oceano, come la nostra terra perduta nello spazio. Esso andò così a caso, spinto dalla tempesta, come una grande cosa abbandonata, con sopra degli uomini, e giunse tuttavia. Forse la nostra terra, forse l’umanità giungeranno anch’esse al fine ignorato che si erano create da se medesime. Nessuna mano ci dirige, il timone è spezzato da tempo, o meglio, non c’è mai stato, bisogna farlo, è un gran compito, ed è il nostro compito». (Esquisse d’une morale sans obbligation ni sanction, ns. tr., Paris 1885, pp. 251-252). Il problema del superamento della situazione oggettiva, che altri autori avevano indicato come qualcosa di meccanicamente condizionante lo sviluppo morale dell’individuo, viene visto da Guyau come problema di superamento dell’istinto. «L’uomo fa tutto ciò che fanno gli animali ed altre cose ancora, lo fa però sapendo ciò che fa e perché lo fa, la sola consapevolezza dei propri atti sembra liberarlo da tutti gli istinti che lo spingerebbero necessariamente a compiere gli stessi atti». (La morale anglaise contemporaine, ns. tr., Paris 1879, p. 330). Infine il problema del contrasto tra individualità che avanza le sue giuste pretese e socialità che si compone per gradi sempre più ampi, è affrontato da Guyau ancora una volta con grandi parole poetiche: «Il poeta che sente tutto ciò che vi è d’individuale anche in un fiore, anche nel raggio di luce che lo colora, anche nella goccia d’acqua che lo disaltera, vorrebbe immortalare la natura intera. Egli vorrebbe l’eternità per una goccia d’acqua del colore del diaspro, per l’arcobaleno di una bolla di sapone, vi saranno mai forse due bolle identiche nella natura? E mentre che il poeta vorrebbe tutto trattenere, tutto conservare, non soffiare su nessuno dei suoi sogni, fermare l’oceano della vita, lo scienziato risponde che bisogna lasciare che scorra l’onda eterna, che salga la grande marea ingrossata dalle nostre lacrime e dal nostro sangue, lasciare la libertà all’essere e al mondo. C’è per lo scienziato qualcosa di più sacro dell’amore individuale: è il flusso, il riflusso, il progresso della vita». (L’irréligion de l’avenir, ns. tr., Paris 1887, pp. 463-464).

Parliamo adesso dei limiti di questa filosofia. Come abbiamo detto Kropotkin oltre a risentire del clima culturale fortemente determinato dalle ricerche di Darwin e di Spencer, nel corso dei suoi fruttuosi anni di studio partecipò a un dibattito teorico e scientifico caratterizzato oltre che dai suoi interventi anche dai lavori dei filosofi che abbiamo sopra citato. Oggi questa corrente di pensiero, definita come etica naturalistica, non trova molto credito nei santuari accademici. Non è qui il luogo più adatto per preoccuparci di queste scomuniche emanate da coloro che professano il materialismo oggi con la stessa disinvoltura con cui ieri professavano lo storicismo assoluto di Croce. Viceversa ci pare utile tracciare alcune indicazioni in merito ai limiti reali delle ricerche condotte dal naturalismo etico, limiti che appaiono ancora più evidenti oggi, alla luce delle esperienze di questi ultimi decenni. Correttivo il punto di vista pessimistico? Non credo. Basta leggere queste riflessioni di Frederick Copleston: «Per Schopenhauer invece, la negazione di sé significa la negazione della propria natura interiore, non solo la negazione della propria individualità fenomenica, ma anche la negazione della propria intima essenza, l’identità con la volontà; e il culmine della santità è insieme la negazione del proprio essere e della realtà ultima, sicché il valore cresce e la santità cresce quanto più ci si avvicina alla completa vanificazione: posizione paradossale! Ancora Schopenhauer asserisce una dottrina del determinismo del carattere, una dottrina che, se è mantenuta coerentemente, è incompatibile con la discriminazione etica e i giudizi morali fondati su criteri assiologici. Pure, dopo aver affermato il determinismo, ammette in casi eccezionali la libertà, come deus ex machina. Inoltre, se il determinismo del carattere fosse vero, non metterebbe in forse questo principio la validità obiettiva della filosofia e della Weltanschauung di Schopenhauer? La filosofia di Schopenhauer è una filosofia del pessimismo, e presumibilmente, per la teoria stessa di Schopenhauer, dovrebbe essere considerata come il risultato del suo carattere pessimistico; sarebbe così in relazione al suo carattere e non potrebbe essere considerata come l’espressione di una verità assoluta. In ogni caso sembra impossibile ottenere una qualche teoria reale del valore a partire dalle premesse di Schopenhauer. Non voglio dire evidentemente che la sua teoria morale è interamente priva di valore; essa almeno manifesta ed esige rispetto per la simpatia disinteressata per l’amore e per la vita ascetica e questo rispetto gli fa onore, anche se le sue ragioni per fondarlo e la sua spiegazione della virtù e della santità sono inaccettabili: non è di tutti l’avere un ideale di condotta così nobile e sublime come quello di Schopenhauer. Anche se non ci fosse Dio e la teologia non avesse alcun fondamento, uno spirito privo di pregiudizi ammetterebbe che il mondo sarebbe più povero senza le vita. [...]. Un milionario “filantropo” non è la stessa cosa di un santo. Ma mentre sono lontano dal dire che l’ideale di condotta proposto da Schopenhauer è interamente privo di significato, affermo che il suo sistema non dà un fondamento adeguato ai valori positivi ammessi ed è incompatibile con essi, perché la santità è in effetti qualcosa di positivo. Nelle Due fonti della morale e della religione Henry Bergson parla dei santi e dei mistici come di grandi uomini d’azione, come di gente che ha una prise de conctat con la Fonte della Vita e che irradia ed esprime nell’azione la vita e l’amore di cui è inondata; ma, mentre per Bergson la realtà ultima è Vita ed Amore positivo, e la santità implica una partecipazione piena alla Vita e all’Amore, per Schopenhauer la santità non può significare che meno vita, dal momento che la vita è male e sofferenza. In altre parole, sebbene esaltò la santità, Schopenhauer non la comprese, e la sua raffigurazione di essa è una raffigurazione distorta, ed inevitabilmente tale, se si considera la sua metafisica». (A. Schopenhauer. Philosopher of Pessimism, ns. tr., London 1947, pp. 196-197).

Il primo punto è dato dal particolare concetto di “progresso”. In questo senso scrive Nicola Abbagnano: «L’arricchimento stesso che nel processo storico si verifica in quanto è progresso incessante, è effettuato dall’universale ma non lo riguarda: riguarda soltanto il nostro concetto di esso. Il tempo, nella sua natura specifica, appare da questo punto di vista come pura illusione: nella sua verità esso si identifica con l’ordine razionale assoluto. Le tappe di questa identificazione determinano fasi diverse dello storicismo. Dapprima dalla storia ideale e eterna si distingue una storia nel tempo che è prodotta dalla prima ed è di essa una riproduzione imperfetta. Si ammette che nel tempo sussista, sia pure come apparenza, l’accidentale e il contingente. Il tempo conserva in questa prima fase una certa consistenza, sia pure inferiore e provvisoria, che impedisce la sua risoluzione radicale nell’eterno. Ma la fase più matura dello storicismo nega pure questa consistenza apparente del tempo. Essa afferma risolutamente l’identità del razionale e del reale, dell’ordine cronologico con l’ordine ideale. Esclude, ogni elemento accidentale e arbitrario, ogni contingenza, identifica la libertà con la necessità dello sviluppo dialettico. In questa fase il tempo si è completamente volatizzato; e con esso si è volatizzato l’individuo, e tutto ciò che all’individuo si connette: la contingenza, la libertà, il rischio e la responsabilità. L’identificazione del tempo con l’eterno e la riduzione che essa implica della storia all’eterno, portano lo storicismo allo stesso risultato fondamentale dell’antistoricismo: alla negazione del tempo, alla sua esclusione totale dalla natura dell’uomo». (Introduzione all’esistenzialismo, Torino 1957, pp. 132-133). La direzione in cui gli esseri viventi si sono sviluppati – sostiene l’etica kropotkniana – è sostanzialmente quella del progresso. Ciò che è più evoluto è anche sostanzialmente migliore. Si tratta di una legge organica necessaria che consente lo sbocco definitivo del mutuo appoggio, della giustizia e della morale. Niente da dire su questa tesi. Però il problema sorge non appena ci chiediamo in che modo essa possa servire da guida per il futuro, in che modo può effettivamente sollecitare lo sviluppo di quell’entusiasmo rivoluzionario che è caratteristico della vera morale. Perché questo si verifichi occorre sapere con migliore approssimazione in che cosa consiste questa superiorità di ciò che è maggiormente evoluto. Se l’evoluzione è progresso nel suo insieme ciò non garantisce che ogni singolo momento del più evoluto sia migliore del corrispettivo momento del meno evoluto. Siccome noi abbiamo bisogno di orientarci all’interno dei diversi momenti in cui la vita si estrinseca, abbiamo anche bisogno di saperne di più, non possiamo limitarci ad una valutazione positiva generica dell’evoluzione nel suo insieme. Per arrivare a distinguere ciò che costituisce un miglioramento da ciò che segna un regresso. Sviluppato questo modo di procedere ci si accorge che la stessa teoria dell’evoluzione nel suo complesso come sinonimo di progresso viene a cadere. Non a caso Kropotkin, davanti alla dichiarazione di guerra degli Imperi centrali contro le democrazie borghesi credette opportuno decidersi e suggerire il Manifesto dei Sedici, senza rendersi conto che questo contribuiva a spezzare il movimento anarchico in modo estremamente grave. Scendendo al di sotto della tesi complessiva dell’evoluzione, nei suoi singoli momenti, non ci si può affidare a una legge necessaria e organica, una legge di progresso, ma occorre indicare metri valutativi più idonei all’azione.

Il secondo punto è dato dal particolare criterio che l’evoluzione ci fornisce di che cosa si debba considerare “migliore”. Riguardo il problema dell’origine dell’idea di “evoluzione”, Nicolai Hartmann scrive: «La filosofia della natura di Schelling è un tipo puro di filosofia dell’unità. L’idea metafisica che sta alla sua base è l’idea dell’identità: unità di natura e spirito, uguaglianza sostanziale dello spirito in noi e della natura fuori di noi. La natura non è delimitata dall’esteriorità, né lo spirito dall’interiorità: anche fuori di noi comanda il medesimo spirito, anche in noi la medesima natura. Questa dottrina è anche filosofia dell’unità entro il regno della natura; natura organica ed inorganica non sono per essa due diverse nature con princìpi fondamentali diversi. Schelling respinge la teoria meccanicistica delle forme inorganiche e, anzitutto, degli organismi; però respinge anche la teoria vitalistica tradizionale, la quale discorreva di una particolare forza vitale negli organismi, che sarebbe estranea alla natura non organizzata; egli deve respingere entrambe tali teorie, perché l’intera natura, senza differenze di sorta, è per lui organizzata. La sua esigenza di una spiegazione fisica unitaria della vita e del non vivente significa, dunque, proprio l’opposto di quella meccanizzazione della vita la quale, quando si presenta come dottrina, si annuncia sempre con la stessa esigenza. Meccanismo ed organismo non formano infatti, per il suo punto di vista, un’opposizione fondamentale. Già le forze fisiche fondamentali contengono il principio della vita. Parimenti, la molteplicità polimorfa degli organismi e la tipicità delle specie, costante secondo la considerazione umana, non possono significare, per lui, una originaria scissione della vita in altrettante forme autonome; esse significano piuttosto che, attraverso la gran quantità dei tipi, deve governare un principio unitario di evoluzione, il quale lega tutto ciò che si è scisso per l’intelletto finito. L’idea di una discendenza universale è la semplice conseguenza dell’unità precedentemente introdotta. Se una tale idea di discendenza, puramente metafisica, possa avanzare la pretesa di avere consistenza scientifica è, naturalmente, un’altra questione. Ma non si deve misconoscere il fatto che la dottrina dell’evoluzione da quel tempo si è mantenuta, presso una serie di importanti ricercatori, entro il quadro di questa concezione metafisica, e che essa è stata portata alle sue più importanti scoperte attraverso tale concezione». (Die Philosophie des deutschen Idealismus, vol. I, ns. tr., Berlin 1960, p. 115). Se non possiamo fare coincidere evoluzione e progresso, possiamo forse usare l’evoluzione come strumento per identificare che cosa sia meglio fare dal punto di vista etico. Ciò però comporta una preliminare identificazione del bene. Kropotkin ritiene di poterlo individuare con la vita, con i sentimenti più alti, con la bellezza, con l’entusiasmo rivoluzionario. Ma questo bene non era necessario allora valutarlo sulla base dell’evoluzione. Se questa si prospetta come criterio di valutazione di tale bene, quest’ultimo diventa, a sua volta, criterio di giustificazione dell’evoluzione, non avendo senso parlare di evoluzione in assenza della vita, dei sentimenti, della bellezza e dell’entusiasmo. Sarebbe per altro estremamente grave pretendere di identificare questi aspetti del bene come positivi solo perché sono anche gli aspetti finali dell’evoluzione. Il mutuo appoggio non è soltanto una confortante osservazione sulla natura evoluta che ci fa bene sperare per la futura società anarchica, è anche una delle componenti del meccanismo evolutivo della specie in contrasto con altre componenti, ma noi non lo consideriamo tanto importante per la nostra lotta rivoluzionaria perché fa parte del meccanismo evolutivo, ma soltanto perché ci assicura sulla possibilità di funzionamento dell’anarchia che verrà.

Il terzo punto riguarda una possibile riduzione della prospettiva evoluzionista a semplice “possibilità”. Su questo punto Guido Calogero ha scritto: «C’è qualcosa d’indiscutibile alla base di ogni nostra discussione, ed è, per ciascuno di noi, la sua stessa volontà di discutere. Più precisamente: ciascuno di noi – per animato che si senta dallo spirito della discussione, cioè volontà d’intendere gli altri e di comprendere le loro ragioni, sottoponendo perciò alla loro critica ogni suo più solido argomento, e con la sincera aspettativa della possibilità che tale loro critica non lo faccia più apparir solido, – una cosa ha tuttavia il diritto di considerare indiscutibile, cioè sottratta ad ogni eventualità di svalutazione dipendente da dissenso o da censura altrui. Tale cosa è, appunto, questa sua costante volontà d’intendere. Ogni altra sua tesi può essere revocata in dubbio dal suo interlocutore, ed egli ha il dovere di esaminarne le ragioni: ma questa disposizione ad intendere, questo principio del colloquio, questo nessuno può revocarlo in dubbio nel suo spirito, se egli non vi rinunzia da sé. Come infatti potrebbe obbedire all’altrui richiesta di non essere inteso, senza perciò intenderlo, e quindi senza disobbedirgli? Questo principio è quindi il vero absolutum, nel senso di essere “assolto” da ogni necessità di conferma altrui, nello spazio e nel tempo; ed è quindi la sola piattaforma stabile nell’immenso mare storico dell’indefinitività, la sola sicura indicazione che permetta di sfuggire sia alle angosce dello scettico, incapace di trovare una sola norma costante d’azione per troppo rispetto delle possibili diverse opinioni altrui, sia alle sopraffazioni del dogmatico, convinto di dover considerare come bene per gli altri solamente ciò che egli pensa sia bene per lui stesso». (Filosofia del dialogo, Milano 1962, pp. 41-42). Quindi non più legge organica e necessaria, ma legge che presenta certe costanti le quali ci indicano che cosa è possibile raggiungere, quali scopi ci si possono prefiggere e con quale attitudine dobbiamo rivolgerci al futuro. Si tratta com’è chiaro di una posizione di ripiego che oggi trova però molto credito, posizione che consiste nel portare all’interno dei meccanismi sociali le motivazioni biologiche ed evolutive che giocano un ruolo non secondario. Ma è ben altra cosa della necessità organica di cui parlava Kropotkin. Comunque sembra sufficientemente chiarito oggi che non si può rapportare e sovrapporre, senza opportune considerazioni, evoluzione e progresso. Fare ciò sarebbe vana tautologia, inutile ripetizione. Sarebbe come dire che dobbiamo indirizzarci verso la direzione dell’evoluzione perché è la direzione dell’evoluzione. Lo stesso non possiamo sovrapporre semplicemente la nozione di bene alla nozione di natura. La credenza, molto confusa, che in qualche maniera il bene operi nella stessa direzione della natura non è più sostenibile. Bisogna sfatare il mito della perfezione della natura e ciò è tanto più urgente quanto più in profondità oggi l’uomo e le sue contraddizioni sono penetrati all’interno delle proprietà delle cose, della struttura del reale, causando sconvolgimenti tali che la “natura”, nel senso di ciò che esiste, quindi nel senso di ciò che costituisce l’oggetto della scienza naturale e anche della psicologia, ha anch’essa assunto la caratteristica delle contraddizioni di classe. Il “vivere secondo natura”, nella società moderna, è diventato un affare di miliardi di dollari, oltre che uno degli elementi più penetranti dell’addormentamento sociale e della costruzione dell’uniformità ripetitiva dei gusti e delle aspirazioni. Anche gli stoici insistevano nel vivere secondo natura, ma quello che essi pensavano fosse la natura era un’evidente costruzione metafisica, una proiezione della loro concezione del mondo, quindi il loro detto significava soltanto vivere secondo quello che pensavano fosse la natura e non secondo la natura vera e propria. La distinzione che sta alla base dell’etica naturalistica è pertanto quella che mette da un lato la natura, con la sua bontà intrinseca, e da un altro lato il campo delle attività umane, con uno sviluppo di bontà che si contrappone alla cattiveria: ebbene oggi questo campo dell’attività umana è penetrato profondamente nella natura arrivando a sconvolgere il meccanismo intrinseco di quest’ultima. Ed allora? Dobbiamo per questo abbandonare ogni fiducia sul destino positivo dell’uomo e delle sue cose solo perché la natura si è inquinata e le sue leggi non hanno più quell’aspetto deterministicamente rassicurante che la caratterizzava alla fine dell’Ottocento? Certamente no. La lotta rivoluzionaria penetra anche all’interno della natura, ed è la volontà dell’uomo in lotta che recupera quei grandi valori della società, del mutuo appoggio, della giustizia, dell’altruismo che un dissennato sfruttamento ha cercato di far venire meno al meccanismo naturale. Oggi il capitalismo non si limita più a interrogare la natura aspettando di cogliere i frutti che beneficamente questa dona agli uomini, esso la sconvolge, la penetra, la costringe a cedere quello che di più intimo essa possiede, ben al di là di quel processo naturale di sviluppo che ha sempre avuto tempi suoi e ritmi diversi da quelli dello sfruttamento. Il capitalismo ha assoggettato la natura al grado di strumento di produzione, quindi l’ha ridotta alla legge di mercato. In questo modo il campo naturale è diventato anch’esso campo dello scontro di classe. L’insegnamento di Kropotkin è oggi valido nei termini in cui consente un’apertura alla lotta, allo scontro di classe, al salto qualitativo, ma nei termini in cui è descrizione di un idilliaco quadro naturale fondato sul determinismo non è utilizzabile.

Il quarto ed ultimo punto si riassume nel problema dell’“ideologia”. Scrive Hans G. Gadamer: «Una teoria dell’ermeneutica del profondo che deve giustificare una riflessione emancipatrice e critica della società o che perfino si aspetta che la teoria generale del linguaggio naturale consenta di “dedurre il principio del discorso razionale come regolativo necessario di ogni discorso reale, per quanto contraffatto”, implica invece, specialmente rispetto all’organizzazione del moderno Stato sociale e dei modi di formazione dell’opinione in esso, contro la sua stessa volontà, il ruolo dell’ingegnere sociale che raggiunge risultati, ma non rende liberi. Questo ruolo gli conferirebbe, quale padrone dei mezzi di pubblicità e della verità da lui pretesa, il potere di monopolio dell’opinione. E questa non è certo un’ipotesi fittizia. La retorica non può essere del tutto fuori questione, come se non se ne avesse bisogno e se da essa non dipendesse nulla. Certo, retorica ed ermeneutica come forme di compimento della vita non sono indipendenti da quello che Habermas chiama l’anticipazione della vita giusta. Una tale anticipazione si trova alla base di ogni partnerschaft sociale e dei suoi sforzi di intendersi. Ma anche qui vale la stessa considerazione: lo stesso ideale della ragione che deve guidare ogni tentativo di persuasione, da qualsiasi parte provenga, proibisce al tempo stesso che qualcuno pretenda di avere per sé l’esatta visione dell’accecamento dell’altro. L’ideale di una vita comune in un rapporto di comunicazione senza costrizione è perciò tanto impegnativo quanto indeterminato. In questo quadro formale si possono inscrivere scopi di vita molto diversi. Anche l’anticipazione della vita giusta, essenziale in effetti a ogni ragion pratica, deve concretizzarsi, cioè deve prendere coscienza dell’opposizione nettissima tra cose semplicemente desiderabili e scopi autentici del volere attivo. Quel che mi preme chiarire è, in fondo, un vecchio problema che già Aristotele ha presente nella sua critica all’idea universale del bene in Platone. Il bene umano è qualcosa che si incontra nella prassi umana, e non può essere determinato senza la situazione concreta in cui qualcosa viene preferito a qualcos’altro. Questo soltanto, e non un’intesa contraffatta, è l’esperienza critica del bene, e il bene deve essere elaborato fino a farlo incontrare con la concretezza della situazione. Come idea universale una tale idea della vita giusta è “vuota”. Questo implica il fatto, di molto peso, che il sapere della ragion pratica non è un sapere consapevole della propria superiorità rispetto a chi non sa. Piuttosto qui ciascuno pretende di sapere quello che è giusto per la totalità. Ma questo significa per la vita sociale degli uomini dover necessariamente convincere gli altri – certo non nel senso che ora politica e formazione della vita sociale non sarebbero altro che una semplice comunità di dialogo, per cui ci si vedrebbe rinviati al dialogo libero da costrizione, come vero rimedio e terapia, escludendo ogni pressione di dominio. La politica esige che la ragione porti gli interessi alla formazione di volizioni, e tutte le manifestazioni sociali e politiche sono dipendenti dalla costruzione di convinzioni comuni mediante la retorica. Questo implica, ed io credo questo rientri nel concetto di ragione, che si debba sempre fare i conti con la possibilità che la convinzione, tanto in campo individuale quanto in quello sociale, possa essere giusta. La via dell’esperienza ermeneutica che, non ho difficoltà a riconoscerlo, ha rielaborato in sé contenuti specifici della tradizione occidentale della Bildung, mi ha condotto a riprendere un concetto passibile, chiaramente, delle più vaste applicazioni, e cioè il concetto di gioco. E questo non soltanto nel senso delle moderne teorie del gioco in economia. Tale concetto riflette piuttosto, credo, la pluralità insita nell’esercizio della ragione umana, come pure la pluralità includente in sé forze tra loro opposte facendone un tutto unitario. Il giuoco delle forze si integra mediante il giuoco delle convinzioni, delle argomentazioni e delle esperienze. Lo schema del dialogo, se rettamente applicato, conserva la sua fecondità: nello scambio delle forze, come misurarsi delle opinioni, si costruisce una comunità che va oltre il singolo e il gruppo a cui il singolo appartiene». (H. G. Gadamer, in Aa. Vv., Hermeneutik und Ideologiekritik, ns. tr., Frankfurt a. M. 1971, pp. 316-317). Il potere e la sua azione sono organizzazione dello sfruttamento e della mistificazione. Senza il primo la seconda sarebbe un’inutile esercitazione, senza la seconda il primo sarebbe impossibile. Non possiamo sottintendere qui un rapporto diretto tra sviluppo della borghesia capitalista alla fine dell’Ottocento in Europa e teoria dell’evoluzione, anche perché questo tipo di indagine è sempre parziale e inquinata da un diverso determinismo (quello economico), ma dobbiamo sottolineare che il sospetto di questo problema non balena in Kropotkin, ed è uno dei limiti più grossi. Ci pare comunque possibile discutere di un’ideologia dell’evoluzione, se non altro a livello di specificazione della tendenza ideologica sempre implicita nella scienza, tendenza che per alcuni aspetti costituisce la conseguenza necessaria della situazione di divisione del lavoro in cui lo stesso scienziato opera. Kropotkin avverte meno questo aspetto del problema, anche a livello oggettivo dell’analisi che porta avanti, e ciò perché in fondo in lui il militante rivoluzionario non si spegne mai e spesse volte riesce a mettere il bavaglio all’ottimismo determinista dello scienziato. Forse questo limite sarebbe stato superato nel secondo volume mai scritto dell’opera, per altro iniziato ad elaborare nel clima terribile provocato in Russia dalle delusioni della rivoluzione tradita dai bolscevichi. Ma si tratta di illazioni che nulla autorizza a sviluppare. In fondo dalle lettere a Lenin, scritte in questo periodo, non traspare il sospetto di un terribile rapporto negativo tra ideologia e rivoluzione. Fino all’ultimo momento della sua vita Kropotkin rimase coerente con le sue idee ma anche con i suoi errori.

Indicati i limiti che sono rintracciabili oggi nella posizione teorica di Kropotkin ci sembra giusto concludere con i lati positivi. Alcuni amano sottolineare le riflessioni sui problemi dell’organizzazione produttiva e in particolare le idee sull’abitabilità dello spazio e sull’evoluzione urbana, sulla diminuzione del concentramento industriale e sulle piccole comunità. In questo modo Kropotkin si inserisce in un movimento riformista che intende proporre modificazioni ai contrasti strutturali dello Stato e del potere. Kropotkin invece cerca sempre di dimostrare che la gente può stare meglio, non che lo Stato la può fare stare meglio. Contro lo Stato Kropotkin fu sempre, potendosi isolare facilmente l’episodio del Manifesto dei Sedici e il periodo del ritorno in Russia con le relative illusioni per altro ben presto tramontate. Il contrasto descritto da Kropotkin tra tradizione romana e tradizione federalista, contrasto che viene fatto corrispondere con quello tra tradizione autoritaria e tradizione libertaria, è sempre contrasto tra Stato e libera associazione federata. Martin Buber, ammiratore di Kropotkin ma sostenitore dello Stato assistenziale, critica la tesi del contrasto sopra descritto: «Certo, il concetto di Stato di Kropotkin è troppo angusto, non è lecito identificare lo Stato accentrato con lo Stato in genere. Nella storia non c’è soltanto lo Stato-morsa che soffoca l’individualità delle piccole associazioni, ma anche lo Stato-cornice nel cui ambito esse si combinano». (Sentieri in utopia, tr. it., Milano 1967, p. 51). Proprio qui si colloca una delle tesi più chiare di Kropotkin: la negazione che lo Stato possa diventare qualcosa di utile per successive modificazioni interne, tesi che costituisce anche il suo punto di maggiore allontanamento da Spencer.

Ma in Kropotkin c’è di più. Malgrado la strana sorte che riserva all’entusiasmo rivoluzionario, costretto ad alimentare gli ideali della nuova società attraverso il motore delle idee che trovano fondamento solo sulla scienza, questo entusiasmo è un fatto concreto, ancora oggi tangibile per ogni lettore dei libri di Kropotkin. Ci si entusiasma difatti leggendo L’Etica e ci si sente sicuri che la nostra lotta avrà lo sbocco finale che ci auguriamo, che saremo capaci di distruggere lo sfruttamento, cancellare ogni sorta di sopruso, eliminare per sempre la storia dei padroni e scriverne una nuova fondata sulla fratellanza, sulla solidarietà, sul mutuo appoggio. Ci si entusiasma. E quando le dure lezioni della realtà ci colpiscono in faccia, brutalmente, il ritornare all’ottimismo di Kropotkin, alla sua visione evolutiva del progresso dell’uomo e della società, alla sua fiducia nelle possibilità meravigliose dell’avvenire, ci dà una forza che altrove non possiamo trovare: la forza che viene dall’entusiasmo rivoluzionario.


Catania, 6 ottobre 1980

* * * * *

I critici confondono verbosità e respiro, prolissità e potenza. Tutti questi romanzi illeggibili di cui si dice tanto bene: preferirei essere condannato a morte piuttosto che leggerli. Mi dà talmente fastidio in un libro ciò che è inutile, di troppo, che ben pochi sono quelli che riesco a cominciare. A qualsiasi pagina apra un libro, avverto subito quello che vi è di superfluo, insomma tutti quei riempitivi a cui comunemente si dà il nome di “letteratura”. Se di qualcosa sono debitore ai moralisti francesi è il culto della concisione, l’orrore del vaniloquio, la percezione che ho dell’impostura nelle lettere, in filosofia e nel commercio quotidiano. Ora, per me, verbosità e impostura sono termini equivalenti”.

(Emil Cioran, Quaderni 1957-1972)

Letteratura russa

Frutto di una serie di conferenze sulla letteratura russa che Kropotkin tenne a Boston nel marzo del 1901, questo libro può anche oggi considerarsi come un’agile panorama degli scrittori e dei poeti russi del secolo XIX, un lavoro descrittivo che – apparentemente – sembra non aver impegnato molto il Kropotkin militante anarchico.

E, in effetti, coloro che hanno esaminato quest’opera di Kropotkin, anche i suoi biografi più completi, come George Woodcock e Ivan Avakumovic, hanno dedicato solo poche righe a quest’opera, concludendo per la sua importanza marginale e indicandola, al limite, come segno dei suoi vasti interessi culturali.

Le cose, però, ci pare non stiano propriamente così. Se la presente storia della letteratura russa resta un documento d’epoca, legato allo stato delle ricerche raggiunto negli anni in cui Kropotkin la elaborò (e lo stesso può dirsi per il suo lavoro sulla Grande rivoluzione), se oggi sono reperibili storie di quella letteratura molto più complete e documentate, in questa coesistono, accanto alle analisi letterarie sui singoli autori, e accanto alle considerazioni più ampie sulla storia del popolo russo (con le sue sofferenze e con i suoi sentimenti di classe), coesistono, dicevo, le direttrici interpretative che rendono riconducibile questa storia nell’alveo complessivo delle analisi realizzate da Kropotkin in quanto studioso e militante anarchico. Vogliamo dire che nemmeno in questo caso, come nemmeno nelle sue opere geografiche (e altrettanto appare palese per Élisée Reclus) sembra possibile una separazione tra scienziato e militante. Quando lo strumento tecnico del primo sembra prendere la mano al secondo, quando le difficoltà e le specificità dell’argomento sembrano staccare il secondo dalla realtà delle lotte, improvvisamente interviene la riflessione più ampia, più generale, che riporta il lettore alle considerazioni concrete, storiche, di fondo, strutturali, che resero e rendono possibili sia le produzioni artistiche del passato, sia le riflessioni analitiche su quelle produzioni.

Secondo noi si possono cogliere due di queste direttrici interpretative. La prima concerne le peculiarità del popolo russo, i suoi sentimenti, la sua storia ricca di dolorose esperienze, la sua sensibilità, in una parola quell’insieme di elementi che contribuiscono a determinare l’etnicità di un popolo. La seconda riguarda il compito degli intellettuali, scrittori e poeti, di fronte alla grande prospettiva di farsi interpreti di tutto quello che il popolo va elaborando faticosamente, allo scopo di dare corpo – in creazioni artistiche – a un patrimonio che si arricchisce sempre di più ma che risulta fruibile per tutti, in modo particolare, attraverso l’elaborazione artistica. Quest’ultima direttrice interpretativa comporta la conseguenza del compito dell’artista: farsi semplice interprete dell’animo del popolo, oppure diventare agente attivo e costruttivo del processo rivoluzionario?

Vediamo queste due componenti in modo dettagliato.

Giustamente Kropotkin comincia con lo sfatare il mito della “mistica anima slava”, secondo il quale questo popolo sarebbe portato verso la tristezza, come tutti i popoli orientali. Così posto il problema presenta aspetti a dir poco assurdi, tipici di qualsiasi affermazione che pretenda partire da moventi biologici dimenticandosi il fondamento storico. E, in realtà, se temi abbastanza costanti della letteratura russa sono proprio la tristezza e la morte, si può notare che una simile costanza si ripresenta nella letteratura di tutti i popoli che hanno subito invasioni e domini, stragi e genocidi, sfruttamento e miseria. In questi popoli, di già a livello di espressione popolare artistica (canti e racconti orali) si coglie come elemento ripetitivo il concetto di morte. La canzone più nota e diffusa in Sicilia, che viene cantata sul ritmo della ballata, parla di un teschio e di una vecchia che vede le proprie carni andare in putrefazione. E Kropotkin precisa: “La storia stessa della nazione russa, le incursioni dei Mongoli, dei Tartari, dei Turchi, colla consueta sequela di assassinii e schiavitù, la dura lotta con l’inclemente natura, l’immensità delle steppe, le sconfinate foreste, e più tardi poi la servitù della gleba, tutto ciò non poteva non lasciare profonde tracce di tristezza nel carattere russo”. (Prefazione alla seconda edizione).

Ci pare importante sottolineare queste intuizioni di Kropotkin che, comunque, non vengono da lui sviluppate nella misura in cui sarebbe stato necessario. In sostanza, il parallelo tra realtà del movimento degli sfruttati, che per la Russia aveva componenti eminentemente contadine e comportava tutta una serie di esperienze e tradizioni di vita comunitaria nelle campagne, e movimento rivoluzionario nel senso specifico, che aveva fino ad allora, cioè fino agli ultimi anni dell’Ottocento, preso le forme della cospirazione e del populismo, possiamo dire che gli sfugge. Intuisce che l’anima del popolo russo non è solo l’oggetto dell’esperienza estetica degli artisti russi, ma è essa stessa fatto artistico e quindi essa stessa deve trovare posto in una storia della letteratura, come fatto oggettivo da valutarsi anche in una prospettiva analitica, ma non solidifica questa intuizione in qualcosa di preciso, non arriva a cogliere bene il momento dello scambio proficuo che per ogni artista si registra nel momento creativo, nel momento in cui l’opera viene alla luce, momento che non è fatto individuale ma specificamente fatto collettivo. Veramente Kropotkin aveva spesso sottolineato questa necessità di contribuire a chiarire la componente collettiva, generale, popolare, nell’espressione artistica, in ogni espressione artistica, ma non si può dire che riesca a realizzare questo compito nel lavoro che presentiamo.

Altrove aveva scritto: «E l’arte? Da tutte le parti ci arrivano lamenti sulla decadenza dell’arte. Siamo lontani, in effetti, dai grandi maestri del Rinascimento. La tecnica dell’arte ha fatto recentemente degli immensi progressi; migliaia di geni, dotati di un certo talento, ne coltivano tutti i rami, ma l’arte sembra sfuggire il mondo incivilito. La tecnica progredisce ma l’ispirazione frequenta meno che mai gli studi degli artisti.

«Da dove verrebbe, in effetti? Una grande idea, sola, può ispirare l’arte. Arte è nel nostro ideale sinonimo di creazione, deve guardare in avanti; ma, salvo rare, rarissime eccezioni, l’artista di professione resta troppo ignorante, troppo borghese, per intravedere i nuovi orizzonti.

«Questa ispirazione, d’altronde, non può uscire dai libri: e deve essere attinta dalla vita, e la società attuale non saprebbe darla.

«I Raffaello e i Murillo curavano il proprio stile in un’epoca in cui la ricerca di un nuovo ideale si adattava ancora alle vecchie tradizioni religiose. Curavano il proprio stile per decorare le grandi chiese che, esse stesse, rappresentavano l’opera pia di più generazioni. La basilica, con il suo aspetto maestoso, la sua grandezza che si riallacciava alla vita stessa della città, poteva ispirare il pittore. Egli lavorava per un monumento popolare; si rivolgeva ad una folla e ne riceveva di ritorno l’ispirazione. E le parlava nello stesso modo in cui parlavano a lui la navata, i pilastri, i vetri dipinti, le statue e le porte ornate. Oggi il più grande onore al quale il pittore aspira è di vedere la sua tela incorniciata di legno dorato e appesa in un museo – una specie di bottega della cianfrusaglia – nel quale si vedrà, come si vede al Prado, l’Ascensione di Murillo accanto al Mendicante di Velazquez e ai cani di Filippo II. Povero Velazquez e povero Murillo! Povere statue greche che vivevano nelle acropoli delle loro città e che soffocano oggi sotto i parati di panno rosso del Louvre!

«Quando uno scultore greco cesellava il suo marmo, cercava di rendere lo spirito e il cuore della città. Tutte le sue passioni, tutte le sue tradizioni di gloria dovevano rivivere nell’opera. Ma oggi, la città una ha cessato di esistere. Più nessuna comunione di idee. La città non è che un occasionale ammasso di gente che non si riconosce più, che non ha nessun interesse generale, salvo quello di arricchirsi alle spese gli uni degli altri, la patria non esiste. Quale patria possono avere in comune il banchiere internazionale e lo straccivendolo? Solo quando quella città, quel territorio, quella nazione o quel gruppo di nazioni avranno ripreso la loro unità nella vita sociale, l’arte potrà attingere la sua ispirazione nell’idea comune della città o della federazione. Allora, l’architetto concepirà il monumento della città, che non sarà più né un tempio né una prigione né una fortezza; allora, il pittore, lo scultore, il cesellatore, l’ornatore, ecc. sapranno dove mettere le loro tele, le loro statue e le loro decorazioni, improntando la loro forza d’esecuzione alla stessa fonte vitale e camminando insieme gloriosamente verso l’avvenire.

«Ma fino ad allora l’arte non potrà che vegetare. Le migliori tele dei pittori moderni sono ancora quelle che rendono la natura, il villaggio, la vallata, il mare con i suoi pericoli, la montagna con i suoi splendori. Ma come potrà il pittore rendere la poesia del lavoro dei campi, se non l’ha contemplata, immaginata, se non l’ha gustata lui stesso? Se non la conosce come un uccello di passaggio conosce i paesi al di sopra dei quali si libra nelle sue migrazioni? Se, in tutto il vigore della sua giovinezza, non ha fin dall’alba seguìto l’aratro, se non ha gustato il godimento di abbattere le erbe con un largo colpo di falce vicino a robusti uomini che rivoltano l’erba tagliata, rivaleggiando in energia con delle ridenti giovani ragazze che riempiono l’aria delle loro canzoni? L’amore per la terra e per ciò che nasce sulla terra non si acquista facendo studi a pennello; non si acquista che al suo servizio, non amandola come si può dipingerla? Ecco perché ciò che i migliori pittori hanno potuto riprodurre, in questo senso, è ancora così imperfetto, così spesso falso: quasi sempre sentimentalismo. La forza non c’è.

«Bisogna aver visto, rientrando dal lavoro, il calare del sole. Bisogna esser stato contadino con il contadino per vederne lo splendore nell’occhio. Bisogna esser stati in mare con il pescatore, a tutte le ore del giorno e della notte, aver pescato, lottato contro i flutti, sfidato la tempesta e provato, dopo un rude lavoro, la gioia di sollevare una pesante rete o la delusione di rientrare vuoti, per comprendere la poesia della pesca. Bisogna esser passati dalle officine, conosciuto le fatiche, le sofferenze ed anche le gioie del lavoro creativo, forgiato il metallo ai folgoranti barlumi dell’altoforno; bisogna aver sentito vivere la macchina per sapere ciò che è la forza dell’uomo e tradurla in un’opera d’arte. Bisogna infine immergersi nell’esistenza popolare per osare descriverla.

«Le opere di questi artisti dell’avvenire che avranno vissuto la vita del popolo; come i grandi artisti del passato, non saranno destinate alla vendita. Saranno parte integrante di un tutto vivente. È là che si contempleranno e che la loro fiera e serena bellezza produrrà un benefico effetto sui cuori e sugli animi.

«L’arte, per svilupparsi, deve essere collegata all’industria da mille gradi intermedi, di modo che essi siano per così dire confusi, come l’hanno così bene e così spesso dimostrato Ruskin e il grande poeta socialista Morris: tutto ciò che circonda l’uomo, dal suo paese alla sua strada, all’interno e all’esterno dei monumenti pubblici, deve essere di una pura forma artistica». (La conquista del pane, tr. it., Catania 2001, pp. 104-106).

È una strana dicotomia che travaglia, si può dire, tutto il pensiero di Kropotkin. Da un lato egli ha tutte le carte in regola per cogliere il momento collettivo, l’aspetto qualitativo del movimento degli sfruttati, a qualsiasi livello la sua riflessione si ponga. Dall’altro viene costantemente preso dalle sue preoccupazioni di militante “politico”, di capo di una corrente di pensiero politico, di responsabile di una parte non trascurabile del movimento anarchico internazionale. Le sue esperienze di uomo che aveva vissuto a contatto con la natura, che aveva visto la stessa natura all’opera, per così dire, dal di dentro, lo conducono ad aprire vasti orizzonti alla riflessione. I ricordi della sua vita all’aperto lo portano a sentirsi vicino alla grande tradizione comunitaria della campagna russa, a questo grandioso fenomeno che non era solo un fatto di folklore o di tradizione, ma era anche un fatto organizzativo e politico. Queste esperienze gli acuiscono sensibilità che ad altri sfuggono, lo portano a individuare tematiche nella letteratura russa che escono dai giudizi stereotipati degli analisti professionali. Ma poi, improvvisamente, ripropone la figura dell’intellettuale, produttore della “merce” artistica, costituente una minoranza che viene sollecitata ad entrare nelle file della rivoluzione, onde cogliere l’essenza dell’esperienza estetica stessa, non essendoci altro modo per pervenire alla creazione del prodotto artistico rivoluzionario. La pressione del quantitativo riemerge attraverso un altro aspetto e impedisce a Kropotkin di cogliere gli elementi qualitativi e creativi della sua stessa esperienza di militante rivoluzionario e di uomo.

Leggendo il Messaggio ai lavoratori dell’Occidente, una delle ultime cose di Kropotkin, scritto nel giugno del 1920, si resta sorpresi che nulla vi sia accennato riguardo il progressivo annientamento che l’opera dei bolscevichi stava realizzando della struttura tradizionale della campagna russa. I soli problemi che preoccupano Kropotkin sono quelli ben visibili della controrivoluzione esterna (appello ai popoli del mondo perché non intervengano contro la Russia) e della controrivoluzione interna (i bolscevichi e il loro modo di governare col terrore e lo sterminio). Anche nelle lettere a Lenin, una del marzo e una del dicembre dello stesso anno, nessun riferimento a quel mondo che pure era stato per tanti anni al centro delle attenzioni del grande vecchio. Allo stesso Mackno, che era andato a trovarlo per chiedergli consigli in merito a come impostare correttamente, dal punto di vista rivoluzionario, i rapporti tra campagna e città, tra soviet rivoluzionari dei contadini e soviet rivoluzionari degli operai, problema che in concreto era di già stato avviato a soluzione dall’organizzazione stessa di Mackno, egli non sa cosa rispondere, tanto che il preoccupato guerrigliero non riesce nemmeno a trovare chiarimento al problema minimo dei rapporti tra delegati della campagna e delegati operai, allo scopo di stabilire uno scambio di prodotti su basi rivoluzionarie. Chiaramente la strada che Mackno voleva intraprendere era di già al di là dell’ottica di Kropotkin, in quanto intendeva tenere conto proprio di quelle caratteristiche dell’animo contadino della grande Russia che, stranamente, erano quasi passate in secondo ordine, nella mente di Kropotkin, davanti alle preoccupazioni della crescita quantitativa del movimento anarchico mondiale, suo costante punto di riferimento.

Rispondendo a un riflesso dello stesso genere, nella presente storia della letteratura russa Kropotkin attribuisce una parte della sensibilità artistica russa anche alle persecuzioni a cui furono costantemente sottoposti gli intellettuali nel corso del secolo XIX, con la conseguenza di porre un collegamento che ci pare “esterno” tra l’elemento popolare della sensibilità russa e il compito che la minoranza artistica finiva per autoimporsi, per logica conseguenza delle sofferenze che subiva in quanto oggetto della persecuzione dello Stato. Il popolo soffre, chi va verso il popolo – per un motivo o per un altro – finisce per ritrovare la stessa sofferenza: quindi comunione d’intenti e di sensibilità, comunione fondata sul dolore e quindi sulla tristezza.

È illuminante, in questo senso, un passo delle Memorie di un rivoluzionario: “Ma quale diritto avevo io alle gioie profonde dello studio e dell’arte, mentre intorno a me non vi era che miseria e lotta per un tozzo di pane ammuffito, quando tutto quello di cui io potevo aver bisogno per poter vivere in questo mondo di altissime emozioni doveva essere tolto dalla bocca di quelli che fanno crescere il grano e non hanno abbastanza pane per i loro bambini? Perché dalla bocca di qualcuno doveva ben essere tolto, visto che il complesso della produzione dell’umanità, rimane così scarso!”.

L’alto valore morale di questa riflessione non toglie le preoccupazioni d’indole quantitativa, che vi si nascondono e che minacciano, per altra strada, di ripresentare problemi non dissimili – o, almeno, paurosamente vicini — a quelli proposti dalle correnti del tanto vituperato “realismo socialista”. Infatti, lo stesso Kropotkin, in un passo del suo Appello ai giovani è ancora più esplicito: “Poeti, pittori, scultori, musicisti, se comprendete la vostra vera missione e i veri interessi della stessa arte, venite con noi. Mettete la vostra penna, la vostra matita, il vostro scalpello, le vostre idee al servizio della rivoluzione. Raffigurate con noi, nel vostro stile eloquente, nelle vostre impressionanti tele, le lotte eroiche del popolo contro gli oppressori, mettete il fuoco nei cuori della gioventù, lo stesso entusiasmo rivoluzionario che gloriosamente infiammava le anime dei vostri antenati. Dite alle donne quale nobile carriera è quella del marito che dedica la propria vita alla grande causa dell’emancipazione sociale!”.

Sono proprio questi gli scherzi dell’illusione quantitativa. Il progetto della costruzione rivoluzionaria si presenta ragionevole sotto tutti gli aspetti, primo aspetto che coglie alla radice ogni dissenso e che convince quasi tutti è la necessità ineluttabile dell’organizzazione, poi viene quello della forza che bisogna mettere insieme per contrastare la grande forza della repressione padronale, poi viene il problema dell’economicità, cioè il problema che bisogna fare tutto il possibile per costruire qualcosa che non sia dispersivo, per sommare le energie, e così via. La stessa creatività viene così, improvvisamente, a trovarsi irreggimentata. Badiamo bene, senza nessuna cattiva intenzione, senza secondi fini, senza pretese di costruire partiti o robacce del genere: tutto accade come logica conseguenza delle cose, e anche le menti più aperte e più sensibili (e quando mai sarà possibile trovare una mente più aperta e sensibile di quella di Kropotkin?) finiscono per non vedere bene quello che stanno facendo, per inquinare paurosamente le proprie analisi, per concludere in modo del tutto diverso dalle premesse che legittimamente avevano sollecitato.

Quel che concerne l’artista trova riscontro perfetto in quel che concerne il militante rivoluzionario, membro dell’organizzazione specifica. Emergono le stesse contraddizioni, gli stessi limiti, le stesse alienazioni, gli stessi pericoli. Se accettassimo come ineluttabile tutto ciò, apriremmo le porte al dilagare della strumentalizzazione avanguardistica. Solo un’attenzione critica nei confronti dell’uso dello strumento specifico può trasformare l’uso di questo stesso strumento in qualcosa di veramente costruttivo, e non di qualcosa che prima o poi finisce per intraprendere una strada propria che, nella maggior parte dei casi, non è per nulla quella della rivoluzione.

Limitandosi al progetto estetico non per questo la paura diminuisce, e su ciò dovrebbero riflettere i compagni che eventualmente negassero validità al parallelo sopra tratteggiato. Un “andare verso il popolo”, anche se genericamente può considerarsi fuori discussione, presenta i rischi di contenuti didascalici che intimoriscono. Sarebbe preferibile, a questo punto, sopprimere o stravolgere il progetto estetico, rendere incomunicabili i contenuti della comunicazione programmata, qualificati come rivoluzionari e cristallizzati nel progetto stesso, insomma distruggere il compito e le capacità stesse del prodotto artistico, per farlo risorgere, con contenuti diversi altrove, non più banale proiezione dell’idea pilota, ma contenitore mai completamente definito di coscienza liberatrice.

Se l’artista è rivoluzionario in quanto creatore, a sua volta il rivoluzionario è creatore solo se mantiene intatta la sua unità umana (etica ed estetica), solo se non si abbandona al progetto mortificante dell’illusione quantitativa. Alla base la sola discriminante tra la morte e la vita è la capacità di creare nuovi aspetti dell’esistente, di modificare gli aspetti negatori e di accelerare (principalmente attraverso l’elemento distruttivo) gli aspetti della nuova vita che la rivoluzione troverà in germe e farà fruttificare. In questo senso non si può correttamente parlare di un vago “andare verso il popolo”, o di un canone assoluto di “realismo socialista”, ma sarà un incontro pieno di imprevedibili sbocchi tra la minoranza che ha avuto occasione di acuire la propria sensibilità rivoluzionaria e artistica, e la maggioranza che pur non avendo avuto queste occasioni soggettive, ha ricevuto l’oggettivo stimolo alla produzione del fatto rivoluzionario e artistico attraverso il meccanismo stesso dello sfruttamento. Occorrerà riflettere meglio, in futuro, sulla dimensione estetica del sabotaggio e della distruzione, sulla creatività che emerge dalla lotta contro il potere, sulle capacità rivoluzionarie e sulle corrispondenti capacità artistiche che la lotta riesce ad oggettivare. Tutto ciò, nei termini del prodotto artistico, è negazione del mercato, nei termini della lotta rivoluzionaria è distruzione dell’ideologia della produzione: un parallelo su cui non abbiamo avanzato delle ipotesi di lavoro sufficientemente valide.

In Kropotkin non ci sembra identificabile una chiarificazione del rapporto tra minoranza specifica, intesa nei termini del movimento anarchico e rivoluzionario, e senso progressivo del movimento generale degli sfruttati. Di volta in volta, nelle sue ricerche, appaiono con grande evidenza analisi rivolte a mettere in risalto i compiti e le realizzazioni di questo o di quell’elemento, come pure le indicazioni relative alla minoranza specifica, concernenti i compiti che l’attendono nei confronti del movimento generale degli sfruttati. E questo limite può ben ricondurci alle motivazioni deterministiche di fondo che Kropotkin ricavava dalla sua stessa posizione scientifica, legata al positivismo di fine Ottocento. Non bisogna dimenticare che proprio su questo punto si fermerà la critica di Malatesta, anch’essa, comunque, incapace, sebbene per altri versi (cioè per un’accentuazione dell’interesse nei confronti della crescita quantitativa dell’organizzazione di massa), di cogliere l’essenza del problema.

A ben leggere una simile limitazione persiste per intero anche nella presente storia della letteratura russa.


Stockholm, 18 marzo 1979

 


[Introduzione a La letteratura russa, tr. it., Catania 1980, pp. 7-12]

* * * * *

“Nel corso dell’Ottocento assistiamo a profondi cambiamenti perché durante questo secolo la scienza stessa ha esaminato criticamente se stessa e i propri metodi. Una volta si parlava del metodo scientifico. Per esempio, di fronte alla psicologia o alla sociologia ci si domandava ‘queste discipline hanno o non hanno, la capacità di applicare il metodo scientifico?’, come se esistesse un metodo scientifico. Oggi, invece, la scienza stessa è diventata più smaliziata e non crede più nell’unico metodo scientifico. Quest’ultimo, nel concreto storico, è semmai un metodo che va trasformandosi, poiché il metodo scientifico lo troviamo anche nel Seicento. Senza dubbio Descartes, Bacone e Galileo hanno dato contributi notevolissimi alla maturazione del metodo scientifico, però, se noi guardiamo il metodo scientifico come era applicato da loro e lo confrontiamo con il metodo scientifico come era applicato per esempio nell’Ottocento, vediamo che esiste un abisso, al punto che la stessa affermazione ‘il metodo scientifico’ è, in realtà, un’affermazione imprecisa, ‘sballata’ e alquanto fuorviante, che noi dovremmo correggere andando a vedere i metodi scientifici”.

(L. Geymonat, Dialettica scientifica e libertà)

Lo Stato e il suo ruolo storico

Derivato da una conferenza di propaganda Lo Stato e il suo ruolo storico costituisce una puntuale sistemazione del pensiero di Kropotkin riguardo l’azione dello Stato nella storia. Studiata nelle sue conseguenze dirette e indirette, questa azione finisce per diventare una guida attraverso molti problemi della lotta rivoluzionaria e della stessa possibilità di costruzione di una società futura. Dalle nebbie di un passato indagato con amore, emergono istituzioni e popoli, lotte e rivolgimenti colossali che, nella storiografia borghese, interessata a mantenere il silenzio sulle capacità di autorganizzazione popolare, sono sistematicamente taciuti o distorti. È implicito che un testo di ricerca storica, un testo impegnato a lottare contro l’oscura interpretazione delle fonti e contro la coltre ideologica che lo copre, ha bisogno di un supporto interpretativo non trascurabile. Oggi, a distanza di tanto tempo, si rende necessario ripercorrere, sulle tracce dello stesso Kropotkin, il sentiero a ritroso fatto a suo tempo, segnalando, nei limiti del possibile, i riferimenti della ricerca dell’epoca e indicando le conseguenze di prassi politica che dalle conclusioni di Kropotkin è possibile trarre.

Daremo qui di seguito un approfondimento delle varie direzioni di ricerca sviluppate nel lavoro di Kropotkin.

Contro il socialismo autoritario

La distinzione tra visione libertaria e visione autoritaria dei problemi inerenti allo Stato accompagna tutto il libro. Il concetto autoritario di estinzione dello Stato è legato alla concezione fondamentale del processo dialettico che, per quante trasformazioni possa subire non può uscire dallo schema dinamico, ma obbligato, della contraddizione di base (lotta di classe).

Nel senso marxista la dialettica è la realtà stessa nella sua più intima composizione. La tesi in questione è utile per fissare le regole del dominio di un partito e spacciare queste regole come le condizioni essenziali della stessa realtà. Al contrario, limitando l’interpretazione della dialettica a un modello di lavoro, questo può essere sempre richiamato in dubbio, per cui il partito e le sue imposizioni si troverebbero subito in difficoltà. Kropotkin è stato sempre estraneo a tutto ciò.

La dittatura del proletariato ha una profonda ambiguità anche in sede teorica. Una sua lettura che insista nella beatificazione di Marx ed Engels non è più possibile. Kropotkin ebbe sempre chiara l’idea guida che la lotta contro lo Stato riceve un’impostazione particolare se viene vista attraverso una particolare interpretazione del rapporto minoranza-massa. Se questo rapporto è risolto sulla base del partito rivoluzionario, quindi se assume l’aspetto di una minoranza autoritaria professionista che agisce in nome delle masse e (praticamente) sulle masse, si arriva per forza ad una conclusione: la dittatura del proletariato diventa dittatura di una minoranza sul proletariato, mentre l’estinzione dello Stato diventa rafforzamento.

I marxisti hanno avuto sempre tutto l’interesse a mistificare le cose nella loro lotta senza quartiere contro gli anarchici. Ad esempio Engels dice – senza dare però prova alcuna – che la dittatura del proletariato è cosa necessaria anche contro gli anarchici in quanto questi ultimi sono, nel momento rivoluzionario, per la riappacificazione delle classi. Alla base di questa puntata critica c’è una lettura tendenziosa di alcune delle tesi di Kropotkin.

Gli anarchici sono in modo assoluto per la distruzione immediata dello Stato e per l’organizzazione della lotta di classe su base popolare contro gli sfruttatori. Essi sanno perfettamente che ogni tentativo di utilizzazione della macchina dello Stato si trasforma più o meno presto in un nuovo dominio.

Kropotkin prende in mano la tesi di Proudhon e la sviluppa anche in merito al significato politico e sociale di Stato. Così scriveva Proudhon: «Lo Stato resta dunque, e deve restare eternamente con la sua indigenza nativa, con l’improduttività che è essenzialmente sua propria, con le sue abitudini d’accattare prestiti, vale a dire con le qualità più opposte alla potenza creatrice, che fanno di esso non il principe del credito, ma il tipo del discredito. In tutte le epoche e presso tutti i popoli, si vede lo Stato, senza posa occupato, non a fare scaturire dal suo seno il credito, ma ad organizzare i suoi prestiti. Sparta non avendo tesori, imponeva un digiuno per fare i fondi di un prestito [...]. Lo Stato qualsiasi cosa si dica o si faccia, non è e non sarà mai la stessa cosa della totalità dei cittadini, in conseguenza la fortuna dello Stato non potrebbe identificarsi con la totalità delle fortune particolari né, per la stessa ragione, le obbligazioni dello Stato divenire comuni e solidali per ciascun contribuente. Che si venga a capo di sviare per qualche tempo l’opinione pubblica, di dare alla carta dello Stato un credito eguale a quello del denaro, di sostenere, a forza di sottigliezze e di mascheramenti, questa menzogna governativa, non si sarà fatto altro che coprire l’asino con la pelle del leone, ed al minimo imbarazzo, vedrete la mascherata sparire, non lasciando dietro di sé che la confusione e lo spavento». (Le contraddizioni economiche. Filosofia della miseria, tr. it. , Catania 1975, pp. 353-354).

Nello stesso periodo, più o meno, in cui Kropotkin redigeva questo libro sullo Stato così Malatesta affrontava lo stesso argomento: «Gli anarchici e noi fra loro, si sono serviti e si servono ordinariamente della parola Stato, intendendo per essa tutto quell’insieme d’istituzioni politiche, legislative, giudiziarie, militari, finanziarie, ecc., per le quali sono sottratte al popolo la gerenza dei propri affari, la direzione della propria condotta, la cura della propria sicurezza, e sono affidate ad alcuni che, o per usurpazione o per delegazioni, si trovano investiti del diritto di far le leggi su tutto e per tutti, e di costringere il popolo a rispettarle, servendosi all’uopo della forza di tutti. In questo caso la parola Stato significa governo». (L’Anarchia, seconda edizione, Ragusa 1973, pp. 34-35).

In conformità alla tesi critica dello Stato Kropotkin lavora sulla tradizione anarchica che è sempre stata contro ogni valutazione positiva dell’antica Roma. Scrive Rocker: «Roma era lo Stato per eccellenza, uno Stato tutto intento ad erigere una gigantesca centralizzazione di ogni energia sociale. Nessun altro Stato esercitava una tale autoritaria influenza sugli sviluppi politici d’Europa e sulla forma delle sue istituzioni legali [...]. Se risaliamo il corso della storia c’incontriamo a ogni passo con lo spirito di autonomia e col completo sezionamento nazionale della Grecia, in Roma, invece, c’incontriamo fin dal primo passo con l’idea di una tutt’abbracciante unità politica che ha la sua più alta espressione nello Stato». (Nazionalismo e cultura, vol. II, tr. it., Catania 1978, p. 1l6).

In questa organizzazione romana centralizzata si può vedere una forma di socialismo di Stato, forma embrionale in quanto ad apparato ideologico, ma tutt’altro che primitiva per quanto riguarda l’assetto amministrativo-burocratico. Tra le cause della decadenza dell’Impero si dovrà annoverare anche quella della concentrazione dei poteri nelle mani di una minoranza militare e burocratica che finì per soppiantare, schiacciandoli sotto un enorme carico d’imposte, i proprietari fondiari. Anche in zone molto fertili dell’Impero, dove i barbari non erano ancora arrivati, l’esosità dello sfruttamento statale fece abbandonare le colture (cfr. Codex Theodosianus XI, 28, 2). In Ammiano Marcellino (XIX, II) leggiamo le lamentele riguardanti le imposte sui trasporti che rendevano inutilizzabili i terreni lontani, per quanto fecondi fossero. Si arriva perfino a emanare una legge (la adjectio) che costringeva a unire ai fondi fertili i terreni abbandonati dai precedenti proprietari, e ciò allo scopo di inventare nuovi proprietari e quindi trovare chi pagasse le imposte.

Per lungo tempo la ricchezza dell’Impero venne dalla terra e fece potente la struttura dello Stato romano accompagnandosi a una vasta organizzazione militare. Poi l’allargarsi del dominio, il sogno irrealizzabile della unificazione mediterranea, il sorgere dell’immane Impero bilingue, l’unificazione forzata della civiltà romana ed ellenica, produssero cambiamenti di grande portata. Kropotkin sorvola sul problema della decadenza dell’Impero romano, mentre ci pare che lo studio delle cause della sua caduta possa dare anche oggi non pochi insegnamenti. Anche ne L’Etica Kropotkin seguirà lo stesso procedimento, saltando dai Greci al cristianesimo. Ciò corrisponde ad una precisa concezione dello sviluppo storico che risente delle teorie in voga intorno alla fine dell’Ottocento. Queste teorie oggi prendono il nome di teorie degli stadi. Bert F. Hoselitz ha scritto un interessante lavoro su questo problema. Tra i tanti schemi esistenti all’epoca, accuratamente esaminati da questo studioso, esiste lo schema molto dibattuto di Werner Sombart che in pratica lo riprende da Karl Bücher: divisione dello sviluppo storico inteso come progresso per sezioni staccate. Un primo stadio sarebbe quello dell’economia diretta o autarchica (tribale, domestica, dell’oikos), un secondo quello dell’economia di transizione (curtense, del villaggio e cittadina medievale), un terzo stadio quello dell’economia sociale (l’economia antica fondata sulla schiavitù, come quella moderna coloniale, capitalista e socialista). (Cfr. Theories of Stages in Economic Growth, in Theories of Economic Growth, New York 1960, pp. 193-238).

Certo in Kropotkin non esiste la preoccupazione saggistica di Sombart o di Gustav von Schmoller o di Bücher di ricavare, attraverso diagonali storiche, momenti di uno sviluppo parallelo di vari sistemi economici, rifiutando o mettendo tra parentesi, la scienza del XIX secolo. Comunque la preoccupazione di individuare un momento storico in cui l’individuo ebbe possibilità di autodeterminarsi, presto distrutte dal sorgere degli Stati autoritari assolutisti, è se non altro il segno della compresenza di questo doppio interesse: ricercare gli elementi di uno sviluppo progressivo e, nello stesso tempo, cristallizzare certi aspetti altamente positivi, all’interno di una dinamica che non procede progressivamente ma per scatti.

Le premesse scientifiche

Prima di passare all’esame della posizione di Kropotkin riguardo al periodo della comune di villaggio e medievale in genere, periodo che nel suo lavoro ha specifiche caratteristiche, occorre dare qualche cenno sulle premesse scientifiche che reggono la sua analisi. In sostanza così facendo si rende possibile non solo la verifica dei limiti generici di una lettura, ma anche il riscontro dei limiti oggettivi di una diversa possibile lettura. Questi ultimi sono ricavabili solo dall’esame della situazione culturale in cui si trovava a operare Kropotkin. Il positivismo evoluzionista di derivazione spenceriana, oggetto di scherno e di attacchi non sempre misurati da parte marxista, dominava l’Inghilterra della fine dell’Ottocento in modo massiccio. E non solo l’Inghilterra, anche il continente non lesinava spazio alla glorificazione di Spencer.

Le distanze tra Spencer e Kropotkin sono certo notevoli, ma non si possono riportare tutte alla struttura scientifica della ricerca. In sostanza quello che sopraggiunge in Kropotkin è l’interesse più immediato per la lotta politica, l’impegno rivoluzionario, la chiarificazione della sua posizione di fronte la socialdemocrazia. Tutto ciò finisce per trasformare la stessa metodologia di ricerca trasferendola in secondo piano, senza però negarla del tutto.

Per i marxisti, abituati alle conclusioni drastiche del metodo dialettico, nulla risulta più inutile e ozioso dell’empirismo positivista. Per cui finiscono per gettare il tutto nei rifiuti, negando qualsiasi validità a quelle ricerche che pure validità ne conservano non poca. Ovviamente, nel caso di Kropotkin, lo scontro metodologico si accende dei bagliori di ben altra efficacia. Se Spencer diventa quasi un narratore d’appendice, Kropotkin è un pericoloso propagatore di assurde idee sulla rivoluzione e sulla liberazione.

In sostanza la scienza ottocentesca, allevata al metodo positivista, oggi è stata ampiamente rivista e ridiscussa, senza che per questo sia stato necessario pronunciare condanne da tribunale inquisitorio, fondate sulla validità di testi presunti veritieri in assoluto. Se il metodo positivo va rivisto, se certe costanti antropologiche non si reggono, se l’elemento storico ripropone con grande autorità la propria presenza, ciò non significa che lo sforzo di ricerca empirica fatto nel passato debba considerarsi del tutto inutile. Rotto il grande involucro che si credeva perfetto, imitato sul modello della meccanica, trapiantato di colpo nelle scienze sociali all’insegna dell’equilibrio, disturbato con questa operazione il sogno risanatorio della borghesia che celebrava se stessa e le proprie conquiste all’insegna di una scienza addomesticata, non significa che tutto ciò debba considerarsi inutile. Il primo a fornirci la chiave di questo grosso problema storico è proprio Kropotkin.

Il suo sforzo in questo senso non è trascurabile. Agendo dentro un clima scientifico che non poteva non essere segnato dallo sviluppo delle forze produttive dell’epoca, inserisce un’impronta personale, uscendo dalla strettoia grazie all’espediente tattico dell’impegno rivoluzionario. Forse in altri testi, più tardi, questo espediente non appare con evidenza, e può emergere quel fondamento determinista che giustamente veniva criticato da Malatesta, ma qui, in questa conferenza storica, quello che vediamo con chiarezza è l’azione della base, l’emersione di un istinto di solidarietà nel popolo, che si modella in forme diverse, secondo il momento storico, ma che finisce sempre per riconoscere il proprio nemico: la struttura del potere statale.

Scrive Kropotkin: “Gli esseri primitivi avevano un sacro rispetto della vita umana mentre disprezzavano ed avevano in orrore l’assassinio e il sangue”. (Lo Stato e il suo ruolo storico). E più avanti: “Per mantenere il nucleo di costumi sociali in vigore [presso i primitivi], erano sufficienti l’usanza, la tradizione, il costume. Nessuna autorità li imponeva”. (Ibidem). Di già George Grey alla prima metà dell’Ottocento scriveva parlando degli indigeni australiani: «Il più sacro dovere che un indigeno debba adempiere è quello di vendicare la morte dei suoi più prossimi parenti, perché il far ciò costituisce un suo particolare dovere, fino a che egli non abbia soddisfatto quest’obbligo, è continuamente insultato dalle vecchie donne, le sue mogli, se è ammogliato, lo abbandonerebbero presto, se non è ammogliato, nessuna giovane parlerebbe con lui, sua madre lo rimprovererebbe di continuo, deplorando di aver dato la vita ad un figlio così degenere, suo padre lo tratterebbe con disprezzo, e rimbrotti continui suonerebbero al suo orecchio». (Journals of two Expeditions of Discovery in Australia, vol. II, ns. tr., London 1841, p. 240).

Uno dei freni maggiori alla dissolutezza per i Groenlandesi era costituito dalla paura della pubblica disgrazia che si abbatterebbe sulla comunità. (Cfr. D. Crantz, History of Greenland, vol. I, London 1820, pp. 164-165).

Scrive William G. Sumner: «La vendetta del sangue è fuori luogo nel gruppo interno, infatti essa condurrebbe all’auto-sterminio del gruppo, servendo così gli interessi dei nemici presenti nei gruppi esterni. Perciò il duplice interesse all’armonia e alla cooperazione nel gruppo interno e alla forza guerriera contro i gruppi esterni costringe a inventare strumenti con i quali eliminare la vendetta del sangue nel gruppo interno». (Costumi di gruppo, tr. it., Milano 1962, p. 557).

Allo stesso modo Karl H. Krieger: «La solidarietà di atteggiamento tra i membri di un clan nei confronti dei gruppi esterni si manifesta nella vendetta del sangue durante lo stadio di transizione tra l’organizzazione del gruppo di parentela e l’organizzazione statale inferiore». (New-Guinea, ns. tr., Berlin 1899, p. 199).

Presso i Nicobariani non esistevano capi. Essi si meravigliavano all’idea che uno solo potesse avere un potere contro tanti. (Cfr. A. Bastian, Afrikanische Reisen, vol. I, Bremen 1859, p. 384). Tra gli Haida, in America, tutti erano uguali. (Cfr. H. H. Bancroft, The Native Races of the Pacific States of North America, vol. I, London 1875, p. 168). Nelle tribù californiane ognuno «… fa quello che vuole». (Ib., p. 348). Tra i Navajos «… ognuno è sovrano nel suo diritto come guerriero». (lb., p. 508). In Asia gli Angami «… non hanno alcun capo o condottiero riconosciuto, sebbene eleggano talvolta un oratore che, sotto ogni aspetto, è senza potere e irresponsabile». (J. Stewart, in “Journal of Asiatic Society, Bengal”, XXIV, p. 650). «In caccia o in guerra gli indigeni hanno uno o più capi che li guidano, scelti solo per quell’occasione». (H. H. Bancroft, op.cit., p. 365). Così Baegert descrive la società degli indigeni della bassa California: «Essi somigliano a branchi di cinghiali, che vagano a loro piacere, oggi riuniti, separati domani, fino a che non si riuniscono di nuovo per caso». (Citato da H. H. Bancroft, op. cit., p. 565).

L’intellettuale dei selvaggi accede spesso con facilità al rango dominante, sebbene ciò accada frequentemente in via provvisoria. Fra gli indiani Snake «Il capo è quello che ispira maggiormente fiducia tra tutti i guerrieri». (M. Lewis e W. Clarke, Travels to che Source of the Missouri, London 1814, p. 306). Gli Ostiachi «… rispettano, nel senso più largo della parola, il loro capo, solo se è saggio e valoroso, ma questo omaggio è volontario, e non è una prerogativa della sua posizione». (Revelations of Siberia, vol. II, ns. tr., London 1853, p. 269).

Scrive Henry R. Schoolcraft: «Gli stregoni Dakota sono i pin grandi bricconi della tribù, e posseggono un’immensa influenza sugli animi dei giovani, che sono allevati nella credenza nei loro poteri soprannaturali. Il capo militare, che conduce i guerrieri in battaglia, è sempre uno stregone, ed è creduto in possesso del potere di guidare i suoi alla vittoria o di salvarli dalla disfatta». (Travels in the Central Portions of the Mississippi Valley, vol. IV, ns. tr., New York 1825, p. 495).

George Sorel, riprendendo la tesi di Théodule-Armand Ribot (Psychologie des sentiments), afferma: «Ribot distingue quattro elementi che contribuiscono a generare il sentimento religioso dei primitivi: anzitutto l’emozione della paura, poi una certa attrazione per un dio, il desiderio di guadagnarsi il favore di una potenza superiore all’uomo mediante suppliche e offerte, e infine il bisogno di rafforzare i legami sociali. I primi tre elementi si possono riunire in un sol gruppo, e si potrà dire di conseguenza che le antiche religioni si riallacciano a due sistemi: 1) esse sono destinate a proteggere gli uomini, grazie ai loro riti, contro i mali che non cessano di minacciarli, 2) esse sono delle discipline sociali la cui azione viene a completare quella della legge». (Le illusioni del progresso, tr. it., in Scritti politici, Torino 1963, p. 676).

La nascita del futuro potere è proprio qui, ed è visibile anche oggi nella situazione dei cosiddetti popoli primitivi. L’embrione dello Stato futuro va studiato proprio nella forma che assume la sua massima semplicità per scorgervi quali condizioni e quali elementi hanno generato le strutture attuali.

Il comune di villaggio

Si tratta del punto di raccordo tra le tribù primitive e quelle più evolute. Esso è costituito da famiglie separate ma con il possesso in comune della terra. Tutte le forme future, sia giuridiche che religiose, del futuro Stato sono state elaborate nel comune di villaggio.

Il terreno distribuito era posseduto dalla comunità e lavorato da singoli gruppi domestici. Una cosa simile accadde in tempi storici recenti dopo l’invasione turca della Bosnia. Scrive Arthur J. Evans: «Udimmo di famiglie ancora esistenti (vicino a Sissek) che comprendevano più di trecento membri, viventi tutti entro lo stesso cortile, circondato da una palizzata, che da soli formavano un villaggio, né è affatto raro trovare villaggi nella Franitza consistenti di un paio di gruppi domestici». (Through Bosnia and the Herzegovina on Foot, ns. tr., London 1876). Così Maxime Kovalevsky parlando degli Slavi, dei Serbi e dei Russi, cita nel suo libro: «I beni sono proprietà comune di tutti i membri della famiglia, la proprietà privata non esiste quasi [...] il capo della comunità si limita ad amministrare la fortuna comune. Alla sua morte questa resta indivisa e passa nelle mani di un altro capo, chiamato a quel posto per l’età o per elezione». (Tableau des origines et de l’évolution de la famille et de la propriété, ns. tr., Stockholm 1890, p. 90).

Kropotkin trattando di questo argomento ha presente la struttura del mir. Si tratta di forme organizzative che sono precedenti alla stessa famiglia patriarcale. Scrive Alexis de Tocqueville: “L’uomo crea le monarchie e istituisce le repubbliche, ma il comune sembra derivare direttamente dalla mano di Dio”. (Della democrazia in America). In merito a questi e ad altri gruppi primari Max Weber precisa: «La comunità domestica nella sua struttura “pura” [...] comporta, dal punto di vista economico e personale, una solidarietà verso l’esterno e una comunità di uso e consumo dei beni quotidiani (comunismo domestico) all’interno, in unità ininterrotta fondata su una relazione di reverenza strettamente personale». (Economia a Società, vol. I, tr. it., Milano 1961, p. 362). Così il Charles H. Cooley: «I gruppi primari sono primari in quanto danno all’individuo la sua prima e più completa esperienza dell’unità sociale, ed anche in quanto non mutano nello stesso grado in cui mutano relazioni più elaborate, formando così una fonte relativamente stabile dalla quale sorgono di continuo queste ultime». (L’organizzazione sociale, tr. it., Milano 1963, p. 25).

Esistono prove che nel IV sec. a. C. esistevano comunità di villaggio così organizzate in India. Strabone scrive: «In mezzo ad altre tribù la terra viene coltivata da famiglie e in comune, quando il prodotto è raccolto, ciascuno prende un carico sufficiente per la sua sussistenza durante l’anno, il rimanente viene bruciato, per avere una ragione per rinnovare il lavoro, e non restare inoperosi». (Geografia, XV, 1).

A proposito di ricerche fatte nel Montenegro, che alla fine dell’Ottocento manteneva un isolamento tale da garantire la persistenza di strutture arcaiche, Henry James Sumner Maine scrive: «L’opinione predominante è che, siccome la comunità domestica è responsabile dei reati dei suoi membri, essa ha diritto a ricevere tutto il prodotto del loro lavoro, e così la regola fondamentale di queste comunità, come delle famiglie associate degli Indù, è che un membro, che lavori o traffichi a una certa distanza dalla sede della fratellanza, dovrebbe render conto a essa dei suoi guadagni». (Early Law and Custom, ns. tr., London 1883, p. 252). E lo stesso autore in un altro lavoro: «I gruppi di coltivatori indiani comprendono un ciclo quasi completo di occupazioni e di mestieri, che li mette in grado di continuare la loro vita collettiva senza essere assistiti da alcuna persona o corpo di persone estranei [...]. Essi includono parecchie famiglie di artigiani ereditari, il fabbro ferraio, il fabbricante di finimenti, il calzolaio [...]. Vi è invariabilmente un computista del villaggio [...]. Ma la persona che pratica una qualunque di queste occupazioni ereditarie, è realmente un servo della comunità, come pure uno dei membri che la compongono. Egli è qualche volta pagato con una rimunerazione in grano, più generalmente con l’assegnazione alla sua famiglia di un pezzo di terreno coltivato in possesso ereditario». (Village Communities in the East and West, ns. tr., London 1871, p. 30). Si può arrivare così alla formazione di piccole proprietà appartenenti a certe categorie di lavoratori. Lo sviluppo delle corporazioni darà vita, successivamente, a una interessante trasformazione di questi nuclei originari. Ancora Maine: «È l’assegnamento ai mestieri particolari di una parte stabilita di superficie coltivata, che ci permette di sospettare che i primitivi gruppi teutonici fossero in simil modo sufficienti a se stessi. Vi sono diverse parrocchie inglesi in cui certi pezzi di terreno nel campo comune sono stati da tempo immemorabile conosciuti sotto il nome di un mestiere particolare, e vi è spesso una credenza popolare per cui nessuno, che non segua il mestiere, può legalmente essere proprietario della porzione associata ad esso. Probabilmente abbiamo qui la spiegazione della copia e della persistenza di certi nomi di mestieri come cognomi fra noi». (Ib., p. 126).

Le organizzazioni medievali

L’autosufficienza della comune agricola si sviluppa e si perfeziona nella città medievale. Qui la civiltà raggiunge un altissimo grado di sviluppo. Il senso di reciproca fiducia e fratellanza, questo embrione di mutuo appoggio, si estende proprio perché si vive in forma comunitaria. Scrive Werner Sombart: «La corporazione medievale deve essere considerata come la continuazione delle antiche comunità di sangue e di luogo: la corporazione ha il compito di sostituire nelle città quel che la comunità naturale costituiva nelle campagne e di completare quel che la più grande comunità cittadina non era in grado di dare al singolo. È certo tuttavia che la corporazione aiuta il singolo artigiano nel raggiungimento dei suoi scopi economici come la comunità di villaggio aveva aiutato il contadino. Spetta alla comunità assicurare all’artigiano nel suo insieme una zona di attività (e di mercato) sufficiente, così come la comunità di villaggio determinava la grandezza del pascolo comune in base agli interessi dei membri, e tendeva al raggiungimento di questo scopo monopolizzando, ovunque possibile, il mercato nella città stessa o su altre piazze, e, dove non può attuare un monopolio assoluto, cerca per lo meno di ostacolare la penetrazione degli estranei nel proprio mercato». (Il Capitalismo moderno, tr. it., Torino 1967, pp. 140-141).

La forma che prende questa nuova società è più meno quella di un grande organismo comunitario, persistendo le differenze di classe all’interno. Scrive Walter Ullmann: «Due aspetti caratteristici della vita medievale sono intimamente connessi [...]. In primo luogo, viva era la stratificazione della società medievale in classi. Il significato di tale stratificazione, in questo contesto, era che un membro di una particolare classe era confinato all’interno di essa senza poterne uscire, e che, qualunque fosse la sua condizione sociale, egli era rigidamente controllato dalle norme applicabili alla sua classe. Tali norme riguardavano il suo ruolo nella società, riguardavano ogni privilegio che egli potesse avere, compreso il diritto di eredità e di matrimonio, in breve, le norme di una particolare classe contribuivano alla pietrificazione della società e all’ossificazione dello status dell’individuo all’interno di essa». (Individuo e società nel Medioevo, tr. it., Bari 1974, p. 35). Ferma restando questa considerazione, che riteniamo esatta, dobbiamo ricordare che Kropotkin parla di benessere non perchè – come qualcuno ha opinato con malcelato interesse denigratorio – avesse intenzioni interclassiste, ma solo perchè intendeva parlare di un benessere relativo, cioè estremamente elevato considerate le condizioni generali di sviluppo della società in quell’epoca, benessere inoltre tutto da attribuirsi alle condizioni del lavoro e della vita in comune. «La vita comunitaria – scrive Ferdinand Tönnies – è possesso e godimento reciproco, ed è possesso e godimento di beni comuni. La volontà del possesso e del godimento è la volontà della protezione e della difesa. Beni comuni – mali comuni, comuni amici – comuni nemici. Mali e nemici non sono oggetto di possesso e di godimento, essi sono oggetto non di volontà positiva, ma negativa, di dispetto e di odio, e quindi di una comune volontà di distruzione». (Comunità e società, tr. it., Milano 1963, p. 66). Di più: la difesa è momento, giustamente, limitativo di un progetto futuro, e sarebbe stata del tutto insufficiente a fare avanzare la comunità nella strada dell’incivilimento. La vita comunitaria prende durevole sviluppo solo con il campo e la casa. Scrive Lucien Levy-Bruhl: «La terra in realtà appartiene – in senso assoluto – al gruppo sociale nel suo complesso, vale a dire all’insieme dei vivi e dei morti». (L’anima primitiva, tr. it., Torino 1962, p. 122). Così Gustav von Schmoller: «Come il comune di villaggio con i suoi organi, ancor più la città si sviluppa diventando un corpo economico con una propria vita vigorosa, che domina tutti gli aspetti individuali [...]. Ogni città, e specialmente ogni città di una certa grandezza, cerca di chiudersi in se stessa come un tutto economico, e di estendere all’esterno la sua economia e la sua sfera di potenza fino al limite del possibile». (“Studien über die wirtschaftliche Politik Friedrichs des Grossen und Preussens überhaupt von 1680 bis 1786”, parte prima: “Ein Blick auf die Literatur”, in “Schmollers Jahrbuch für Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft”, ns. tr., VIII, 1884, p. 1). Quindi un benessere relativo. La società medievale era straziata da contrasti insanabili. Kropotkin non si nasconde che malattie, guerre, epidemie, distruzioni periodiche, erano una parte del quadro, allo stesso titolo dell’istinto comunitario della solidarietà. Tutto ciò deve essere tenuto presente per mettersi al riparo da facili critiche come quella di Vilfredo Pareto: «Parecchi autori [e il richiamo a Kropotkin è chiarito in nota] si diffondono con compiacenza a dire della felicità di cui godevano i membri delle antiche corporazioni, ma costoro non erano, nei confronti del resto della popolazione che una piccolissima minoranza, di modo che non è agli operai dei nostri giorni, ma ai padroni che dovrebbero essere paragonati. I privilegi hanno sempre fatto taluno felice, ma alle spese di molti miserabili». (Corso di Economia Politica, vol. II, Torino 1961, pp. 171-172). In Kropotkin il discorso di classe non è dimenticato, anche se spesso viene coperto dall’euforia dell’amore per quel tempo passato che vide la fioritura della solidarietà umana anche a livello istituzionale. È questo il problema di Kropotkin, il suo non è un tentativo reazionario di ritornare indietro o di suggerire un regime autarchico anacronistico e puerile ma, al contrario, è una spinta verso il futuro, tenendo conto che l’ipotesi della solidarietà umana – da sostituire a quella dell’uomo lupo per il proprio simile – non è del tutto campata in aria, in quanto è stata, almeno una volta, realizzata su grande scala nella storia dell’uomo.

Interessanti le considerazioni di Ullmann riguardo il consenso dell’individuo in una società stratificata come quella medievale: «Il patto feudale forniva un fondamento sufficientemente forte da permettere più tardi lo sviluppo di una teoria dei diritti e dei doveri individuali. Questo rapporto individuale era un rapporto reciproco basato sul contratto feudale, che avrebbe esteso la sua influenza ben al di là del feudalesimo, ben al di là della costituzione, e che doveva irradiarsi a tutti i settori della vita sociale e pubblica». (Individuo e società nel Medioevo, op. cit., p. 67). Ben presto la città medievale divenne non solo un’organizzazione complessa e articolata di interessi, ma anche un organismo ben proporzionato con varie fasi di sviluppo facilmente riconoscibili. Scrive Max Weber: «La città medievale non era soltanto dal punto di vista economico la sede del commercio e dell’industria, ma era anche politicamente (di norma) una fortezza ed eventualmente un luogo di guarnigione, amministrativamente un distretto giudiziario, e per il resto un affratellamento comunitario fondato sul giuramento». (Economia e società, vol. II, op. cit., p. 575). E Ferdinand Tönnies: «Quale che sia la sua origine empirica, nella sua esistenza essa deve essere considerata come un tutto, di fronte al quale le singole consociazioni e le singole famiglie che la costituiscono si trovano in un rapporto di dipendenza necessaria. Con la sua lingua, i suoi usi, le sue credenze, come con il suo suolo, i suoi edifici, i suoi tesori, essa rappresenta un’entità permanente che sopravvive all’avvicendarsi di molte generazioni e – in parte per se stessa, in parte grazie all’eredità e all’educazione delle sue case borghesi – riproduce sempre essenzialmente lo stesso carattere e lo stesso modo di pensare». (Comunità e società, op. cit., p. 79).

Il filo sottile che raccoglie usi e costumi è il diritto consuetudinario. Anche nell’antico comune di villaggio la codificazione consuetudinaria era alla base della convivenza. Scrive Otto von Gierke: «Nel comune di villaggio il singolo contadino è incapace di vita senza il diritto comunitario che la integra, anzi la crea. Le particolarità, specialmente il periodo aperto e chiuso dei campi e dei prati, sono di solito fissate da un uso antichissimo. Ma quando questo è insufficiente interviene la decisione comune. Il comune recinge e apre quindi i prati e i campi, determina i terreni per il raccolto estivo, per il raccolto invernale e per il maggese, stabilisce l’epoca della semina e del raccolto, regola la vendemmia, fissa più tardi addirittura il salario per il raccolto. Esso controlla inoltre che la forma di sfruttamento dei terreni soggetti all’organizzazione agraria coattiva non venga mutata arbitrariamente, provocando la rottura della comunità dei campi». (Das deutsche Genossenschaftsrecht, vol. II, ns. tr., Berlin 1873, pp. 216-217). E Walter Ullmann: «In realtà, il diritto consuetudinario era molto più importante per gli uomini e le donne dei comuni di quanto non fossero i decreti legislativi, ancora piuttosto isolati, di papi, re e imperatori. I problemi riguardanti la vita comune, di ogni giorno, erano regolati in base alla consuetudine, questo fenomeno è evidente ancora oggi, e chiunque abbia appena un po’ di familiarità con il modo in cui i contadini di diversi distretti alpini vivono e regolano la propria vita potrà confermare la varietà e l’elasticità delle loro consuetudini». (Individuo e società nel Medioevo, op. cit., p. 50). Dall’applicazione di questo diritto alle controversie concrete nasce la differenziazione tra potere giudiziario e potere militare, non sempre facile a certi livelli di sviluppo comunitario. Spesso i vecchi sono chiamati a giudicare, ritenuti saggi, in questo modo acquistano un grande ascendente che nemmeno la forza bruta dei guerrieri ottiene. Scrive Ferdinand Tönnies: «Alla dignità dell’età conviene di preferenza l’attività giudiziaria e il carattere della giustizia. Infatti dal calore, dalla collera e dalle passioni di ogni genere, proprie della gioventù, scaturiscono la violenza, la vendetta e la discordia. Il vecchio sta al di sopra di tutto questo come calmo osservatore [...]. La dignità della forza deve distinguersi nella lotta, dando prova di sé con il coraggio e la bravura [...]. Così la dignità della saggezza si eleva su tutte le altre come dignità sacerdotale, nella quale si crede che la figura stessa del dio vaghi tra i mortali». (Comunità e società, op. cit., pp. 59-60).

Per comprendere il problema delle corporazioni o gilde medievali andrebbe meglio approfondito l’ambiente produttivo e la sua incredibile capacità di dare vita a continue innovazioni organizzative, alcune delle quali fondamentali anche per il mondo moderno. Ma questa realta va esaminata con cautela per evitare troppo facili conclusioni, sia in senso negativo che positivo. Scrive Werner Sombart: «Dobbiamo guardarci dal mettere sullo stesso piano quei secoli ed i tempi nostri solo per la loro ricchezza di invenzioni. Dobbiamo invece renderci conto, se vogliamo valutare esattamente la posizione della tecnica nell’epoca del primo capitalismo, della profonda differenza esistente fra la tecnica di allora e quella di oggi e naturalmente anche della differenza fra la tecnica nell’epoca del primo capitalismo e la tecnica nel periodo precapitalistico. È un compito straordinariamente affascinante analizzare gli aspetti tipici che hanno caratterizzato l’acquisizione e il possesso del patrimonio di nozioni tecniche nell’epoca del Rinascimento e del Barocco: in particolare osservare le modificazioni dello stile della tecnica dal Medio Evo al Rinascimento e nuovamente dal Rinascimento al Barocco, considerare come le caratteristiche di queste epoche straordinarie si riflettano altrettanto chiaramente sia nella tecnica che in tutte le altre manifestazioni della cultura». (Il Capitalismo moderno, op. cit., p. 186).

Sulla nascita delle gilde le opinioni sono un poco discordi. Alcuni, come Spencer, sostengono che derivarono dai comuni di villaggio, altri, come Weber, che derivarono dalle città stesse. Scrive Herbert Spencer: «Se domandiamo quello che accadde allorché una di queste comunità di villaggio, per opera di circostanze favorevoli, crescendo, raggiunse un’insolita grandezza, o quando parecchie si unirono insieme, formando una piccola città, possiamo appurare che, mentre l’accrescimento del numero di tutti quelli occupati nelle industrie fu seguito dalla esatta combinazione, il loro minore aumento del numero di quelli occupati nei mestieri speciali deve in grado minore aver avuto tendenza a produrre la segregazione. I differenti generi di gilde devono aver avuto separatamente le loro forme indeterminate prima che venissero conosciute come gilde. Sebbene in uno stadio avanzato, quando le gilde erano diventate associazioni ordinarie, altre gilde potessero assumere artificialmente forme determinate a imitazione di quelle già esistenti, noi non possiamo supporre che le gilde originarie fossero formate artificialmente e determinatamente». (Principi di sociologia, vol. II, tr. it., Torino 1967, p. 921). Di opinione diversa è Max Weber: «Le città non sono “sorte dalle gilde”, come spesso si è ritenuto, ma al contrario le gilde hanno – di regola – avuto origine nelle città. Inoltre le gilde hanno conseguito soltanto in piccola parte il potere nelle città (specialmente nel Settentrione, e in particolare nell’Inghilterra, come summa convivia): di regola erano piuttosto le “schiatte”, niente affatto identiche con le gilde, ad attribuirsi il potere nelle città. Infatti le gilde non si identificano nemmeno con le coniuratio, cioè con l’unione cittadina». (Economia e società, vol. II, op. cit., pp. 584-585). A prescindere da questo problema la corporazione o gilda è istituzione antichissima. Giacomo Lumbroso, ellenista e papirologo, scrive: «Apprendiamo dal Talmud che tra i Giudei, i quali formavano una gran parte della popolazione industriale di Alessandria, gli orefici e gli argentieri, i tessitori ed i fabbri occupavano luoghi differenti nella vasta sinagoga». (Recherches sur l’économie politique de l’Egypte sous les Lagides, ns. tr., Torino 1870, p. 106). Riguardo l’antico Egitto Henry Rawlinson scrive: «Sebbene il figlio non seguisse necessariamente o sempre la professione del padre, pure la pratica era generale, universale quasi». (History of Ancient Egypt, vol. I, ns. tr., London 1881, p. 430). Sulla Birmania, alla metà dell’Ottocento, Shway Yoe [J. G. Scott] scrive: «Come in tutte le città orientali, quelli che si occupano di un mestiere regolare si adunano tutti insieme». (The Burman, his life and notions, vol. II, ns. tr., London 1882, p. 280). Per l’antica Inghilterra John Mitchell Kemble scrive: «Abbiamo prove che le vie, che in seguito presero, e hanno tuttora, i nomi di particolari mestieri od occupazioni, erano designate allo stesso modo prima della Conquista normanna in parecchie delle nostre citta inglesi [...]. Via dei Pellicciai, dei Mercanti di cavalli, ecc.» (The Saxons in England, vol. II, ns. tr., London 1849, p. 340). Nel secolo XVI in Inghilterra venne decretato: «Che la fila degli orefici in Cheapside e Lombard Street fosse provveduta di orefici, e che a coloro che tenevano i negozi sparsi in altre parti della città, fossero procurati negozi in Cheapside o Lombard Street, sotto pena che gli Assistants e la Livery, che non si prendevano cura di ciò, dovessero perdere i loro posti». (J. Rushworth, Historical Collection, (6 voll.), vol. II, ns. tr., London, s.d., p. 111).

Generalmente non si ha idea chiara di come fosse sviluppato il commercio e di come venissero affrontati i problemi economici relativi. In modo particolare riguardo il commercio internazionale le idee in circolazione erano molto simili a quelle attuali. Vediamo il seguente passo scritto nel 1381 da Richard Leicester: «Ritengo che la ragione per cui in Inghilterra non arrivi né oro né argento, e per cui, anzi, l’oro e l’argento che qui si trovano vadano in altre contrade, debba ricercarsi nel fatto che il paese spende troppo in mercanzia di vario genere, ossia in articoli di drogheria, merceria e pelletteria, in vini bianchi e rossi e dolci, come pure in cambi fatti in diversi modi alla Corte di Roma. Per questo sembrami che l’unico rimedio sia questo: che ogni commerciante che fa venire merci in Inghilterra faccia uscire un quantitativo di prodotti nostrani pari all’ammontare della merce su descritta: e che nessuno porti fuori del paese oro e argento, come appunto ordina lo statuto [...]. Sembrami così che il denaro che trovasi in Inghilterra vi resterà, e che gran quantità di monete e di metallo prezioso giungerà in questo paese dai paesi stranieri». (Alfred E. Bland, Philip A. Brown and Richard H. Tawney, English economic history, select documents, ns. tr., London 1914, pp. 219-220). Il rapporto fra gilde e città era molto più intimo di quanto non sembri al nostro occhio moderno. Scrive William Cunningham: «La città stessa (communitas) era l’organo per mezzo del quale si potevano aggiustare i pagamenti da farsi al mercante di un altro luogo o che si dovevano ricevere da lui, era rivolgendosi alla comunità che il creditore poteva raggiungere a una certa distanza un debitore che mancava al suo obbligo». (The Growth of English Industry and Commerce during the Early and Middle Ages, ns. tr., Cambridge 1890, p. 207). E Lujo Brentano in un saggio introduttivo a Joshua Toulmin Smith, English Gilds, London 1870, p. XCIl1, scrive: «L’intero corpo dei cittadini perfetti, cioè possessori di parti delle terre comunali di un certo valore, la “civitas”, si unì ovunque in un’unica gilda, “convivium conjuratum”, i cittadini e la gilda diventarono identici, e quello che era legge della gilda diventò legge della città».

Non è trascurabile il fatto che il lavoro aveva un ritmo ben diverso da quello del capitalismo odierno. Hartwig Peetz ci fornisce i dati delle festività nelle miniere bavaresi nel secolo XVI. In alcuni casi su 366 giorni si avevano 260 giorni festivi, in altri 263 e così via. (Cfr. Volkswissenschaftliche Studien, München 1885, pp. 186 e sgg.). Per comprendere ciò, e gli alti salari di cui parla Kropotkin, bisogna sottolineare la particolare mentalità medievale riguardo all’avidità di denaro. A questo proposito Sombart scrive: «Un’ulteriore prova a favore della mancanza di ogni aspirazione al guadagno propria dello spirito dell’economia precapitalista è fornita dal fatto che ogni impulso al guadagno, ogni cupidigia di denaro trova il proprio soddisfacimento al di fuori della produzione, del trasporto ed in parte anche al di fuori del commercio dei beni. Si corre nelle miniere, si scava in cerca di tesori, ci si dedica all’alchimia e ad ogni sorta di arti magiche per brama di denaro, si presta il denaro a interesse, perché non si riesce a guadagnarlo nell’ambito della normale attività quotidiana». (Il Capitalismo moderno, op. cit., p. 131).

Tornando allo sviluppo dell’individuo, sottolineato con cenni di grande commozione da Kropotkin, c’è da dire che gli scrittori contrari ai concetti di collaborazione e solidarietà, critici del socialismo, negano – come abbiamo visto sopra – la possibilità di rivalutare il Medioevo nel senso di una crescita dell’individuo, anche se dentro certi limiti. Vilfredo Pareto, tra gli altri, scrive: «Il Medioevo fu, a dire il vero, un’epoca cupa, di miseria intellettuale e materiale. Poveri esseri, abbrutiti dalla superstizione, vivevano nella più ripugnante sporcizia, decimati dalla peste e dalla lebbra, in preda a periodiche carestie, oppressi dal signore o dal vescovo e, spesso, da entrambi ad un tempo». (Corso di Economia Politica, vol. I, op. cit., pp. 488-489). Evidentemente si ha cura, in questi casi, di sottolineare gli aspetti negativi di una società che aveva il grande problema dell’organizzazione sanitaria e che, specie nel periodo di cui parla adesso Kropotkin, venne gettata da interessi dinastici, nel baratro di cento piccole e grandi guerre. C’è da specificare comunque che se le istituzioni medievali svilupparono l’individuo, svilupparono parimenti certe forze che determinarono la possibilità dell’avvento dell’assolutismo statale. Riguardo i problemi giuridici, che poi sono alla base per la costituzione dello Stato autoritario, così si esprime Walter Ullmann: «La concezione feudale fu incorporata nella dottrina dei poteri del principe, i quali, per fini pratici e ideologici, trovarono nel diritto feudale “naturalizzato” un grave ostacolo». (Individuo e società nel Medioevo, op. cit., p. 71). In ogni caso se quello che afferma Ullmann è vero va perfezionato chiarendo che le stesse istituzioni medievali contribuirono a riallacciare la civiltà futura con il passato, nel senso di una continuità naturale con il diritto romano. In questo stesso senso Marc Bloch afferma: «L’eredità maggiore che il feudalesimo ha lasciato alle società moderne è l’importanza data all’idea del contratto politico». (La società feudale, tr. it., Torino 1965, p. 95). È l’acuirsi del conflitto di classe che apre la strada alla rottura dello spirito di solidarietà e alla trasformazione progressiva della comunità originaria in comunità di conflitti. Scrive Herbert Spencer: «Finché le città rimasero piccole e questi gruppi separatamente contennero pochi membri, si mantenne l’unità generale, ed essa continuò anche dopo che si stabilì una divisione di casta tra i principali che impiegavano, equivalenti ai mercanti, e gli individui impiegati o mestieranti operai. Ma quando sorsero grandi città, le gelosie interne tra i membri delle gilde, presenti sia tra le caste sia tra i gruppi che componevano ciascuna casta, cominciarono a produrre i loro effetti, e ciascuno dei gruppi, ora relativamente numeroso e potente, mirò a diventare indipendente. Questa tendenza fu causa di un’altra. Con l’accrescersi dello sviluppo urbano, le funzioni dell’amministrazione, tenuta sia dal governo municipale, sia dalla gilda dei mercanti, sia da ambedue, si allargarono e si complicarono, e diventarono rapidamente inassolvibili senza una suddivisione di funzioni». (Principi di sociologia, vol. Il, op. cit., pp. 930-931).

Le nozioni di ricchi e poveri, di Magnati e Popolani, nei comuni medievali sono molto confuse. Scrive Gaetano Salvemini: «Se noi cerchiamo di concretare le nostre nozioni sulle lotte fra i partiti nei Comuni italiani, dobbiamo confessare che quasi sempre parliamo di Magnati e di Popolani come parleremmo di due quantità algebriche astratte». (Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Milano, 1966, p. 21). Il processo di dissoluzione della società feudale, iniziatosi anche prima della nascita dei comuni, aveva determinato l’impoverimento relativo dei nobili e la nascita della classe artigianale unita nelle gilde. I contadini, come abbiamo visto, restavano fuori, massa di manovra per qualsiasi tentativo reazionario o rivoluzionario. Ma anche il popolo si divideva in popolo grasso e popolo basso o magro. Scriveva Benedetto Varchi: «Gli abitatori di Firenze sono di due maniere: alcuni sono a gravezza di Firenze, cioè pagano le decime dei loro beni e sono descritti nei libri del Comune di Firenze, alcuni altri non sono a gravezza, i quali per ciò che vivono per lo più delle braccia e esercitano arti meccaniche e mestieri vilissimi, chiameremo plebei, i quali sebbene in Firenze abbiano signoreggiato più volte, non però debbono ordinariamente, non che aspirare, pensare alle cose pubbliche nei governi bene ordinati». (Storia fiorentina, vol. III, Firenze 1857, p. 22).

Di fronte all’acuirsi della situazione di sfruttamento e di differenza di classe, di fronte alla minaccia sempre più grave di perdere gli antichi benefici (ad esempio, le terre comunali), di fronte alla strapotente organizzazione di coloro che avevano finito per militarizzare il proprio potere economico, il popolo minuto e i contadini hanno solo l’arma della rivolta, che spesso si accompagna ed è acuita dall’arma dell’eresia. Scrive Simeon Luce, a cui si deve lo studio più completo sulla Jacquerie: «La spaventosa miseria del popolo delle campagne in Francia, al momento in cui scoppia la Jacquerie, deve certamente essere considerata come una delle cause più importanti e più profonde di questa insurrezione. Questa miseria era stata anche, in gran parte, determinata dalle rapine commesse dagli eserciti sotto Filippo di Valois e sotto re Giovanni, soprattutto dopo la battaglia di Poitiers. Per cui si può dire che si ebbe una vera e propria jacquerie dell’esercito che precedette la jacquerie dei contadini». (Histoire de la Jacquerie d’après des documents inédits, ns. tr., Paris 1894, p. 37).

L’analisi delle eresie medievali è, per i rivoluzionari di tutti i tempi, un argomento della massima importanza su cui ancora gli studi specializzati non hanno del tutto fatto luce. Scrive Antonino De Stefano: «Altro carattere presentano, invece, le eresie che, dopo il Mille e specialmente a partire dal secolo XII, vengono diffondendosi per l’Occidente europeo, come, oltre il Catarismo, l’Arnaldismo, il Valdismo, gli Umiliati, i Gioachimiti, i Fraticelli, gli Spirituali, ecc. Queste eresie si ispirano, non alla filosofia e alla speculazione teologica, ma al Vangelo e all’esempio degli apostoli, sono formulate, non da teologi o dotti ecclesiastici, ma da laici, uomini grossi di poche lettere o analfabeti (idiotae et sine litteris) e si diffondono, non nelle scuole o nelle corti, ma tra le fila degli uomini lavoratori, degli artigiani, degli ignoranti, come l’antico Vangelo. Sono, cioè, eresie a tipo evangelico, popolare e laico, eresie nuove per un ambiente che si viene rinnovando. L’opposizione ereticale contro la Chiesa romana, scaturita da un’ispirazione evangelica, si traduceva poi nella lotta contro l’opulenza delle chiese, lo sfarzo dei prelati, l’ingordigia dei chierici. Il motivo economico e quello religioso reciprocamente si alimentano e l’uno serve a giustificare l’altro». (“Le eresie popolari del Medio Evo”, in Questioni di Storia Medievale, Milano 1951, pp. 766-767). Ci sembra giusto vedere in questi movimenti ereticali rivoluzionari dei veri e propri precursori di alcune tesi dell’anarchismo. Scrive Max Nettlau: «Tra le sette cristiane viene ricordata particolarmente quella dei “fratelli e sorelle di spirito libero”, i cui seguaci praticavano un comunismo illimitato. Partendo probabilmente dalla Francia, distrutti dalla persecuzione, la loro tradizione è sopravvissuta maggiormente in Olanda e nelle Fiandre ed i “Klompdragger” del secolo XIV, i seguaci di Eligius Praystinck, di Anversa del secolo XVI (i loisti) sembra che derivino da quella prima setta. In Boemia, dopo gli Ussiti, Peter Chelchicky predicò una condotta morale e sociale che ricorda gli insegnamenti di Tolstoj. Anche qui ritroviamo delle sette di praticanti, chiamati “libertini diretti” tra cui soprattutto gli “adamiti”». (Breve storia dell’anarchismo, tr. it., Cesena 1964, p. 8).

Contro queste insurrezioni e queste eresie la repressione sarà ferocissima, sia da parte del vecchio potere temporale e teocratico che del nuovo potere riformato, anzi quest’ultimo, non appena sentì odore di istituzionalizzazione, divenne più feroce del primo. Veramente spaventoso il libello di Lutero Contro le empie e scellerate bande dei contadini che erano insorte chiedendo giustizia in nome di un primitivo comunismo. Egli arriva a scrivere, incitando l’autorità allo sterminio: «Dunque l’autorità proceda di buon animo e colpisca con buona coscienza finché le resta un filo di vita, essa può vantare a suo credito l’avere i contadini dalla loro una coscienza cattiva e una causa ingiusta, e qualunque d’essi venga per ciò ucciso, è perduto anima e corpo ed in eterno è preda del demonio [...]. Per la qual cosa, cari signori, ferisca, scanni, strangoli chi lo può, e se così facendo troverà la morte, felice, morte più beata giammai potrebbe incontrare, perchè muore in obbedienza alla parola ed al volere di Dio». (Sulla guerra dei contadini [1525], tr. it., in Scritti politici, Torino 1959, pp. 488-490).

La nascita dello Stato assoluto

Un insieme di motivi determinò la fine della parentesi medievale. La nascita dello Stato assoluto, protrattasi per secoli a seconda della situazione delle varie zone, fu un fatto inarrestabile. L’aumento della popolazione, la circolazione delle idee, l’ingigantirsi dei conflitti sociali, il crescere a dismisura della struttura burocratica, furono soltanto i motivi più evidenti.

Scrive Rudolph Sohm sottolineando il radicalizzarsi delle lotte fra gruppi di potere e popolo con le sue federazioni: «Il potere regio si fuse con il comando (divenuto permanente) dell’esercito, quindi si elevò ad istituzione nello Stato». (Die fränkische Reichs und Gerichtsverfassung, vol. I, ns. tr., Weimar 1871, p. 9). Il motivo del crescere della popolazione è sottolineato da Spencer: «I cantoni di Schwitz, Uri e Unterwalden avevano in origine un solo centro di riunione, e più tardi, col crescere della popolazione, ne acquistarono tre e formarono organizzazioni politiche separate, conservando a lungo una completa indipendenza. Quando il regime feudale si stese sull’Europa, diventarono nominalmente soggetti all’imperatore, ma, rifiutando obbedienza alle autorità loro preposte, si strinsero in un’alleanza solenne, rinnovata di tempo in tempo, per resistere ai nemici esterni [...]. E furono questi “Swiss” come dapprima si chiamarono, che con la loro unione formarono il nucleo delle più vaste confederazioni, che, con varia fortuna, più tardi si costituirono. Indipendenti come erano i cantoni che componevano queste più vaste unioni, ebbero in origine fra loro guerre che venivano sospese durante il tempo della comune difesa». (Principi di sociologia, vol. II, op. cit., p. 158). L’ingresso di funzionari specializzati nell’arco delle attività svolte da gente comune, ed in particolar modo delle attività giudiziarie, è sottolineato da Walter Ullmann: «Sarà tuttavia utile riflettere per un momento sulle conseguenze che ebbe per la società la sostituzione di un elemento laico con un corpo professionale di amministratori e di giuristi qualificati, soprattutto nella magistratura. Questo tipo di riflessione può anche favorire una migliore comprensione dei diversi sviluppi, politici e costituzionali nei vari paesi. Non è ancora riconosciuto universalmente che, dove predominava il sistema del governo e del diritto teocratico-discendente, come in Francia e in Germania, si cercava di portare in primo piano il professionista, cioè di non lasciare l’amministrazione della giustizia in mano alla gente comune, al “dilettante” non specializzato, come avveniva invece nella stragrande maggioranza dei casi nell’Inghilterra medievale. Simultaneamente si applicava il modo di procedura inquisitoria canonico. Questi due aspetti, il professionismo e il modo di inchiesta, ebbero effetti duraturi sulla struttura della società». (Individuo e società nel Medioevo, op. cit., pp. 77-78).

Il processo di assorbimento delle istituzioni comunali da parte dello Stato si concluse con la creazione dello Stato autoritario. Successivamente, sempre in vista del raggiungimento di necessità produttive concrete, si arrivò alla ristrutturazione su false basi autonome dello stesso centralismo statale. È quest’ultima forma che prende il corporativismo di tipo fascista. Non bisogna confondere le corporazioni medievali, con tutti i problemi che esse comportano per gli studiosi moderni, con il corporativismo fascista. A questo soggetto Spencer, con straordinario acume, scriveva: «Esiste un progetto del principe di Bismarck per ristabilire le gilde (corpi i cui membri sono sottomessi a regolamenti coercitivi), ed il suo sistema d’assicurazione da parte dello Stato, grazie al quale l’operaio avrebbe in sommo grado legate le mani [...]. In tutti questi cambiamenti vediamo un progresso verso una struttura più integrata, verso un accrescimento della parte militare in confronto di quella industriale, verso la sostituzione dell’organizzazione militare alla civile, verso un rafforzamento dei freni posti all’individuo e della regolamentazione della sua vita nei più minuti dettagli». (Principi di sociologia, vol. II, op. cit., p. 335).

La distruzione della prospettiva comunitaria venne definitivamente attuata nel corso della Rivoluzione francese e dette vita alla nascita vera e propria dello Stato moderno. Cadono le vecchie strutture di separazione che lo Stato assoluto non era riuscito a distruggere completamente, ma non cadono in nome di una maggiore libertà generalizzata, al contrario cadono in nome della libertà di sfruttamento da parte di una ristretta minoranza: la borghesia. La lotta per le terre comunali residue è significativa e le pagine di Kropotkin, nel libro La Grande Rivoluzione, sono tra le migliori dedicate alla trattazione di questo gravissimo problema storico e politico. (Cfr. in particolare l’Appendice al volume P. Kropotkin, La Grande Rivoluzione (1789-1793), Catania 1975, pp. 379-389). Sullo stesso problema così Proudhon: «Il proletariato è cacciato dalle foreste, dai fiumi, dalle montagne, gli sono contese persino le scorciatoie, presto non conoscerà altra via che quella della prigione. I progressi dell’agricoltura hanno fatto sentire generalmente il vantaggio dei prati artificiali e la necessità di abolire il vago pascolo. Da per tutto si dissoda, si affitta, si assiepano le terre comunali: nuovi progressi, nuova ricchezza. Ma il povero giornaliero che non aveva altro patrimonio che il comunale, e l’estate nutriva una vacca e pochi montoni facendoli pascolare lungo le vie, traverso i cespugli e nei campi sfruttati, perderà la sua sola e unica provvidenza. Il proprietario fondiario, il compratore o l’affittuario dei beni comunali saranno soli ormai a vendere col frumento i legumi, il latte e il formaggio. Invece d’indebolire il monopolio antico se n’è creato uno nuovo. Sino i cantonieri si riservano i cigli delle vie come un prato di loro pertinenza e ne scacciano il bestiame che non sia dell’amministrazione. Cosa deriva da ciò? Che il giornaliero, prima di rinunziare alla sua vacca, fa pascolare in contravvenzione, si mette a fare il predone, commette mille guasti, si fa condannare all’ammenda e alla prigione, a che gli servono la polizia e i progressi agrari?». (Le contraddizioni economiche. Filosofia della miseria, op. cit., pp. 227-228).

La classe operaia inglese ha sempre lottato contro un’organizzazione padronale estremamente efficiente, anche ai tempi delle prime forme della rivoluzione industriale capitalista. Le ribellioni popolari, guidate da agitatori diversi, cominciano nel 1760. Le punte di massima tensione si registrano nel 1780, nel 1795, ecc. Il 1815 fu un anno in cui la crisi del dopo guerra si fece sentire particolarmente: si ridussero le esportazioni e le importazioni e la disoccupazione aumentò notevolmente, soprattutto nelle industrie pesanti. L’inflazione e l’aumento delle tasse fecero dilagare la miseria. La legge sul grano scatenò disordini all’inizio del 1815, disordini che continuarono fino al 1816. A Londra vi furono disordini a Westminster durante la discussione della legge, a Bridport i disordini furono causati dall’aumento del pane, a Bury e a Lancs i disoccupati cominciarono a distruggere le macchine. La repressione cominciò sanguinosa: a Ely, a Newcastle (dove vennero uccisi dei minatori), a Glasgow (dove la rivolta si originò a causa delle cucine popolari), a Preston (dove venne guidata dai disoccupati del settore dei tessuti), a Nottingham (dove agivano i luddisti). A Dundee cento magazzini di grano vennero saccheggiati a causa del prezzo troppo alto delle derrate. Il Luddismo fu un’organizzazione autonoma di operai non specializzati che prese la forma di un organismo di lotta armata nella regione di Nottingham e in quella del West Riding. Lo Stato reagì impiegando un’enorme quantità di soldati contro i luddisti come si chiamarono, prendendo il nome (o lo pseudonimo) del generale Ned Ludd che aveva firmato una dichiarazione annunciante l’intenzione dei lavoratori di distruggere le macchine. Agli inizi del 1830 i lavoratori del settore agricolo, organizzati nell’esercito del capitano Swing, figura mitica che dette il nome al movimento, distrussero le macchine per battere il grano, bruciarono fattorie minacciando giudici e sacerdoti di bruciare anche loro se non accettavano le rivendicazioni avanzate. Queste due manifestazioni d’azione diretta organizzate dalla base furono schiacciate dallo Stato: 19 uomini di Swing furono giustiziati, 644 imprigionati e 481 deportati in Australia.

Lo Stato più o meno come lo conosciamo era ormai nato. Lo Stato terrorista. L’esistenza stessa del nuovo Stato diventava così un atto di terrorismo nei confronti degli oppressi e del loro diritto alla libertà. Guardando indietro dobbiamo ammettere che non sono stati atti di terrorismo soltanto quelli dell’Inquisizione, o del periodo del Terrore durante la Rivoluzione francese, o del periodo della Gestapo in Europa, o dei campi di concentramento di Stalin, ma, molto di più, sono da considerarsi atti di terrorismo continuato le condizioni infami in cui versano i lavoratori della maggior parte del mondo, il gran numero di uomini che muoiono al giorno per incidenti sul lavoro (in Italia si calcola che nuore un uomo ogni ora), le morti per fame, per le assurde guerre di conquista condotte dalla borghesia di tutti i paesi.

E fra lo Stato e la sua distruzione dalle fondamenta con una nuova vita che ricomincia a germogliare in mille posti e in mille modi diversi, la scelta non può essere che una sola: come dice Kropotkin, la scelta non può essere che quella della libertà.


Catania, 11 ottobre 1980

 


[Introduzione a Lo Stato e il suo ruolo storico, tr. it., Catania 1981, pp. 9-23]

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“Chi, da spassionato ricercatore, segue la storia dell’occhio e delle sue forme nelle infime creature e mostra tutto il graduale divenire dell’occhio, deve pervenire al grande risultato che il vedere non è stato lo scopo riposto nella formazione dell’occhio, piuttosto esso si è presentato quando il caso ebbe messo assieme l’apparato visivo. Un unico esempio di questo genere, e le ‘finalità’ ci cadono dagli occhi come bende!”.

(F. Nietzsche, Aurora)

La Grande Rivoluzione

Il lavoro di Kropotkin sulla Rivoluzione francese è veramente una delle interpretazioni fondamentali di quegli avvenimenti che trasformarono i destini dell’umanità. La sua importanza si basa su due presupposti: il disegno di uno sviluppo rivoluzionario diverso e più significativo di quello che ci viene solitamente suggerito dagli storici della borghesia, l’individuazione dei primi sintomi di quella corrente di pensiero e d’azione che, nel secolo successivo, prenderà il nome di anarchismo.

Da questi due presupposti possiamo ricavare una serie di riflessioni di grande attualità per il nostro lavoro politico. Non bisogna dimenticare, infatti, che le ricerche sugli avvenimenti del passato, e in particolare sulla Rivoluzione francese, hanno un significato in quanto servono come base di partenza per un approfondimento di certi problemi rivoluzionari, che oggi sono all’ordine del giorno.

Dal punto di vista dell’indagine storica, il lavoro di Kropotkin può considerarsi superato sotto diversi aspetti. La documentazione è spesso parziale e lacunosa, anche perché egli non poté attingere direttamente agli archivi francesi, ma solo lavorare sulle raccolte del British Museum. Gli studi più recenti di George Lefebvre, di Albert Mathiez, di Albert Soboul, e di altri, hanno approfondito l’indagine archivistica e hanno riparato a non poche sviste degli storici della generazione precedente e, quindi, dello stesso Kropotkin. Ma, questa nuova generazione, tranne l’eccezione di Daniel Guérin e di qualche altro meno noto, ha imposto un’interpretazione di stretta osservanza marxista, quando non si è arrivati, addirittura, a una visione stalinista di esaltazione incondizionata del giacobinismo.

Comunque, non è questo il problema più importante. Non suggeriamo la lettura del lavoro di Kropotkin per documentarsi sulla Rivoluzione francese, ma la suggeriamo perché in esso sono registrati, con grande accuratezza, alcuni fenomeni che poi videro il loro completo svolgersi nei decenni successivi e, per molti aspetti, sono tutt’ora in corso di svolgimento.

L’interpretazione è legata costantemente all’azione popolare nel corso dei fatti rivoluzionari. Quest’azione è vista come un tutto continuo, non come qualcosa che vide la luce con il debutto della rivoluzione. Prima, nelle sommosse e nelle rivolte disorganizzate, si erano avuti i sintomi di quello che dopo sarà la grande bufera. Ma da queste rivolte parziali si può risalire indietro, senza limiti: tutta la storia dell’uomo diventa, in questo modo, la storia delle sue lotte e delle sue rivolte contro l’autorità.

Kropotkin insiste molto sulla contemporanea azione delle idee illuministe e dell’azione popolare, e cerca di amalgamare queste due componenti, considerate predominanti, con l’analisi delle condizioni economiche e sociali al momento del debutto rivoluzionario. Ma, a parte la presenza di certe idee tra le masse popolari, quello che colpisce di più, noi, lettori di oggi, è la realizzazione di una organizzazione democratica di base, autogestita, che funziona benissimo finché non venne uccisa da parte del potere borghese.

Come è poi accaduto nel corso della Rivoluzione russa, dopo l’inizio a forte impronta popolare, la mancanza di una maturità collettiva riguardo gli obiettivi, dette mano libera alle minoranze più preparate e più coscienti, per impadronirsi della guida del movimento popolare.

Gli storici reazionari hanno cercato di sminuire il valore di questi tentativi di democrazia diretta ma senza riuscirvi (cfr. A. Cochin, La Révolution et la libre pensée, Paris 1924). Per altri motivi, lo stesso hanno fatto gli storici marxisti (cfr. A. Soboul, La Rivoluzione francese, 2 voll., tr. it., Bari 1971).

Lo stato di sviluppo dell’economia e dei rapporti sociali al momento dello scoppio della Rivoluzione francese era tale che la borghesia poté con facilità prendere il sopravvento. La sua maggiore compattezza di classe rispose subito di fronte alle istanze egualitarie del popolo, opprimendolo per garantire una libertà di classe che significava sfruttamento per i lavoratori. Nel libro di Kropotkin emerge chiaramente lo sforzo rigeneratore attuato dal popolo, l’importanza del suo messaggio per le future generazioni, per le future rivoluzioni.

Daniel Guérin, che ha tentato una rivalutazione dell’interpretazione di Kropotkin (La lutte de classes sous la Première République, 2 voll., Paris 1968), scrive che il rafforzamento del potere centrale, attuato nel 1793, ebbe solo apparentemente lo scopo di far fronte alla controrivoluzione, in realtà si ebbe la volontà cosciente di reprimere la democrazia diretta dei sanculotti (cfr. vol. II, pp. 3-7). E altrove, in un altro lavoro dove cerca di fissare le origini dell’anarchia nella Rivoluzione francese (Jeunesse du socialisme libertaire, ns. tr., Paris 1959), scrive: «Non è lampante, ad esempio, che il decreto del 4 dicembre 1793 sul rafforzamento del potere centrale coincise con un alleggerimento e non con un aggravarsi della severità riguardo i controrivoluzionari? Jaures ha visto bene, questo decreto fu in buona parte una macchina da guerra contro gli “hebertisti”, cioè contro l’avanguardia popolare». (Ib., p. 48).

Il secondo presupposto del lavoro di Kropotkin è la presenza, all’interno della rivoluzione francese, di fermenti che si possono definire anarchici. Egli tratta diffusamente di quei gruppi che furono chiamati anarchici da Jacques-Pierre Brissot e come tali combattuti, ma il discorso andrebbe approfondito, ovviamente in sede di storia dell’anarchismo. Kropotkin riporta un riferimento testuale a un opuscolo di Brissot, da noi rintracciato alla Biblioteca nazionale di Parigi, che comincia: «È dall’inizio della Convenzione che denuncio la presenza in Francia di un partito disorganizzatore, che tenta di dissolvere la repubblica nel momento stesso della sua nascita. Si è negata l’esistenza di questo partito, gl’increduli in buona fede devono adesso dichiararsi convinti. Proverò oggi: a) che questo partito di anarchici ha dominato e domina quasi tutte le deliberazioni della Convenzione, e le operazioni del Consiglio esecutivo, b) che questo partito è stato ed è ancora l’unica causa di tutti i mali, sia interni che esterni, che affliggono la Francia». (A ses commettans, sur la situation de la Convention Nationale, sur l’influence des Anarchistes, et les maux qu’elle a causés, sur la nécessité d’anéantir cette influence pour sauver la République, ns. tr., Paris, 23 maggio 1793).

La questione era che gli “anarchici” non volevano fermare la rivoluzione alla costituzione e alla morte del re, volevano andare avanti, col popolo e in opposizione ai giacobini, fino all’uguaglianza e alla libertà (vere). Brissot partiva dal principio, tanto caro agli stalinisti di oggi, che essendo il popolo padrone, dopo l’uccisione del re, non può più volere la rivoluzione in quanto farebbe la rivoluzione contro se stesso. Quindi, coloro che sostengono la necessità della continuazione, sono controrivoluzionari, per lo stesso motivo per cui, ieri, erano rivoluzionari.

Sarà Jean Varlet il teorico rivoluzionario più conseguente di quel momento, capace di vedere il pericolo che si apriva davanti alle conquiste popolari: quello di essere strumentalizzate da una minoranza militare, legislativa e burocratica. In una serie di opuscoli scritti sotto l’incalzare degli avvenimenti, egli illustra il principio anarchico della rivoluzione popolare, autogestita e libertaria. Il più importante è quello pubblicato nel 1794, dopo Termidoro. Ho trovato alla nazionale di Parigi due edizioni dello stesso opuscolo col titolo diverso: la prima è del 10 vendemmiaio, la seconda è del 15, la prima porta il titolo L’explosion, la seconda Gare l’explosion, con l’aggiunta di un motto che non si trova nella prima edizione (“Perisca il governo rivoluzionario piuttosto che un principio”): il contenuto dei due opuscoli è identico. Si tratta di un classico dell’anarchismo nel vero senso della parola. Non possiamo parlarne qui dettagliatamente ma basta citare questa breve frase: «Che mostruosità sociale, che capolavoro di machiavellismo, che è questo governo rivoluzionario! Per ogni essere ragionevole, governo e rivoluzione [il corsivo e di Varlet] sono incompatibili, a meno che il popolo non voglia costituire delle basi durature di potere insurrezionale contro se stesso, la qual cosa è assurda a credersi». (Ib., p. 8).

Riscoprire oggi, nella Rivoluzione francese, un filone di pensiero anarchico, insieme alle riflessioni fatte a suo tempo da Kropotkin, chiarificatrici sull’argomento, significa legare il processo di sviluppo dell’anarchismo ad un processo ben più ampio: quello della lotta dell’uomo contro il potere, una lotta che scorre attraverso tutta la storia e che la contrassegna dalla parte dei vinti. Fermarsi su questi problemi, significa, in sostanza, chiedersi: che fare, oggi, di fronte alle responsabilità che ci attendono? Proprio in questo senso Kropotkin definiva la Rivoluzione francese “notre mère a tous”, e su di essa la polemica e il dibattito sono ancora aperti. È su di essi che dobbiamo ora fermare la nostra attenzione.

Nel 1957 Pierre Naville scriveva: «La critica dello Stato si trova tutta nella rivoluzione francese». (De l’Aliénation a la jouissance, Paris 1957, p. 91). In pratica tutti i rivoluzionari hanno studiato a fondo questo grandioso avvenimento. Per primo Proudhon con un’analisi dettagliata (Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, Paris 1851). Bakunin ritornerà continuamente su di essa (cfr. H. E. Kaminski, Bakounine, Paris 1938). Rocker ci ha descritto l’influenza dei vecchi giacobini su Liebknecht (cfr. R. Rocker, Johann Most, Berlin 1924, p. 53). Per Marx ed Engels sarebbe inutile citare i passi relativi, tanto essi sono noti. Non dimentichiamo il sempre dimenticato Stirner che opera una interessante distinzione tra terzo stato e masse nella rivoluzione francese. Così scrive: «La borghesia ha il suo potere e al tempo stesso i suoi limiti nella costituzione, in una carta, in un principio legale, cioè “giusto”, che si regola e regna egli stesso in base a “leggi razionali”, insomma nella legalità. Il periodo della borghesia è dominato dallo spirito britannico della legalità. Una riunione di stati provinciali, per esempio, ci richiama continuamente alla memoria che le competenze che le sono state assegnate non vanno oltre a questo o a quel punto e, in generale, che l’autorità che ne ha graziosamente concesso la convocazione può anche cambiare idea e ordinarne lo scioglimento. Essa ricorda continuamente a se stessa il motivo della sua convocazione, cioè la sua vocazione. Non si può certo negare che io sono stato generato da mio padre; ma una volta che sono al mondo, non m’interessano affatto le intenzioni con cui egli mi ha generato; quale che sia la vocazione che egli ha voluto affibbiarmi, il motivo per cui mi ha chiamato alla vita, io faccio quello che voglio io. Per questo, all’inizio della rivoluzione francese, anche l’assemblea degli stati generali, che pure era stata convocata, si considerò, a ragione, indipendente da chi l’aveva convocata. Essa esisteva e sarebbe stato sciocco se non avesse fatto valere il diritto dell’esistenza, ma si fosse immaginata di essere dipendente da qualcuno come da un padre. Chi è stato chiamato, convocato, non deve più chiedersi: “Che cosa voleva chi mi ha chiamato, quando mi creò?”, bensì: “Ora che sono qui, in virtù di quella chiamata, che cosa voglio?”. Né chi l’ha convocato, né i committenti, né la carta che rese possibile la sua convocazione, niente sarà per lui una potenza sacra ed intoccabile. Le sue competenze dipendono non da una qualche autorizzazione, ma dal suo potere; egli non riconoscerà alcuna limitazione di “competenze”, non vorrà essere ligio alla legge. Questo darebbe luogo, se mai fosse possibile aspettarsi qualcosa del genere dalle camere del parlamento, a una camera perfettamente egoista, sciolta da ogni cordone ombelicale e senza riguardi. Ma le camere sono sempre devote e perciò non c’è da stupirsi se in esse si fa largo tanto “egoismo” molle o indeciso, cioè ipocrita.

«I membri degli ordini devono restare nei limiti che sono stati loro assegnati dalla carta costituzionale, dalla volontà del re e simili. Se non vogliono o non possono farlo, devono “dimettersi”. Chi mai, fra questa gente fedele al dovere, potrebbe agire altrimenti, mettendo se stesso, le proprie convinzioni e la propria volontà al primo posto? Chi sarebbe mai tanto immorale da far valere la propria volontà, anche a costo di mandare in rovina la comunità e tutto quanto? Ci si mantiene scrupolosamente entro i limiti delle competenze che ci sono state assegnate; entro i limiti del proprio potere non si può certo non restare in ogni caso, perché nessuno può fare più di quel che può fare. “La mia potenza ovvero la mia impotenza sarebbe il mio solo limite e l’attribuzione di competenze, invece, soltanto una coercizione da parte delle istituzioni? Io dovrei riconoscermi in queste idee sovversive?! No, no, io sono un – cittadino ligio alla legge!”.

«La borghesia professa una morale che è strettamente connessa alla sua essenza. La sua prima esigenza è che si abbia un lavoro sicuro, si eserciti una professione onorevole e si tenga una condotta morale. Immorali sono, secondo lei, il cavaliere d’industria, la cortigiana, il ladro, il bandito e l’assassino, il giocatore, l’uomo senza un patrimonio e senza un lavoro, l’uomo leggero. L’atteggiamento che il bravo borghese assume di fronte a questa gente “immorale” viene da lui stesso definito “profondissima indignazione”. Tutti questi tipi non hanno né una residenza stabile, né solidi interessi, né una vita tranquilla e rispettabile, né un reddito fisso, ecc.; insomma la loro esistenza non poggia su alcuna base sicura ed essi appartengono perciò alla pericolosa categoria dei “singoli” e degli “isolati”, al pericoloso proletariato: sono “individui scalmanati”, che non offrono alcuna “garanzia” e “non hanno niente da perdere” e quindi niente da arrischiare. L’uomo che contrae un vincolo matrimoniale, che si fa una famiglia, ne resta legato e perciò dà affidamento, offre una presa sicura; la prostituta, invece, no. Il giocatore rischia tutto al gioco, rovina se stesso e altri: nessuna garanzia. Si potrebbero comprendere sotto il nome di “vagabondi” tutti coloro che appaiono, al borghese, sospetti, ostili e pericolosi, giacché egli disdegna ogni tipo di vita vagabonda. E ci sono anche vagabondi dello spirito, ai quali la dimora degli avi appare troppo angusta e opprimente per potersene restare tranquilli in quello spazio ristretto: invece di mantenersi entro i limiti di un modo di pensare moderato e di prendere per verità intoccabile ciò che a tanti dà conforto e sicurezza, essi oltrepassano tutti i confini della tradizione e vagabondano in strane regioni del pensiero, sollevando critiche irriverenti e dubitando impudentemente di tutto, questi vagabondi stravaganti. Essi formano la classe degli instabili, degli irrequieti, dei mutevoli, cioè dei proletari, e vengono detti, quando manifestano la loro natura randagia, “teste inquiete”». (L’unico e la sua proprietà, tr. it., Catania 2001, pp. 86-88).

Questo interesse costante ha scatenato un dibattito che ha visto di fronte autoritari e antiautoritari, come, nello stesso corso della rivoluzione, furono di fronte giacobini e antigiacobini (hebertisti, arrabbiati, anarchici, ecc.). Il dissidio non è soltanto teorico, coinvolge l’essenza stessa del discorso rivoluzionario.

È in questo modo che si possono rintracciare le origini dell’autoritarismo marxista e leninista, collocandole, appunto, nella Rivoluzione francese, e precisamente nella tendenza giacobina. L’interpretazione della rivoluzione come fatto di massa, ma disciplinatamente diretto da una minoranza di rivoluzionari professionisti, l’organizzazione dello Stato post-rivoluzionario, la creazione di nuove strutture di potere, tutto ciò è tipico degli autoritari che esaltano i giacobini del 1793, non rendendosi conto che gli interessi perseguiti furono esattamente quelli della borghesia.

Questa brava gente cade spesso in una curiosa contraddizione: da un lato loda l’efficienza della centralizzazione rivoluzionaria dei giacobini, facendo a volte un breve cenno sulla cattiva sorte toccata ai sostenitori della rivoluzione popolare (finiti sulla ghigliottina per primi), dall’altro considera l’azione dei giacobini come un male necessario, una centralizzazione attuata per “salvare” la rivoluzione.

I marxisti, ad esempio, riconoscono che i giacobini furono dei borghesi e che il loro ideale era esattamente quello della borghesia, ma non possono fare a meno di lodare i loro metodi – specialmente Lenin – perché sommamente produttivi ai fini immediati della rivoluzione.

Ora, se i giacobini furono i rivoluzionari borghesi del 1793, i loro metodi non si possono staccare nettamente dal loro ideale. L’eliminazione di ogni tentativo di emancipazione delle masse e la conquista del potere da parte di una ristretta elite di tecnici e di burocrati, era il loro ideale, i loro metodi erano quelli del “terrore”. Se i rivoluzionari di oggi lottano per una rivoluzione proletaria, non possono certamente abbracciare l’ideale borghese (e su questo sono tutti d’accordo), ma stranamente non tutti accettano il rifiuto dei metodi che accompagnavano l’ideale borghese, appunto i metodi del “terrore”.

L’autoritarismo, sotto qualsiasi forma esso si presenti, resta sempre un fenomeno strettamente borghese. Anche se lotta in nome del proletariato, una volta che imposta la sua lotta in modo autoritario, ricorrendo ai metodi terroristici del vecchio giacobinismo, non può che ricostruire una nuova casta dominante, diversa, nel nome, della vecchia borghesia, ma identica nella sostanza e negli intendimenti. L’insegnamento che ci viene dalla Rivoluzione russa non può essere dimenticato.

Rocker scrive: «Riferirsi alla Rivoluzione francese per giustificare la tattica dei bolscevichi in Russia significa ignorare completamente i fatti storici [...]. L’esperienza storica ci mostra precisamente il contrario. In tutti i momenti decisivi della Rivoluzione francese l’iniziativa vera dell’azione sorse direttamente dal popolo. È in questa attività creatrice delle masse che risiede tutto il segreto della Rivoluzione [...]. In Russia si ripete oggi quello che è successo in Francia nel marzo 1794». (Der Bankrott des russischen Staatskommunismus, ns. tr., Berlin 1921, pp. 28-31).

In Francia per la prima volta nella storia, appare chiaramente il processo classico dell’involuzione rivoluzionaria, preparata e realizzata dall’autoritarismo. L’altro grande esempio, a livello mondiale, sarà la Rivoluzione russa.

I giacobini stessi, all’interno della propria organizzazione, si divisero partendo da questo problema: vedere nella rivoluzione il portato della base o vedere qualcosa che piove dall’alto. I “plebei” aderenti ai giacobini sostennero, evidentemente, la rivoluzione popolare, mediata da un’avanguardia rivoluzionaria: ma furono i primi ad andare sulla ghigliottina, i borghesi, aventi nelle mani la direzione del movimento giacobino, riuscirono a imporre la loro interpretazione di una rivoluzione dominata da una elite di potere, e finirono sulla ghigliottina subito dopo, uccisi, a loro volta, dai conservatori reazionari che vedevano con chiarezza come quella tesi avesse ormai fatto il proprio tempo.

La rivoluzione è sempre un fatto che emerge da un contrasto: in assenza del contrasto non ci sarebbe rivoluzione, ma sviluppo armonico, idilliaco, di una società perfetta che si ripresenta sempre differente ma, nello stesso tempo, identica a se stessa, nella propria perfezione.

Il contrasto principale è quello economico, contrasto che assume nel periodo di massimo sviluppo del capitalismo, le caratteristiche macroscopiche che portano alcuni analisti a denunciarlo come il solo contrasto da tenere presente perché capace di condizionare tutta la realtà. In effetti la rivoluzione, pur fondandosi sul contrasto economico tra sfruttati e sfruttatori, è fatto troppo complesso per essere racchiuso all’interno di una formula dogmatica. Maturando può essere seguita con l’aiuto interpretativo della storia e dell’esperienza del passato, ma fino a un certo punto. Nel suo realizzarsi porta con sé tante modificazioni, tanti aspetti nuovi, tante esplosioni di creatività che non sempre coloro che sono addetti ai lavori riescono a capire bene nella loro importanza.

Ecco perché lo studio delle rivoluzioni del passato e, in particolare, della Rivoluzione francese, è di grande importanza, anche se non può avere la pretesa di porsi come uno studio metodologico diretto a cercare i sistemi rivoluzionari migliori per impiegarli tali e quali. In questo senso aveva torto Lenin quando si identificava con i metodi del “terrore” giacobino. Ogni cosa ha una sua dimensione storica, si ripresenta con moduli di attuazione estremamente differenti, risulta, in altre parole, irripetibile. E le rivoluzioni non sfuggono alla regola.

Da parte loro, Marx ed Engels restarono combattuti tra una interpretazione e l’altra del significato e del valore della Rivoluzione francese. Il loro concetto di “dittatura del proletariato” venne qualche volta riportato agli avvenimenti del 1793 e qualche altra volta considerato come un aggiustamento, un ritrovato analitico moderno, per riportare le armi del proletariato alla modernità del conflitto di classe. Ma la presenza stessa della parola “dittatura” indica con chiarezza la costante della tradizione borghese e giacobina all’interno della nuova interpretazione marxista. Infatti, alle masse, al loro movimento spontaneo di rivendicazione e di lotta, agli spunti creativi di una nuova organizzazione sociale, non può che risultare estraneo il concetto di “dittatura”. Dittatura da parte di chi? e su che cosa? Certo non da parte delle masse e non su loro stesse! Sarebbe un contro senso. Così Rocker: «L’idea dei “soviet” è un’espressione precisa di ciò che noi intendiamo per rivoluzione sociale, essa corrisponde alla parte costruttiva del socialismo. L’idea di dittatura del proletariato è di origine puramente borghese, e non ha niente in comune con il socialismo. Si possono artificialmente avvicinare le due nozioni, l’una all’altra, ma il risultato sarà sempre una caricatura dell’idea originale dei soviet, e arrecherà sempre pregiudizio al socialismo». (“Freie Arbeiterstimme”, ns. tr., New York, 15 maggio 1920).

L’idea di “dittatura” implica la presenza di qualcuno (dittatore) o di qualche organizzazione precisa (partito), che possa esercitarla in nome di qualcun altro (le masse). Infatti, specie nell’elaborazione leninista, molto più chiara su questo punto, la dittatura del proletariato diventa una dittatura non esercitata dal proletariato – la qual cosa cadrebbe nella contraddizione – ma una dittatura esercitata dal partito a nome del proletariato.

Si vede con chiarezza come qui riappaia l’idea giacobina e borghese dell’organizzazione rivoluzionaria che deve prendere il potere e gestirlo. Ma il potere va preso, non solo contro i vecchi padroni, ma anche contro il proletariato stesso e le sue organizzazioni spontanee di lotta, qualora queste ultime volessero proporre una gestione autonoma e indipendente. In questo modo le masse (il proletariato stesso) e i padroni, sono considerati controrivoluzionari allo stesso titolo e portati indiscriminatamente alla ghigliottina (giustamente considerata un giocattolo di fronte ai moderni carri armati): così si è intervenuti in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Polonia.

La dittatura a nome del proletariato può diventare, in qualsiasi momento, dittatura sul proletariato. Così si aprono i campi di concentramento e i lavori forzati, e si trasforma il socialismo in una tragica farsa.

Ma la lettura del volume di Kropotkin ci può illuminare riguardo l’altra possibilità, apertasi con la stessa rivoluzione francese, quella della costruzione del vero socialismo, partendo dal basso, in forma autogestionaria. Se dai giacobini derivano in linea diretta i moderni marxisti autoritari, dagli oppositori dei giacobini discendono gli antiautoritari di oggi. I sanculotti scoprirono spontaneamente la democrazia diretta, avente come base i club e i gruppi di quartiere, qualcosa di assolutamente diverso da tutto quello che era stato teorizzato e realizzato prima, e che rientrava nei programmi della borghesia rivoluzionaria. In forma embrionale nacque il concetto di spontaneità e di creatività delle masse, sia pure con tutte quelle limitazioni che resero possibile la facile vittoria delle forze della borghesia autoritaria, desiderose di fare tornare al più presto la calma.

È per questo che diciamo che la Grande Rivoluzione non fu soltanto la culla della democrazia parlamentare borghese, ma fu anche la culla della democrazia diretta proletaria, sebbene i tempi e il grado di coesione e di coscienza dei lavoratori, non fossero maturi perché quei germi fruttassero pienamente.

Per sostenere la legittimità della distruzione delle istanze libertarie proposte dalla base, nel corso stesso della rivoluzione, gli autoritari hanno sempre avanzato il concetto di “necessità”. Anche il flagello stalinista è stato giustificato con la “necessità” del comunismo in un solo paese, un alibi che non poteva reggere a lungo. L’avvento dei tecnici borghesi e l’impadronimento dei punti chiave del dominio rivoluzionario da parte della burocrazia di nuovo stampo, sono stati sempre considerati i due punti principali del successo della rivoluzione del 1793. In effetti quello che si fece fu di uccidere l’interno dinamismo della rivoluzione negando ogni possibilità creativa all’iniziativa popolare e gettando le basi del futuro Stato centralizzato, che avrebbe trovato un Napoleone pronto a gestirlo per le sue mire imperiali.

La verità è che in tutti i momenti decisivi della rivoluzione francese fu sempre l’iniziativa popolare a creare le condizioni necessarie alla vittoria, poi, a cose fatte, l’oppressione borghese, con le sue strutture e le sue tecniche, con la sua necessità e con la sua burocrazia, ebbe il sopravvento, uccidendo ogni spontaneità e ogni creatività e ricostruendo lo Stato.

Kropotkin conclude dicendo: «Ciò che si impara oggi studiando la Grande Rivoluzione, è che fu la fonte di tutte le concezioni comuniste, anarchiche e socialiste della nostra epoca. Non conosciamo ancora bene la madre di noi tutti, ma la ravvisiamo oggi in mezzo ai sanculotti, e comprendiamo quanto ci resta da imparare da lei».


Catania, 21 aprile 1975

 


[Introduzione a La Grande Rivoluzione. 1789-1793, Catania 1975, pp. 7-13]

* * * * *

“L’ideale ‘l’uomo’ è realizzato non appena la concezione cristiana si ribalta in questa tesi: ‘Io, questo unico, sono l’uomo’. Il problema concettuale: ‘Che cos’è l’uomo?’ si è così trasformato nel problema personale: ‘Chi è l’uomo?’. Col ‘che cosa’ si cercava il concetto per realizzarlo; col ‘chi’ non c’è assolutamente più problema, bensì la risposta è già presente di persona in colui che pone il problema: il problema si risponde da sé.

“Si dice di Dio: ‘Nessun nome può nominarti’. Ciò vale per me: nessun concetto mi esprime, niente di quanto viene indicato come mia essenza mi esaurisce: sono solo nomi. Di Dio si dice pure che è perfetto e che non ha il compito di aspirare alla perfezione. Anche questo vale solo se detto di me stesso.

Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momento in cui so di essere unico. Nell’unico il proprietario stesso rientra nel suo nulla creatore, dal quale è nato. Ogni essere superiore a me stesso, sia Dio o l’uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e impallidisce appena risplende il sole di questa mia consapevolezza. Se io pongo la mia causa su di me, l’unico, essa poggia sull’effimero, mortale creatore di sé che se stesso consuma, e io posso dire:

“Io ho posto la mia causa su nulla”.

(M. Stirner, L’unico e la sua proprietà)

La forbice dell’anarchia

Come primo risultato di questa proposta si ha che io non so cosa dire. Su Stirner si potrebbe parlare moltissimo e altrettanto su Kropotkin, però iniziare a parlare quando il materiale è tanto può essere dispersivo. Occorrerebbe sapere tutte le aspettative di chi sta ascoltando, in caso contrario si parla nel vuoto dell’astrattezza.

Cosa stiamo per fare qua? Qual è il compito che in particolare spetta a me che parlo per primo?

Suggerire i punti di discussione? Avanzare delle provocazioni? Oppure fare una conferenza? Evidentemente, sia la struttura del discorso, sia i concetti a cui bisogna ineluttabilmente far ricorso se si vuole dare fiato alla gola, sono diversi nelle diverse prospettive.

Io propongo di fare come chi non sapendo come sarà il pranzo arrischia un assaggio. Questo che vuol dire? Qui mi corre l’obbligo di chiedere se anche coloro che (non so per quale motivo) non sono stati deputati a intervenire, hanno intenzione di fare qualche intervento. In caso contrario finisce che faccio la solita conferenza e buonanotte.

Io mi sono posto un problema che mi è parso centrale: esiste veramente o ce la siamo sognati noi una differenza radicale, antitetica, tra Stirner e Kropotkin, volendo ricorrere a queste due figure del movimento anarchico, del pensiero anarchico? Esiste una differenza così radicale tra quello che viene spacciato come individualismo e quello che viene considerato come comunismo anarchico? Evidentemente qua l’aggettivo è fondamentale. È una domanda. Io mi sono posto questa domanda. Non possedendo la certezza mi pongo questa domanda. Tutte le volte che ho provato a leggere qualcosa sull’argomento mi sono trovato a vedere che non erano così lontani uno dall’altro. Distanti nel tempo e nella cultura, questi due anarchici pensarono e agirono negli ambienti che li ospitarono, si espressero in modo diverso, ma nella sostanza stavano parlando della stessa cosa. Cioè stavano parlando dell’avventura dell’uomo nel mondo, di come l’individuo sia capace di costruire se stesso e, nel costruire se stesso, rapportarsi con gli altri e migliorare un vivere sociale che quasi sempre appare insopportabile e distruttivo. Preoccupazione che io vedo parimenti in Stirner e in Kropotkin.

Certo, in Stirner vedo una preoccupazione più specificamente di natura filosofica, una attenzione a quelli che erano i problemi precisi, tecnicamente impostati, della filosofia del suo tempo. Alcuni sostengono che questo aspetto in Stirner è fondamentale, indispensabile per capire il suo pensiero, costoro hanno la loro parte di ragione, ma a me questo aspetto è sembrato abbastanza secondario. Ciò non vuol dire che Stirner possa essere usato semplicemente come una piattaforma da cui partire per guardarsi attorno e decidere cosa fare oggi. Ma, approfonditi i problemi tecnici che attengono al pensiero filosofico stirneriano, il resto penso sia da indirizzarsi all’analisi degli strumenti resi disponibili per l’azione.

Su Kropotkin c’è un gran discorso da fare riguardo la sua appartenenza a una corrente di pensiero scientifico che oggi ha fatto il suo tempo e che deve essere affrontata criticamente, però, nello stesso tempo, c’è un altro messaggio, c’è l’avere individuato una capacità autonoma del movimento inteso come processo rivoluzionario, non solo come parte della realtà, una capacità di muoversi a prescindere degli interventi che singolarmente ognuno può fare.

Dentro quali limiti questo discorso è anche oggi plausibile? Quando Kropotkin parlava del concetto di “seme sotto la neve”, si riferiva al fatto che l’anarchismo, la società anarchica, esiste oggi, non esisterà in futuro più o meno remoto, solo che oggi essa è sepolta sotto un manto di neve costituito dallo Stato, dalle sovrastrutture, dalle istituzioni esterne e interne.

Quest’ultimo aspetto è una scoperta di Kropotkin. In che modo può essere utilizzata? Lui non si è reso conto bene fino a che punto le strutture interiorizzate dentro di noi possono essere di ostacolo più delle strutture esterne e quindi contribuire a fare diventare più spessa quella coltre di neve che nasconde il seme. Per cui non basta limitarsi a tutelare l’esistenza di questo seme e cercare di fare in modo che si arrivi a quelle condizioni esterne che favoriscono la fioritura. A un certo punto potrebbero essere necessari interventi tutt’altro che pacifici nei riguardi della struttura, nel senso che quel seme sotterraneo non è così determinato autonomamente a fiorire e a svilupparsi nella direzione del miglioramento, del progresso, della civiltà, e sarebbe interessante certamente chiedersi quanto di questo concetto fondato su presupposti deterministi, cioè specifici del mondo e dell’atmosfera scientifica del tempo di Kropotkin, abbia influito sulle malaugurate scelte fatte riguardo il sostegno della Francia e degli altri Stati alleati contro gli Imperi centrali, nel corso della Prima guerra mondiale. Di certo, questo concetto metodologico di fondo ha avuto la sua influenza su quella scelta.

Ciò ammesso si dovrebbe derubricare tutto il ragionamento basato sull’ipotesi evoluzionista, perché non è tanto importante oggi chiedersi cosa ne è stato di quel lavoro scientifico, quanto invece se quel lavoro, così impostato, poteva essere pericoloso (e potrebbe esserlo anche oggi) per le scelte rivoluzionarie, suggerendo quel “salviamo il salvabile”, partecipiamo alla guerra dalla parte di chi è meno “dannoso”, in quanto questa è la strada per favorire la fioritura del seme sotto la neve.

Questi sono problemi presenti oggi sul tappeto, basta pensare alla situazione in Jugoslavia per chiedersi: cosa si può fare? Cosa direbbe Kropotkin di fronte a una situazione come questa che stiamo vivendo noi? Stenderebbe un altro Manifesto dei Sedici?

Non penso che ci sia da dire molto di più su questo argomento, cioè su che cosa porta in sé di preoccupante un’ipotesi rivoluzionaria anarchica fondata sul concetto di “seme sotto la neve”.

In effetti noi non possiamo accettare la tesi fondata su un processo che si indirizza progressivamente verso il miglioramento della società, mentre il nostro intervento si può limitare a modificare una parte di quelli che sono gli elementi negativi di oggi. Per esempio, Kropotkin fa un’analisi sulla condizione dell’industria del suo tempo, dell’agricoltura del suo tempo, della città del suo tempo, del rapporto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Tutte riflessioni che in parte sono valide anche oggi, e in base a queste riflessioni suggerisce che applicando determinate tecniche, risolvendo certi problemi, di per sé si ottiene un miglioramento, si viaggia, si va verso una società migliore, la quale società migliore, con ulteriori aggiustamenti e miglioramenti, potrebbe anche concludersi con quello che gli anarchici sognano sia l’anarchia.

Questo modo di ragionare va rivisto radicalmente e criticamente. L’anarchia non è una strada sicura, non è una conclusione certa. Una frase come quella di Bovio: “l’anarchia sarà perché verso l’anarchia va la storia”, è una frase che oggi non è possibile accettare, anche per il lavoro di un pensatore così lontano nel tempo, e anche lontano da queste problematiche, com’è Stirner. Comunque questo è un amplissimo problema aperto.

Un’altra analisi che Stirner richiama alla mente è quella della “differenza”. In che modo la differenza può essere importante per identificare i limiti e le possibilità di costruire il singolo, l’individuo, “l’unico”? In che modo questo “unico” ha la possibilità e la capacità di diventare quello che è realmente (non un’altra cosa, diversa da sé) – concetto che successivamente verrà allargato da Nietzsche. Si tratta, quest’ultimo, di un problema fondamentale nella vita di oggi. Un problema contraddittorio. Se noi ci limitiamo a cercare le differenze, non facciamo altro che un lavoro di identificazione, di separazione, cioè un catalogo in cui elenchiamo quali sono queste differenze, ecc. Ma, nello stesso momento in cui identifichiamo queste differenze, smarriamo la possibilità di identificare un terreno comune in cui queste differenze, scomparendo come tali, rinascano come diversità, cioè differenze di altro tipo. Mi spiego meglio. Se noi identifichiamo l’altro come diverso da noi, corriamo il rischio di isolarlo, ma se non operiamo questo processo di identificazione corriamo il rischio di farlo scomparire come uomo. Mi spiego ancora meglio. C’è il famoso discorso sul razzismo. Se neghiamo l’identità dell’altro, il quale è diverso, se occultiamo questa identità e la inglobiamo alla nostra situazione dominante: noi siamo i possessori della capacità di inglobamento, se gli suggeriamo di smarrire la sua identità lo uccidiamo come uomo, perché l’altro non fa parte delle nostre condizioni, ha altre condizioni. Per cui diciamo: tu, per essere uguale agli altri – questi altri sarebbero quelli che dominano il contesto – devi smarrire la tua identità. Ciò è sbagliato. SOS razzismo, in Francia, è proprio questo che faceva. Gli Arabi devono diventare come i Francesi, ma gli Arabi non sono Francesi, sono Arabi, cioè hanno una differenza che non può scomparire se non appiattendoli e snaturandoli.

Questo tipo di differenza, una volta identificata, approfondita, non vuol dire una ricerca razzista della distanza, al contrario, vuol dire una ricerca delle caratteristiche di ogni persona, caratteristiche che comprendono anche la propria origine etnica. Solo quando queste caratteristiche sono ben precise si possono oltrepassare nella dimensione universale, globale, dell’umanità, che è uguale per tutti. Ma se vengono uccise, non si fa altro che accorpare le differenze all’interno di un modello che non è accettabile per tutti, un modello che è quasi sempre quello della cultura dominante.

In che modo avviene la ricerca della differenza? Stirner è abbastanza preciso su questo argomento. La ricerca della libertà è condizione della differenza. Stirner parla in modo sprezzante nei riguardi del “libero”, del “liberato”, perché mai? In fondo egli parla in modo sprezzante di qualsiasi libertà octroyé, di qualsiasi libertà concessa per volere di qualcuno (dominatore, partito, struttura democratica, ecc.). Si tratta di importanti riflessioni che si possono fare e anche non voler fare.

Ricerca della differenza, ma se ci si applica fino in fondo che cosa resta in mano: un lavoro tassonomico, si compila un catalogo. Qual è il punto in cui si opera questa rottura, il punto in cui non si sta più lavorando alla stesura di un catalogo? Stirner lo dice chiaramente: il punto in cui si oltrepassa la dimensione della ricerca tassonomica è quello in cui non ci si accontenta più della differenza in quanto tale, ma si rilegge la differenza nell’ottica dell’affinità. Improvvisamente, nel processo di conoscenza dell’altro, non si cerca più in che cosa si è differenti, ma in che cosa si è uguali, non nell’uguaglianza specificata nei classici discorsi di lana caprina (tutti vestiti allo stesso modo, tutti a mangiare la stessa cosa), ma dell’uguaglianza vera e propria, sostanziale e non sacralizzata, l’uguaglianza in base alla quale io posso chiedere all’altro quello che può diventare mio possesso e l’altro può fare la stessa cosa con me. Ricerca della differenza è così ricerca dell’uguaglianza nella identificazione delle affinità, e viceversa.

Lasciamo stare Kropotkin, che aveva una preparazione filosofica abbastanza approssimativa, ma Stirner è un filosofo, quasi un filosofo di professione. Ciò non deve spaventare. Stirner viveva nell’aura hegeliana, respirava il pensiero hegeliano. Le riunioni che venivano fatte all’interno della “sinistra hegeliana” non erano riunioni anti-hegeliane, erano riunioni hegeliane. Suggerirei di riflettere su come funziona il meccanismo della identificazione dell’“unico”, nell’attimo del pensiero. Non è una invenzione di Stirner, è il meccanismo stesso hegeliano, il modo in cui funziona la realtà. In lettera Stirner fa riferimento alla Scienza della logica di Hegel, giustappunto rileggendo, qualche giorno fa, il secondo volume di questo libro di Hegel, dove parla della logica oggettiva, ho trovato un passo straordinario che riguarda Stirner senza volerlo, e mi sono accorto che questo paragrafo, che si trova più o meno a metà del secondo volume, parla della fondazione della realtà sul nulla e, stranamente, il paragrafo successivo si intitola: “La realtà e le sue proprietà”. Sarà sicuramente un caso, ma sembra come se Stirner avesse preso il titolo del suo libro dalla Scienza della logica. Mentre non è certamente un caso che il ragionamento di partenza di Stirner faccia parte di quella struttura di pensiero, di quell’ambiente di pensiero. Siamo davanti a una persona che si occupava di quei problemi, che rifletteva su quei problemi. E non è vero che non esistesse la possibilità di un’opposizione tecnicamente filosofica allo strapotere di Hegel. C’era, in quel momento: Schelling che poveretto era stato buttato fuori del suo lavoro e scalpitava contro l’antico amico ed elaborava i testi de La filosofia della mitologia, testi importantissimi per noi oggi per capire sia la posizione di Stirner che i processi interni alla filosofia hegeliana. C’era Schopenhauer, il quale nella sua stessa tesi di laurea (La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente) criticava ferocemente Hegel e indicava diverse possibilità di apertura. Stirner invece rimane nella logica del pensiero hegeliano.

Questi spunti tecnici hanno importanza per Stirner, per capire Stirner, ma anche per Kropotkin, il quale pur non essendo un filosofo di professione, propone problemi tutti suoi, che oggi si definirebbero scientifici, come per esempio tutti i problemi legati all’evoluzionismo suo e alle differenze con quello di Spencer, con quello di Darwin, di Huxley, ecc. Eppure, quando uno si pone questi problemi, in fondo di natura tecnica, gli sembrano quasi fuori luogo, quindi è portato ad approfondire le conseguenze che essi hanno nella realtà di oggi, nel mondo in cui viviamo. Questo tipo di ambivalenza finisce per attraversare qualsiasi considerazione che noi facciamo sui pensatori che in un modo o nell’altro hanno contribuito allo sviluppo delle teorie anarchiche. Senza andare tanto per il sottile, occorre dire che Stirner è figlio di Hegel, resta prigioniero della dimensione hegeliana, quindi quando noi poniamo determinati problemi riguardo la sua costruzione dell’ “unico”, quando parliamo della costruzione su nulla, non siamo davanti a invenzioni stirneriane, ma si tratta di argomenti di dominio pubblico nell’ambito della sinistra hegeliana. Le conseguenze che lui ne trae certamente sono caratteristiche del suo pensiero, a esempio una delle più importanti è quella di non giustificare la realtà, mentre seguendo punto per punto il metodo di cui lui è discepolo, la realtà finisce per giustificarsi per intero, perché il reale è razionale. Attraverso questa apertura realizzata nel sistema hegeliano, Stirner perviene ad altre considerazioni altrettanto interessanti, per esempio l’impossibilità di leggere il ruolo dell’individuo, del singolo, dell’“unico”, se non in chiave relazionale. Oggi questo è un discorso importante, non solo filosoficamente, ma anche da un punto di vista pratico. Non si tratta del relativismo, ma di qualcosa di diverso. Stirner non è relativista.

Concludendo, la differenza da sempre sottolineata tra individualismo e comunismo, tra Stirner e Kropotkin, è molto diversa da quella che conosciamo.

Incontro con Alfredo Salerni:

Dibattito su Stirner e Kropotkin


Alfredo Salerni: Abbiamo scoperto che in questi ultimi giorni si stanno organizzando almeno quattro iniziative su Stirner; questo ha fatto suonare un campanello d’allarme, tu hai interpretato questo fatto con qualche sospetto negativo. Però chiediamoci perché si parla di Stirner adesso. Chiaramente se questa chiacchierata avvenisse in televisione diremmo che è dovuto al crollo del comunismo reale. Può essere che Stirner sia anche un alibi che gli anarchici hanno portato con sè: un alibi nei confronti di alcuni cedimenti verso utopie troppo articolate e fondate sul comunismo... può essere anche questo...

Comunque la prima domanda è: Perché oggi si parla di Stirner e in dosi così massicce nel movimento?

Partendo dall’argomento che noi aderenti ad ARIA ci siamo proposti di affrontare, e cioè la “forbice dell’anarchismo”, ti dico le cose che mi hanno stupito, te le dico tutte e quattro insieme perché sembrano racchiudere la traduzione della “forbice”. Primo: c’è una divaricazione, Stirner parla di egoismo gli altri parlano di comunismo o collettivismo o comunque di società più organizzate, articolate. Secondo: lui parla di rivolta o ribellione e quasi tutti gli altri pensatori anarchici parlano di rivoluzione. Terzo: lui parla di difesa della propria individualità, gli altri parlano di difesa della libertà, o della propria libertà. Quarto: lui parla al massimo di associazione tra egoisti e gli altri parlano di società naturale o civile,di società organizzata, di federazione. Sono divaricazioni che sembrano mettere Stirner da una parte e tutti gli altri dall’altra. Anche tu hai la stessa sensazione?


Alfredo M. Bonanno: Cominciamo col dire la questione della modernità di Stirner, dell’attualità di Stirner che ritorna sempre di moda, perché Stirner è un autore che viene continuamente ristampato anche se male o con introduzioni non sempre accettabili dal punto di vista anarchico. Stirner è di moda oggi come lo era anche ieri, quindi di moda oggi, in epoca di crollo dei socialismi reali, ma era di moda anche all’epoca del socialismo reale dominante, perché la modernità di Stirner è l’aspetto complementare della realizzazione concreta del comunismo, l’aspetto utopico, perché non è vero che esiste un’antitesi assolutamente irriducibile tra Stirner e l’altra parte della medaglia, che mi è sembrato di capire, volete indicare in Kropotkin.

Ci sono degli aspetti di comunanza, degli aspetti che sono stati sottolineati come contrasti semplicemente per amore di discussione e non per amore di chiarezza, quindi innanzi tutto andiamo un po’ avanti.

Perché modernità di Stirner? Perché Stirner a torto è stato considerato il filosofo dell’individualismo e l’esaltatore dell’egoismo, colui che ha posto a fondamento della realtà, dell’interpretazione della realtà, della sua possibile trasformazione, l’individuo. Ma in effetti, considerato attentamente, il lavoro di Stirner arriva certo a queste conclusioni formali, necessarie per trovare un fondamento alla realtà, che era problema filosofico corrente all’epoca di Stirner e al lavoro suo personale. In effetti era un problema che derivava dalla formulazione filosofica che del pensiero idealista aveva dato Hegel.

Questo può sembrare strano, nel senso che con Hegel si arriva alla costruzione di una filosofia assoluta, con Stirner si arriva alla costruzione dell’individuo assoluto, ma sostanzialmente sono due tentativi di arrivare a giustificare la realtà in un modo che non possa subire contraddizioni reali, serie, o comunque essere messa in discussione. In effetti Stirner salvaguarda l’individuo per avere un fondamento su cui costruire, non salvaguarda l’individuo per costruire l’individuo. La costruzione dell’individuo infatti è su niente, su nulla, cioè a dire sull’assenza di qualsiasi aspetto complementare all’individuo.

Questa è un’esperienza filosofica ma, nello stesso tempo, può essere anche un’occasione di costruzione concreta dell’uomo nella realtà, dell’individuo nella realtà, ed è anche, ed è stata anche, una lettura importante per arrivare a capire quali sono i pericoli che si nascondono dietro le possibili libertà reali che vengono costruite con tutti i loro limiti, e il primo pericolo è costituito dai limiti della libertà dell’altro, limiti riconosciuti assolutamente ineluttabili e che finivano per coartare l’individuo, per costruire prigioni in nome della libertà. Ora, questo problema se lo è posto seriamente Stirner, ma se lo è posto soltanto nella dimensione della costruzione dell’individuo in quanto punto di partenza, quindi su di un piano puramente filosofico.

Stirner, secondo me, è il legittimo continuatore di Hegel, è quello che porta all’estrema conseguenza il sistema hegeliano.

Sul piano pratico, l’utilizzo della filosofia stirneriana che è stato fatto è sempre stato quello dell’esaltazione dell’individuo per costruire, cioè dell’individuo come complesso organizzativo estremamente articolato, molteplice, capace di dare sorprese in continuazione, per costruire un fatto correttivo delle costruzioni della realtà, così come si andavano portando a completamento.

Ora questo problema della costruzione della realtà in Stirner io non lo vedo come antitesi della costruzione della realtà di Kropotkin. Certamente, il comunismo non ha nulla a che vedere con l’individualismo, nel senso che le formulazioni del comunismo, anche del comunismo anarchico, principalmente del comunismo anarchico, sono basate su alcune tesi fondamentali come può essere la solidarietà, la collaborazione, la possibilità di costruire la società libera dal bisogno, la produzione in una società libera, con un minimo di sofferenza derivata dal lavoro, sostenuto comunque da tutti con soddisfazione... Questa è l’utopia del comunismo, questa è chiamata, si chiamava un tempo, “presa nel mucchio”. In effetti non è tanto lontana dall’idea di Stirner, non è agli antipodi, non è l’antitesi dell’ipotesi di Stirner. Ciò che dico non deve essere visto come un’eresia, perché sia Kropotkin, sia Stirner si propongono ancora una volta il problema della fondazione della realtà, in che modo costruire un punto fermo da cui partire per dare articolazione a queste costruzioni. Ora, ancora una volta, sia Stirner che Kropotkin se lo pongono secondo quelli che erano i percorsi filosofici dell’epoca in cui loro vivevano, perché oggi l’individualismo hegeliano di Stirner, che a lui serviva per determinati progetti di polemica filosofica nel contesto in cui viveva, non possono essere accettati, perché oggi abbiamo altre prospettive, altre aperture all’individualismo. Allo stesso modo non può essere accettato il contesto in cui operava Kropotkin, però ambedue pongono davanti un’apertura, pongono il punto di partenza, comunismo, individualismo, ma pongono un’apertura, un’apertura, come dire, un movimento reale che si sviluppa a partire dall’individuo, in ambedue i casi.

Perché non è vero che Kropotkin affida tutto alla costruzione del comunismo come fatto collettivo, affida tutto alla costruzione del comunismo in una dimensione in cui l’individuo è riconosciuto come elemento capace di sviluppare la dimensione della solidarietà. Ora se noi consideriamo da un punto di vista filosofico che il concetto di solidarietà e di egoismo si equivalgono perché sono semplicemente due condizioni negative, che sostanzialmente dicono: l’egoismo è il contrario della solidarietà, la solidarietà è il contrario dell’egoismo. Le due cose sono complementari. L’una spiega l’altra. Non esiste una definizione di egoismo come non esiste una definizione di solidarietà se non c’è l’aspetto nel riflesso negativo dell’altro.

Quindi delle due teorie, gli aspetti si identificano come elementi che concorrono a provare lo stesso problema, il problema della fondazione della realtà, un punto fermo da cui partire. E in Kropotkin, e in Stirner, è sempre l’individuo, tant’è vero che Stirner a un certo punto avverte la necessità di fare il passo successivo e definisce quella che è l’unione degli egoisti. L’unione degli egoisti è l’elemento di comunismo, della vita della comunità all’interno della quale la salvaguardia dell’individuo viene trasferita nel gruppo. Perché l’individuo resta egoista e muove a una compartecipazione di vita con gli altri individui.

In Kropotkin avviene la stessa cosa: la vita all’interno di una comunità fondata sulla “presa nel mucchio” è resa più semplice in quanto ci sono dei presupposti (tutti per altro da provare), storicamente o teoricamente da provare, in base ai quali sembra sia possibile vivere senza sofferenze, senza fatica, senza la concorrenza, senza le limitazioni tecniche del capitalismo, ecc. Allora in quel contesto è possibile che si salvaguardi l’individuo all’interno di una vita comunitaria collettiva. Salvaguardare l’individuo che cosa vuol dire? Salvaguardare il suo ego, cioè salvaguardare il principio del suo egoismo, salvaguardare quindi quella che è la sua individualità. Allora l’associazionismo di Kropotkin è anch’esso una società di egoisti, perché se fosse una società di altruisti, sarebbe composta da gente che si sacrifica per l’altro e non realizzerebbe una dimensione collettiva all’interno della quale l’individuo si salvaguarda, ma una dimensione all’interno della quale l’individuo si nega, ed è proprio la dimensione realizzata dai comunismi reali, in cui in nome di una ideologia, dell’esportazione della rivoluzione, si è cercato di imporre alle masse il sacrificio dell’individuo per la realizzazione della collettività.

Ma, se noi oggi parliamo di comunismo anarchico, parliamo di comunismo degli egoisti, o se parliamo di individualismo anarchico, parliamo di comunismo della “presa nel mucchio”, cioè dell’unione degli egoisti, quindi io non la vedo questa grande differenza. Ecco perché ridurrei un po’ la preoccupazione che mi pareva di notare all’inizio: come mai all’interno dell’anarchismo convivono antipodi o “forbici”. La forbice non è tanto aperta perché è anche un po’ chiusa, perché le grandi differenze all’interno dell’anarchismo non sono a questo livello. Perché fino a questo livello siamo a un livello di discussione, di chiacchiere, e nelle discussioni bene o male ci si mette d’accordo. Le grandi differenze dell’anarchismo non sono Kropotkin e Stirner, sono le realizzazioni concrete che la storia dell’anarchismo, che la storia degli ultimi centocinquant’anni, ha reso possibile, all’interno delle quali realizzazioni l’attività degli anarchici ha posto in essere fatti e ha determinato contraddizioni che hanno gettato una luce trasversale sulle interpretazioni stirneriane e kropotkiane della realtà. E qua sono cominciate le grosse contraddizioni, allora qua si parla di “forbice”, a questo livello che è il livello della realizzazione in cui le idee si fanno carne, si fanno ossa, si fanno uomini, si fanno contrasti, interessi, lacerazioni intestine.

Le filosofie sono chiacchiere, bene o male ci si intende. Allora Kropotkin ricomincia a muoversi in un’altra dimensione in cui lui stesso mette in moto un concetto, un’idea che non è coerente con le formulazioni specifiche in cui la si cerca di realizzare, e lui stesso vive drammaticamente queste contraddizioni. Mentre Stirner non lo può fare perché è un individuo isolato: scisse il suo libro, e il suo libro al posto suo vive le sue contraddizioni. Il peso e il dolore di queste contraddizioni è forse più circoscritto di quello che è invece il peso delle conseguenze storiche, i danni storici che sono stati tollerati all’interno del movimento dalle contraddizioni kropotkiane. Quindi io parlerei di “forbice” più a livello delle realizzazioni storiche nelle quali si è incarnato, si è realizzato il pensiero.


A. S.: Sì, è chiaro che la forbice è l’artificio, sai quando si crea il tema... poi si può benissimo scoprire che non esiste una forbice... Comunque la forbice certe volte si vede anche nel peso delle conseguenze storiche che hai accennato tu prima. Questo libro vivente che è la vita di ciascuno di questi pensatori, Kropotkin inserito nel movimento, nell’organizzazione, è un punto di riferimento, ficcato dentro la storia del movimento anarchico, movimento e non soltanto movimento di pensiero. Invece Stirner sembra proprio contraddire quello che dicevi tu e cioè che il movimento anarchico non è tanto fatto di parole ma anche delle realizzazioni pratiche del quotidiano, delle lotte, di quello che si ottiene.

La forbice sembra proprio anche questo: mentre Stirner ha fatto questo libro estremamente violento, a parole, e che ha spaventato, impressionato i borghesi molto poco perché era troppo violento, perché dopo averlo sequestrato, dopo qualche giorno lo hanno rimesso in circolazione con la giustificazione che fosse troppo folle per proibirlo, invece Kropotkin fa tutta un’altra scelta rispetto a Stirner. Stirner è l’uomo che ha scritto un libro ma che poi per cinque anni ha insegnato in un collegio femminile e ha avuto storie d’amore, ecc., ecc., ma non ha mai partecipato alla vita attiva del movimento, non si è confrontato sulle “barricate”, diciamo così, ma sulle polemiche hegeliane con Bruno Bauer. La sua vita è stata limitata a un salotto, sia pure di estrema sinistra, sia pure estremamente povero. E questo forse significa anche che quell’egoismo che tu vedi invece come un elemento di valorizzazione dell’individuo anche nella solidarietà, non è altro che una prosecuzione di questa raggiunta individualità, raggiunta coscienza di individualità. Come può darsi pure che ci sia in Stirner, quando parla di egoismo, anche quell’aspetto che forse non vogliamo riconoscere, un “al di fuori della mischia”, peggio di quello di Emile Armand, diciamo; ciò può essere anche rappresentato dalle scelte di vita che lui ha fatto, senza voler adesso fare il moralista.


A. M. B.: A me non sembra un gran problema, veramente, perché in effetti a noi interessa più che stare a fare delle indagini sulle intenzioni stirneriane, perché guai a fare una cosa...


A. S.: No, non era questo. Quello che interessa me è vedere se l’incidenza in un movimento può essere anche di mere parole, come ha fatto Stirner, e di “puro pensiero”, come si diceva una volta, o deve essere invece collegato alla presenza nelle lotte, quale è la linea di Bakunin e di Kropotkin.

A. M. B.: Io sostengo delle idee precise, che sono le mie, ovviamente, con tutti i limiti che esse comportano e, secondo me, l’incidenza di un libro come quello di Stirner e come buona parte dei libri di Nietzsche, al cinquanta per cento si basa su degli equivoci. In effetti la gente, alcuni compagni, alcune persone, certe fasce dissidenti della cosiddetta sinistra europea, a partire dalla rivoluzione del 1830, volevano ascoltare un discorso di quel tipo, sentivano il bisogno di contrastare il crescente movimento comunista autoritario, che poi era il blanquismo, una derivazione sostanzialmente giacobina (1790 circa). Volevano sentirsi dire, in modo anche brillante – perché il libro di Stirner è un libro non tanto violento, ma un libro brillante, scritto nello stile dei pubblicisti della Germania dell’epoca, un libro come quelli che scrivevano Marx, Engels, ecc., come li scriveva Bakunin in quel momento, in maniera giornalistica nuova, brillante.

È un libro che, secondo me, è stato oggetto di parecchi equivoci.


A. S.: Però secondo me l’equivoco non sta soltanto nella soggettività di chi lo legge, ma si presta proprio il libro a fornire equivoci, altrimenti non si spiegherebbe che a distanza di un secolo gli equivoci sono ancora qui a riproporsi, cioè che adesso c’è quello che dice che Stirner non è anarchico ma un irrazionalista di destra o di sinistra, oppure che non è anarchico ma un precursore dell’esistenzialismo, ecc.


A. M. B.. Ma queste sono tutte chiacchiere dei filosofi, lasciale stare. Stirner è stato sempre inserito nell’irrazionalismo europeo, la linea che dal secondo Schelling arriva fino a Hitler, diciamo. Questa è l’ipotesi di György Lukács. Non è questo il problema, il discorso è in che modo l’individualismo è senza dubbio una delle componenti del movimento anarchico europeo e possiamo dire anche internazionale, perché ha influenze anche su Josiah Warren, perché Stirner è letto da molti individualisti americani. Ha avuto un’incidenza? Secondo me l’ha avuta e molti compagni sentivano questo bisogno e lo sentivano come antidoto al dilagare del giacobinismo che proponeva le nuove formule organizzative di tipo blanquista, finanche all’interno della Comune di Parigi ci fu questa contraddizione, questo desiderio, anche tra gli stessi proudhoniani, c’era chi leggeva Stirner. Era una bandiera ma non necessariamente una bandiera che rappresentava il movimento.

Il libro di Stirner sembra un libro simbolico, ora la lettura dei simboli è possibile in tanti modi. L’esistenzialista ha letto alcuni spunti esistenzialisti, l’hegeliano ha letto alcune ipotesi consequenziali e continuatrici del pensiero hegeliano...


A. S.: Però questo non è stato possibile con i testi di Bakunin, di Kropotkin, ma solo con quelli di Stirner. L’ambiguità nasce anche e soprattutto dall’opera.


A. M. B.: Sì, è nel testo l’ambiguità, questo senza volerlo sminuire. Sempre per richiamare a una certa lettura che sia una lettura per quanto è possibile non dico scientifica, ma almeno attenta, scevra da sentimentalismi, da sollecitazioni individuali.


A. S.: Un’altra cosa che mi è venuta in mente mentre parlavi, prima, è che mi è sembrato che volessi sovrapporre il Mutuo appoggio all’“unione degli egoisti”, come se fossero la stessa cosa.

Però Stirner ha un grande merito ai miei occhi, e cioè che non è uno di quei pensatori che vuole dirti come sarà esattamente la società liberata, è uno che si guarda bene dal raccontare utopie realizzate. Però ci sono due o tre accenni che vanno sottolineati: il primo che riguarda la proprietà privata, certamente non comunistici o kropotkiniani... in quanto afferma che la proprietà privata non dovrà essere abolita in quanto estrinsecazione dell’individuo, quasi una protesi dell’individuo. Oppure quando parla dello sciopero generale quale momento importante e metodo per il mutamento radicale di questa società. Questi aspetti così concreti e particolari non lo allontanano notevolmente dalla visione di Kropotkin?


A. M. B.: Io ancora una volta ritengo di no. Ti spiego perché. Innanzitutto ci sono due elementi di vicinanza: ambedue sono figli filosofici del proprio tempo e rispondono alle necessità del loro tempo. Ora, il tempo di Stirner è quello del dibattito tra possesso e proprietà, e Stirner lo porta alle estreme conseguenze cercando di chiarire in effetti che ogni proprietà qualora diventi possesso, cioè qualora diventi elemento essenziale nella vita dell’individuo è indispensabile e come tale lo qualifica. Questo discorso è stato continuato dai Tedeschi fino alla fine dell’Ottocento. La proprietà come sovrastruttura giuridica andava condannata, non come possesso reale. Il possesso reale qualifica e perfeziona, allarga la sfera dell’individuo, è quindi questo discorso che poco chiaro all’epoca di Hegel, assolutamente poco chiaro per Marx, era invece abbastanza chiaro per Stirner. Per Kropotkin invece, anche lui figlio del suo tempo, la “presa nel mucchio” è giustificata a priori, non a posteriori, per lui è giustificata scientificamente sulla base delle ricerche del suo tempo. Quando Kropotkin scrive La scienza moderna e l’anarchia parla ovviamente della scienza del suo tempo non della scienza di oggi. Ora la scienza del suo tempo era la scienza che aveva scoperto e perfezionato le leggi della meccanica che erano state esportate in quasi tutte le scienze dell’epoca, anche l’economia politica aveva accettato le leggi della meccanica. Insomma, si pensava che la meccanica fosse la chiave dell’organismo. C’è un filosofo tedesco che scrive un libro voluminosissimo sulla chiave dell’universo in termini deterministici. (Ernst Haeckel, Gli enigmi del mondo [1899]).

Un anarchico, oggi molto considerato, professore universitario, voleva ristampare, vent’anni fa, come contrapposizione al Capitale di Marx, una di queste opere datate (Forza e materia [1855] di Ludwig Büchner), queste bestialità indicano in che modo gli anarchici su certi argomenti sono arretrati, come su certi argomenti il movimento anarchico è arretrato.

Ora Kropotkin è figlio del suo tempo, giustifica l’esistenza dell’uomo all’interno della specie con la collaborazione, con la solidarietà, su questo costruisce l’ineluttabile nascita futura della società comunista. Ora il danno di Kropotkin non è tanto sul dettaglio, realizzato anche in forma brillante, anche con intuizioni importanti che oggi sono tornate di moda, che vengono utilizzate per esempio dai teorici della vita nello spazio, su come organizzare le fattorie, le produzioni specifiche, le colture intensive, ecc. Il danno non sta qua, che da un certo punto di vista potrebbe essere considerato alla stregua del modesto danno che fa qualsiasi utopista quando parla della società futura o qualsiasi romanzo di fantascienza. Sostanzialmente il danno sta nell’avere individuato un principio importantissimo, che Kropotkin utilizza per primo con chiarezza ancora maggiore di Bakunin: l’esistenza di un meccanismo oggettivo che lavora nel senso della storia.


A. S.: L’ottimismo dici?


A. M. B.: L’ottimismo determinista, questo. L’ottimismo di per sé non è un male, è il determinismo il male. Né d’altro canto, l’antidoto al determinismo può essere individuato nella volontà, perché anche qui c’è un equivoco. Per esempio quello intercorso tra Malatesta e Kropotkin. La polemica tra Malatesta e Kropotkin è fondata su di un equivoco, dovuto al fatto che all’epoca non si conoscevano le forze contrastanti, le contraddizioni di classe che esistono nella società. Oltre la semplice e tradizionale contraddizione fondata sulla divisione del lavoro, ci sono altri tipi di contraddizione che oggi stanno venendo alla luce e che sono capaci di imbrigliare e avvolgere la volontà dell’individuo, al di là di quelli che potevano essere i sogni di Malatesta in contrapposizione al meccanismo deterministico di Kropotkin.


A. S.: È diventata una specie di Deus ex machina, pure la volontà, insomma?


A. M. B.: Io aggiungerei una piccola cosa che mi sta a cuore, è questa: a me sembra riduttivo leggere Stirner come un libro per gli individualisti, è un libro per gli anarchici. Gli anarchici non sono mai individualisti, comunisti, collettivisti, gli anarchici sono aperti a un pluralismo di possibilità in cui nessuna di queste soluzioni può essere negata radicalmente, perché se si negasse la possibilità del comunismo reale, anarchico, non del comunismo come è stato creato fino adesso, si finirebbe per impedire uno sviluppo reale dell’individuo, uno sviluppo concreto. Ugualmente, se si negasse la possibilità dello sviluppo dell’individuo, si negherebbe la possibilità di realizzare il comunismo. Allora questa polivalenza dell’anarchismo deve essere sottolineata sempre, i rischi ci sono anche in Stirner, non solo in Kropotkin, e i rischi di Stirner sono l’esacerbazione dell’individualismo, cioè il leggere il suo libro come una esclusiva giustificazione all’individuo che si fa i fatti suoi perché comunque il proprio destino è determinato. L’essere comunque destinati a vivere in un mondo che ci è estraneo, il quale viaggia per i fatti suoi, non ha alcuna importanza se verso l’anarchia o verso la realizzazione dei bisogni del capitale, fa concludere che niente ha interesse.

Guardando a Kropotkin, il suo errore è invece quello di lasciare intravedere che ci si può limitare a una operazione, semplicemente di approfondimento, di propaganda o di partecipazione, di presenza. In questo tipo di impostazione, partendo dalla critica della realtà, non si arriva a proporre l’intervento diretto di trasformazione, quindi di organizzazione di quelle strutture specifiche del movimento che possono intervenire nella realtà, strutture che naturalmente dovrebbero essere di composizione “minoritaria”, cioè specifiche del movimento. Comunque questa limitazione esiste solo nella seconda parte della vita di Korpotkin. Anche se non potrei dire che esistono due diversi periodi nettamente distinti nella sua vita, tra il primo periodo fino all’arresto e alla condanna a cinque anni di carcere, e il periodo successivo vi è un mutamento, prima non era per niente un possibilista, scienziato, geologo.


A. S.: È stato anche interventista, anche se...

A. M. B.: Là volevo arrivare, ecco che del ragionamento “basta mettere il seme sotto la neve” cosa succede? Succede che se la società è indirizzata comunque verso l’anarchia, la società di oggi, o meglio una parte della società di oggi può essere individuata come un po’ più avanti verso l’anarchia della società di ieri. Ecco che si operano della strane segmentazioni all’interno della struttura politica della società di oggi, si criticano di meno alcuni aspetti avanzati di più quelli arretrati. Questo è possibile sempre, era possibile all’epoca di Kroptkin e anche ora. Gli Imperi centrali erano certamente considerati più arretrati ed è lo stesso discorso che fece Bakunin al momento della Comune di Parigi. Riguardo la guerra franco-prussiana Bakunin, contrariamente a Kropotkin, partiva dalla necessità dell’organizzazione di un intervento immediato, quindi analizzava qualcosa che andava realizzando un’insurrezione popolare dei Francesi, ma non una partecipazione della Francia contro la Prussia, perché la Prussia era più pericolosa. Mentre Kropotkin parla di intervento perché vuole difendere quella realizzazione repubblicana che si trovava a essere attaccata dagli Imperi centrali, in quanto la Francia repubblicana, la madre della grande rivoluzione, gli sembrava più avanzata dal punto di vista della rivoluzione sociale. Questo è pericolosissimo, perché è un errore in cui si può cadere sempre.


A. S.: Come quelli che oggi dicono che bisogna stare dalla parte dell’America invece che della Russia.


Perugia 1994

 


[Trascrizione della registrazione su nastro]

* * * * *

“Per arrivare a questo scopo, immaginammo una statua organizzata internamente come noi, e animata da uno spirito privo di ogni specie di idee. Supponemmo anche che l’esterno, tutto di marmo, non le permettesse l’uso di nessuno dei suoi sensi, e ci riservammo la libertà di aprirli, a nostro arbitrio, alle differenti impressioni delle quali sono suscettibili. Il principio che determina lo sviluppo delle sue facoltà è semplice, lo racchiudono le stesse sensazioni: infatti, essendo tutte necessariamente piacevoli o spiacevoli, la statua è interessata a godere delle une e a sottrarsi alle altre. Ora, ci si convincerà che questo interesse basta per dar luogo alle operazioni dell’intelligenza e della volontà. Il giudizio, la riflessione, i desideri, le passioni, ecc., sono soltanto la sensazione stessa che si trasforma differentemente. Perciò ci è sembrato inutile supporre che l’anima derivi immediatamente dalla natura tutte le facoltà delle quali è dotata. Questo argomento è nuovo e mostra tutta la semplicità dei mezzi dell’autore della natura”.

(E. Bonnot de Condillac, Trattato sulle sensazioni )

Anarchia come organizzazione

Il lavoro di Colin Ward: Anarchia come organizzazione (tr. it., Milano 1974) sviluppa la tesi di fondo che l’ordine spontaneo riesce a farsi strada anche attraverso gli ostacoli del principio di autorità. Riesce a farsi strada perché esiste in piccolo, coartato da ogni parte dal potere, ma esiste.

Ward porta un gran numero di esempi concreti e un non minore numero di riflessioni sociologiche a sostegno di questa tesi. Egli fa riferimento a iniziative autonome, autogestite dalla base che dimostrerebbero l’esistenza di questi spunti di ordine spontaneo. È facile vedere l’origine di questa tesi nei lavori di Kropotkin, specie dove questi cerca di fondare la teoria del mutuo appoggio su esempi che vengono dal mondo animale o dal mondo dei primitivi. Immediato corollario di questa tesi è quello dell’armonia della complessità. Un’infinità di rapporti di base, estremamente complessi, e appunto per questo efficienti e armonici, deve sostituire il rapporto verticistico, apparentemente più semplice ma in sostanza meno efficace, responsabile di enormi sprechi, meno armonico. Conclusione: l’anarchia è possibile non come un’utopia realizzabile, ma come derivazione di qualcosa che esiste di già, “come un seme sotto la neve”. Così, per Ward, l’anarchismo «fra le tante possibili interpretazioni, quella esposta in questo libro sostiene che l’anarchismo non è la visione, basata su congetture, di una società futura, ma la descrizione di un modo di organizzarsi dell’uomo, radicato nell’esperienza della vita quotidiana che funziona a fianco delle tendenze spiccatamente autoritarie della nostra società e nonostante quelle». (Ib., p. 14).

Questa tesi, come già quelle di Kropotkin, impone una riflessione metodologica iniziale: evidentemente non è una tesi che si fonda sulla dialettica. Le forze dell’ordine spontaneo si sviluppano parallelamente alle forze autoritarie, ma non ne entrano in contrasto, altrimenti verrebbero da queste distrutte in breve tempo. Anzi, ci sembra di capire che la premessa del discorso di Ward sia che le forze autoritarie sono talmente ottuse nella comprensione di un ordine diverso dal loro che nemmeno si accorgono dell’altra possibilità, la quale può quindi continuare a vivere (appunto come un seme sotto la neve). Si tratterebbe, pertanto, di sostituire allo schema dialettico della contraddizione, quello dell’aggiunta. D’accordo: l’ipotesi di lavoro è interessante. L’aggiunta consente la crescita dell’ordine spontaneo che, essendo meno ottuso di quello autoritario, tiene conto degli sviluppi di quest’ultimo e fa tesoro delle sue esperienze negative. Ma c’è un ostacolo. Se il seme resta sotto la neve, in quanto tale non disturba il potere. Se cresce e spezza la coltre nevosa e, in base al processo di ulteriori aggiunte esperienziali, diventa rigoglioso, cosa farà il potere? Cosa farà il seme giunto a sbocco rigoglioso? Si avrà uno scontro. La conclusione non può essere diversa. Solo che, a nostro avviso, in questa gradevole prospettiva c’è un grosso pericolo. Lo schema logico dell’aggiunta ci porta ad ammettere che non esiste un livello di rottura che si possa fissare all’interno dello stesso schema. Cioè il seme continuerà a crescere senza rendersi conto del momento in cui avrà rotto la superficie nevosa e si sarà trasformato in un pericolo per il potere. Essendo il suo solo scopo quello di accrescersi e non di contrastare qualcosa, ne consegue che continuerà a estendersi, come si dice, alla base, fatto bellissimo ma che tralascia un piccolo particolare: il potere. In questo modo a prendere l’iniziativa dell’attacco, della distruzione, sarà proprio quest’ultimo, mentre le forze dell’ordine spontaneo staranno ancora cercando di accrescere la propria dimensione.

Ed eccoci a un altro pericolo. Lo stesso schema dell’aggiunta, a nostro parere, portò Kropotkin al Manifesto dei Sedici e alla dichiarazione a favore dell’intervento nella Prima guerra mondiale contro gli Imperi centrali. Perché? Per il semplice fatto che uno sviluppo di accrescimento progressivo deve partire necessariamente dalla fondamentale ammissione che il livello di crescita a cui si è arrivati è un fatto positivo da difendersi in ogni caso, un minimo da cui partire che non va posto a repentaglio. Così Kropotkin ritenne, senz’altro in buona fede, che poteva giustificare la guerra contro gli Imperi centrali e sollecitò l’intervento del movimento anarchico in quella direzione, onde salvare il livello di “civiltà” raggiunto nei paesi più liberali dall’ondata di barbarie che si sarebbe riversata su di loro in caso di vittoria dei mostri del dispotismo.

Ma passiamo ad altro. È stranamente interessante notare come Ward faccia un curioso discorso a proposito del federalismo svizzero di oggi. Egli scrive: «Un notevole esempio di federazione ben congegnata sono i ventidue Stati sovrani della Svizzera, senza che con questo si vogliano trarre conclusioni positive sul sistema politico elvetico. Si tratta di una federazione composta di piccole entità equivalenti, in cui i confini cantonali tagliano le delimitazioni di tipo etnico o linguistico, in modo tale che la confederazione non è dominata, come in molti altri casi di federazione politicamente fallimentare, da un elemento prevalente sugli altri per potere e dimensioni, in grado perciò di alterare l’equilibrio complessivo [...]. Pacifici, miti, modesti sembrano essere anche gli Svizzeri e potranno sembrare anche una nazione noiosa e provinciale, ma ci sono caratteristiche della loro vita sociale che nazioni non miti né modeste hanno dimenticato». (Ib., pp. 71-72). Che cosa dire di fronte a queste affermazioni? Francamente non è facile. Se un popolo di commercianti e bottegai, che ha sfruttato per secoli, e sfrutta, il lavoro di miserabili obbligati a emigrare, per accumulare la propria ricchezza e il proprio benessere e per garantire quella “pace sociale” che è il fondamento di ciò che Ward chiama “un notevole esempio di federazione”, se questo popolo possa essere considerato un popolo di pacifisti, miti e modesti, non vale la pena di approfondire qui, ogni lettore può farlo per conto suo. Quello che ci importa notare è che questa difesa della Svizzera è fatta a seguito della stessa logica che spingeva Kropotkin a preferire le nazioni nemiche degli Imperi centrali e a sottoscrivere il famoso manifesto. Si tratta di quella che noi chiamiamo logica dell’“a poco a poco” o comunque si tratta di un tentativo di spostare la logica del “tutto e subito” verso posizioni sostanzialmente riformiste.

Non che qui si voglia difendere il modello dialettico, che ha i suoi difetti, solo si vuole indicare un pericolo tipico del metodo dell’aggiunta. In realtà, i due metodi possono essere ugualmente attaccati dalle conseguenze negative di un loro comune presupposto: il determinismo scientifico. Per quanto strano possa sembrare il determinismo alimenta le concezioni di Marx e quelle di Kropotkin attraverso due strade diverse: l’idealismo hegeliano nel primo caso, il positivismo scientifico nel secondo. Marx sosteneva (almeno nella maggior parte dei suoi scritti su questo argomento) lo svolgimento in senso deterministico e dialettico della storia, deducendone l’avvento certo del comunismo. Da notare che, per altre strade, il “seme sotto la neve” ha connotazioni non molto differenti.

 


[Recensione a C. Ward, Anarchia come organizzazione, tr. it., Milano 1976, pubblicata su “Anarchismo” n. 14, marzo-aprile 1977, pp. 115-116]

* * * * *

“Il superare e il superato (l’ideale) costituiscono uno dei più importanti concetti della filosofia, una determinazione fondamentale che ritorna assolutamente dappertutto e che bisogna distinguere in particolare dal nulla, comprendendone con precisione il senso. – Ciò che si supera non per questo diventa il nulla. Il nulla è l’immediato; un termine superato invece, è mediato, è un non essere, ma come risultato che è nato da un essere; quindi ha ancora in sé la determinazione da cui proviene.

“Aufheben ha nella lingua tedesca due sensi. Questa parola significa ‘mantenere’, ‘conservare’ e, nello stesso tempo, ‘fare cessare’, ‘mettere fine a...’. Ciò che è conservato contiene già in sé questo elemento negativo, che consiste nel fatto che qualcosa è stato sottratto, è stato elevato dalla sua esistenza immediata e, conseguentemente, e stato sottratto ed elevato dalle influenze dell’esistenza esterna. Così, dunque, il superato è nello stesso tempo qualcosa di conservato che ha solamente perso la sua esistenza immediata, ma non è per questo annullato. – Le due definizioni date dell’Aufheben possono essere etimologicamente presentate come due significati della parola. Potrebbe apparire straordinario che una lingua sia arrivata ad impiegare un’unica parola per esprimere due determinazioni opposte. Ma il pensiero speculativo si rallegra nel trovare, nella lingua, delle parole che hanno di per se stesse un significato speculativo: la lingua tedesca ne ha parecchie di simili parole. Il duplice senso della parola latina ‘tollere’ (divenuta celebre per il motto ciceroniano ‘tollendum est Octavium’) non va così lontano: non ha come senso affermativo che quello di ‘portare in alto’. Qualcosa non si supera che nella misura in cui questa cosa è entrata nell’unità con il suo opposto; in questa determinazione più precisa, in quanto riflessa, si può giustamente chiamarla ‘momento’. Nella leva, il peso e la distanza si chiamano ‘momenti meccanici’ a causa dell’identità della loro azione quale che sia il reale che ha il peso e l’ideale, la determinazione puramente spaziale della linea (Cfr. Enciclopedia delle scienze filosofiche, par. 261). – Ancora più spesso si presenterà l’occasione di osservare come il linguaggio filosofico specializzato impieghi espressioni latine per determinazioni riflesse, sia perché la lingua materna non possiede espressioni per esprimerle, sia, se ne possiede, perché le sue espressioni evocano subito l’immediato, mentre la lingua straniera evoca piuttosto il riflesso.

“Il senso e l’espressione più precisa che l’essere e il nulla ricevono, in quanto ormai sono momenti, deve risultare della considerazione dell’essere determinato, che è quell’unità in cui l’essere ed il nulla sono conservati. L’essere è essere, il nulla è nulla solo nella loro diversità l’uno dall’altro. Ma nella loro verità, nella loro unità, essi sono spariti come queste determinazioni e sono ormai qualcos’altro. L’essere e il nulla sono lo stesso. Appunto perché sono lo stesso non sono più l’essere e il nulla ed hanno una determinazione diversa. Nel divenire erano il nascere e il perire. Nell’essere determinato, come unità altrimenti determinata, sono di nuovo momenti altrimenti determinati. Questa unità rimane, ora, la loro base, dalla quale non escono più per prendere il significato astratto di essere e di nulla.

“L’essere e il nulla sono lo stesso. Appunto perché sono lo stesso non sono più l’essere e il nulla e hanno una deterninazione diversa. Nel divenire erano il nascere e il perire. Nell’essere determinato, come unità altrimenti determinate, sono di nuovo momenti altrimenti determinati. Questa unità rimane, ora, la loro base, dalla quale non escono più per prendere il significato astratto di essere e di nulla”.

(G. W. F. Hegel, Scienza della logica)

Lettere a Lenin

Dmitrov [nella provincia di Mosca], 4 marzo 1920


Stimato Vladimir Ilic Lenin:


Molti impiegati del Dipartimento Postale e Telegrafico sono venuti da me chiedendomi di sottoporre alla sua attenzione informazioni sulla loro disperata situazione. Dato che questo problema non riguarda solo il Commissariato delle Poste e Telegrafi, ma anche le condizioni generali della vita quotidiana in Russia, mi sono affrettato a trasmettere la loro petizione.

Lei sa, ovviamente, che vivere nel Distretto di Dmitrov col salario che questi impiegati ricevono è assolutamente impossibile. È impossibile perfino comprare un chilo di patate, lo so per esperienza personale. Essi cercano inoltre sapone e sale che sono introvabili. Da quando il prezzo della farina è cresciuto, è impossibile comprare otto libbre di cereali e cinque libbre di grano.

Riassumendo, senza ricevere rifornimenti, gli impiegati sono condannati realmente alla fame più nera. Inoltre, parallelamente al rialzo di prezzi, le magre provviste che gli impiegati delle Poste e Telegrafi hanno ricevuto dal Centro di Approvvigionamento del Commissariato delle Poste e Telegrafi, le stesse che furono accordate in accordo al decreto del 15 agosto di 1918: otto libbre di grano per impiegato e cinque libbre in più per ogni membro della famiglia incapace di lavorare, non sono più state inviate da due mesi alla data di oggi. I centri locali di approvvigionamento non possono distribuire le loro provviste, e la petizione che i centoventicinque impiegati dell’area di Dmitrov ha fatto a Mosca continua a non ricevere risposta. Un mese fa, uno degli impiegati le ha scritto personalmente, ma fino ad ora non ha ricevuto risposta.

Considero un dovere testimoniare che la situazione di questi impiegati è davvero disperata. È una cosa che risulta ovvia guardandoli in faccia. Molti si stanno preparando ad abbandonare la loro casa senza sapere dove andare. Ed è inoltre giusto segnalare che adempiono coscientemente il loro lavoro; hanno preso dimestichezza con il loro lavoro, e perdere questi lavoratori non sarà utile per la vita della comunità locale sotto nessun aspetto. Aggiungerei solo che tutte le categorie degli impiegati sovietici in altri settori si trovano nella stessa disperata situazione.

In conclusione, scrivendole non ho potuto evitare di menzionare alcuni aspetti della situazione generale. Vivere in un centro grande come Mosca impedisce la conoscenza delle vere condizioni del paese. Conoscere le esperienze comuni richiede che si viva veramente in provincia, in contatto diretto e vicino alla vita quotidiana, con le necessità e le disgrazie degli adulti e dei bambini affamati che si avvicinano agli uffici per chiedere il permesso per potere almeno acquistare una lampada economica a cherosene. Ad oggi, non abbiamo nessuna soluzione per tutte queste sventure.

È necessario accelerare la transizione a condizioni più normali di vita. Non andremo avanti molto a lungo in questo modo; stiamo andando verso una catastrofe sanguinosa.

Una cosa è indiscutibile. Anche se la dittatura del proletariato fosse una mezzo appropriato per combattere e distruggere il sistema capitalista, cosa di cui dubito profondamente, è sicuramente controproducente e inadeguata alla creazione di un nuovo sistema socialista. Quello che serve sono istituzioni locali, forze locali; ma non ci sono, da nessuna parte. Invece di questo, dovunque uno volga lo sguardo c’è gente che non sa niente della vita reale, e che sta commettendo i più gravi errori per i quali si paga il prezzo di migliaia di vite e la rovina di distretti interi.

Senza la partecipazione di forze locali, senza un’organizzazione dal basso degli stessi contadini e dei lavoratori, è impossibile costruire una nuova vita.

Sembrava che i soviet dovessero servire precisamente per compiere questa funzione di creare un’organizzazione dal basso. Ma la Russia si è trasformata in una Repubblica Sovietica solo di nome. L’azione dirigente del “partito” sulla gente, “partito” che è principalmente costituito da nuovi venuti – perché gli ideologi comunisti stanno soprattutto nelle grandi città – ha distrutto già l’influenza e l’energia costruttiva dei soviet, quelle istituzioni così promettenti. Nel momento attuale, sono i comitati del partito, e non i soviet che dirigono in Russia. E la sua organizzazione ha tutti i difetti delle organizzazioni burocratiche.

Per potere uscire da questo costante disordine, la Russia deve tornare al genio creativo delle forze locali di ogni comunità, le uniche che, secondo le mie vedute, possono costituire un fattore [propulsivo] nella costruzione di una nuova vita. E quanto prima si capirà la necessità di riprendere questo cammino, tanto meglio sarà. La gente sarà allora disposta con piacere ad accettare nuove forme sociali di vita. Se la situazione presente continua, anche la parola “socialismo” si trasformerà in una maledizione. È quello che è successo con l’idea di “uguaglianza” in Francia durante i quaranta anni succeduti alla direzione dei giacobini.

Con cameratismo ed affetto.


Pëtr Kropotkin

* * *

Dmitrov [nella provincia di Mosca], 21 dicembre 1920


Stimato Vladimir Ilic,


Sui giornali “Izvestia” e “Pravda” è apparsa una notizia che fa conoscere la decisione del governo sovietico di prendere come ostaggi alcuni membri dei gruppi di Savinkov e Cherkov del partito socialdemocratico, del centro tattico nazionalista della guardia bianca, e alcuni ufficiali di Vrangel in modo che, nel caso venga commesso un tentativo di assassinio contro i leader dei soviet, tali ostaggi vengano “sterminati senza pietà”.

Non c’è veramente nessuno, vicino a lei, che ricordi ai suoi compagni e li persuada che tali misure rappresentano un ritorno al peggiore periodo del Medioevo e delle guerre religiose, e che deludono completamente le persone che si sono gettate a spada tratta nella creazione di una società seguendo princìpi comunisti? Chiunque ami il futuro del comunismo non può perseguirlo con mezzi del genere.

È possibile che nessuno le abbia spiegato cosa sia un ostaggio? Un ostaggio è imprigionato non come punizione per un qualche delitto. È arrestato per ricattare il nemico con la sua morte. “Se voi ammazzate uno dei nostri, noi ammazzeremo uno dei vostri”. Ma questo non è forse la stessa cosa che condurre ogni mattina il prigioniero fino al patibolo e ricondurlo poi in cella dicendogli: “Aspetta ancora un po’, non è ancora il momento”?

E non capiscono i suoi compagni che questo equivale alla restaurazione della tortura per gli ostaggi e le loro famiglie?

Spero che nessuno mi venga a dire che anche la gente al potere conduce una vita non facile. Oggi anche tra i re vi sono persone che contemplano la possibilità dell’assassinio come un “incidente sul lavoro”. E i rivoluzionari, dal canto loro, si assumono la responsabilità di difendersi da soli davanti a Corti che minacciano la loro vita. Louise Michel ha scelto questa strada. Oppure rifiutano di essere giudicati, come Malatesta e Voltairine de Cleyre.

Anche i re ed i papi hanno rifiutato quel barbaro metodo di autodifesa che consiste nel prendere ostaggi. Come possono gli apostoli di una nuova vita, gli architetti di un nuovo ordine sociale, dotarsi di tali mezzi di difesa contro i loro nemici! Dobbiamo interpretare questo come il segno che ormai considerate l’esperimento comunista fallito e che non state salvando tanto il sistema che vi è caro, quanto le vostre persone?

Non si rendono conto i suoi compagni che voi, i comunisti, nonostante gli errori commessi, state lavorando per il futuro, e che per questo motivo, non dovreste realizzare il vostro lavoro in una forma così simile a un terrore primitivo? Sono state precisamente queste azioni, messe in atto nel passato da rivoluzionari, che hanno reso così difficile il successo delle nuove realizzazioni comuniste.

Penso che dovreste considerare che il futuro del comunismo è più prezioso delle vostre vite. E spero che queste riflessioni vi conducano a rinunciare a mezzi del genere.

Con tutte le sue molte serie deficienze (che io, come ben sapete, vedo molto chiaramente), la rivoluzione d’Ottobre ha portato un enorme progresso. Ha dimostrato che la rivoluzione sociale non è impossibile, come in Europa Occidentale si comincia a pensare. E, con tutti i suoi errori, sta portando a dei progressi in direzione dell’uguaglianza, che non possono essere intaccati da tentativi di ritorno al passato.

Perché allora colpire la rivoluzione spingendola su di una strada che la porta alla distruzione, soprattutto per difetti che non sono inerenti al socialismo o al comunismo, ma rappresentano la sopravvivenza del vecchio ordine e degli antichi effetti distruttivi di un’onnivora autorità senza limiti?

Con cameratismo ed affetto.


Pëtr Kropotkin

* * *

Diversamente concepite e indirizzate ad ottenere effetti differenti, queste due lettere partono da un unico modo di vedere. Malgrado gli effetti di già visibili, ad appena un anno dalla rivolta di Kronstadt e della repressione di Trotskij, Kropotkin pensa che qualcosa di buono poteva venir fuori dalla situazione russa all’indomani della presa del potere dei bolscevichi. Le sue forze si vanno assottigliando, morirà fra pochi mesi, ma l’antica illusione di un “seme” che potrebbe tornare a fiorire perché sotto la neve non è tramontata. Solo che Lenin non era l’interlocutore adatto, qualora ce ne fossero stati in quel momento. Un capo di Stato ha ben altre cose a cui pensare della sorte di poveri impiegati postali o, argomento di certo interessante ma ormai, per lui, scaduto d’importanza, dello snaturamento dei soviet.

Queste lettere, che qualcuno ha visto “forti” e “coraggiose” sono, in sostanza, un ultimo segno della grande anima di Kropotkin, venuto a spegnersi in Russia inseguendo il sogno della rivoluzione, non sua, ovviamente, ma che poteva essere opportunamente indirizzata con la presenza di compagni in grado di presentare le opportune critiche in corso d’opera.

Niente da fare. Lenin non le prese nemmeno in considerazione. Il buon vecchio rivoluzionario, ormai, parlava al vento.

Manifesto dei Sedici

“Da diverse parti si levano voci che reclamano una pace immediata. ‘Basta con il sangue versato, basta con le distruzioni’, si sente dire, ‘È ora di finirla, in un modo o nell’altro’. Noi, più di chiunque altro e già da molto tempo ci siamo espressi, sui nostri giornali, contro ogni guerra di aggressione tra i popoli e contro il militarismo, senza badare se aveva in testa un elmetto di qualche impero o uno repubblicano. Per questo saremmo più che felici se si intavolassero discussioni di pace (se questo fosse possibile) tra i lavoratori europei riuniti in un congresso internazionale. Tanto più che, se il popolo tedesco è caduto nell’inganno nell’agosto 1914 e se ha creduto davvero di essere chiamato alle armi per la difesa del proprio territorio, ha avuto ormai tutto il tempo per capire di essere stato imbrogliato e trascinato in una guerra di aggressione.

“In effetti i lavoratori tedeschi, almeno nelle loro formazioni più o meno avanzate, devono oramai avere capito che i piani di invasione della Francia, del Belgio, della Russia erano stati preparati con largo anticipo e che se questa guerra non è scoppiata nel 1875, nel 1886, nel 1911 o nel 1913, è solo perché le relazioni internazionali non si presentavano ancora in modo così favorevole e i preparativi militari non erano ancora abbastanza avanzati da lasciare presagire una vittoria tedesca (andavano completate le linee strategiche, c’era il Canale di Kiel da ampliare, si dovevano perfezionare i cannoni a grande gittata). E adesso, dopo venti mesi di guerra e terribili perdite, dovrebbe anche essere chiaro che le conquiste fatte dall’esercito tedesco non hanno nessuna possibilità di essere mantenute. Tanto più che sarà necessario riconoscere questo principio (già riconosciuto dalla Francia nel 1859, dopo la vittoria sull’Austria): consentire o meno l’annessione di un territorio è diritto che spetta esclusivamente alla popolazione che vi abita.

“Se i lavoratori tedeschi cominciano a rendersi conto della situazione, come ce ne rendiamo conto noi e una piccola minoranza dei loro socialdemocratici, e se riescono a farsi sentire dai loro governanti, potrebbe esserci un terreno d’intesa che permetta di avviare trattative di pace. In tal caso, però, essi dovrebbero dichiarare il proprio assoluto rifiuto a fare e ad accettare le annessioni, la propria rinuncia alla pretesa di esigere ‘contributi’ dalle nazioni invase; dovrebbero riconoscere che lo Stato tedesco ha il dovere di riparare, per quanto possibile, ai danni materiali provocati dalle invasioni nei paesi vicini e che deve rinunciare alla pretesa di imporre condizioni di sudditanza economica sotto il nome di trattati commerciali. Sfortunatamente, fino a oggi non si scorgono sintomi di risveglio, in questo senso, del popolo tedesco.

“Si è parlato della conferenza di Zimmerwald, ma a questa è mancato l’essenziale: la rappresentanza dei lavoratori tedeschi. Si è anche fatto un gran parlare di qualche tafferuglio che si verifica in Germania a causa del carovita. Ma ci si dimentica che disordini del genere ci sono sempre stati nel corso di grandi conflitti, ma non ne hanno mai influenzato la durata. Così, tutte le scelte che il governo tedesco sta facendo attualmente dimostrano che ha intenzione di riprendere le aggressioni con l’arrivo della primavera. Siccome, però, sa bene che in primavera gli Alleati gli opporranno nuovi eserciti, dotati di nuovi armamenti e di un’artiglieria molto più potente rispetto al passato, esso opera anche col fine di seminare la discordia tra le popolazioni alleate. A tale scopo si serve di un metodo antico come la guerra stessa: quello di diffondere voci di una pace imminente, che avrebbe come soli oppositori, tra gli avversari, i militari e i fabbricanti di armi, come ha fatto Bulow, con i suoi segretari, nel corso del suo ultimo soggiorno in Svizzera.

“Ma a quali condizioni propone di concludere la pace?

“La ‘Neue Zürcher Zeitung’ ritiene di sapere (e il quotidiano ufficiale, la ‘Norddeutscher Zeitung’, non la contraddice) che gran parte del territorio belga sarà evacuata, ma solo a condizione che il Belgio dia garanzie concrete di non ripetere ciò che ha fatto nell’agosto 1914, quando si era opposto al passaggio delle truppe tedesche. E in che cosa consisterebbero queste garanzie? Le proprie miniere di carbone? Il Congo? Non lo si dice. Si richiede, però, un forte contributo annuo. Il territorio conquistato in Francia sarebbe restituito, come la parte francofona della Lorena. Ma, in cambio, la Francia trasferirebbe allo Stato tedesco i propri crediti con la Russia, che ammontano a diciotto miliardi. In altre parole, si pretende un contributo di diciotto miliardi, che dovrebbe essere rimborsato dai lavoratori agricoli e industriali francesi, che sono quelli che pagano le tasse. Diciotto miliardi per riacquistare dieci dipartimenti che erano stati resi ricchi e opulenti dal lavoro francese e che verranno restituiti in uno stato di rovina e di devastazione...

“Per dire che cosa si pensa in Germania delle condizioni della pace, un fatto è indubbio: la stampa borghese sta preparando la nazione all’idea di una annessione pura e semplice del Belgio e dei dipartimenti del nord della Francia. E, in Germania, non esiste una forza in grado di opporvisi. Chi avrebbe dovuto levare la propria voce contro le conquiste, i lavoratori, non lo fa. Gli operai dei sindacati si fanno travolgere dalla febbre imperialista; il partito socialdemocratico, troppo debole per influenzare le scelte del governo sulla pace, anche se rappresentasse una classe compatta, si trova diviso, su questo argomento, in due fazioni ostili e la maggioranza viaggia di conserva con il governo. Il Reich tedesco, che sa che le proprie armate sono da diciotto mesi a novanta chilometri da Parigi, e che è sostenuto dal popolo tedesco nei suoi sogni di nuove conquiste, non vede perché non dovrebbe approfittare di conquiste già fatte. Si considera in grado di dettare le condizioni di pace, che gli permetterebbero di sfruttare i nuovi miliardi di contributi per nuovi armamenti, per attaccare la Francia quando gli parrà opportuno, per portarle via le colonie e anche qualche altra provincia, per non dover più temere la sua opposizione.

“Parlare di pace in questo momento significa appunto fare il gioco del partito filogovernativo tedesco, di Bulow e dei suoi agenti.

“Per quanto ci riguarda, noi ci rifiutiamo assolutamente di farci partecipi delle illusioni di qualche nostro compagno rispetto alle intenzioni pacifiche di coloro che dirigono le sorti della Germania. Preferiamo guardare in faccia il pericolo e cercare di fare il necessario per fronteggiarlo. Ignorare questo pericolo significherebbe accrescerlo.

“Siamo profondamente consapevoli del fatto che l’aggressione tedesca era una minaccia (messa in pratica) non solo contro le nostre speranze di emancipazione, ma contro tutta l’evoluzione umana.

“Per questa ragione noi anarchici, noi antimilitaristi, noi nemici della guerra, noi sostenitori appassionati della pace e della fraternità fra i popoli, ci siamo schierati dalla parte della resistenza e non abbiamo ritenuto giusto separare il nostro destino da quello del resto della popolazione. Ci sembra superfluo ribadire che avremmo preferito vedere questa popolazione assumersi direttamente l’impegno della propria difesa. Visto che questo non è stato possibile, non rimaneva che accettare il fatto compiuto. E, insieme a coloro che sono in lotta, noi consideriamo che, a meno che la popolazione tedesca, ritornando a più sani princìpi di giustizia e di diritto, la smetta finalmente di servire ancora da strumento ai progetti di dominio politico pantedesco, non sia proprio caso di parlare di pace. Certo, nonostante la guerra, malgrado le tante uccisioni, non ci dimentichiamo di essere internazionalisti: vogliamo l’unione dei popoli, la cancellazione delle frontiere. Ed è proprio perché auspichiamo la riconciliazione fra tutti i popoli, compreso quello tedesco, pensiamo che si debba resistere a un aggressore che rappresenta l’annientamento di tutte le nostre speranze di liberazione. Parlare di pace mentre il partito che da quarantacinque anni ha trasformato l’Europa in un enorme campo trincerato è in condizione di dettare le proprie condizioni, sarebbe l’errore più spaventoso che si possa commettere. Resistergli e fare fallire i suoi piani significa aprire la strada alla parte rimasta sana del popolo tedesco e offrirle i mezzi per sbarazzarsi di questo partito. Se i nostri compagni tedeschi capiranno che questo è l’unico esito vantaggioso per entrambe le parti, noi siamo pronti a collaborare con loro”.


“Christian Cornelissen, Henri Fuss, Jean Grave, Jacques Guerin, Pëtr Kropotkin, A. Laisant, F. Le Lève (Lorient), Charles Malato, Jules Moineau (Liegi), Antoine Orfila (Husseindey, Algeria), Marc Pierrot, Paul Reclus, Richard (Algeria), Ichikawa (Giappone), Varlan Tcherkesoff


“26 febbraio 1916”.

* * *

Il Manifesto sopra riportato, chiamato “dei Sedici”, dal numero (errato) dei firmatari, costituisce un cedimento clamoroso di fronte alla linea primaria e insostituibile degli anarchici, di tutti gli anarchici, contro la guerra. Su questo sono tutti concordi, non ci sono anarchici, oggi come ieri, che trovano giustificazioni alla sua stesura. E allora? Come mai uomini del calibro di Grave, Cornelissen, Malato e Kropotkin, per limitarsi ai compagni più conosciuti, lo stesero e lo firmarono? La risposta non può essere che una sola: fu un abbaglio, ma un abbaglio consequenziale.

Un abbaglio perché credere di partecipare a una guerra “dalla parte giusta” non è possibile, non esistendo guerre giuste. Consequenziale perché derivante logicamente dall’ipotesi quantitativa fondata sulla logica dell’aggiunta o, come l’abbiamo definita, dell’“a poco a poco”. Il determinismo, in salsa marxista o positivista, risulta sempre indigesto.

* * *

Anarchici pro governo


“È apparso un manifesto firmato da Kropotkin, Grave, Malato e una dozzina ancora di vecchi compagni, in cui, facendo eco agli organi dei governi dell’Entente i quali chiedono che la guerra continui fino all’annientamento della Germania, ci si erge contro ogni idea di “pace prematura”.

“La stampa borghese pubblica, naturalmente con soddisfazione, degli estratti del manifesto e lo annuncia come un atto compiuto dai “dirigenti del movimento anarchico internazionale”.

“Gli anarchici, i quali pressoché al completo sono rimasti fedeli alle loro convinzioni, debbono protestare contro questo tentativo di compromettere l’anarchismo nella continuazione di questa feroce carneficina che non ha mai permesso alcunché di buono alla causa della giustizia e della libertà, e che d’altronde, si mostra completamente sterile e senza vie d’uscita anche dal punto di vista dei governi dell’una o dell’altra parte.

“La buona fede e le buone intenzioni dei firmatari di questo manifesto sono fuori questione. Ma, quale che sia il dolore di trovarsi in conflitto con dei vecchi compagni che hanno reso tanti servizi alla causa che ci è stata comune, non si può, per rispetto della sincerità e nell’interesse dell’avvenire del nostro movimento emancipatore, non separarsi nettamente dai compagni che credono possibile conciliare le idee anarchiche e la collaborazione con i governi e la borghesia di certi paesi nelle loro rivalità contro le borghesie e i governi di altri paesi.

“Abbiamo visto, nella crisi attuale, dei repubblicani mettersi al servizio dei re, dei socialisti fare causa comune con la borghesia, dei lavoratori fare gli interessi dei capitalisti; ma in fondo tutte queste persone sono, in gradi diversi, dei conservatori, dei credenti nella missione dello Stato e si può comprendere che abbiano esitato e fuorviato fino a cadere nelle braccia del loro nemico, il giorno in cui il solo rimedio non era che la dissoluzione di tutti i legami governativi e lo scatenamento della rivoluzione sociale. Ma non si comprende più quando si tratta di anarchici.

“Gli anarchici pensano che lo Stato è incapace di impedire il male, se non commettendo un male ancor più grande: tanto nel campo delle relazioni internazionali che in quello privato egli non può combattere un’oppressione senza opprimere, egli non può reprimere un crimine senza organizzarne e perpetrarne uno più vasto.

“Anche supponendo (ciò che è ben lontano dalla verità) che il governo tedesco sia il solo responsabile della guerra attuale, è dimostrato che, restando fermi ai metodi di governo, non gli si può resistere che opprimendo e rimettendo in piedi tutte le forze reazionarie. Al di fuori della rivoluzione popolare, non v’è altro mezzo, per resistere alla minaccia di un’armata disciplinata che di avere un’armata ancora più forte e disciplinata; di modo che i più feroci antimilitaristi, se non sono anarchici e non credono nella dissoluzione dello Stato, sono fatalmente destinati a diventare degli ardenti militaristi.

“In effetti, nella problematica speranza di abbattere il militarismo prussiano, si è rinunciato allo spirito e ad ogni tradizione di libertà, si è prussianizzata l’Inghilterra e la Francia, ci si è sottomessi allo zarismo, si è ridato prestigio alla vacillante monarchia italiana.

“Possono gli anarchici, anche per un solo istante accettare questo stato di cose senza rinunciare a dirsi tali? Per me, meglio ancora la dominazione straniera che si subisce per forza e contro la quale ci si rivolta piuttosto che la dominazione indigena che si accetta docilmente, quasi con riconoscenza, credendo in questo modo di essersi garantiti da un male più grande.

“E non ci si dica che si tratta di un momento eccezionale e che dopo aver contribuito alla vittoria dell’Entente si ritornerà, ciascuno nel suo campo, a lottare per i propri ideali.

“Se è necessario oggi agire di concerto con il governo e la borghesia per difenderci contro la “minaccia tedesca” ciò sarà tanto più necessario dopo che durante la guerra. Quale che possa essere la disfatta dell’esercito tedesco (se è vero che sarà vinto) non si potrà mai impedire che i patrioti tedeschi pensino e preparino la rivincita; e i patrioti degli altri paesi, cosa naturale dal loro punto di vista, vogliano tenersi pronti per non essere ancora una volta colti di sorpresa. Vale a dire che il militarismo prussiano diventerà un’istituzione permanente e regolare in tutti i paesi.

“Che cosa diranno allora i sedicenti anarchici che oggi vogliono la vittoria di uno dei belligeranti? Continueranno a dirsi antimilitaristi e a predicare il disarmo, il rifiuto al servizio militare, il sabotaggio della difesa nazionale, per diventare, alla prima minaccia di guerra, i sergenti reclutatori dei governi che avevano tentato di disarmare e indebolire?

“Si dirà che tutto ciò finirà quando il popolo tedesco avrà saputo sbarazzarsi dei suoi dominatori e avrà smesso, distruggendo il militarismo di casa sua, d’essere una minaccia per l’Europa. Ma, posta in questo modo, i Tedeschi che pensano, e con ragione, che la dominazione inglese e francese (per tacere della Russia zarista) non sarà più dolce di quello che ai Francesi e agli Inglesi sarà quella tedesca, vorranno attendere prima che i Russi e gli altri distruggano il proprio militarismo e nell’attesa continueranno a rinforzare l’esercito del loro paese?

«E allora a quando la rivoluzione? A quando l’Anarchia? Dovremo attendere che siano gli altri a cominciarla? La linea di condotta degli anarchici è tracciata dalla logica medesima delle loro aspirazioni: si dovrebbe impedire la guerra facendo la rivoluzione o almeno incutendo ai governi la paura della rivoluzione.

“Fino ad oggi non si è potuto o saputo farlo. Ebbene non vi è che un rimedio: fare meglio nell’avvenire. È necessario più che mai evitare i compromessi: scavare l’abisso fra capitalisti e operai; predicare l’espropriazione della ricchezza privata e la dissoluzione dello Stato come il solo mezzo per assicurare la fraternità fra i popoli, la giustizia e la libertà per tutti e prepararsi a realizzarla.

“In questa attesa, tutto ciò che tende a prolungare la guerra (che massacra gli uomini, distrugge la ricchezza e impedisce la ripresa della lotta per l’emancipazione) mi sembra criminale. Mi pare che predicare la guerra a oltranza faccia veramente il gioco dei governanti tedeschi, i quali ingannano i loro sudditi e li incitano alla lotta facendogli credere che si vuole schiacciare e ridurre in schiavitù la nazione tedesca.

“Oggi come sempre il nostro grido sia: Abbasso i capitalisti e i governi, tutti i capitalisti e tutti i governi!”.

“Errico Malatesta

“‘Freedom’, aprile 1916”.

* * *

La risposta di Malatesta costituisce una critica esemplare. Non solo per la sua ortodossia antimilitarista e, in una parola, anarchica, ma per il modo garbato e non polemico che seppe prendere. Il gioco aveva una posta altissima, i compagni firmatari del “Manifesto” erano noti in tutto il mondo e godevano di un credito rivoluzionario di tutto rispetto, non si poteva liquidare la faccenda come un errore di valutazione. Occorreva prendere le mosse da lontano e andare al nocciolo della questione senza revocare in dubbio il grande contributo che uomini come Kropotkin e altri avevano saputo dare, e avrebbero continuato a dare, alla rivoluzione anarchica. E Malatesta ci riesce pienamente.

Anche a prescindere dal contenuto di questa sottile schermaglia, che oggi potrebbe sembrare ovvio, c’è anche il metodo in cui essa venne condotta, metodo che nelle chiacchiere odierne, spesso e volentieri, viene messo da parte per ricorrere agli attacchi personali piuttosto che sostanziali. La piattezza dei tempi in cui vivo si coglie anche in tante grossolanità che continuano a rotolarmi a fianco senza nemmeno sfiorarmi.

* * * * *

“Noi ci siamo abituati a credere a due regni, al regno dei fini e della volontà e al regno dei casi; in quest’ultimo l’accadere è privo di senso, le cose vanno, stanno e cadono, senza che nessuno possa dire: per quale motivo? a che scopo? – Noi temiamo questo possente regno della grande stupidità cosmica, perché il più delle volte veniamo a conoscerlo per il fatto che nell’altro mondo, in quello dei fini e delle intenzioni, vi casca dentro come una tegola dal tetto, colpendoci a morte una qualche bella finalità. Questa credenza nei due regni è un’antichissima favola romantica: noi nani intelligenti, con la nostra volontà e con i nostri fini, veniamo molestati da stupidi, arcistupidi giganti, i casi, gettati a terra dalla loro corsa, spesso calpestati a morte, – ma nonostante tutto ciò, non vorremmo rimanere senza la terribile poesia di questa vicinanza, poiché questi mostri giungono spesso quando la vita nella tela di ragno dei fini è divenuta troppo noiosa o troppo angustiosa e ci offrono un sublime diversivo per il fatto che la loro mano per una volta lacera l’intera ragnatela, – non che l’abbiano voluto, questi irrazionali! Non che se ne siano almeno accorti! Ma comunque le loro mani ossute si protendono attraverso la nostra ragnatela, come se fosse aria. – I Greci chiamavano Moira questo regno dell’imprevedibile e dell’eterna sublime limitatezza e lo ponevano come l’orizzonte che circondava i loro dèi, oltre il quale essi non potevano agire efficacemente, né vedere: con quella segreta tracotanza nei confronti degli dèi che si trova in diversi popoli, in guisa che, invero, li si adora, ma si tiene in mano un’ultima carta contro di loro, per esempio quando, come nel caso degli Indiani o i Persiani, li si pensa dipendenti dal sacrificio dei mortali, di modo che i mortali nel peggiore dei casi possono affamare e lasciar morire di fame gli dèi; oppure quando, come nel caso del duro e malinconico scandinavo, ci si procura, con il rappresentarsi un unico e irripetibile crepuscolo degli dèi, il godimento di una silenziosa vendetta, per compensare la continua paura che gli incutono i suoi dèi malvagi. Diverso è il cristianesimo, con il suo sentimento fondamentale, che non è né indiano, né persiano, né greco, né scandinavo e che impone di adorare nella polvere lo spirito della potenza e di baciare la stessa polvere: questo fece capire che quell’onnipotente ‘regno della stupidità’ non è così stupido come sembra, e che piuttosto siamo noi gli stupidi, che non abbiamo notato che dietro ad esso – sta il buon Dio, colui che ama le vie oscure, contorte e portentose, ma che alla fine tutto ‘guida magnificamente alla sua meta’. Questa nuova favola del buon Dio, che fino a quel momento sarebbe stato misconosciuto, come genia di giganti o come Moira, e che intesse egli stesso trame di fini, ancor più sottili di quelle del nostro intelletto – e che pertanto dovrebbero apparire incomprensibili, anzi assurde a questo stesso – questa favola era un rovesciamento così ardito e un paradosso così azzardato, che il mondo antico, divenuto troppo raffinato, non aveva la forza di contrastarla, per quanto assurda e piena di contraddizione potesse suonare la cosa; giacché, detto in confidenza, in tutto questo c’era una contraddizione: se il nostro intelletto non può indovinare quali siano l’intelletto e gli scopi divini, da che cosa mai intuisce questo carattere costitutivo dell’intelletto stesso? e quello costitutivo dell’intelletto divino? – In un’epoca più recente è in effetti divenuto assai grande il diffidente sospetto circa il fatto che la tegola che cade dal tetto, venga realmente gettata dall’‘amore divino’ – e gli uomini cominciano di nuovo, muovendosi all’indietro, a incappare nelle antiche orme dei giganti e dei nani romantici.

(Friedrich Nietzsche, Aurora)

Parole di un ribelle

Un libro di lotta, tagliente come una lama, non un testo scientifico, come ci si aspetterebbe da Kropotkin. Qui c’è il combattente non il geografo e lo scienziato sociale. C’è l’uomo che ha alle spalle una lunga attività clandestina, un’evasione dalla prigione – fra le peggiori – zarista, e che sta accingendosi ad assaggiare quelle della democratica Francia. Insomma un uomo d’azione.

Pur non essendo una lettura direttamente attualizzabile, mutate le condizioni storiche che oggi ci circondano da ogni parte, asfissiandoci e non alimentando le speranze di cui invece questo libro è intessuto, rimane lettura fraternamente fruibile. Dietro ogni affermazione, più o meno condivisibile che sia, si sente un cuore che batte insieme a quello dei miseri e dei minimi, e anche un dente pronto ad azzannare i superbi cavalcatori della tigre proletaria scatenata (la Comune di Parigi era faccenda di appena dieci anni prima), oltre che l’eterno nemico di sempre, i detentori del capitale, i massacratori di un passato recente e meno recente. I feroci difensori della rivoluzione parigina del 1871 misero al muro in pochi mesi 85 controrivoluzionari (tra spie, provocatori ed altra gentaglia, compreso l’arcivescovo della capitale). Nello stesso periodo di tempo a Versailles fucilarono 17.000 comunardi. Che stupefacente bilancio. Guai a fidarsi dalla bontà d’animo dei borghesi. Quando i cadaveri tappezzarono il muro dei federati, al cimitero di Père Lachaise, le bella gente della città – che durante gli scontri nella zona sud, nei pressi, appunto, del cimitero, si trovava a Bois de Boulogne, ad assistere a un concerto di Johann Strauss – forza trascinatrice della musica – andò a cavare gli occhi dei morti ancora insepolti con i puntali degli ombrelli.

Kropotkin non ci dice queste cose, forse troppo truculente, ma ci fa capire che non bisogna esitare nel colpire il nemico, quando se ne ha l’occasione, in caso contrario le conseguenze da pagare sono incommensurabilmente più orrende di qualsiasi immaginazione, anche la più efferata. Lo stesso per i mezzi, e gli sforzi, e la dedizione, necessari nel preparare l’insurrezione che favorirà – elemento certamente non decisivo in assoluto ma radicalmente necessario – la prossima rivoluzione.

Tutto qua. E non è poco, con i tempi che corrono.

In altre parole, è un libro d’azione e per l’azione.

Le grandi teorie, compresa quella “presa nel mucchio”, che in altri luoghi tanto mi ha fatto storcere il muso, qui sono solo adombrate di passaggio. Prima di tutto occorre attaccare e distruggere il nemico, espropriare le sue ricchezze e rendergli impossibile la vendetta che ferocemente è innestata da secoli di barbarie nel suo sangue infetto.

Il resto sono teorie che possono riscaldare il cuore solo degli anarchici da passeggiata scolastica.

Trieste, 13 febbraio 2012

 


[Introduzione a Parole di un ribelle, tr. it., Trieste 2012, pp. 9-10]

* * * * *

“Finora abbiamo preso in considerazione il senso e la denotazione solo di quelle espressioni, parole, segni, che abbiamo chiamato nomi propri. Ora dobbiamo prendere in considerazione il senso e la denotazione di un intero enunciato dichiarativo. Un enunciato di questo tipo contiene un pensiero. Questo pensiero deve essere considerato come il suo senso o la sua denotazione? Incominciamo con il supporre che l’enunciato abbia una denotazione. Se ora sostituiamo all’enunciato una parola con un’altra che abbia la stessa denotazione, ma senso diverso, ciò non può avere influenza sulla denotazione dell’enunciato. Vediamo però che in questo caso il pensiero cambia. Per esempio, il pensiero dell’enunciato ‘La stella del mattino è un corpo illuminato dal sole’ è differente da quello dell’enunciato ‘La stella della sera è un corpo illuminato dal sole’. Se qualcuno non sapesse che la stella della sera è la stella del mattino, potrebbe prendere i due pensieri uno per vero, l’altro per falso. Il pensiero non può essere dunque la denotazione dell’enunciato. Ma cosa sarà la denotazione? Possiamo anzi porci, in linea di massima, questa domanda? Un enunciato, considerato come un tutto unico, non può forse avere solo un senso e non una denotazione? Ci si può in ogni caso aspettare che esistano enunciati che, analogamente a parti di enunciati, abbiano un senso ma non una denotazione. E gli enunciati che contengono nomi propri senza denotazione sono di questo tipo. L’enunciato ‘Ulisse approdò ad Itaca immerso in un sonno profondo’ ha evidentemente un senso. Ma poiché è cosa dubbia se il nome Ulisse abbia una denotazione, è altrettanto dubbio se l’intero enunciato abbia esso stesso una denotazione. È però certo che se qualcuno in tutta serietà considera l’enunciato come vero oppure come falso, riconoscerà nel nome Ulisse una denotazione e non solo un senso: è infatti alla denotazione di questo nome che il predicato viene attribuito o negato. Chi non riconosce una denotazione, non potrà attribuire o negare un predicato. Se ci si volesse limitare al pensiero dell’enunciato, ci si accontenterebbe del senso del nome, essendo superfluo spingersi fino alla denotazione. Se fosse in gioco solo il senso dell’enunciato, cioè il pensiero, non sarebbe necessario preoccuparsi della denotazione di una parte dell’enunciato; solo il senso, e non la denotazione, delle sue parti è rilevante per il senso dell’enunciato. Il pensiero rimane lo stesso sia che il nome Ulisse abbia una denotazione, sia che non l’abbia. Se solitamente ci preoccupiamo della denotazione di una parte dell’enunciato, questo prova che generalmente riconosciamo e anzi esigiamo una denotazione anche per l’enunciato stesso. Il pensiero di un enunciato perde per noi di valore non appena ci accorgiamo che una parte dello stesso enunciato è priva di denotazione. Siamo dunque pienamente giustificati se non ci accontentiamo solo del senso di un enunciato, ma andiamo anche in cerca della sua denotazione. Perché mai vogliamo che ogni nome proprio abbia non solo un senso, ma anche una denotazione? Perché non ci basta il pensiero? Perché ciò che ci interessa è il valore di verità dell’enunciato. Le cose, però, non stanno sempre così. Se per esempio ascoltiamo recitare un poema epico, noi siamo soltanto attratti dall’armonia del linguaggio, dal senso degli enunciati, che risvegliano in noi immagini e sentimenti. Con il problema della verità perderemmo la gioia artistica, assumendo un atteggiamento scientifico. Così, finché accettiamo la poesia come un’opera d’arte, per noi è indifferente il fatto che il nome ‘Ulisse’ abbia o no una denotazione. L’essere protesi verso la verità è ciò che generalmente ci induce a procedere dal senso alla denotazione. Abbiamo visto che dobbiamo cercare per un enunciato una denotazione, qualora ci interessi la denotazione delle singole parti dell’enunciato stesso; e questo accade sempre quando, e soltanto quando, ci poniamo il problema del suo valore di verità. Siamo così indotti a riconoscere la denotazione di un enunciato nel suo valore di verità. Intendo per valore di verità di un enunciato la circostanza che esso sia vero o falso: non si danno altri valori di verità. In breve li chiamerò, senz’altro, l’uno il Vero e l’altro il Falso. Ogni enunciato dichiarativo, in cui ciò che interessa è la denotazione delle parole, va dunque considerato come nome proprio, e la sua denotazione, nel caso che esista, è o il Vero o il Falso. Questi due oggetti sono riconosciuti, sia pure solo tacitamente, da chiunque pronunci in generale un giudizio, da chiunque ritenga vero qualcosa, quindi anche dallo scettico. [...].

“Se è giusto il nostro punto di vista, il valore di verità deve restare invariato se sostituiamo, al posto di questo enunciato componente, un altro avente lo stesso valore di verità. Dobbiamo aspettarci delle eccezioni quando tutto l’enunciato o l’enunciato componente è un discorso diretto o indiretto. Infatti, abbiamo visto che in questo caso la denotazione delle parole non è quella abituale. Nel discorso diretto un enunciato denota di nuovo un enunciato, in quello indiretto denota un pensiero. Ci troviamo così indotti a considerare gli enunciati subordinati. Questi si presentano come parti di un enunciato complesso, che da un punto di vista logico equivale a un enunciato, e precisamente a un enunciato principale. Ma qui ci si presenta il problema di sapere se anche la denotazione degli enunciati subordinati è un valore di verità [...]. Agli enunciati nominali astratti introdotti dalla congiunzione ‘che’ appartiene anche il discorso indiretto. Abbiamo visto che in esso le parole hanno la loro denotazione indiretta che coincide con quello che è il loro senso abituale. In questo caso, dunque, l’enunciato subordinato ha come denotazione un pensiero, e non un valore di verità; come senso ha non un pensiero, bensì il senso delle parole ‘il pensiero che...’, che è solo una parte del pensiero dell’intero enunciato complesso. Ciò avviene dopo i verbi ‘dire’, ‘ritenere’, ‘essere persuaso’, ‘concludere’ e simili. Diversamente, e in modo davvero complicato, stanno le cose con parole come ‘riconoscere’, ‘sapere’, ‘supporre’, di cui tratteremo in seguito. Che nei casi ora descritti la denotazione dell’enunciato subordinato sia proprio il pensiero, si vede anche dal fatto che, per la verità dell’intero, è indifferente se quel pensiero sia vero o falso. Si confrontino per esempio i due enunciati: ‘Copernico credeva che le orbite dei pianeti fossero cerchi’ e ‘Copernico credeva che il moto apparente dal sole fosse prodotto dal movimento reale della terra’. Qui si può sostituire un enunciato subordinato con l’altro senza pregiudicare la verità. L’enunciato principale insieme con quello subordinato ha come senso solo un unico pensiero, e la verità di tutto l’enunciato non include né la verità né la nonverità dell’enunciato subordinato [...]. Si può non solo a ragione concludere che la denotazione dell’enunciato non sempre è il suo valore di verità, e che ‘la stella del mattino’ non sempre denota il pianeta Venere, per esempio quando questa parola ha la sua denotazione indiretta. Questo caso eccezionale si presenta proprio negli enunciati subordinati ora trattati, la cui denotazione è un pensiero”.

(G. Frege, Segno e denotazione)

Analisi critica della scientificità

Critica dell’approssimazione

Può diventare un luogo comune l’affermazione che la conoscenza della realtà è fatto diverso dalla realtà stessa, fatto che viene realizzato attraverso gli strumenti del pensiero, cioè della coscienza. Il luogo comune deriva dall’esperienza brutale di considerare separate coscienza e realtà e di non fare uno sforzo diretto a capire la loro fondamentale identità reale, il loro appartenere alla totalità delle relazioni. Per la constatazione cosiddetta sperimentale la conoscenza posseduta. sempre ricavabile da un impiego di strumenti diretti o indiretti dell’attività della coscienza, non significa nulla e non dimostra nulla in merito alla presupposta dominanza di quest’ultima sull’oggetto della conoscenza stessa. Il collegamento non è fondamento causale, non assegna compiti di dominanza. La coscienza, da canto suo, ed esclusivamente nell’ambito accumulativo, questo destino di controllo cerca di assegnarselo da sé, ma si tratta di un controllo esternato tutto nell’ambito del meccanismo stesso, non riesce ad avere incidenza effettiva sull’orientamento complementare del flusso, anzi riduce in polvere quel poco di segnali di tensione che riescono a passare.

Nell’ambito di una conoscenza puramente catalogativa, non c’è dubbio che il concetto di approssimazione si pone in partenza, ma incontra subito un problema radicale che lo blocca rendendolo inutilizzabile. Va bene che la coscienza operando all’interno del meccanismo accumulativo cerca di archiviare i dati, ma questo processo, nel suo svolgersi e nel suo continuo riorganizzarsi, è un processo di crescita? La risposta può essere affermativa solo nel senso quantitativo, non può esserlo anche in quello qualitativo, per cui non si tratta di una vera e propria crescita, non si tratta di vera e propria approssimazione. Se con quest’ultimo concetto si intende l’avvicinamento a un obiettivo, la conoscenza, o questo obiettivo è parziale ed equivoco, cioè soltanto quantitativo, oppure è totale, in quanto comprende anche la tensione, e allora l’approssimazione è illusoria perché il meccanismo tende a scartare sistematicamente la qualità.

L’ipotesi che si potrebbe definire decisionale, in base alla quale è la coscienza a predisporre l’itinerario conoscitivo, approntando strumenti e realizzando acquisizioni parziali via via ingrandibili e perfettibili, per cui è sempre l’attività della coscienza a dominare la conoscenza imponendole una anteriorità a precise condizioni, tutto sommato si riduce un’altra volta ai risultati accumulativi e agli effetti spontanei della riorganizzazione di questi stessi risultati all’interno del meccanismo di catalogazione. Più corretta mi sembra la considerazione che la coscienza si esteriorizzi esclusivamente nell’ambito di un processo sostanzialmente chiuso, che non può produrre nulla di nuovo in quanto tagliato fuori, proprio dal controllo stesso della coscienza, dall’altra metà del flusso, quella che si è orientata verso la tensione.

Per aversi conoscenza nel senso totale, occorre rompere il cerchio della coscienza, e questo, come ormai sappiamo, avviene con l’apertura della diversità. Il passaggio è concreto, ed è anche logico. Ci si pone dal punto di vista del tutto e subito. I per,corsi che la diversità compie nella ricognizione non possono essere considerati approssimazione al salto, saranno certo avvicinamento, ma il concetto è preso in senso differente, anche se il linguaggio non rende in questo caso un buon servizio. Di già, una volta fuori dal campo specifico dell’accumulazione, i concetti di spazio e tempo subiscono deformazioni importanti che devono essere tenute presenti se vogliamo capire i movimenti relazionali. Anzi, si potrebbe dire meglio che è proprio nel campo, che lo spazio e il tempo subiscono una deformazione in senso quantitativo che fuori non esiste.

Secondo la logica del tutto e subito non è possibile considerare la realtà come una totalità di fatti, ma come una totalità di relazioni. Secondo la logica dell’a poco a poco, però, si ha pure un concetto di totalità di fatti, ma è un concetto molto elementare, intendendo la totalità di un certo tipo di fatti con in più, come sottointeso, l’ammissione che si tratta di una totalità un po’ speciale, circoscritta a tutti i fatti conosciuti con esclusione di quelli non conosciuti e di quelli che vengono esclusi dalla conoscenza proprio dall’azione negativa esercitata dagli stessi fatti conosciuti. Come si vede, in base alla legge d’indeterminazione, anche nell’ambito accumulativo il concetto di approssimazione è uno strumento molto dubbio e discutibile, mentre nell’ambito della logica del tutto e subito viene del tutto escluso.

La realtà è la totalità reale di tutte le relazioni, dove l’accento si pone sulla concretezza del suo modo di essere, capace di comprendere tutte le strutture e tutte le forme trasformabili. Questa realtà totale contribuisce, in quanto totalità, come presenza concreta, a ogni singola relazione e da ogni singola relazione la si può ritrovare totalmente e per intero. È questo reciproco scambio di effettualità, riscontrabile puntualmente nel corso delle varie vicende della coscienza e della diversità, che si capisce bene l’assurdità dell’approssimazione.

Il settorialismo metodologico procede dalle premesse di una massima modestia e circospezione per arrivare a pretese conclusive di grande arroganza. Per questo modo di vedere il mondo, punto di partenza di ogni indagine è il problema. Non sempre questo problema può dirsi risolvibile, ma sempre, se le osservazioni e le valutazioni sono state sottoposte a un corretto metodo di controllo, i risultati saranno positivi, è questa la tesi socialdemocratica del neopositivismo sociale. Che la cattiva totalità dell’empirismo metodologico cominci con poco per pretendere tutto a poco a poco, è un fatto che tutti comprendono facilmente. Applicando la regola del cerca l’errore e correggilo si ha la costruzione della migliore dittatura oppressiva, fondata su di una regola di funzionalità. Tutti sono così convinti di vivere esperienze di libertà e solo alcuni si accorgono di quanto incida su tutti l’oppressione del permissivismo possibilista. Partendo dal presupposto che l’errore può sempre essere cercato e corretto, si pretende una conoscenza praticamente assoluta delle possibilità operative dell’uomo, mentre, al contrario, il punto di vista della totalità proprio perché parte subito dall’insieme complesso si avvicina al semplice non con la mentalità quantitativa di chi si vuole mettere il mondo in tasca, ma con la mentalità qualitativa di chi vuole comprendere il mondo e trasformarlo in quanto il parziale racchiude in sé di già tutto il mondo.

L’analisi accumulativa si blocca così in un gioco interno della ragione che dialoga con se stessa, una serie di selezioni e accumulazioni, un meccanismo di riorganizzazione, un controllo e un dominio sul senso. Questo cerchio chiuso finisce per uccidere l’umanità nell’uomo, facendone un prodotto dell’alienazione scientifica della produzione economica e dell’organizzazione sociale, includendo in quest’ultima la scienza nel senso specifico del termine. La realtà ridotta soltanto a contenuto diventa manipolabile, modificabile ma fa sparire fittiziamente ogni reale progettazione umana, ogni interpretazione, ogni trasformazione. Tutto si appiattisce in un processo totalizzante che vuole così mimare una totalità che diventa sempre più estranea. Ulteriore prova dell’impossibilità concreta dell’approssimazione.

L’unica cosa che possiamo avere chiara a questo punto è che l’azione diventa posizione a livello effettuale della trasformazione. Non siamo ancora in grado di approfondire in tutta la sua estensione il problema del funzionamento della trasformazione, eppure possiamo costruire le particolarità sostanziali tra quanto avviene nell’ambito della modificazione e quanto nell’ambito della trasformazione. Ciò ci consentirà di distinguere con maggiore precisione, per quanto possibile, tra fare e agire. Questi approfondimenti mi sembrano indispensabili per il problema stesso dell’approssimazione. Ora, se l’azione comincia a realizzarsi nel momento del salto, questo come intenzionalità della diversità può anche perdersi nel territorio dell’azione, guastando la saldatura del flusso. L’azione può riflettersi soltanto nel flusso ricostituito, cioè può sviluppare la trasformazione concreta, all’interno di un flusso relazionale che si è ricostituito in se stesso, all’interno del campo, ma proprio nel momento in cui ha superato la divaricazione degli orientamenti, ha fissato il suo rapporto con la totalità della relazioni. La trasformazione è sempre un movimento totale, quindi l’azione è sempre un intervento intenzionale capace di collegarsi con la totalità. Ecco il motivo per cui ogni azione realmente capace di determinare trasformazioni è sempre qualcosa che ha conseguenze, effetti e spiegazioni di natura totale.

Per quanto si voglia oggettivare l’azione non è possibile pervenire a un elemento puntuale, di fondo, un movimento elementare. Nella definizione analitica la faccenda è molto diversa, intrecciandosi componenti di accumulazione, contenuti e relazioni apparenti che consentono grosso modo un risultato utilizzabile in tempi brevi. Non è lo stesso quando si approfondisce l’azione dalla parte della logica relazionale, cioè del tutto e subito. Nel flusso ricostituito, la diversità rientra in possesso dei contenuti che aveva abbandonato, i quali non sono però rimasti identici, sia perché la riorganizzazione interna al meccanismo di accumulazione è continua, sia perché c’è stata la riunificazione con la qualità, il nuovo possesso è quindi costituito da un contenuto residuale più qualificato. Anche la diversità non è più quella che era uscita dalla coscienza, incerta e avventurosa, adesso è più determinata e ha imparato a vivere col rischio, sa perfettamente cosa vuol dire il coinvolgimento, sa cosa può significare il perdersi nella cosa. L’unità della coscienza corrisponde all’unità del flusso. La trasformazione è quindi azione della coscienza all’interno del flusso.

Ritornare a una distinzione tra soggetto e oggetto, in termini di subordinazione dell’uno all’altro e viceversa, sarebbe un passo indietro. Ognuno di loro ha un proprio versante soggettivo e uno oggettivo, con la prevalenza del primo nel soggetto e del secondo nell’oggetto. L’azione è quindi una trasformazione a livello di flusso relazionale, con conseguenze sia all’interno del campo, sia nella totalità delle relazioni. Cadono qui una serie di obiezioni classiche al rapporto tra l’azione conoscitiva e la sottostante realtà che viene conosciuta. Supporre le due cose distinte o unite, come è stato fatto dal realismo e dall’idealismo, non è possibile. L’inseparabilità è certamente un postulato relazionale, ma solo a livello totale. Nell’ambito del flusso, in termini di tensione e senso, si può raggiungere tra i confini dell’affievolimento, una specificità che è diversa dall’inseparabilità. Risulta una illusione la specificità immaginata a livello di oggetto o di soggetto, come risulta una illusione la pretesa inseparabilità allo stesso livello. La logica dell’a poco a poco cerca di superare il primo concetto di inseparabilità ma non fa altro che racchiudersi nel secondo concetto, raggiungendo specificità via via sempre più approssimate, senza mai essere effettivamente reali.

A livello di flusso ricostituito sono quindi possibili soltanto trasformazioni. Per aversi le modificazioni e le interpretazioni bisogna indirizzarsi verso altri flussi all’interno dei quali è in corso la polarizzazione degli orientamenti. Ma non può accettarsi l’ipotesi di una trasformazione del soggetto a opera dell’oggetto o viceversa. Nessuno dei due può essere una trasformazione dell’altro, in quanto il flusso è composizione di tensione e senso e all’interno di ogni soggetto e di ogni oggetto passa una infinità di flussi, alcuni ricomposti unitariamente, altri polarizzati.

Ma la separabilità o specificità, cioè la qualificazione del contenuto, è possibile nel flusso ricostituito, non è detto che con ciò si possa parlare di sussistenza del soggetto indipendentemente dall’oggetto e viceversa, e ciò neanche all’interno del campo. con tutte le forzature e le deformazioni che questo può comportare. Se è certo che deve esserci l’oggetto per aversi il soggetto, è certo anche il contrario, e ciò perché sia l’uno che l’altro hanno una composizione divisa in due versanti, uno soggettivo e uno oggettivo, non perché l’uno postula o crea l’altro o viceversa. L’affermazione di una realtà esterna al soggetto diventa così esercitazione metafisica, almeno posta in questi termini, allo stesso modo dell’equivalente ma contraria affermazione della non esistenza di una realtà esterna al soggetto. La necessità di una permanenza dell’oggetto, o del soggetto, anche quando non ne sappiamo nulla non può quindi ricavarsi da una idea di separazione, ma soltanto essere dimostrata attraverso un processo capace di partire dalla totalità relazionale, con cui viene non solo superato il cosiddetto pseudo-problema del comportamento dei corpi non osservati, ma anche il concetto di una supposta staticità come equivalenza del concetto di permanenza.

La distinzione che ho proposto tra autorganizzazione dell’agire e fare coatto andrà ovviamente ripresa in altre occasioni, in quanto è alla base dell’agire liberatorio. Andrà ricercato infatti il motivo del rifiuto del meccanismo accumulativo, non solo a livello delle avventure della diversità, ma anche a livello collettivo. Un altro aspetto che andrà approfondito sarà quello dell’effettivo funzionamento dell’autorganizzazione, cioè se la si deve interpretare nel senso di una forza sotterranea, con tutte le conseguenze deterministe del caso, oppure come un insieme di flussi che possono essere conosciuti e gestiti, sia pure dentro certi limiti.

Per il momento vediamo meglio la distinzione tra agire e fare che di già nel primo platonismo veniva interpretata in chiave politica considerando che il compito del politico non può essere quello del fare ma del comandare, cioè del far fare. Quindi, proprio agli albori della teoria del dominio, il fare non era confuso con l’agire, ma si riassumeva nell’obbedire, l’altra faccia del comandare, venendo distinto e svalutato, mancando di iniziativa e di capacità autonoma di portare a completamento quanto iniziato. È proprio su questa differenza tra cominciare e compiere che si insiste nel primo platonismo come corrispondenza della distinzione tra fare e agire.

Torna quindi il problema della distanza che pretende una posizione analitica fondata sulla logica dell’a poco a poco. Su questa base non c’è mai trasformazione, quindi nemmeno reale miglioramento, la conoscenza sfugge e non c’è modo di incontrarla, freneticamente ci si muove nell’ambito accumulativo, si compra e si vende, dalle normali necessità della vita alle cose più incredibili, si modifica l’esistenza umana e i condizionamenti, le idee e i pregiudizi, ma sempre tutto mantiene la distanza regolamentare, come sulle scale del castello di Chambord in cui chi sale vede continuamente chi scende e viceversa, senza tuttavia incontrarsi mai con l’altro, una splendida soluzione elicoidale leonardesca. La distanza annulla l’idea stessa di progresso riconducendola all’interno di un giudizio meccanico, assolutamente improbabile, cosa che avviene ugualmente con la sua storicizzazione, artificio attraverso cui sono passate le più oscure nefandezze da almeno tre secoli a questa parte.

Nella frenesia insensata dell’operatore di borsa [1989] allo stesso modo che nel gestore solitario della sorte dei grandi imperi economici, ho sempre visto riflesso, come in uno specchio duplice, l’infinita riproduzione dell’identico, che si ritrova esattamente uguale negli atteggiamenti del decadente esteta, con il suo gusto per i colori più tenui, gli oggetti simbolo, l’antiquariato, le lunghe sciarpe e la sensibilità delicata. I minimi particolari non riempiono la vita né come piena accettazione del valori del momento né come fuga in valori e gusti del passato o di un poco prevedibile futuro immediato. Non possono riempirla perchè sistematicamente ci si chiama fuori, con un gesto anch’esso improbabile, ma comunque significativo, desideroso di mettere al sicuro la cosa che più interessa, la propria essenziale, miserabile, ricchissima, inutile esistenza.

Quando ero giovane rimasi interdetto nell’apprendere del grande progetto scientifico americano della cosiddetta “Scienza unificata”, progetto voluto dalle intenzioni dei neopositivisti tedeschi in esilio, e appena accennato nella sua realizzazione, subito abortita. La cosa, di per sé mi affascinava. Ero più vicino ai quindici anni che ai venti e tutte le grandi imprese mi affascinavano, nell’ambito delle ricerche storiche in modo particolare. Mi ero già immerso, uscendo con pochi danneggiamenti per la verità, nel grande mare positivista della critica letteraria italiana della fine dell’Ottocento e avevo abbozzato programmi spaventosi, ne indico due soltanto, il primo era una Storia delle polemiche del Settecento, di cui scrissi la prima parte e completai la seconda e la terza lasciandole poi in sospeso in vista di una successiva revisione che non venne mai. Dalla distruzione di queste centinaia di pagine si salvò solo quella prima parte che poi ridussi in una sorta di Introduzione, pubblicandola. Il secondo elemento di questo programma riguardava una Storia della storiografia, opera come ognuno sa, praticamente improponibile e meno che mai alla mente di un giovane sia pure robusto di muscoli come ero all’epoca. Eppure vi lavorai per parecchio tempo sviluppando il periodo che va dal Seicento agli inizi dell’Ottocento e limitatamente alle opere italiane e francesi. Naturalmente queste carte fecero la fine delle altre.

Ma erano proprio questi immensi volumoni di migliaia di pagine che mi affascinavano con la loro stessa mole, al di là del contenuto che, se per la letteratura italiana mi era ormai familiare, non si poteva dire lo stesso per la filosofia e meno che meno per l’economia, eppure restavo per ore a leggere i grossi tomi della vecchia “Biblioteca dell’economista”, che compravo a prezzi irrisori in una bancarella di libri usati. Più che il contenuto, che in gran parte mi restava estraneo, mi affascinava l’estensione del progetto, la vastità degli argomenti, il fatto stesso di vederli accumulati lì sotto i miei occhi, anche se lontani e nella massima parte incomprensibili. Proponendo inconsciamente, dentro di me, il paragone con la stringatezza dei poeti, con l’unicità e l’irripetibilità dell’immagine poetica, di cui proprio a causa dei miei studi di letteratura ero abbastanza a conoscenza, dentro di me parteggiavo per la soluzione estensiva piuttosto che per quella intensiva, mi sentivo più portato ad affrontare problemi e questioni per loro natura giganteschi e ramificati, piuttosto che condensati di idee o di sensazioni. Non voglio qui approfondire la discussione su cosa sarebbe da preferire, e sono troppo vecchio per decidermi adesso di cambiare intenzione e mestiere, mi limito a indicare una mentalità accumulativa di illusoria approssimazione alla totalità che è un prodotto infantile della mentalità umana, e ciò indipendentemente dal fatto che si ci diriga verso la soluzione intensiva o verso quella estensiva. L’accumulazione, con tutti i suoi difetti, si realizza infatti in ambedue i sensi, in quanto anche nella ricerca dell’intensità c’è la tentazione di inserire quanto più contenuto possibile nell’astratto ideale linguistico della parola particolarmente significativa.

Questa mentalità infantile, tipicamente scientifica, è ancora dominante fra gli scienziati. Un progetto attuale [1990] che si può con molta fondatezza paragonare a quello degli anni Cinquanta di una “Scienza unificata”, è il “Progetto Genoma” che dovrebbe fornire l’elenco complessivo delle istruzioni che si trovano chimicamente codificate all’interno di ogni cellula umana. Per avere un’idea della vastità incredibile di questo progetto, si pensi che si dovrebbero codificare qualcosa come tre miliardi di lettere che si trovano nelle proteine che sono molecole essenziali alla vita delle cellule. Se si trattasse di lettere tipografiche la loro trascrizione comprenderebbe duecentomila pagine di testo. Il progetto in questione era rimasto un’ambizione insoddisfatta fino a poco tempo fa in quanto negli ultimi trent’anni sono stati codificati sono un piccolo numero di segnali, ma adesso [1990] le tecniche elettroniche consentono un aumento notevole dell’accumulazione e quindi si ricomincia a pensare seriamente a un progetto del genere come a qualcosa di attuabile in tempi ragionevolmente brevi. L’importanza di un simile lavoro è evidente, meno evidenti sono i suoi pericoli. Gli aspetti positivi sono legati alla possibilità di curare determinate malattie ereditarie, mentre gli aspetti negativi si intravedono nella possibilità di manipolare l’uomo arrivando a fermare la riproduzione di individui considerati geneticamente portatori di una tara ereditaria. Sulla valutazione di queste tare evidentemente ci possono essere opinioni diverse in quanto mentre a esempio per la distrofia muscolare si potrebbe essere d’accordo, non allo stesso modo si potrebbe essere di comune opinione riguardo l’abolizione di individui di bassa statura o portatori di una tendenza verso comportamenti considerati antisociali dall’ordine dominante. C’è in questo dibattito che esula dagli interessi del mio lavoro, tutto il problema dell’accumulazione, con la sua gestione esclusiva dei contenuti e con la sua riduzione in residui della qualità, e c’è anche tutto il problema di un certo infantilismo progettuale della scienza, l’illusione del tutto impossibile, di un’approssimazione alla totalità.

Critica del compromesso

All’interno del meccanismo dell’accumulazione si trova anche la coscienza immediata, ancora racchiusa nel suo bozzolo di controllo, ma non si tratta di una semplice partecipazione al meccanismo stesso, infatti la coscienza non può mai ridursi a solo contenuto, soffrendo di ogni tentativo del genere sia proprio che a opera del meccanismo stesso. Il problema, posto in questi termini, non è risolvibile in quanto parte dal presupposto di una coscienza staticamente unitaria, la quale conosce il meccanismo di accumulazione in quanto si pone nei suoi confronti come soggetto di fronte all’oggetto. Ciò non considerando, com’è ovvio, la serie collaterale di problemi che raccoglie tutte le obiezioni riguardanti il contenuto in quanto tale, la progressiva scomparsa della tensione, la maniacale ripetitività del meccanismo e così via.

La logica dell’a poco a poco, riconfermando l’unitarietà del soggetto, finisce per vedersi obbligata a scendere a patti, a stabilire dei compromessi. Tra l’ipotesi idealista, la quale afferma che l’oggetto non è altro che una modificazione del soggetto, e l’ipotesi realista che afferma, con diverse sfumature, l’esistenza separata delle due cose, si fissa un accordo compromissorio. Il soggetto agisce e l’oggetto patisce, il primo riflette il secondo, quindi lo ripropone sempre in forma modificata, il secondo subisce l’influenza del primo come azione delle idee, se non altro. L’azione sarebbe un porre le cose al loro posto, quindi un conoscerle, senza di cui le cose esisterebbero, può essere, ma non avrebbero il senso che hanno dopo la suddetta sistemazione. Ciò comporterebbe il rischio che il soggetto finisca per conoscere se stesso, riducendosi a oggetto, ma gli scandalizzati idealisti hanno innestato qui un altro compromesso affermando che il soggetto si conosce in un modo tutto suo, scoprendo così uno strano concetto di autotrasparenza.

Nella logica del tutto e subito non c’è bisogno di compromessi, la critica coglie meglio i limiti logici delle affermazioni che precedono, pur restando nell’ambito delle astrazioni, cioè senza scendere nel concreto comportamento diversificato della coscienza. Di già, la semplice proposizione relazionale del meccanismo di accumulazione consente di fare chiarezza proprio al suo interno, cioè nel manifestarsi della coscienza riguardo all’orientamento verso il senso. La coscienza finirebbe per essere accumulata essa stessa dal meccanismo di cui sopra e non potrebbe neanche esercitare il suo compito strutturale di controllo, se non riuscisse a essere diversa da quanto vuole accumularla, pur restando un movimento relazionale. Se non esistesse questa diversità si avrebbe lo stesso una chiusura immediata della coscienza, una impossibilità concreta di rendersi conto dell’accumulazione come meccanismo che riconduce tutto al contenuto.

Partendo dall’ipotesi relazionale che vede in tutte le cose la presenza delle relazioni con i loro movimenti, non c’è più bisogno di porre la coscienza come soggetto che percepisce il contenuto in quanto oggetto. Sia la coscienza che il senso sono elementi relazionali complessi contenenti sia il versante soggettivo che quello oggettivo. Non c’è motivo di stabilire una priorità della coscienza sull’oggetto in nome di un maggiore valore esistenziale da assegnare al soggetto. Si tratta di un residuo di antropocentrismo. Non c’è nemmeno motivo di accettare il compromesso di un cominciamento fittizio, cosa che invece accade per forza, una volta che si ammette la priorità della coscienza che percepisce, perché ci si può chiedere subito, ma chi percepisce la coscienza che percepisce? E così via. Il cominciamento che noi poniamo nella coscienza, come cominciamento non radicale, riguarda il formarsi dell’inquietudine e l’inizio dell’apertura, movimenti che si concluderanno con il vero cominciamento radicale, che sarà realizzato nel territorio dell’azione, nella condizione nuova del flusso unificato.

Per questo motivo ho parlato di agire, e quindi di trasformazione, solo a partire da questo cominciamento effettivo, cioè a partire dalla realtà, dalla concretezza ritrovata nel territorio oggettivo, e non ho collocato questo cominciamento nell’ambito del medesimo meccanismo di accumulazione. L’azione presuppone il ricostituirsi del flusso, e quindi anche della coscienza, in un ambito in cui è già intervenuta la tensione realizzandosi nella forma. La trasformazione scioglie definitivamente il compromesso, dando vita a un flusso relazionale nuovo capace di contrapporre la struttura alla forma, liberandosi dal campo in una prospettiva autenticamente totale.

Limitatamente all’orientamento verso il senso, come in ogni relazione, questo si affievolisce man mano che si allontana dal punto di separazione all’interno del flusso. Questo punto contrassegna una messa in discussione dell’unitarietà di precedenti e diversi flussi, i quali, tutti e anche soltanto uno si frammentano in questi due orientamenti, uno verso il senso e l’altro verso la tensione. L’oggetto è quindi una produzione del meccanismo accumulativo che si distribuisce in una gradazione di affievolimento del senso man mano che si allontana dalla sua originaria proposizione in quanto separazione dal soggetto nel momento della diversificazione del flusso. Ricordiamo che nella coscienza ci può essere solo un cominciamento semplice, determinato dalla necessità, all’interno del campo, di precisare divisioni e specifiche, ma il cominciamento radicale si trova fuori del campo. Non si può quindi precisare quando e in che modo la frattura del flusso si è verificata, si possono avere indicazioni indirette attraverso un’analisi dell’accumulazione o una ricognizione effettuata attraverso la diversità. Ciò non toglie che ci si possa regolare come se il funzionamento complessivo della polarizzazione del flusso possa essere acquisito nella sua obiettiva divaricazione dalla conoscenza.

La proposizione di un compromesso del genere è accettabile a condizione che venga mantenuta come strumento analitico circoscritto agli eventi del campo, oppure, al massimo, che venga suggerita come intuizione dell’intenzionalità del soggetto secondo come riesce a estrinsecarsi nell’effettualità. Si può così cogliere la produzione dell’oggetto come momento separato da tutto il resto. Ciò permette di vedere, all’interno del meccanismo di accumulazione, una diversa gradazione relazionale tra gli oggetti e la coscienza, gradazione che è determinata dall’affievolimento del senso, dalla riorganizzazione dell’insieme accumulato e dall’azione di controllo esercitata della coscienza. Non si può quindi parlare di soggetto e oggetto, ma di una condizione della coscienza, la quale ha suoi movimenti che solo in parte interessano l’oggetto, e di una condizione dell’oggetto che varia da oggetto a oggetto. Per tale motivo ogni oggetto differisce dall’altro, non per la sua destinazione, la sua disposizione nello spazio o la sua durata, ma solo per il suo differente contenuto in termini di senso, la sua capacità di riorganizzarsi in termini relazionali con gli altri oggetti e la sua dipendenza nei riguardi del controllo esercitato dalla coscienza. Per realizzare un oggetto ci deve essere di già in corso una diversificazione nel flusso, per cui la tensione sta viaggiando in senso opposto. Nel momento in cui il flusso viene ricostituito, attraverso l’avventura della diversità nel territorio dell’azione, solo una piccola parte di questi oggetti possono destrutturarsi in una forma qualitativamente significativa, cioè possono abbandonare la loro prigione di oggetto e acquistare lo statuto qualitativamente diverso dell’azione. Ma questo appartiene alla trasformazione non più alla modificazione.

Certo, anche la modificazione è conoscenza, se non altro analitica, la quasi totalità della scienza e della produzione economica, come la quasi totalità delle relazioni interne al campo sono anch’esse conoscenza, ma non sono tutta la conoscenza, anzi spesso, proponendosi come tutta la conoscenza, finiscono per risultare ostacolo a una conoscenza ulteriore. Ciò è sperimentato da tutti coloro che si oppongono con un’idea o un’azione a un ordine di cose specificamente imposto e catalogato, trovandosi a combattere una lunga lotta che poi magari finisce, successivamente, in una acquisizione, in una valutazione e purtroppo spesso in una inglobazione e in una santificazione di quell’idea o di quell’azione.

La discussione sui rapporti tra soggetto e oggetto, nell’ambito della metafisica tradizionale, è stata sempre impostata in modo parziale, e ciò allo scopo proprio di salvare l’unitarietà dell’uno o dell’altro di questi due poli della realtà, supposti tali da giudizi preconcetti o da postulati non indagati. Ma, che la coscienza non viva mai una vita unitaria, se non nei casi patologici di fortissima riduzione delle sue potenzialità, è un fatto che si trova sotto gli occhi di tutti, che essa abbia continui problemi di adattamento, di identificazione, di estrinsecazione e che questi problemi intacchino la sua supposta unità, anche questi sono fatti sotto gli occhi di tutti. Li si può leggere in modo diverso, questo è vero, ma bisogna sempre ricondurre queste diverse letture alle motivazioni ideologiche o metafisiche in senso stretto che le reggono alla base. La filosofia relazionale non può ammettere l’unitarietà chiusa di chicchessia, quindi non si vede perché debba dare il suo modesto obolo alla presunta unità della coscienza.

Per motivi identici non si può focalizzare un atto conoscitivo ideale, staccandolo dalla sua composizione relazionale che lo fa costituito, a sua volta, da movimenti e non da una ipotetica unità minima di fondo. In questo modo, contrariamente all’idealismo, si può rifiutare che la conoscenza dell’oggetto sia un atto unico del soggetto e questo indipendentemente se l’idealismo si riconfermi poi per immanentismo o si trasformi nelle diverse forme del realismo, anche in quelle più eccessive. Che l’oggetto sia assolutamente fuori del soggetto o che vi sia dentro in quanto possibile modificazione del soggetto le cose non cambiano per una filosofia relazionale, e non cambiano nemmeno se il soggetto si pone i classici problemi dell’autoconoscenza o dell’autocoscienza. Non c’è motivo di postulare uniformità di movimenti che sono tutti diversi fra loro per quanto tutti costituiti in modo relazionale. Scompare quindi anche la necessità di un soggetto che deve stabilire una differenza tra il modo in cui ha coscienza di sé e il modo in cui ha coscienza dell’oggetto, alternativa di compromesso che ha sempre minacciato di assolvere l’oggetto nel soggetto o di rendere impossibile la coscienza che il soggetto ha di se stesso.

Non esistono funzioni conoscitive specifiche capaci di oggettivare, e questo ormai lo sappiamo, ma non ne esistono nemmeno capaci di cogliere la coscienza in sé. Si tratta di flussi relazionali che possono dividersi in orientamenti, all’interno dei quali avvengono i movimenti che consentono la conoscenza. Che poi si possano identificare due tipi di flussi, una polarizzazione di orientamenti, due tipi fondamentali di movimenti, e questi dovremo ancora approfondirli, uno dentro l’orientamento verso il senso e uno nel territorio ricognitivo dell’azione, questo è un problema di articolazione della realtà.

La formulazione più ortodossa dell’idealismo, dovendo dare conto della nascita dell’oggetto, parla di una opposizione della coscienza a se stessa, una contraddizione tutta interna secondo la quale la coscienza pone davanti a sé qualcosa che è diverso da sé. Ora, una critica di questo meccanismo l’ho di già accennata e finirà per venire fuori in diverse altre occasioni, tanto vale accennarne anche qui. Il fatto è che siamo davanti alla prima formulazione post-kantiana di un processo di sviluppo, tutto cerebrale, che avrà una fortuna grandissima con l’hegelismo e poi col marxismo, per arrivare fino a qualsiasi tipo di storicismo. Lo sposalizio di questa trovata intellettuale con l’altra vigorosa idea frutto della medesima epoca, cioè l’idea di progresso, finirà per produrre molti frutti guasti e qualche cosa di buono. Prima o poi dovremo fare un bilancio dello storicismo in senso stretto. Per il momento mi pare opportuno chiarire alcuni punti almeno dubbi della sua formulazione di partenza, che poi sarebbe quella fichtiana.

Se la coscienza oggèttiva qualcosa da sé, e se questo qualcosa è diverso dalla coscienza, fin qui ci siamo, ma non può trattarsi di un oggetto, ciò è impossibile sia dal punto di vista della logica dell’a poco a poco, perché se la coscienza fosse capace di ciò finirebbe prima o poi per oggettivare se stessa e quindi per scomparire come soggetto, sia da un punto di vista della logica del tutto e subito, perché una prevalenza del versante soggettivo non può diversificarsi o scindersi o inquietarsi fino alla frazione se non dando vita a una ulteriore prevalenza del medesimo versante. L’impossibilità che la coscienza crei da sé l’oggetto è data della sua stessa inutilità, in quanto la coscienza è essa stessa un oggetto, per quanto particolare, munito di un versante oggettivo, solo che è un oggetto con caratteristiche diverse, cioè con una prevalenza del versante soggettivo, allo stesso modo in cui l’oggetto si potrebbe definire un soggetto con caratteristiche diverse, cioè con una prevalenza del versante oggettivo. Che poi, nell’ambito della filosofia relazionale, non si possa parlare di una contrapposizione netta tra soggetto e oggetto, ma sorge il problema di fissare una differenza tra oggetto e azione, questo è un altro problema che comunque è ancora più lontano da una possibile soluzione come quella fichtiana. L’azione, infatti, è certamente munita di un prevalente versante oggettivo, ma ha movimenti differenti dall’oggetto, per quanto una cosa possa diventare oggetto e un oggetto elevarsi al rango di azione.

Un altro elemento di perplessità nell’ipotesi idealista è dovuto al fatto che la creazione dell’oggetto avviene come azione della coscienza realizzata in una sua condizione di incoscienza. Cioè, per essere più chiari, l’oggetto non potrebbe essere prodotto dalla coscienza se non in condizioni di negazione della coscienza stessa, in stato di incoscienza. Ci sarebbe quindi un momento in cui la coscienza non produce l’oggetto e un secondo momento in cui questo oggetto viene prodotto. Ma, riflettendo bene, se la coscienza è l’unica cosa esistente, postulato iniziale dell’idealismo assoluto, come può accedere a una temporalizzazione? Questa domanda se la pone la logica del tutto e subito che potrebbe rispondere dicendo che si tratta di un’indicazione fittizia di tempo, una questione di campo come diremmo noi, e che la coscienza resta poi incontaminata e unitaria. Ma, risponderebbe la logica dell’a poco a poco, allora l’oggetto sarebbe una deformazione del campo, una pura illusione priva di esistenza reale? Cosa ovviamente impossibile.

Ma c’è di più, in effetti la spiegazione precedente è imprecisa in quanto la condizione d’incoscienza non deve essere confusa col suo significato comune. Nell’idealismo quella condizione equivale al senso di coscienza diretta, cioè la coscienza che sa, mentre la coscienza vera e propria, la coscienza attiva, quella che pone è la coscienza riflessa, cioè la coscienza che sa di sapere. Ciò spiega meglio la necessità di porre prima la coscienza che sa e poi quella che sa di sapere, con la contraddizione logica di cui si è già detto. La sola strada per uscire da questo vicolo cieco sarebbe l’accettazione di una condizione duplice di contemporaneità, ma questo annullerebbe la coscienza stessa in un processo all’infinito, di continua duplicazione tra coscienza diretta e coscienza riflessa.

L’idealismo si è posto il problema dell’incongruenza del tempo e dello spazio in una condizione in cui l’oggetto non ha senso se non viene pensato dal soggetto, anche l’oggetto passato e quello futuro. Non potendo ammettere un’artificiosità circoscritta di questi due riferimenti assoluti della misurazione, non ha potuto fare altro che accettare un compromesso, quello di ricondurre tutto all’interno del soggetto e di fissare lo svolgimento temporale come storia del soggetto all’interno della quale si rivivono lo svolgimento temporale e il dimensionamento spaziale. Ciò ha comportato tutto un modo di innestare le idee pratiche, anzi empiriche, di sviluppo e di progresso, all’interno di un’idea del tutto speciale di svolgimento della vicenda del soggetto. Queste due linee si sono unite, con altri compromessi, uno più pesante dell’altro, in un passaggio al vertice tra soggetto e oggetto, una sorta di soggetto oggettivo, cioè capace di svilupparsi autonomamente, per autoproduzione, da soggetto a oggetto. In effetti, la logica del tutto e subito può risolvere questo compromesso facilmente dimostrando la sostanza meramente strumentale del concetto di tempo e di quello correlato di spazio, e di come l’apparente necessità di questi concetti vada affievolendosi man mano che dal campo si passa alla totalità delle relazioni. Anche la logica dell’a poco a poco, a causa della sua vecchia anima empirica si è trovata a disagio con queste formulazioni, specialmente per l’ortodossia hegeliana che aveva realizzato il grande sforzo di recuperare all’interno della logica dominante parecchi dei motivi e delle intuizioni della logica dei dominati, ma ben presto la sistemazione hegeliana in senso attivista e marxista, le hanno dato una mano a risolvere il problema.

Il guaio veramente grave dell’idealismo non è stato il suo tradimento della strada considerata maestra verso la realtà, la cosiddetta strada del rispecchiamento, ma proprio il non avere accettato fino in fondo la sua ipotesi, il non averla allargata, estesa fino alle conseguenze apparentemente illogiche che le si aprivano davanti, conseguenze che se sviluppate coerentemente potevano condurre alla logica del tutto e subito. Invece, fin dalla sua prima fondazione, esso è subito andato in cerca di un ordinamento esterno, una codificazione che mettesse un blocco provvisorio agli inizi, ma definitivo in prospettiva, ai pericoli di uno sviluppo consequenziale delle sue tesi di partenza. Come la ricerca della distinzione e dell’approfondimento conduce immancabilmente alla perdita del particolare, il quale propone sempre una ulteriore e mai definitiva distinzione, così il rispetto di un accordo logico sull’analisi, consequenzialmente applicato, finisce con la negazione dell’accordo stesso e con l’ammissione della necessità di una logica differente. La paura di queste possibili riduzioni all’assurdo ha fatto sempre optare per il compromesso, cioè per l’accettazione acritica del meccanismo accumulativo. Ciò sembra paradossale perché si pensa ragionevole e accomodabile il fondamento stesso della vita, cosa che non è, basti ricordare i conflitti tra determinazione e volontà per averne un’idea. Allo stesso modo tutte le ideologie nascondono accuratamente la loro reale funzione, che è quella di fare accettare e perfino amare una condizione di sudditanza e di soggezione, e questo anche nell’ipotesi di ideologie azioniste o volontariste, acritiche o mitologiche, che pongono la volontà come movente primo per la risoluzione dei problemi sociali. La strada verso la libertà, che per sua natura è illogica, non può essere fatta coincidere con la strada logica dell’a poco a poco, che per sua natura è accumulativa, salvo ad ammettere che si tratta di una strada provvisoria percorsa in attesa di altre strade, dichiaratamente poco ragionevoli.

Incombe sulla logica analitica un’aspirazione alla completezza che viene sistematicamente penalizzata. I risultati sono tragicamente parziali e tendono, come sappiamo bene, a smarrire il contenuto da un lato quando si ha un approfondimento dall’altro. Questa condizione di precarietà conoscitiva condanna le grandi proposte empiriche a una infelicità senza fine. La coscienza sente come fatto proprio questa infelicità, che si riversa nella vita di tutti i giorni, nella necessità di una fede, di una ideologia, insomma di qualcosa capace di sostituire il concreto che viene meno. Da qui il compromesso di spostare la soluzione del problema a un futuro in cui tutto sarà diverso, in cui si realizzerà la filosofia che oggi si dibatte fra mille congetture o l’unità degli sfruttati al di là della distruzione delle classi. Gli ideali sono cose bellissime ma minacciano continuamente di andare in frantumi e di mandare in frantumi le illusioni. A un certo punto bisogna pure interrompere le proprie riflessioni e decidersi ad agire, come non si può continuare ad agire senza riflettere. Separare le due cose, in attesa di tempi migliori o solo perché non ci si sente portati per la riflessione, conduce a un irrimediabile fallimento sia della riflessione che dell’azione. Ma il rendersi conto della limitatezza di queste due separazioni, di già, ci fa stare male. Da qui la decisione di rifiutare il compromesso e di intraprendere una strada logica tanto diversa, quella del tutto e subito, riconoscendo e accettando, con tutte le conseguenze, la presenza di una totalità relazionale all’interno di ogni singolo movimento della realtà, ogni singola manifestazione della vita.

La regola logica del diventare quello che si è indica uno sviluppo della coscienza capace di partire dall’ipotesi che di già si è tutto, solo che questo tutto bisogna guadagnarselo, capirlo, criticarlo, individuarlo, rischiarlo. La differenza tra questi due ragionamenti è paragonabile a quella che c’è tra il risparmiatore che mette da parte i suoi soldi a poco a poco in vista di una cosa da acquistare, sia pure la sicurezza della vita materiale, cioè un bene astratto e assolutamente immaginario, e, dall’altro lato, il giocatore che punta quello che ha tutto e subito, in quanto solo così può possedere realmente quello che di fatto, in termini oggettivi, di già possiede ma che gli è estraneo e anche spiacevole. Coinvolgendosi, rischiando finisce veramente per possedere quello che ha, finisce per essere l’uomo con certe qualità sia pure limitate, ma quelle qualità e non altre che si attende di avere solo alla fine dell’accumulazione.

Quando l’uomo comincia a diventare quello che è non ha più paura del rischio in quanto il fatto aleatorio caratteristico del coinvolgimento non può mettere a repentaglio un’acquisizione che l’azione rischiosa in sé tendeva non a conquistare ma solo a scoprire come preesistente. La logica del tutto e subito sollecita a cercare cose che sono dentro di noi, che noi di già possediamo, mentre tutto il resto viene ricondotto al livello giustamente inferiore di strumento da impiegare esclusivamente nella ricerca di quello che si trova già in noi. Anche l’attività di costruzione degli strumenti può essere sprecata se poi questi sono indirizzati alla ricerca di cose che sono esterne a noi, riconoscimenti, potere, onori, cariche. Un processo miserabile di accumulazione che si conclude sempre con l’inaridimento delle iniziali possibilità di diventare quello che si era fin dall’inizio, un processo che vede la morte come unica conclusione possibile, come avvenimento esterno e nemico da ritardare e allontanare più che si può. Ogni scoperta di parte della propria coscienza diventa così una conquista che si riflette in fatti concreti e capacità operative, acquisizione di strumenti e impieghi trasformativi oltre che semplicemente modificativi, ma una conquista che di volta in volta la coscienza nel suo insieme, legata alle relazioni che essa riesce a diversificare, considera da un punto di vista diverso. Ciò comprende un ricomporsi continuo della personalità nel coinvolgimento stesso, senza che ogni conquista venga considerata acquisizione di possesso, percorso in vista della vittoria. La conclusione di queste conquiste non può essere quindi che la sconfitta come fine delle conquiste, arresto nella realizzazione di quello che di già si è, arresto previsto nel progetto stesso, accettato fin dall’inizio e perfino desiderato e cercato. La morte non è più quell’evento estraneo e pauroso che ci aspetta alla fine della vita, ma un elemento sempre presente, familiare, un elemento che fa parte di noi e che prima o poi riusciamo a realizzare.

Una delle tecniche di difesa del compromesso è la riduzione all’essenziale, cioè una limitazione quantitativa del senso, effettuata in nome di una sostituzione della qualità. Ciò avviene con un lavoro all’interno dell’accumulazione, diretto a selezionare i processi di riorganizzazione, in modo da perfezionare l’accumulo senza modificare eccessivamente i residui qualitativi. In genere questa raffinatezza analitica indica una difficoltà a trovare la propria identità, le proprie motivazioni. La coscienza gira intorno al proprio problema, avverte l’inquietudine ma oppone resistenza. Addolcisce il controllo esclusivamente con interventi limitati allo stile, alle condizioni esterne di relazione quantitativa. Così costruisce contenuti espressivamente moltiplicati ma inessenziali, sovradimensionati dal punto di vista del senso, curati, attenti, funzionali, ma privi di qualsivoglia incertezza o perplessità. Non sapendo decifrare le condizioni del meccanismo, cioè quello che questo, nella sua ripetitività, significa per essa, la coscienza vi sovrappone esercizi di precisione e manierismo dove alla comune registrazione del fare si duplica l’intenzione del ricordare, per cui ogni elemento torna ad suo posto ideale, totalmente precostruito, una specie di crepuscolarismo molecolare che impone se stesso come metodo scegliendo la struttura debole, il punto di minore resistenza. In condizioni simili, quando l’identità della coscienza immediata, cioè quella che solitamente chiamiamo volontà, si affievolisce, viene fuori un modulo produttivo di questo genere, frammentario e circospetto, il quale ha come grosso risultato quello di ritardare una possibile apertura.

In alcuni di questi atteggiamenti della coscienza, c’è di già operante l’intenzione attiva che si apre successivamente, solo che qui, non potendo muoversi in modo diverso, risulta essere catalogata anch’essa proprio in quanto intenzione. Si crea così una circostanzialità della coscienza che riporta continuamente nell’orientamento verso il senso i propri contenuti, accettandolo in modo forte, spesso acriticamente, comunque in nome di una assoluta mancanza di ironia. Capace di mangiare se stessa, la coscienza non è capace di ironia. Se prima non passa attraverso le profonde avversità della differenza, non riuscirà mai a liberarsi da questo suo essere soggetto incapace di vedersi come oggetto, da una pretesa dominante e ordinativa. Il meccanismo agirà sempre al suo interno in modo univoco, non riuscendo a rendersi conto che anche nell’accumulazione ci sarebbe da muoversi e da cogliere l’enorme affollarsi e sovrapporsi del senso, invece di limitarsi a osservarne il flusso e catalogarne le conseguenze.

Il compromesso è la rimozione di ogni inquietudine, la pacificazione accumulativa, l’accettazione di un limite in nome di uno scopo considerato superiore e al di là della critica, oppure semplicemente sconosciuto. Di questa necessità oscura, spesso la coscienza è semplice depositaria, in quanto componente dell’orientamento nuovamente diviso, e in questo modo non può avere prospettive o soluzione, è obbligata a volere, a ricacciare indietro l’illogicità della passione, l’incertezza e la perplessità. In questo modo, essa non si ferma, continua a produrre oggetti in un mondo che è ormai completamente sovradeterminato dall’accumulazione. Se potesse disporre a volontà del meccanismo di apertura, allora sarebbe diverso, ma non può farlo se non a condizione di essere spinta dall’intera condizione in cui si trova, dal processo stesso di accumulazione, dall’inquietudine. Certo, se si potesse accedere alla totalità dal senso separato, sarebbe una cosa diversa, non ci sarebbe nell’oggetto quell’estraniazione che invece si coglie sistematicamente. Se la conoscenza è possibile solo a condizione di ricostituire il flusso separato non c’è vera conoscenza della particolarità, e meno che mai nel rinvio all’infinito di una speranza di completamento.

Nella sua grande maggioranza la vita sociale è un prodotto di compromesso, e ciò perché la massima parte delle vicende della coscienza si svolgono proprio nel campo, senza comunque esaurirsi del tutto al suo interno. L’aspirazione alla totalità che caratterizza la vita, viene quindi mortificata in un compromesso che sembra renderla più facile o almeno più comprensibile. Così ci si adatta a essere qualcosa di diverso di quello che si è, un’apparenza, una riduzione a semplice meccanismo oggettivo, ed è un terribile concordato con noi stessi che stipuliamo, vivendo una vita di ombra che cerca una pallida consistenza riflessa da riconoscimenti ed etichette. Ma non ci porremmo neanche il problema se non avessimo all’interno del movimento relazionale stesso la testimonianza di qualcosa di diverso, di una diversa qualità, una strada per trasformare i lontani e irriconoscibili residui della tensione in veri e propri movimenti di ricongiungimento tra contenuto e qualità. Questa presenza, nella coscienza più circoscritta, di un movimento del tutto differente, ha fatto sempre pensare alla coscienza stessa come a una forza capace di superare tutte le difficoltà, di ricongiungersi con gli opposti limiti del mondo, di allargare all’infinito la conoscenza, finendo così per collocare nella volontà più speranze di quanto non fosse legittimo avere.

Ma la volontà non può volere la tensione, può solo volere il senso. Una dualità non la si vuole, la si cerca, la si mette in discussione, la si rischia. Il contenuto lo si può volere, non volendolo non lo si ha. La coscienza immediata, cioè incapace ancora di porsi come diversità, disponendosi all’apertura, non può lottare che con il contenuto, essa si dirige esclusivamente verso il senso, erigendo barriere nei riguardi di ogni presenza di disturbo, sia pure residuale. Ciò significa che la volontà anziché diversificarsi dal senso, si indirizza verso una sempre maggiore somiglianza. Lavorando sul senso prima o poi ne adotta i meccanismi e non riesce più a vedere le limitazioni. La collaborazione diventa imitazione, poi identificazione.

Questo si può intendere come presa di coscienza immediata, precisando che non si tratta di una immediatezza nel tempo, ma di un fissarsi della coscienza in ambito relazionale prevalentemente indirizzato verso l’orientamento del senso e quindi del tutto inserito nell’accumulazione. La coabitazione che così si cristallizza può anche modificarsi continuamente, diventare più o meno conflittuale, più o meno diretta al controllo, ma resta sempre un’accettazione del compromesso. Ed è proprio all’interno di questa condizione di sudditanza che nasce l’inquietudine, per l’intrecciarsi dei motivi provenienti da altre diversità in azione con i motivi che la coscienza trova all’interno dell’accumulazione stessa. Da continui segnali di alternanza tra accettazione e perplessità nasce una conoscenza, una scoperta dei limiti del meccanismo in cui si continua a credere e in cui si continua a vivere, e queste incertezze non potranno avere altro sbocco che la rottura dell’unità della coscienza, che così finisce per allinearsi con la rottura dell’unità del flusso.

Critica della specificità

Che la realtà sia un’organizzazione di flussi relazionali non è immediatamente coglibile. Già la semplice differenza tra oggetto e soggetto, come ormai dovrebbe essere chiaro, offre il fianco a punti di vista diversi che più o meno finiscono tutti per negarsi reciprocamente. Il senso comune vede una molteplicità di soggetti e di oggetti, ma li individua solo ricorrendo ad alcuni schematismi, tutti opportunamente catalogati. La scienza approfondisce questa catalogazione proponendo un tipo di meccanismo accumulativo certamente più raffinato ma non sufficiente a cogliere la realtà nel suo insieme. Il motivo essenziale di queste due limitazioni, quella del senso comune e quella della scienza, sta nel non riuscire a qualificare 1’accumulazione se non ricorrendo alle sovrapposizioni dei residui della tensione. Ora, siccome la specificità è un’espressione della qualificazione, ne deriva che non c’è individuazione vera e propria nel meccanismo accumulativo, dove tutto tende a depositarsi nell’archivio.

La necessità di trovare un denominatore comune alla molteplicità ha sempre fatto pensare all’esistenza di una sostanza, cioè di qualcosa che si trova sotto le diverse espressioni specifiche della realtà. Sulle possibilità di conoscere questo qualcosa che sta sotto ci sono tutti i limiti che già sappiamo, ma qui approfondiremo ancora meglio le strane condizioni in cui si viene a trovare il materialismo. L’ingenuità del materialismo settecentesco, per come si mise in luce nella costruzione di un ateismo elementare, forse anche efficace nelle condizioni dell’epoca ma non più accettabile oggi, consisteva in una fede di fondo, cioè nella credenza in una materia uniforme e individuabile, di cui si potevano ipotizzare misurazioni esatte e quindi prevedibilità ancora più esatte, se non altro come prospettiva. Ma altrettanta ingenuità si potrebbe individuare nelle pretese odierne di arrivare alle particelle costituenti la materia, errore specifico dell’accumulazione.

Di altre obiezioni, più specificamente metafisiche quasi non vale la pena di parlare. Di questo tipo la riflessione affermante l’impossibilità di una sostanza unica in quanto corrompendosi nella parte corrispondente a un individuo dovrebbe scomparire anche negli altri individui. Per sfuggire a questa obiezione è stata suggerita l’idea di sostanze simili, ma ciò impedirebbe la possibilità di pensare a comportamenti uniformi, cosa che invece sembra essenziale per un certo modo di vedere le cose. L’ultima soluzione sarebbe la riduzione della differenza all’aspetto soltanto nominale, strada che riporterebbe al materialismo ingenuo di cui sopra. Più seria l’obiezione parmenidea che, vista sempre come una negazione del divenire, a me sembra molto più ragionevole se vista come negazione del nulla, come qualcosa che esiste. Una filosofia relazionale non può fare a meno di sostenere un rifiuto del nulla, ma per motivi diversi, non legati alla conclusione dell’impossibilità del divenire. Qui però è necessario ricordare l’aspetto che riguarda l’impossibilità della specificazione e quindi della stessa molteplicità a causa del fatto che tra individuo e individuo ci dovrebbe essere uno stacco, quindi un qualcosa che più o meno può riportarsi al nulla. La continuità relazionale ovvia a questo inconveniente, come pure a quello zenoniano basato sulla continuità spaziale che conclude per una impossibilità della moltiplicazione dell’essere, sia all’interno che all’esterno.

La ricerca della specificazione non può nemmeno avvenire attraverso la forzatura platonica, nel senso di obbligare il non-essere a essere, attraverso il rapporto fra idee e enti, come non può avvenire solo attraverso una critica nominalistica, nel senso che la stessa affermazione che l’essere è uno, costituisce di già una specificazione in due parti, appunto l’essere e l’uno. E difatti il primissimo platonismo trova una sua personale strada per uscire da questa difficoltà, o da un vuoto nominalismo, affermando che almeno per quanto riguarda le qualità si deve avere una differenziazione e ciò perché esiste qualcosa di diverso tra giusto e ingiusto, tra bello e brutto e così via. Da qui la conclusione dell’esistenza delle idee, da un lato, e degli enti, dall’altro. Il platonismo più maturo vedrà un pericolo di immobilismo in questa divisione fissa per cui, anche per distinguersi dalle tesi eraclitee, concluderà per una realtà che accoglie sia l’immobilità che il movimento, mettendo così un ostacolo anche allo sviluppo dello scetticismo. L’aristotelismo e il pensiero medievale svilupperanno compiutamente il problema della differenziazione basandolo sulla necessità che una cosa non sia un’altra, principio logico che si riassume nell’alterità. La conclusione è che l’individuo si fonda sulla privazione di tutto il resto e solo a condizione di questa limitazione esso risulta comprensibile.

Perché queste tesi, con tutte le loro derivazioni e complicazioni, non sono soddisfacenti? I motivi sono diversi. In alcuni casi esse sollevano obiezioni fondate ma non danno risposte accettabili per cui finiscono per aprire la strada allo scetticismo che nega la tesi e l’obiezione e ammette che di nulla si può affermare qualcosa. Poi c’è da dire che una differenziazione per privazione indica separazione, quindi distanza, con la conseguenza che bisognerà riempire poi questa distanza o con il concetto di vuoto o con quello di oggetti geometrici che riempiono questo vuoto. L’ipotesi di continuità resta pertanto sotterranea a qualsiasi distinzione, e non può essere altrimenti in quanto gli enti effettivamente separati tra di loro, anche se privati di qualcosa, come conoscerebbero questa privazione? La funzione della materia aristotelica, capace di specificare le idee, come può svolgersi essendo questa materia indifferenziata? Come possono aversi qualità diverse? Salvo ad ammettere una pluralità di materie come poi farà lo scotismo.

In una concezione relazionista il problema si pone del tutto su altre basi. Do qui alcune indicazioni. Queste indicazioni abbreviate si rendono necessarie per approfondire meglio il funzionamento della logica del tutto e subito. Per ammettere la molteplicità, e quindi la specificazione, non occorre l’ipotesi del non-essere, cioè del nulla. Tutto è realtà, per cui anche il divenire non è altro che la modificazione di questa realtà, cioè il movimento delle relazioni, visto nella sua totalità. Non si tratta però di realtà in movimento, ma di realtà che è movimento. Noi siamo schiavi dell’ipotesi lineare di sviluppo del divenire e quindi dobbiamo per forza ragionare in termini di passaggio da uno stato all’altro. Possiamo però sforzarci e immaginare questo divenire come un fatto atemporale e aspaziale, come continua modificazione delle relazioni che si propongono, in quanto totalità, sempre in modo diverso. Il considerare eterna una realtà del genere non disturba il nostro materialismo né richiede ipotesi non necessarie come quella dell’esistenza di un ente supremo o Dio. Queste ultime appartengono alle cianfrusaglie della storia del pensiero.

L’individuo è quindi costituito da un certo numero finito di flussi relazionali. I flussi sono fasci di relazioni. La relazione è costituita da relazioni, per quanto si possa scavare nell’ambito costitutivo non si trovano altro che relazioni. Dal punto di vista logico, per capire meglio, si fa ricorso a una serie di ipotesi, spesso condizionate antropomorficamente, ma la realtà non è altro che relazioni, non si arriva mai a scoprire una relazione tanto piccola, cioè così rarefatta, oppure tanto grande, cioè così intensa, da fare scoprire qualcosa di differente sotto di essa. Approfondendo si trovano sempre ulteriori relazioni. Ho parlato spesso di punto relazionale, ma si tratta di un espediente logico per fare comprendere che anche riducendo la realtà tutta, nel suo insieme, all’unico punto immaginabile, la si ritroverebbe per intero.

La relazione è quindi il modo in cui la realtà si relaziona, cioè è movimento. Le relazioni sono difatti continue. La realtà è data da una serie di continui movimenti relazionali, il tutto inteso come totalità. Ne consegue che il concetto di identità sparisce come sono spariti i concetti di sostanza e quello correlato di necessità. In un mondo relazionale nulla è necessario, nemmeno il realizzarsi della filosofia. Tutto è possibile, anche il ritorno della più incredibile barbarie, nessun percorso obbligato. Nel fondo delle cose si scopre l’anarchia, sotto l’apparente uniformità delle superfici lisce, sotto i concetti rassicuranti di equilibrio e di legge. Partendo dalla relazione si deve avere però cura di evitare l’antropomorfismo e l’umanismo superficiale che ne derivano. Ciò nello stesso tempo in cui si deve evitare il naturalismo che pretende imporre al movimento della realtà un modello costruito dalla scienza, in particolare dalla fisica e dalla biologia. Fare questo è certamente difficile, spesso siamo portati a sovrapporre il modello umano al concetto di relazione, se non altro perché la cosa ci riesce più facile a capire. Ma in questo modo perdiamo di vista l’aspetto più essenziale, l’assoluta libertà della relazione, l’assoluta anarchia del flusso relazionale. Nel campo questa realtà è visibile con molte difficoltà perché l’uomo non è libero ma è prigioniero di mille ostacoli che gli vengono incontro. Per altro, dal punto di vista della libertà assoluta, caratteristica della relazione in quanto tale, non c’è modo di cogliere il senso liberatorio vero e proprio della libertà. Questa infatti per noi non è mai assoluta. Se all’interno del flusso, nella limitatezza in cui possiamo conoscerlo e con tutte le complicazioni che comporta il movimento al suo interno, vogliamo considerarla in questo modo, essa si trasforma nell’assoluta necessità. La libertà è possibile solo come coinvolgimento, quindi come lotta, allo stesso modo in cui la relazione è possibile come flusso. I flussi si coordinano all’interno di un campo, dove emerge l’individualità, caratteristica specifica, relazionale, ma più complessa del semplice flusso o dell’ipotesi limite del punto relazionale. È nell’individualità che la libertà diventa lotta, possibilità, contrasto, conquista.

Gli elementi della realtà sono specificabili solo intervenendo sul flusso relazionale, quindi attraverso un nostro personale coinvolgimento nell’avventura della tensione. Questa tensione, come ormai sappiamo bene, si orienta in modo opposto al senso, cioè si trova nell’orientamento verso il senso, in quella parte del flusso che si è diversificata proprio a causa di una caduta del coinvolgimento stesso. Non dimentichiamo che noi ci troviamo in una totalità relazionale di cui facciamo parte e dalla quale riceviamo successive determinazioni o individuazioni a seconda del movimento relazionale. Noi non possiamo tracciare in modo definitivo un itinerario relazionale identificato in modo esatto, possiamo sempre avere approssimazioni che sono la conseguenza di affievolimenti e intensificazioni. Ma queste approssimazioni non si devono confondere con le pretese accumulative di arrivare quando che sia a un esaurimento quantitativo della realtà, esse, al contrario, sono l’ammissione indiretta di appartenere a un complesso di cui non è possibile esperire tutti gli aspetti in modo definitivo. Così l’individuazione è sempre un avvenimento in corso, dove ci troviamo improvvisamente contrassegnati con flussi aventi una sufficiente qualificazione. In questo modo diventiamo individui, soggetti o oggetti, a questo punto ciò non ha importanza.

Ma l’individuo non è una parte della realtà. La definizione di parte non regge proprio per la nullità della distinzione tra parte e tutto. Però, l’individuo è certamente il prodotto di una specificazione, cioè di una separazione. Ma attuata da chi? Proprio dal nostro personale coinvolgimento. Si tratta di una separazione concreta, in quanto passa attraverso l’avventura della ricerca della tensione, ma è anche una separazione conoscitiva, difatti non c’è differenza tra queste due separazioni se non a livello di modello. Per capire dobbiamo quindi sempre separare poi cercare costanti immaginarie che spesso spacciamo per reali. Questo lo facciamo per intenderci.

Da parte sua la realtà è costituita da flussi relazionali. Noi percepiamo campi molto complessi di questi flussi in quanto questi campi entrano a fare parte, in tutto o parzialmente, del nostro campo. I campi sono pertanto organizzazioni di flussi. Siamo poi noi a chiamarli oggetti quando li vediamo prevalentemente condizionati dal processo accumulativo, soggetti, quando si aprono alla diversità. Ma si tratta anche questa volta di definizioni insufficienti. I flussi che determinano un campo, che spesso immaginiamo impropriamente come una grande scatola, non hanno confini precisi, per tale motivo si adatterebbe meglio una configurazione modellistica di fondamento topologico, per cui questa mancanza di confini precisi ci suggerisce piuttosto l’idea di un processo in corso e non l’idea di un qualcosa di statico. Difatti noi cogliamo i flussi che costituiscono il campo anche attraverso la lente deformante della staticità apparente dell’oggetto o del soggetto. Non potendo fermare i flussi, essendo in continuo movimento, siamo obbligati a ricorrere a ipotesi di lavoro che consentono, sempre in via modellistica, di considerare come separati i campi, costruendone anche di molto elementari ma sempre sufficientemente complessi e quindi praticamente irriducibili al livello di elemento puntuale, se non in via ipotetica.

La realtà è movimento, quindi non è mai uguale a se stessa. Le relazioni sono sempre diverse. Anche il più piccolo campo che riusciamo a individuare è sempre in movimento, il più piccolo flusso è capace di cambiare la sua composizione relazionale. Ciò avviene anche a livello macroscopico, ma non ce ne accorgiamo perché i modelli a cui facciamo ricorso sono molto inadeguati. Tutte le volte che utilizziamo la nostra automobile non ci accorgiamo che è sempre una diversa automobile, spesso le variazioni sono trascurabili, specie considerate da un’angolatura empirica ed economicista, ma ciò non vuol dire che non ci siano. Lo stesso accade nelle relazioni tra persone, in modo molto più complesso. Conosciamo una persona, ci sembra di mantenere con lei un rapporto che dura nel tempo, ma non ci accorgiamo invece che è sempre con una persona diversa che abbiamo un rapporto. Lo stesso con la nostra coscienza o con quello che consideriamo il nostro io, insomma con noi stessi. Ci vediamo come un tutto omogeneo e non ci accorgiamo delle continue variazioni che subiamo. A ogni istante i flussi relazionali del nostro campo creano cambiamenti, ma la nostra smania dell’identico ci impedisce di capire il senso di questa realtà. E così ci addormentiamo tranquilli per svegliarci un bel giorno improvvisamente diversi non sapendo come affrontare le conseguenze di questa diversità.

Scendendo sempre di più nel processo di individuazione, alla ricerca di campi sempre più precisi o di quelli che consideriamo astrattamente gli elementi della realtà aventi carattere puntuale, scopriamo che le regole dell’individualità subiscono deformazioni, cambiamenti di posizione, di quantità di moto e così via. Spesso continuiamo a usare questi concetti, ma si tratta di analogie a volte ingiustificate. a esempio, una delle caratteristiche della specificazione di un oggetto è la sua persistenza nel tempo senza che lo stesso subisca cambiamenti tanto apprezzabili da poterlo definire un altro oggetto. Ma come misurare questo tempo? Qual è il limite minimo perché si possa ragionevolmente parlare di persistenza? La soluzione sta nel campo che si tiene presente.

È all’interno di questo campo che il concetto di tempo è valido sulla base di un certo accordo di misurazione modellistica. Ma restringendo il campo anche il concetto di tempo tende a cambiare. La durata della vita umana è mediamente di 109 secondi. La nostra possibilità di percepire un’unità minima di tempo arriva fino a 10-10 secondi. La durata di una particella fisica elementare può anche essere di 10-4 secondi. Non siamo in presenza di modelli di tempo uguali. Il flusso che si organizza in un periodo tanto lungo quanto la vita media di un uomo non può essere misurato con lo stesso criterio di un periodo tanto breve come la vita di una particella elementare. Ciò spiega come l’individualità, e quindi la qualificazione, siano una conseguenza del campo di relazioni che, nel caso della particella tende a diventare più elementare.

Scendendo verso una specificazione sempre più elementare penso che il concetto di puntualità si possa ridurre, per i nostri scopi, semplicemente all’ipotesi del limite matematico, quindi come l’indicazione della presenza di un processo in atto, infinito ma limitato. Riguardo invece la persistenza, a un certo livello questa diventa tanto piccola da rendere impossibile la distinzione empirica ma utile alla vita di tutti i giorni, che viene fatta tra oggetto e flusso. Nei problemi delle particelle elementari infatti se si attribuisce loro una massa e una velocità si trova che la quantità di moto da esse trasmessa in un urto è il prodotto delle due precedenti quantità. Ma un fascio di queste particelle può essere diffratto da un reticolo allo stesso modo di come si verifica con un raggio di luce, per cui si è davanti a corpuscoli o a onde, per usare i termini fisici. Spesso queste specificazioni sono descritte come corpuscoli ma non appena si approfondiscono tutte le loro proprietà non si sa più come decidersi, appaiono infatti i comportamenti dei flussi, cioè delle onde. Penso che qui ci si trovi al limite di identificazione del campo, non che questo non esista più, solo che non è più specificabile. A un certo livello i flussi diventano talmente esigui ed elementari da restare quello che sono, da restare anche da soli, un solo flusso poniamo, in questo caso il campo vero e proprio non c’è più, resta una dissoluzione dell’oggetto nel movimento. Il prodotto dell’accumulazione scompare e non può dire più nulla dal punto di vista filosofico, con buona pace di tutte le pie intenzioni realiste del rispecchiamento.

Il flusso contiene unitariamente senso e tensione. Questa unitarietà, che entra nella delimitazione del campo per continuare ben al di là fino ad affievolirsi nella totalità del reale, si può rompere a causa del ritiro del nostro coinvolgimento. Siamo quindi noi che qualifichiamo il flusso mantenendolo unito, siamo noi che conosciamo mettendoci a rischio, siamo noi che manteniamo il campo in comunicazione con la totalità del reale, noi con la nostra lotta e la nostra avventura di vita. Come sappiamo, questa situazione privilegiata può spezzarsi, specialmente per paura, per desiderio di ordine, per risparmio di noi stessi, per ricerca della vittoria accumulativa, della conquista fine a se stessa. In questo caso, si polarizzano due orientamenti, cioè il flusso si spezza in due parti, un orientamento verso il senso e un altro verso la tensione. Il flusso quindi può essere unitario, cioè ricostituito, oppure può essere polarizzato. Anche la realtà polarizzata entra nel campo, dove trova una sua possibile collocazione piuttosto difficile da cambiare, solo il ritorno al coinvolgimento e la strategia della ricognizione, proponendosi come possibile ricomposizione del flusso dopo il salto nel territorio dell’azione, si muove in pratica verso i confini del campo stesso, quindi contribuisce a metterli in forse, a metterli in discussione.

La formazione del campo è una proiezione del soggetto che organizza i flussi, li unifica o li scompone, vi si immerge o se ne ritrae. Spesso quest’attività viene chiamata esistenza, ma la definizione risulta troppo riduttiva, in quanto taglia fuori tutto quello che avviene al di là del campo, cioè nella totalità del reale, da cui bisogna comunque partire sia pure per individuare gli stessi flussi che costituiscono il campo. Da qui l’illusione del campo come illusione dell’esistenza, intesa come concetto particolare, come coscienza dell’essere. Ciò non solo è una incongruenza ma aiuta a capire altre incongruenze e molti tragici errori. Il soggetto non può andare al di là del campo se non nei limiti di penetrabilità dei confini di quest’ultimo. Ora, la prospettiva, il movimento progettuale, il coinvolgimento stesso preludono a un andare oltre, non solo a un guardare avanti. Se la coscienza si limita a guardare avanti non può fare a meno di vedere se stessa. Certo, non è sforzo da poco vedere al di là di se stessi, ma è quello che praticamente facciamo di continuo, cercando di diventare, con dolore, quello che siamo semplicemente e senza fatica in quanto realtà.

Ma il campo, pur nella sua illusorietà, non è un’astrazione. Esso fa parte della realtà, entra in relazione con altri campi, con altri flussi, con la totalità delle relazioni. Una caratteristica del campo è la sua simultaneità in quanto insieme di movimenti che si svolgono al suo interno. Sono simultanee quindi le condizioni del campo, nel senso che esse non si evolvono, come qualcuno amerebbe dire, ma cambiano. Il campo è quindi determinato dai flussi e si presenta come somma di flussi relazionali ma, nello stesso tempo, concorre a determinare questi flussi e, come tale, è costituito da un insieme relazionato di flussi relazionali. La nostra conoscenza della realtà avviene attraverso il campo di cui siamo parte, che costruiamo con le nostre scelte relazionali, che oltrepassiamo con il nostro coinvolgimento. Questo campo è scindibile in campi di settore o più piccoli, artificialmente suddivisibili a piacere in base alle capacità della coscienza, alle sue intenzioni di controllo e alle sue inquietudini. Si tratta di una architettura di convenienza, a volte neanche troppo attendibile, che comunque molte volte viene scambiata per corrispondenza alla realtà, per rispecchiamento. Le convenzioni sono sempre realtà ma restano passaggio relazionale, una intenzione, non possono essere luoghi di arrivo, altrimenti si trasformano in istituzioni totali, in carceri e ghetti.

Qualche volta il campo può anche chiamarsi modello. So perfettamente che questa comunanza di significato potrebbe essere considerata contraddittoria da molti, ma secondo me si tratta di un errore che riposa sull’idea che tanti hanno della realtà come qualcosa di statico, o parzialmente dinamico, a cui si contrappone, con intenti interpretativi, l’analisi. Se l’azione diretta a conoscere le condizioni della realtà determina la formazione di un campo, anche l’azione stessa di cui si discute è un campo, precisamente un flusso che può costituire un campo. Solo che non di tutti i campi siamo coscienti. Anzi, al contrario, solo di pochissimi abbiamo una conoscenza che è, ovviamente, di natura parziale e quindi modellistica. Ecco perché sono dell’idea di considerare sinonimi i due concetti di modello e di campo. Ancora, andando avanti nell’applicazione di un modello si crede di continuare nella persistenza dello stesso modello e quindi ci si convince che non si tratta di un campo vero e proprio perché si parte dalla giusta idea che il campo varia continuamente. Ma anche il modello varia. Osservandolo bene, esso non è mai lo stesso. Restano in piedi le grandi idee portanti che non sottoponiamo ad analisi, ma accettiamo per definizione, concetti che non appena sottoposti a un minimo di approfondimento rivelano la loro reale composizione modellistica e quindi la loro natura di flussi relazionali in continua modificazione.

Un approfondimento della natura del flusso ci permette di riportare ancora una volta il discorso sulla possibile specificazione non soltanto del flusso stesso ma della semplice relazione. In effetti, il senso comune porta a considerare la relazione come l’unione, il rapporto dinamico, tra due cose, le quali, separate tra di loro, mantengono comunque un legame diverso delle loro individualità. Questa prima impressione ha certamente qualcosa di vero ma non può essere tenuta presente nell’ambito di una filosofia relazionale. Diciamo subito che non esiste un lato della relazione, cioè un aspetto parziale, un punto verso cui una supposta divisibilità in due parti della relazione si orienta. Le relazioni non possono polarizzarsi, i flussi ci polarizzano comprendendo relazioni che restano condizionate in una direzione o nell’altra, ma non tagliate a metà. Quello che pensiamo sia il lato della relazione è esso stesso una relazione e converge verso altre relazioni che sono inserite in una rete amplissima di relazioni, le quali solo per motivi legati ai limiti del campo possiamo considerare, e di fatto consideriamo, circoscritte. In realtà, da ogni relazione passa la totalità delle relazioni possibili per cui è impensabile dividere questa relazione in due parti in quanto ognuna di queste parti accetterebbe in sé la stessa totalità delle relazioni, compresa la parte che stiamo cercando di staccare, e viceversa. Il compito relazionale della relazione non è pertanto quello di fissare un legame, ma questo di costituire la realtà, attraverso la cui costituzione si fissa la totalità dei legami possibili, non soltanto quel preciso e determinato legame.

Nella frattura del flusso si compie una trasformazione che abbiamo definito negativa. Siamo nell’ambito effettuale dell’azione, quando improvvisamente c’è una caduta di tensione, un improvviso rifiuto, una paura nuova che determinano la frattura del flusso. La coscienza che si era ricomposta nella sua unità di flusso, si rinchiude nell’ambito iniziale della coscienza immediata, della semplice volontà. Si rinchiude, o si esteriorizza, a seconda dei punti di vista, essenzialmente verso il senso, per poi riprendere di nuovo il movimento della diversificazione e così via. L’orientamento, nel suo disporsi verso uno dei poli affievolisce la propria portata contraria, verso il senso affievolisce la tensione sbriciolandola, verso la tensione affievolisce il senso. La crescita del processo accumulativo è però specifica dell’orientamento verso il senso, non c’è un processo simile ma rovesciato verso la tensione. La coscienza difatti si trova per intero nell’orientamento verso il senso, mentre nell’orientamento verso la tensione si trova l’oggettivo movimento della tensione stessa che si dispiega in quanto azione, semplicemente come territorio dell’azione. Il flusso così diviso rispecchia in modo bivalente l’antica unità. Da un lato si è andata a collocare l’aspirazione al fare coatto, alla modificazione quantitativa, all’accumulazione, mentre, dall’altro lato, si dispiega il versante oggettivo dell’antica unità del flusso, versante oggettivo che non è oggetto, nel senso della riduzione attuale attraverso il meccanismo accumulativo, ma azione, nel senso della semplicità del dispiegamento. Accumulazione e dispiegamento si contrappongono e costituiscono rispettivamente il territorio dell’oggetto e dell’azione, gli ambiti della quantità e della qualità.

Questi territori sono percorribili, il primo dalla coscienza, il secondo dalla diversità che ha di già superato il livello intermedio effettuale della interpretazione, ma si tratta di un percorso anch’esso differente nei due sensi. L’accumulazione, che si muove nel senso della logica dell’a poco a poco, può generare una sensazione di panico e il dispiegamento, che si muove nel senso della logica del tutto e subito, e che non è accessibile direttamente in quanto la coscienza vi è estranea, può determinare un eccessivo abbandono e perfino un inoltrarsi definitivo verso il delirio. Non si tratta di viaggi in senso stretto, non ci si sposta nello spazio, ma si tratta di crescita di capacità relazionali critiche, di maggiore familiarizzazione col movimento e ciò anche nell’ambito circoscritto e ridotto dell’accumulazione. Nessuno di questi due orientamenti può essere considerato in assoluto campo privilegiato della realtà. Questa è accumulazione e dispiegamento, costituita da relazioni, cioè da flussi relazionali, non è costituita soltanto da tensione o da forme, come non è costituita da contenuti o da strutture. Si tratta di movimenti che accrescono le capacità della coscienza, per quanto possano anche tradursi in adeguamento e morte.

Da un lato del flusso sta quindi l’intera realtà delle relazioni possibili, anche nel più alto grado di affievolimento, anche in quell’ipotesi puntuale che possiamo soltanto immaginare ma non raggiungere. Ora, essendo difficile pensare la realtà, specie in queste zone di confine, perché si preferisce pensarla sempre in modo oggettualmente circoscritto si finisce per ammettere che da un lato del flusso c’è una porzione di relazioni, abbastanza limitata, un campo immaginario. In effetti il campo viene contrassegnato dai flussi ma questi sono indipendenti della dimensione effettiva che il campo finisce per prendere, eccedono sempre il campo, modificandone in continuazione i confini e procedendo ben oltre. Il campo è quindi ritagliato oggettivamente e soggettivamente, nell’ambito della totalità delle relazioni, da un incrocio sufficientemente specificabile di flussi.

Ma non possiamo considerare l’orientamento come un contenitore di senso o di tensione, a seconda dei casi. Non è un luogo amorfo di ricezione e trasmissione, è un punto attivo, una direzione attiva e ciò perchè è costantemente in relazione con la totalità del reale, quindi ogni suo singolo punto, per quanto infinitesimale lo si possa pensare, non può essere considerato come indipendente e staccato della totalità relazionale. Nello stesso tempo è una parte del flusso, quindi si muove prevalentemente in un dato senso, ha una direzione sufficientemente definita, è in modo non equivocabile identificato, specificato. Con tutto ciò mantiene sempre la sua attitudine verso la totalità e questa duplice condizione non è senza conseguenze sia riguardo il meccanismo di accumulazione che riguardo l’evolversi dell’azione e del suo territorio.

I diversi livelli dell’effettualità assumono significato solo attraverso il campo e ciò malgrado che i loro effetti veri e propri superino i limiti del campo e si estendano alla totalità del reale. In quanto movimento, cioè considerati come assenza di stabilità o fissità, non sono differenziabili in livelli diversi, si presentano come relazioni, quindi come realtà e basta, ma attraverso l’esperienza del campo e il movimento della coscienza si sviluppano come intenzionalità specificata, cioè circoscritta a una parte precisa delle vicende del flusso ma capace di eccedere i confini del campo. Ciò non vuol dire che la modificazione sia trasformazione o interpretazione, ogni effettualità ha una sua caratteristica ma solo come tendenza. La sovrapposizione si ha solo facendo riferimento alla totalità, per cui la modificazione è la totalità delle relazioni, allo stesso modo della trasformazione e dell’interpretazione, ma ognuna di esse è diversa dall’altra, solo che questa diversità è anch’essa la totalità delle relazioni possibili. Ecco perché i livelli dell’effettualità devono cogliere la loro significatività a partire dall’interno del campo, in quanto qui appaiono più definite e nette, in relazione alle capacità della coscienza e delle sue vicende. Se si cercasse di coglierle dal punto di vista della totalità del reale, cioè a partire esclusivamente dalla totalità finirebbero per svanire proprio perché il concetto di persistenza nella modificazione è un assurdo logico.

Critica dell’intenzionalità

La coscienza immediata si muove esclusivamente nell’ambito del meccanismo accumulativo e qui acquisisce esclusivamente esperienze quantitative o aspetti qualitativi dell’esperienza comunque ridotti a residui di quantificazione. L’intenzione della coscienza, pensata in questa prima sua veste, che poi finisce per diventare la veste prevalente anche se non la più significativa, è quella di contribuire alla continua riorganizzazione dell’orientamento verso il senso. Questa riorganizzazione riflette quella più feroce e radicale che avviene nell’ambito di tutto il meccanismo accumulativo. La coscienza valuta in un certo senso tutto questo meccanismo limitandosi a controllare solo i singoli flussi dove si trova impegnata. Così, la coscienza immediata controlla quel campo di flussi relazionali che siamo soliti chiamare corpo, il nostro corpo, ma lo controlla in base alle regole dell’accumulazione. Così questo corpo continuamente le sfugge e continuamente ritorna sotto il suo controllo, propone sempre nuovi modi di essere e sempre nuove difficoltà nel sottoporsi all’abitudine e al condizionamento. Da questi contrasti nasceranno alcuni motivi di inquietudine.

Nel processo di riduzione a oggetto delle relazioni organizzate in flussi, la coscienza immediata interviene producendo, cioè modificando il flusso e l’insieme delle relazioni possibili, sempre nell’ambito del campo. Questo intervento si traduce in volontà di modificazione, cioè di adattamento del meccanismo accumulativo ai propri bisogni. La volontà non ha davanti a sé che oggetti, quando si scontra con flussi unificati, quindi in grado di proporre un intervento nella cosa, ripiega subito nell’ambito accumulativo e ne esce frustrata. Così codifica i propri bisogni, su di questi costruire i propri interessi e cerca di adeguare l’ambito della produzione dell’oggettualità al proprio bisogno di sicurezza e di controllo. Da tutto ciò viene fuori, prima o poi, un rigetto inquieto.

La coscienza conduce quindi una vita nascosta che può anche determinare l’esistenza di un individuo nascosto, completamente perduto in meccanismi ripetitivi, svuotati di ogni reale flusso capace di apportare il segno della qualità. L’assopimento può durare a lungo, può diventare abitudine e abito mentale, pratica di lavoro e ideale riparatore rinviato all’infinito. Anche questa è una manifestazione in sé completa dell’intenzionalità. Il fatto che non riesca a svegliarsi non consente di definirla in modo diverso. Il fare coatto è tutt’altro che staticità, questa sarebbe chiaramente impossibile. Esso produce, modifica, riorganizza, controlla, domina. Funzioni che non sono trascurabili e che formano la base essenziale della vita, anche se si presentano e concorrono tutte insieme proprio alla negazione della vita stessa. La diversità non sarà mai un’apertura determinata da qualcosa di esterno, ma un prodotto di movimenti interni alla medesima coscienza immediata, un prodotto e una conseguenza della parzialità del flusso orientato.

La diversità è coscienza inquieta, non più conchiusa ma rotta, coscienza in cui si è operata un’apertura. Ma la sua intenzionalità non sarà diversa da quella che agiva nell’ambito dell’accumulazione, in quanto non può essere diversa perché come potrebbe trovare gli elementi concreti capaci di determinare questa diversità all’interno dell’accumulazione stessa? Quindi, questa diversità consiste in un modo diverso di disporre i medesimi elementi posseduti prima, cioè quelli dell’orientamento verso il senso. Si tratta di elementi di senso, quindi di contenuti. Nella prospettiva della ricognizione vengono inseriti dalla diversità proprio i medesimi elementi posseduti prima che subiscono qui una differente valutazione. Non che l’oggetto da passivo diventa attivo, come ha sostenuto la fenomenologia, un oggetto è tale e non può diventare azione che destrutturandosi in quanto oggetto, e lo scopo della ricognizione non è quello di destrutturare gli oggetti, ma di costruire una strada verso la tensione.

Proprio l’accettazione del meccanismo accumulativo obbligava la coscienza a smarrirsi nell’oggetto, nella sua funzione esclusivamente strumentale, nelle sue possibilità limitate di modificazione, nelle sue prerogative di contenuto. L’inquietudine causata da questo percorso obbligato interrompe un rapporto obbligato con l’oggetto proponendo un tentativo, un’avventura, un rischio, proponendo un coinvolgimento della coscienza in questa avventura. Non più una direzione esterna e distaccata, di fronte all’oggetto che si controlla ma dal quale, più che altro, si finisce per essere controllati, ma una strada diversa capace di dirigersi verso la qualità. È qui che si innesta il processo logico capace di partire dalla totalità e che quindi capovolge non solo la funzione ma anche la direzione dell’intenzionalità. Non più controllo e interesse ma rischio e messa in discussione, non più l’accumulazione dell’a poco a poco, ma l’avventura del tutto e subito.

È questa nuova capacità di partire dall’estremo limite pensabile, anche se irreale, della totalità delle relazioni, che dà uno scopo differente all’intenzionalità. È per questo che parliamo di logica del tutto e subito e della possibilità che una filosofia relazionale sia filosofia della totalità senza essere un sistema centralizzato di pensiero e di azione. Su questa inquietudine si fonda non solo la possibilità di ricostruire il flusso, ma di contrastare il dilagare della struttura, pervenendo ai modi, differenti e spesso non agevoli, di cogliere la forma, dando vita a una trasformata riorganizzazione dei flussi unificati, a una trasformazione del campo, dell’individuo, della società, delle situazioni sociali, dello spazio sociale, insomma di tutte le relazioni possibili, della totalità delle relazioni possibili. Dall’inquietudine nasce un’apertura verso una differente visione della realtà, una differente scala di valori, differenti modi di interpretare la realtà. È tutto un mondo che si muove al di là del senso comune e delle stesse protesi scientifiche che cercano di allargare o restringere il senso comune.

Ciò fa apparire chiaro che la mia critica della scienza non parte da un rifiuto del suo compito, allo stesso modo in cui la critica della logica dell’a poco a poco che sto costruendo non deve essere confusa con un rifiuto preconcetto e immediato dei risultati parziali che questa logica può realizzare. Lo scopo è sempre quello di distruggere alla radice le illusioni fideiste e i tentativi di strumentalizzazione da parte dei gestori del dominio. Il male della scienza è sempre la limitazione del meccanismo accumulativo, ma si tratta di un male ineliminabile. La certezza e l’evidenza di questo male spingono i sostenitori acritici della scienza a pretendere quello che quest’ultima non può mai dare, cioè la completezza attraverso l’accumulo delle parzialità. Il sogno antico dell’illuminismo oggi si rivela sempre più dannoso. La totalità non può essere colta dalla scienza, occorrono altre strade per fondare coerentemente una intenzionalità della coscienza che prima o poi cade vittima della propria inutilità se affidata solo alla ripetizione e all’archivio.

La diversità produce quindi una rivalutazione del senso accompagnandolo fuori dalla prigione dell’orientamento obbligato. Se l’inquietudine è la causa dell’apertura, la ricognizione è un processo pienamente intenzionale. Mentre nell’accumulazione il senso è dato, cioè viene prodotto in modo oggettivo, attraverso la produzione di oggetti o la riduzione di soggetti in oggetti, nella ricognizione questa condizione anonima viene interpretata alla luce di una problematicità del tutto sconosciuta nel mondo del fare coatto. Fin dai primi movimenti ricognitivi è visibile l’intenzione di partire dalla totalità relazionale, per quanto confusa e approssimativa questa nozione possa sembrare nella fase in cui si sta cominciando, senza possedere un punto reale di cominciamento. La diversità infatti comincia radicalmente proprio dal punto dove andrà a finire, l’obiettivo e lo scopo diventano inizio e fonte di intenzionalità proprio perché la coscienza si fissa come diversità in quanto decide di diventare quella che è, ma di diventarlo in modo completo, non parziale, motivo per cui è costretta a cominciare dal punto dove si concluderà.

Siamo davanti a due tipi di intenzionalità che possono venire letti con due tipi di logica, quella dell’a poco a poco e quella del tutto e subito. Sul piano della razionalità non ci sarebbe motivo di privilegiare uno o l’altro dei comportamenti, ma sul piano dell’effettualità si finisce per fissare una gradazione di livelli. Qui non si tratta di indicare cosa sia più rigoroso o più scientifico, l’uso terroristico di questi termini ha già fatto tutto il danno che poteva fare. Si tratta di percorrere strade capaci di penetrare nella realtà, profondamente, evitando di restare all’esterno o ai margini, in condizioni di sudditanza davanti all’incedere autoritario del meccanismo accumulativo. La diversità pone un intervento intenzionale del tutto in contrasto con la coscienza immediata, per questo motivo l’apertura che si viene a creare non appare nemmeno come qualcosa causata della volontà ma piuttosto un’incertezza e la conseguenza di un’inquietudine. Ma la volontà reale, se vuole effettivamente incidere trasformando la realtà, deve abbandonare la sua intenzionalità circoscritta all’ambito del fare coatto, quindi deve abbandonare anche la fittizia sicurezza di sé, le sue pretese egemoniche tutte racchiuse nell’ambito esclusivo del controllo, il suo usurpato regno dell’assoluta possibilità.

Non mi pare priva di profondi significati l’evidenza che la volontà sia confinata nell’ambito della coscienza immediata e ciò perché l’accumulazione non è solo fatto materiale circoscritto, ma anche fatto intellettuale altrettanto circoscritto. Il fare coatto ha contemporaneamente espressione teorica e pratica, non corrisponde a una sublimazione del pensiero nei riguardi di una immaginata inferiorità della pratica. Altrettanto importante mi pare la riflessione diretta a sottolineare un’altra evidenza, quella che colloca il soggetto per intero nell’ambito del meccanismo accumulativo, di cui vuole disperatamente imporre il comportamento trasformandolo in schemi di controllo, in questo modo il soggetto si riconduce all’oggetto e questo a quello, senza soverchie distinzioni, accomunati entrambi dal dilagare della catalogazione. La filosofia relazionale si deve quindi porre il compito di ricostruire i percorsi di una logica diversa, quella del tutto e subito, attraverso i quali si trova una ricostituzione dell’intenzionalità della coscienza sulla base della totalità. La vita, nelle sue composizioni via via più complesse, trova qua il punto d’inversione, l’apertura come capovolgimento del percorso diviso e parziale per la ricostituzione dell’intenzionalità nuova all’interno del flusso unificato.

Crescendo le complessità relazionali, passando cioè dal campo individuale, il luogo dove si struttura l’individuo, allo spazio sociale, il luogo dove si struttura la società, e arrivandoci attraverso la situazione, il luogo dove si strutturano le intenzionalità individuali, questo capovolgimento non deve smarrirsi, approfittando del fatto che man mano crescono le esigenze accumulative che vanno sempre di più prendendo l’aspetto di strutture. Anzi, a un livello più complesso, diventa forse facile, per chi si è educato per tempo alla logica del tutto e subito, cogliere gli elementi del cominciamento radicale nell’azione. La proiezione totale della diversità rende possibile la ricerca e la costituzione di un tempo e di uno spazio diversi, di un concetto diverso del divenire, in relazione con quanto avviene all’interno del campo ma aventi una diversa capacità conoscitiva non solo riguardo la ricerca della tensione, che poi è anche e principalmente ricerca della forma, ma pure riguardo gli accadimenti interni alla stessa accumulazione che viene influenzata, e come meccanismo e come riorganizzazione, dallo sviluppo del flussi unificati.

L’intenzione della qualità è quindi, prima ancora che un vero e proprio viaggio, un desiderio di vita, un’asfissia che si sente all’interno dell’accumulazione e della certezza del controllo. È un desiderio di totalità imposto dall’incompletezza e dal meccanismo di ricorso all’infinita approssimazione. La forma è anche desiderio della struttura, mentre quest’ultima è solo annichilimento e inquietudine che fa desiderare la prima in quanto manca qualcosa. La nostra esperienza della parzialità ci propone il desiderio della totalità realizzando il quale ritroviamo in ogni nostra parzialità la totalità, non più come aspirazione o desiderio ma conseguenza trasformativa pratica.

Il dualismo degli orientamenti è certo originato da una frattura, ma questa non produce due cose diverse, produce solo la stessa cosa polarizzata, non si deve confondere quindi questo dualismo con la reale divisione ipotizzata poniamo dal pensiero cartesiano tra estensione e riflessione. Sappiamo perfettamente che il senso è qualcosa di diverso dalla tensione, ma non dobbiamo dimenticare che questa compresenza, più o meno polarizzata, esiste non solo nel flusso ma anche nella singola relazione. Per quanto scendiamo in fondo, come sappiamo, non possiamo raggiungere che un ipotetico elemento puntuale dove ritroveremo sempre una compresenza di tensione e senso, certo non polarizzati, semplicemente affievoliti, ma non per questo mancanti dell’uno o dell’altro aspetto. Non c’è quindi un momento in cui finisce la tensione e un altro in cui finisce il senso, il fenomeno della frattura è un fenomeno trasformativo producente una polarizzazione in due orientamenti all’interno dei quali si trovano sempre tensione e senso, solo che l’orientamento verso il senso produce uno sbriciolarsi della tensione talmente forte da ridurla a un affievolimento poco significativo nell’ambito dell’accumulazione.

Il lavoro della coscienza ha tre livelli di effettualità i quali, anche loro, non sono nettamente separati. Tutti i movimenti di confine avvengono sempre per affievolimento, da un lato, per intensificazione, dall’altro. In una realtà relazionale non possono esistere fratture nette in assoluto, un flusso certamente diverso dall’altro, un campo è differente dall’altro e un comportamento si differenzia dall’altro, ma sempre in modo sfumato, per cui ogni cosa trasmuta nell’altra continuamente senza che ci si possa mettere d’accordo sui concetti di confine o di limite, ma senza che questi concetti non mantengano la loro connotazione e la loro efficacia pratica. A ogni livello dell’effettualità si realizza un agire a se stante ma che non è staccato da quello realizzato negli altri due livelli. Nella ricognizione, l’agire valutativo non si esercita sul vuoto, ma proprio sul contenuto di già appreso nell’ambito dell’accumulazione. Nella trasformazione le avventure nell’azione e la ricomposizione del flusso non sarebbero possibili senza l’elaborazione di contenuti fatta dalla ricognizione. Il movimento trasformativo però non è finalizzato a se stesso, la ricostituzione del flusso e perfino la propria perdita nel territorio della desolazione presuppongono l’azione, la quale può essere colta solo attraverso il coinvolgimento, ma non può essere mantenuta per sempre, ci sarà un momento in cui si riaprirà, sempre all’interno della trasformazione, la frattura degli orientamenti e quindi il ripresentarsi dell’effettualità a livello della modificazione. In questa circolarità ogni fase presuppone l’altra, quindi anche la modificazione presuppone la trasformazione, inoltre non bisogna dimenticare che flussi ricoprono tutto il campo e si differenziano continuamente in modo da non individuare un centro e nemmeno una periferia che non si scambino continuamente di ruolo.

L’attività della coscienza in quanto intenzionalità non crea il mondo, come hanno sostenuto gli idealisti, ma si trova all’interno di una continua effettualizzazione circolare che si diffonde come un di già effettuato che si sta continuamente effettuando. Nel meccanismo dell’accumulazione questo processo sfugge e quindi viene forzatamente ricondotto a una presunta infinita linearità, ma si tratta di una deformazione subito corretta dall’inquietudine. Antiteticamente, anche nel territorio dell’azione si può innestare un processo lineare capace di sperdersi nel delirio, ma anche qui saremmo davanti a una deformazione e a un cattivo uso del salto. Questi ipotetici processi lineari sono rispettivamente avanzati della coscienza immediata e dalla stessa diversità e costituiscono l’illusione pratica di chi non intende ammettere che la circolarità è un processo creativo e trasformativo mentre la linearità, al contrario, proprio a causa del suo smarrirsi nell’affievolimento infinito perde la possibilità di una effettualizzazione reale.

Il desiderio incoercibile di una realtà nuova, profondamente diversa e migliore non entra in contraddizione con una trasformazione circolare. Nell’ambito delle possibilità dell’individuo e da questo nell’ambito dell’intero spazio sociale, della società vera e propria, lo sviluppo consiste in un allargamento dei flussi, in una sempre più ampia e significativa trasformazione, in una critica approfondita e dettagliata delle modificazioni di senso, in vista di una produzione di strutture che manifestino il meno possibile i loro lati negativi per servire, come fondamento positivo, all’estrinsecazione delle forme, a uno sviluppo dei flussi unificati, a una minore necessità di inquietudine, a una qualità migliore della vita. Con ciò non si vuole indicare un percorso obbligato né in un senso né nell’altro, né nel senso negativo della coercizione e del controllo né in quello positivo di una corsa pazza verso la tensione, magari con la volontà di concluderla semplicemente nel delirio. Nessun obbligo oggettivo, determinato, fuori dal semplice coinvolgimento. La regola essenziale è proprio questa, la presenza nel processo circolare, con tutti i rischi che la cosa comporta.

Nel campo la strutturazione produce, come vedremo più avanti, una correlazione temporale di tutti i movimenti secondo come si riassumono nei flussi. Ciò dà l’impressione esterna che la coscienza viva nel tempo queste varie effettualità. Ora, fin quando si resta davanti a questa impressione non si esce dal campo e dalla logica dell’a poco a poco. L’intenzionalità della coscienza viene ridotta a una storia del suo accadere continuo, con un falso cominciamento, proprio quello fissato dalla volontà, e con altrettanti falsi periodi di sviluppo lineare. Nella realtà, basta appena appena alzare il velo relazionale per capire come le cose stanno diversamente. La circolarità effettuale, procedendo nelle sue diverse fasi, resta sempre contemporanea a se stessa non solo nell’ambito del singolo flusso, dove praticamente sarebbe impossibile coglierla, ma nell’ambito dell’insieme dei flussi che costituiscono il campo, condizione a sua volta correlata con la totalità del reale. La vita non ha bisogno di essere descritta in termini di prima e dopo, in questo modo la si inchioda a una esteriorità catalogativa capace di manifestare soltanto la sindrome del collezionista, ma la vita al di là dell’essere vissuta non è in grado di dare altro, tutto il resto, quando entra nel campo fa parte della vita e qui, esclusivamente qui, estrinseca le sue relazioni, producendo o trasformando o riflettendo a seconda dei casi.

Cominciamo a capire come la realtà sia sempre presenza, non potendo essere mai né passato né futuro. Non ho detto che la realtà sia presente, ma che è presenza, cioè non un modo di essere della realtà, ma la realtà in quanto tale, presenza. Il suo contrario, cioè l’assenza, non sarebbe né passato né futuro, sarebbe semplicemente nulla, cioè negazione della presenza, e non può esistere qualcosa che non c’è, ciò che non è realtà. La sola esistenza è la realtà. La coscienza intuisce facilmente questo concetto, anche per la sua semplicità, ma non l’accetta con altrettanta facilità. La sua esperienza infatti è dimensionata al campo e qui ha tutte le deformazioni tipiche della viscosità, dell’affievolimento, dell’intensificazione e così via, elementi che sembrano fatti apposta per dare l’impressione dell’esistenza del tempo e dello spazio, rispettivamente come scansione e come luogo dove risiedono gli oggetti. L’attività razionale impostata dalla logica dell’a poco a poco riconferma queste impressioni, pur ammettendo l’esistenza di certi strani limiti, comunque considerati del tutto tollerabili, e quindi rende un cattivo servizio alla coscienza immediata ma un buon servizio non solo alla nascita dell’inquietudine ma anche all’individuazione dei limiti della razionalità stessa.

Uno di questi limiti, trasmessi dal cosiddetto senso comune è proprio quello che la novità e la scoperta, l’avventura e il rischio, elementi come sappiamo tipici del coinvolgimento, si possano trovare tutti in un processo lineare che procede in avanti. C’è in questa illusione una tradizione, per la verità non molto vecchia, ma fortemente radicata, che colloca la verità in avanti e la menzogna indietro. Ciò corrisponde bene con l’idea di ricerca come qualcosa che ci sta davanti ma che non vediamo, mentre quello che sta dietro l’abbiamo superato, quindi l’abbiamo di già visto e considerato non adatto a costituire la verità. Probabilmente l’immagine di un’esplorazione nella foresta, di cui ci siamo di già serviti, c’entra anche qui almeno in parte, come accade per i concetti di esterno e interno che sono relativi e quindi mancanti di significato se pensati in assoluto. Probabilmente, anche questi concetti hanno origine pratica, potrebbero, questi due ultimi, derivare dall’antica concezione positiva della caverna come luogo sicuro che si contrappone all’esterno, luogo pieno di insidie, ignoto, da conquistare con pericolo e fatica.

L’intrinseca realtà relazionale, cioè la totalità della rete complessiva delle relazioni può anche non essere colta della intenzionalità, ma ciò non vuol dire che essa venga meno, ne viene meno semplicemente la consapevolezza, per altro questa realtà totale, anche quando entra consapevolmente nell’intenzionalità, vi agisce come presenza di un complesso che non può essere conosciuto nelle sue diversi componenti relazionali, nel senso comune del termine conoscere, l’azione di quella presenza però è visibile e distingue il modo di porsi della coscienza. In pratica, avviene qualcosa di simile al modo di percezione del campo, il quale ultimo non viene mai percepito nella sua globalità, ma solo tenuto presente, mentre è di già molto che si riesca a percepire la situazione come luogo di strutturazione dell’intenzionalità. Il momento che palesemente separa le due posizioni è dato dal coinvolgimento. Con questo si ferma il processo di accumulazione e lo si considera con occhio critico e inquieto come luogo dell’impossibile completamento, per cui ci si sente perduti in un ricorso all’infinito che non fa altro che produrre oggetti, parzialità a loro volta cariche di senso ma prive di qualità. L’inquietudine è quindi la crescita sempre più intensa di questa consapevolezza, che più ci si addentra nel meccanismo accumulativo, più si riducono le tensioni e si è obbligati ad andare avanti.

Il coinvolgimento permette di cogliere la parte sconosciuta del reale, cioè la totalità, un concetto che non potevamo tenere presente fin quando noi stessi eravamo assenti o comunque accuratamente tenuti in disparte dal sospetto e della estraneità con cui ci si presentava il meccanismo accumulativo. Il nostro stesso salvaguardarci, l’aura giornaliera con cui prendiamo le distanze da tutto quello che può metterci in condizione di scelta obbligatoria, l’attenta recinzione del terreno intorno a noi per mantenere uno spazio di distacco e di garanzia per evitare incontri troppo pericolosi, tutto ciò obbliga alla logica dell’a poco a poco e quindi a una intenzionalità del distacco. Bisogna però ricordare che il coinvolgimento non è una decisione della volontà, ma è una pratica che si sviluppa a poco a poco, quindi proprio nell’ambito della logica analitica e nella medesima condizione accumulativa, però è una pratica che si fonda sull’inquietudine e su di una disponibilità a mettere e a mettersi in discussione. Non c’è pertanto un momento esatto in cui si scatena questa condizione di coinvolgimento, anzi la coscienza immediata, quindi la stessa volontà, è sempre colta impreparata davanti a questo movimento e, almeno nei primi passi della ricognizione, la diversità non riesce a riaversi dalla sorpresa.

Ponendosi dal punto di vista della totalità, cosa che non è possibile individuare con esattezza quando avviene, l’intenzionalità diversa scopre che questo punto di vista non è un’astrattezza, ma corrisponde alla realtà relazionale e che questa funziona in un certo modo a prescindere dalle decisioni dell’intenzionalità stessa. Anche quando si restava immersi nel meccanismo accumulativo la realtà era sempre una totalità relazionata, per cui tutti i perturbamenti tipici dell’accumulazione, adesso, diventano non solo palesi ma anche ricevono una diversa spiegazione. Tutto subisce quindi una reale trasformazione per quanto riguarda l’intenzionalità che così guarda alla realtà in modo più adeguato proponendosi un metodo e una mentalità che non entrano in contraddizione con la composizione del reale. Ciò non vuol dire che questo passo in avanti, nel senso visto prima – cioè per usare un termine ormai confezionato dall’uso senza però caricarlo dei significati distorti di progresso o avanzamento –, sia definitivo, esso non solo può cambiare, rendendosi sempre più adeguato alle condizioni del reale, ma può anche smarrirsi in un improvviso e lacerante ritorno alle necessità del controllo e dell’accumulo. Ed ecco ripresentarsi di nuovo l’inquietudine e tutto il resto. Il cedimento di cui parlo qui può verificarsi in uno dei diversi movimenti successivi all’apertura verso la diversità. Naturalmente, solo quando si è di già innestata una trasformazione, quindi all’interno del flusso unificato, si può considerare positiva l’intera vicenda dell’inquietudine, in caso contrario siamo davanti a un semplice tentativo.

Tutto ciò non vuol dire che l’intenzionalità pone la realtà, nell’insieme delle sue relazioni, soltanto quando si pone dal punto di vista della totalità. La realtà è sempre ugualmente relazionale, quindi continuamente diversa, e non ha certo bisogno del riconoscimento intenzionale per esistere nel modo in cui esiste. Ciò vale anche per l’intenzionalità stessa, la quale come flusso relazionale anche quando non si pone dal punto di vista della totalità è, ovviamente senza saperlo, nella totalità delle relazioni. Se non ci fosse questa inconsapevole disponibilità, non si uscirebbe mai della chiusura catalogativa. Difatti se esistesse realmente un luogo chiuso, contenente qualcosa, questo non potrebbe uscire mai, in quanto la definizione di chiusura o è totale o è inesistente. Se è totale impedisce qualsiasi apertura, se è inesistente non può definirsi chiusura che nel senso comune, appunto di qualcosa che è adesso chiusa e poi può essere aperta, poniamo una scatola, una porta, ecc. Quindi, nemmeno il meccanismo accumulativo è chiuso, in quanto fa sempre parte della totalità del reale, solo che la tensione è in esso estremamente ridotta, modificata in residuo in modo tale che l’affievolimento consente di poterla considerare assente. Da canto suo, l’intero meccanismo diretto a selezionare il senso e a ridurre la presenza della tensione, in quanto movimento generato dal movimento precedente di polarizzazione, si può definire chiuso con sufficiente attendibilità, pur restando valido il significato relazionale del concetto.

Possiamo distinguere anche tra una intenzionalità attiva e una passiva, senza essere costretti ad ammettere, per quest’ultima una staticità che non esiste, basta individuare una pigrizia, una viscosità, un adattamento all’accumulazione e un rifiuto dell’avventura e del pericolo, tutti elementi relazionali ma che consentono il mantenimento dell’accumulazione anziché intensificare il processo di apertura. Ora, essendo la realtà movimento continuo, ogni tentativo di isolare una parte di questo movimento, raccorciandone l’intensità con l’impiego di flussi relazionali opportunamente tagliati, non può che essere visto in una luce critica. Naturalmente, ciò dentro certi limiti perché la nascita e il consolidarsi della struttura non sarebbero possibili senza una polarizzazione dei flussi, e questo sviluppo strutturale ha conseguenze positive nell’ambito del campo, determinando quelle strutture che siamo soliti avere sott’occhio e che spesso diamo per scontate, quando invece dovremmo continuamente riflettere sulla loro formazione e sulla loro tendenza a sclerotizzarsi. Con tutto ciò, l’indagine critica negativa nei confronti della struttura non può arrivare alla conclusione di buttare tutto a mare, negando ogni aspetto positivo della stessa, e accreditando ogni positività esclusivamente alla forma. Ciò impedirebbe la vita, forse in modo ancora più drastico e crudele di quanto non faccia uno sviluppo sconsiderato della struttura stessa. È quindi l’attività critica della coscienza che deve essere considerata in senso positivo, perché attraverso di essa si arriva a contrastare efficacemente non solo l’eccessivo radicamento delle strutture, ma anche il possibile dilagare di un’avventura nella qualità del tutto priva di fondamento concreto, di contenuti reali.

L’azione è questa attività critica, con il suo logico svolgimento di natura pratica, senza il quale qualsiasi attività resta soltanto relazione apparente. La coscienza è anche cognizione del proprio corpo, dapprima come oggetto fra gli altri oggetti, poi come soggetto, come organizzazione di flussi relazionali, come individuo. Non una coscienza separata dal corpo, ma un insieme relazionato, allo stesso modo in cui non è possibile parlare di separazioni effettive neanche con la totalità del reale. La vita è questa unità complessa, non ammette separazioni chiarificatrici, come non ammette analisi che pretendano di indicare ipotetici ruoli creativi al di là di quello che effettivamente la vita stessa riesce a creare in termini di relazioni. L’intenzionalità non crea il mondo, ma una volta correttamente indirizzata si apre a profonde capacità di trasformazione che poi sarebbe l’unica forma di creare qualcosa. Cogliendo la qualità si sviluppano le capacità relazionali dei flussi, si ampliano i campi e si dà un impulso di movimento all’intera realtà, anche se tutto ciò nella sua gran parte ci resta ignoto. Noi cresciamo in potenzialità di trasformazione, ci allarghiamo in disponibilità di strumenti, otteniamo vittorie, e così diventiamo quello che siamo, come progressione circolare relazionale diventiamo intenzionalità totale, sempre a condizione di considerare tutto ciò un gioco al rilancio, un cerchio dove ci siamo collocati arbitrariamente al centro per nostra esclusiva comodità ma da cui dobbiamo presto o tardi sloggiare. La verità ci sfugge subito se pensiamo di racchiuderla nell’ambito delle nostre conquiste. Anche quando diventiamo capaci di trasformare, e di questa trasformazione diventiamo coscienti, non dobbiamo dimenticare che stiamo soltanto diventando quello che siamo, cioè stiamo realizzando le nostre potenzialità, una piccola parte delle potenzialità relazionali che possediamo, per cui dobbiamo depositare questa realizzazione ai piedi dei nostri sogni irrealizzati e, proprio nel corso della realizzazione, prepararci alla sconfitta.

Solo così gli avvenimenti della presenza diventano principalmente nostri, non ci passano accanto sfiorandoci appena e lasciandoci semplici spettatori, anzi siamo capaci di gestirli dentro di noi, attraverso una ricca intenzionalità capace di allargarsi senza diventare proprietaria. Non siamo cominciamento e non saremo nemmeno fine, ma possiamo essere l’uno e l’altra se riusciremo a entrare nell’azione e se riusciremo a costruire le nostre vittorie nella logica della sconfitta. Non esiste un’altra fruizione di quello che siamo, un’altra scoperta che non si riduca a una conoscenza di quello che si è, non esiste un’altra vita superiore o inferiore a questa qua, circoscritta dall’ambito della nostra intenzionalità eppure capace di allargarsi alla totalità del reale. Per quanto possiamo riflettere su questa apparente contraddizione non troveremo mai una risposta che non si riduca semplicemente alla presenza. È questa che partecipa del movimento continuo delle relazioni, senza per questo fornire un impulso determinato, volontario, identificabile al di là del luogo circoscritto del campo o del di già problematico spazio sociale.

La coscienza, a prescindere dalle sue possibili determinazioni, non è mai esclusivamente diversità o coscienza immediata o parte del flusso unificato o oggetto, ma è contemporaneamente tutte queste espressioni, e ciò per il fatto molto semplice che tutti i movimenti della coscienza si realizzano in flussi innumerevoli provvisti ognuno di una condizione di unità o di polarità a seconda delle condizioni in cui si trova l’insieme del campo e, indirettamente e inconsapevolmente, della totalità relazionale. Se la coscienza fosse un flusso soltanto sarebbe solo una espressione, un singolo movimento, ma nella sua molteplicità di espressioni finisce per essere costantemente tutte le cose insieme, per avere un quadro sufficientemente articolato del campo. Un’organizzazione dei flussi è già un livello di strutturazione abbastanza elevato e possiamo definirla, come di già sappiamo, una situazione. Qui i flussi polarizzati si riorganizzano nel meccanismo accumulativo da una parte e nelle cose dall’altra parte, mentre i flussi unificati intervengono a produrre trasformazioni che possono essere positive, con unificazione di altri flussi, e negative, con la polarizzazione di altri flussi. Il rapporto modificativo con l’oggetto fissato dall’intenzione sempre come possibilità di strutturazione nascente o crescente. I diversi movimenti dell’oggetto sono colti in modo complementare, utilizzando l’intero patrimonio dell’accumulazione allo scopo di collocare l’oggetto nel suo panorama specifico. Ma si tratta di una specificazione esclusivamente quantitativa, cioè analitica. Quando cerca di travalicare in elementi della qualità, si sperde in banali supporti di residui che non possono sostituire la qualità vera e propria. Il rapporto trasformativo con l’azione è fissato in modo diverso. L’azione, in fondo, è l’altra metà del flusso, l’orientamento verso la tensione, o almeno la parte in cui l’affievolimento del senso è maggiore. L’azione è la semplicità priva di contenuto, il che potrebbe essere un’ottima definizione della forma.

Potrebbe sembrare ragionevole a questo punto ammettere che l’intenzionalità opera per portare alla superficie quanto c’è di nascosto, quanto non è percepibile in modo diretto. Sono diverse le tesi che concordano su questo punto, dalla fenomenologia alla dialettica marxista, dall’esistenzialismo a una grossa parte del vecchio storicismo. C’è sempre un camminamento nascosto che agisce in modo deterministico e che si sostituisce alle mie povere intenzioni. Io penso che si debba fare molta chiarezza su questo punto, almeno nei termini in cui possiamo fare chiarezza in senso relazionale. Anche qui bisogna evitare di ridurre ogni posizione alle sue estreme conseguenze, sviandone così il significato. Che nella realtà ci siano forze di tale portata da sfuggire all’orizzonte limitato dell’intenzionalità cioè a quello più strutturato ma sempre circoscritto della situazione o del campo, questo è certo. Ma ciò non vuole necessariamente dire che queste forze siano elementi deterministicamente indirizzati. Torna il discorso della necessità ma non è quello che troviamo altrove, mancando una vera e propria ripresentazione nella totalità del reale, manca la possibilità stessa di forze deterministe, sarebbe un controsenso. L’estrema semplicità dell’azione permette di cogliere la forza di un potenziale inesploso, che non riesce a sciogliersi completamente nemmeno nel flusso unificato. Allo stesso modo, nella coscienza immediata una forza vitale riesce a sopravvivere anche attraverso la catalogazione. Ma l’intenzionalità può solo limitatamente capire queste forze relazionali, al più può cogliere una parte dei loro flussi, inserirsi in questi ultimi come elemento trasformativo per fare diventare evidente quello che sembra nascosto, ma in fondo si tratta di divenire quello che si è e non altro.

La nozione di decodificazione va approfondita. Non è un semplice portare alla luce quello che è occulto, questo concetto resta ragionevole nell’ambito di una logica necessaria, sia essa analitica o mistica, per questo aspetto, non fa differenza. Al di sotto della realtà, talpa o seme sotto la neve, c’è qualcosa che lavora al nostro posto e che comunque fa anche il nostro lavoro quando noi non siamo lì, o abbandoniamo, o semplicemente non sappiamo. Decodificare questa forza è importante per dare sicurezza nei momenti di sconforto, ed è una delle tecniche del controllo, senza dubbio fra le più raffinate. Poi c’è l’indagine che semplicemente analizza la realtà per farla conoscere meglio in quanto, a causa della sua estrema complessità, occorre procedere a destrutturazioni. Ma destrutturazione può diventare sinonimo di decodificazione solo con la violenza dell’ideologia.

Eppure tutta la fase della ricognizione è un processo decodificativo, se non altro perché riprende in considerazione la materia dell’accumulazione. Ma la ricognizione, come sappiamo, non è solo disoccultamento, è anche nascondimento. Infatti, decodificare significa anche proporre indicazioni non immediatamente fruibili dal contesto a cui vengono presentate. La logica del tutto e subito non può infatti essere presentata allo stesso modo in cui si presenta la logica dell’a poco a poco. Sto riferendomi proprio alla parte espositiva, quella parte che basandosi sul linguaggio cerca di suggerire una strada per rendere chiaro quello che è nascosto da un codice. L’analisi procede infatti dal più semplice al più complesso, la logica del tutto e subito, rimettendo ai margini l’analisi suggerisce un processo che prende le mosse dal più complesso al più semplice. Ogni tentativo di presentare il più complesso sotto forme immediatamente accessibili, compito specifico della ricognizione, è quindi non un disoccultamento ma un nascondimento, pur restando sempre uno dei movimenti della decodificazione.

Ma questo modo di procedere non è un semplice ossequio alle necessità della logica del tutto e subito, è invece una corrispondenza quanto più fedele possibile con quel movimento dei flussi relazionali di cui la logica, qualsiasi logica, cerca di dare conto in termini conoscitivi, strumentali, linguistici, con tutti i limiti e le imprecisioni che una situazione del genere presenta ineliminabilmente. Ecco perché non si può parlare di intenzionalità come disvelamento di quanto è nascosto nella realtà, per il motivo che nella realtà nulla è veramente nascosto, ma tutto si produce continuamente nel singolo movimento, per quanto infinitamente puntuale si possa immaginare questa singola, ipotetica, relazione. Non ci sono quindi strategie segrete o forze occulte nella natura della realtà che sviluppano conseguenze di cui non possiamo venire a conoscenza partendo dal punto di vista della totalità. Noi prendiamo le mosse sempre da una cognizione dell’insieme della realtà per poi scendere nel particolare, e qui non sveliamo ma trasformiamo la nostra conoscenza in ciò che siamo.

Non c’è quindi una separazione tra quello che siamo e quello che diventiamo una volta saputo quello che siamo, come non c’è separazione tra coscienza e flusso, tra flusso e intenzionalità. All’interno del soggetto c’è anche l’oggetto, in quanto presenza di due versanti, e lo stesso avviene all’interno dell’oggetto. Il flusso prima è unificato e poi è polarizzato senza per questo che si realizzi un prima e un dopo se non nell’ottica di chi trovandosi nel flusso lo considera come fatto proprio e lo colloca nell’ambito del proprio universo misurabile, nell’ambito della situazione e del campo. Se ogni relazione, per quanto puntuale possa considerarsi contiene sempre tutta la realtà, diventa poco ragionevole supporre l’assenza di qualcosa se non in termini di affievolimento. Ciò comporta che in ogni esperienza della vita c’è tutto un mondo da scoprirvi, dentro, non sotto o altrove, un mondo non nascosto o occultato, semplicemente presente e sconosciuto. Non c’è quindi un inganno o una trama, ma solo presenze da individuare. A livello dello spazio sociale si incontrano spesso, nell’ambito del progetti strutturali, ambizioni e pratiche che somigliano molto a movimenti nascosti, e certo non si può negare nell’intenzionalità adulta, nell’individuo operante a livello della società, la stupefacente attitudine alla sopraffazione e al potere, tutt’altro, ma qui voglio affermare che non accade lo stesso a livello dell’intenzionalità in tutte le sue espressioni di flusso. In altre parole, non dobbiamo confondere una struttura con un insieme in cui tutte le cose si sommano e si amalgamano inscindibilmente. L’individuo è una struttura notevolmente perfezionata ma è composto da un considerevole numero di flussi dove, all’interno di ognuno di essi, si manifesta in modo complesso e spesso anche contraddittorio una vicenda della coscienza tutt’altro che unitaria. Scomponendo questa vicenda nelle sue diverse espressioni, nei suoi desideri, nei suoi controlli, nelle sue inquietudini, nelle sue riflessioni, nelle sue diversità e così via, non si identifica mai un nascondimento involontario, anzi c’è sempre una ritrosia ad applicare le tecniche del nascondimento anche quando queste vengono quasi imposte dalle condizioni del lavoro da fare, come accade nell’ambito della ricognizione. Con tutto ciò, a livello di una maggiore strutturazione, l’incrocio relazionale stesso produce una incapacità di mantenere integra la strada del divenire quello che si è, per cui, col progredire della struttura, si intende imporre un modello di divenire basato su quello che si vorrebbe essere.

Queste considerazioni spiegano come ci troviamo davanti a un’apparente contraddizione tra quanto sperimentiamo a livello del flusso e quanto poi ritroviamo a livello della struttura solidificata. Ma non si tratta di una contraddizione, quanto di una conseguenza relazionale della presenza di flussi unificati e di flussi polarizzati i quali, combinandosi insieme, forniscono e sottraggono senso e tensione in modo sempre meno autonomo finendo, presto o tardi, per soggiacere alle istanze organizzatrici della struttura che nel frattempo si va solidificando.

Contrariamente a quanto ha affermato la fenomelogia, nella feticizzazione, per alcuni aspetti simile all’accumulazione, non c’è un nascondimento di qualcosa, nel caso dell’ipotesi husserliana, dell’essere, in quanto nell’accumulazione ci sta in prevalenza senso e nient’altro e non sta nascosto, ma anzi si riorganizza continuamente per cercare di proporsi come soluzione definitiva e consolatoria alle necessità di controllo avanzate dalla coscienza, quindi non c’è nulla da rivelare, attraverso la critica, come sosteneva un certo marxismo di rimbalzo, in quanto non ci sono nascondimenti dietro apparenze. Il senso è dato dal contenuto, come la tensione è data dalla qualità. Che nel singolo contenuto ci sia da discutere o nella singola qualità ci sia da approfondire, questo è un altro discorso, e attiene alla grande e vasta indagine sulle capacità della relazione di dare vita alla realtà attraverso un numero infinito e continuo di movimenti.

La difficoltà del meccanismo accumulativo non è una chiusura completa, come sappiamo, ma impedisce, di fatto, fisicamente e corporalmente il dispiegarsi dell’intenzionalità fuori dalle categorie della catalogazione. Ciò non vuol dire che la coscienza resti sconosciuta a se stessa, oscura, senza l’apertura alla diversità. L’espressione esiste all’interno dell’accumulo dove la totalità è scorticata esclusivamente nell’ambito del senso.

La realtà relazionale si estende sicuramente oltre i limiti conoscitivi dell’intenzionalità e oltre le stesse manipolazioni della coscienza, le sue intenzioni di ordine e di controllo, per cui nel singolo punto dell’universo si colloca tanta intensità relazionale da non potere mai essere svelata dall’estendersi dei processi accumulativi, per quanto siano vaste le possibilità di scegliere, cioè di apprendere.

L’altezzosa posizione scettica si dà la mano con la grossolana credulità dell’ideologo. L’anatomia non è la scienza che studia il corpo vivente, ma non nemmeno quella che studia le parti di un corpo ormai privo di vita. Essa si limita a ridurre allo stretto necessario i problemi del metodo conoscitivo che si basa sulla classificazione e sulla riduzione a uniformità. Più essa penetra in profondità e più la realtà dell’oggetto le sfugge, più si arresta alla superficie, più appare grossolana e approssimativa e riconferma la sua utilità nelle cose concrete, nelle decisioni pratiche di tutti i giorni. In effetti, la spoliazione critica è tanto poco possibile quanto la manipolazione. L’oggetto resta equidistante da questi due procedimenti conoscitivi, ambedue condannati alla negazione delle proprie mosse iniziali.

La manipolazione è un’intenzione pratica e teorica insieme la cui ricchezza come serbatoio di future possibili diversità è in funzione della nostra capacità di produrre modificazioni senza lasciarsi irretire dal meccanismo di completamento e dalle speranze infondate che l’analisi tende sempre a produrre. L’intenzionalità può operare all’interno di questo mondo chiuso in modo da costruirsi un laboratorio da utilizzare in vista di una futura e probabile ricognizione, così facendo costruisce il suo oggetto in un certo modo, produce una serie di relazioni che fissano alcuni movimenti precisi nell’accumulazione, anche se questi movimenti restano per il momento tutti imprigionati nel meccanismo stesso e vengono utilizzati dai processi di riorganizzazione. Non si deve avere paura dell’oggetto ridotto alla inespressività muta del suo mondo, cieco e silenzioso, ma si deve sapere cogliere la sua sia pur minima loquacità, in funzione di quello che vogliamo che esso sia.

Solo che la manipolazione avviene spesso come processo già in atto, quasi separato dalla coscienza e spesso contro di essa, come movimento della volontà che continua per la sua strada anche contro la coscienza che si sta di già disponendo alla diversità. Se non fosse così ci sarebbero meno chiacchiere in filosofia. In più, la manipolazione è spesso rifiutata o meglio condannata ideologicamente, come artificio, forzatura o degenerazione del retto conoscere. Ma non si tratta tanto di rifiutare o accettare, quanto di conoscere la realtà per quella che è. La parcellizzazione non può produrre trasformazioni ma può costituire la base del campo e il punto di appoggio per costruire la vita sociale. Da sola è una prigione ma la vita, sapientemente organizzata, può trasformarla. La coscienza lavora in questa dimensione, con tutti i suoi limiti, controllando e dimenticando, organizzando e abbandonando, accettando e respingendo.

La presenza dell’intenzionalità nel singolo flusso potrebbe passare inosservata, smarrita nella molteplicità dei flussi che determinano il campo e nell’intersecarsi relazionale con altri flussi e altri campi, fino all’insieme delle relazioni possibili. Ma quella coscienza che si muove nel singolo flusso è tutta la coscienza, anche se non può restare immobile come centro di una molteplicità di flussi, pur muovendo ogni volta, all’interno di ogni diverso flusso è sempre la medesima coscienza che si sta muovendo e che è ora diversa nel flusso orientato, ora immediata, ora ricomposta nel flusso unificato. Ogni volta è sempre quella coscienza determinata che riassume in sé tutte le possibili coscienze come ogni singolo flusso riassume in sé tutti i possibili flussi, fino alla più piccola relazione che immaginiamo come puntuale. La molteplicità delle esperienze forma l’unicità dell’individuo in una stratificazione strutturale continuamente in formazione e continuamente cambiata. È proprio la sua totalità relazionale che rende la coscienza unica, singola, per quanto possano crescere i flussi e per quanto la loro presenza possa concorrere nel gioco alterno delle strutture e delle forme.

Non c’è un punto in cui si può affermare con certezza di trovarsi davanti a un individuo. Il processo di specificazione è realmente possibile solo provenendo dalla totalità, non avanzando con prudenza a partire dall’accumulazione. Quindi se l’individuo è un’organizzazione dei flussi, anche il singolo flusso è un’organizzazione e quindi è un individuo venendosi così a smarrire l’elemento dell’individuazione, solo che bisogna sempre ricordare come ognuno di questi ragionamenti vada modificato in funzione dell’affievolimento. La singolarità del flusso si affievolisce nella molteplicità dei flussi, mentre al contrario la molteplicità organizzata della struttura si affievolisce nella singolarità del flusso. Nulla è radicalmente altro. La coscienza è questa molteplicità unificata, composizione nello stesso tempo di versante soggettivo e oggettivo, e viene vista come singolarità diffusa proprio perchè tra questi due concetti non è una reale differenza se non in funzione del piano logico dal quale si prendono in considerazione.

Per capire meglio questa contemporanea condizione di singolarità e molteplicità intenzionale bisogna ricordarsi che noi percepiamo sempre la realtà in questo duplice modo, la viviamo come evento singolo, personale, ma la sappiamo molteplice e circolare. Secondo nostre supposte necessità le forniamo schemi lineari sostitutivi che sappiamo benissimo non le si attagliano perfettamente, ma la cosa ci è utile per alcune nostre necessità operative. Tutto qui. Una logica del tutto e subito non può quindi pretendere di fondare una vera e propria razionalità operativa, la sua azione sarà certamente razionale, cioè conseguente e anche prevedibile, dentro certi limiti, ma non sarà mai simile a quella della logica dell’a poco a poco. C’è sempre il rischio, in questi miei discorsi di travalicare al di là di una linea sottile di demarcazione che separa la ragione dal delirio. Forse, a volte, può accadere che l’urgenza e la complessità di certe considerazioni facciano sfuggire di mano la natura di strumento delle impostazioni fondate sulla totalità, che sono cosa ben diversa della vita, dove quelle impostazioni trovano la loro inverazione trasformativa, ciò dipende dall’essere difficile il compito, incapace l’indagatore e parziale lo strumento.

Fare vedere il funzionamento circolare dell’intenzionalità non è facile senza ridurlo a banalità analitiche. Si potrebbe difatti ammettere, semplicemente, che ogni volta si ricomincia daccapo. L’azione è vera e falsa nello stesso tempo. È falsa in quanto come affermazione riduttiva porta con sé tutto il bagaglio statico dell’analisi che pretende di dare qui e subito, senza mezzi termini, la soluzione del problema, rimandando poi per le eventuali discordanze a un ulteriore approfondimento. È vera perchè la circolarità è certamente anche un ricominciare sempre daccapo. Solo che il cosiddetto fondamento della scienza finora consegnata alle sacralizzazioni del quantitativo, espressamente contrassegnato con l’indicazione di linearità e di progresso, cosa faceva in sostanza se non ricominciare sempre daccapo? Non cancellava come se nulla fosse mai accaduto tutte le considerazioni precedenti dandole o per errate o per certe, senza comunque potere mai arrivare né alla certezza dell’errore né a quella della verità? Una questione di stile? Sì, ma con quali tragiche conseguenze.

C’è da chiedersi allora se è possibile una fondazione filosofica relazionale. La risposta deve essere negativa. Se fondazione vuol dire zoccolo duro su cui costruire certezze e verità, certamente non c’è fondazione nell’ipotesi relazionale. Perchè mai la realtà dovrebbe avere bisogno della mia fondazione? E perchè mai io dovrei avere bisogno di una realtà fondata dal punto di vista filosofico? Se per fondazione s’intende cominciamento, le cose stanno diversamente. Sia la coscienza immediata che l’azione costituiscono due cominciamenti, uno semplice e uno radicale, e si pongono rispettivamente come centro e periferia della circolarità conoscitiva. In questo modo, nella singolarità della coscienza si coglie la molteplicità del soggetto e dell’oggetto, come nella singolarità dell’azione si coglie la stessa molteplicità rovesciata. Noi possiamo violentare l’azione nell’ambito dell’oggetto, fissare con la prima un flusso altamente qualificato e poi rapinare un consenso e una riduzione alle regole dell’accumulo. Ma possiamo anche perderci nell’azione, nel vasto territorio della desolazione, continuare a bere alla fonte della qualità un’acqua che finisce in breve per toglierci il senso concreto della vita, la sua modestia di contenuto, la sua ambigua ristrettezza del campo, insomma quelle piccole e grandi prospettive che ridimensioniamo e allarghiamo in continuazione, sempre ricominciando daccapo e sempre aprendo l’orecchio alla grande favola dell’andare avanti, del progredire, del migliorare, del vincere, fin quando, se restiamo insonnoliti e impreparati, la grande e decisiva sconfitta ci coglie all’improvviso.

La ripresa continua del coinvolgimento consente di ricondurre la conoscenza e la vita all’interno del medesimo processo circolare, dove si alternano in una compensazione relazionale reciproca, in cui ognuna di esse cede all’altra la possibilità di presentarsi per quello che è, la possibilità di crescere e trasformarsi, in modo che dalla propria trasformazione venga o una continuazione del flusso unificato o una sua frattura dovuta al ritiro del coinvolgimento, all’insorgere della paura, da cui trova cominciamento radicale, proprio nell’azione, la circolarità del processo dei flussi e l’alimentazione di tutta l’organizzazione del campo e così via. Un fallimento? Può essere, ma perché un fallimento dovrebbe essere considerato soltanto come un evento negativo, da evitare a qualsiasi costo? La morte, come indiscutibile conclusione fallimentare della vita, cosa ci starebbe a fare? Che significato avrebbe una totale e definitiva destrutturazione in un meccanismo che potrebbe continuare a strutturarsi e a funzionare all’infinito, semplicemente cambiando alcune sue componenti relazionali? Dovremo quasi certamente rivedere in modo approfondito i nostri sentimenti di paura e di ribrezzo che ci fanno considerare in modo negativo la sconfitta. Mi sembra sia ormai tramontata l’epoca in cui la filosofia faceva vedere solo i propri muscoli. Adesso potrebbe anche cominciare a far vedere le proprie reali possibilità che sono proprio quelle che sono, cioè circoscritte ma presenti e non sono per nulla quelle dell’accumulazione.

La ripresa del coinvolgimento segna, fra l’altro, non solo l’apertura e quindi il completamento delle conseguenze dell’inquietudine, ma anche il ripristino della totalità. L’operazione di inserimento all’interno del flusso orientato delle condizioni relazionali sottolineate dal coinvolgimento segnato un nuovo ciclo, sempre uguale e sempre diverso. Ogni volta la ripresa riporta avanti i problemi di prima, in quanto non c’è stata per loro vera e propria risoluzione, se non come ricomposizione delle relazioni e delle delimitazioni di campo. La grande vicenda della totalità relazionale accresce nel suo continuo movimento e ripresenta sempre nuove composizioni di flussi, di campi, di relazioni dove l’intenzionalità si dispone sempre in modo uguale e sempre in modo diverso. Le condizioni dei flussi cambiano sempre, quindi sono molteplici, come le condizioni dell’intenzionalità che sono anch’esse molteplici, mentre il coinvolgimento è singolare esattamente come la singola vicenda della coscienza nel singolo flusso. Ma questa singolarità si cambia in molteplicità quando la molteplicità dell’insieme dei flussi e delle relazioni ridiventa singolarità, cioè totalità delle relazioni possibili, punto di partenza del nuovo corso all’interno del quale ci stiamo per coinvolgere.

La coscienza positiva, che si muove nell’intenzionalità non si lascia scoraggiare da questa apparente impossibilità di pervenire a un risultato. Anzi, sa perfettamente che proprio i risultati, immediatamente omologabili, producono prima o poi uno sgomento e una prospettiva senza significato, producono inquietudine. La coscienza non può spegnere la propria anima ordinatrice e il suo luogo all’interno del meccanismo di accumulazione non può abbandonarlo attraverso un semplice atto di volontà. Ma il fatto di sapere tutto ciò, di avere coscienza dei propri limiti, quindi anche dei limiti della propria volontà, costituisce una sollecitazione ad agire in prospettiva, a programmare nell’ambito della struttura, quindi del campo, ma comunque una sollecitazione a indirizzarsi verso una diversità. È proprio dove il senso comune trova il proprio ricettacolo di tranquillità e costruzione, che la coscienza inizia il discorso senza fine della propria messa in discussione. Tutto quello che apparentemente fornisce sicurezza e fondamento, dagli ideali ormai catalogati al riconoscimento sociale, dall’accumulazione fisica o simbolica, tutto il processo delle sicurezze e delle illusioni quantitative, tutto viene rifiutato in quanto certezza ma accettato in quanto strumento, con la piena coscienza di andare incontro all’inquietudine.

La totalità delle relazioni può essere colta nel soggetto e nella cosa, dove si verificano i due cominciamenti, semplice e radicale, non può essere colta nell’oggetto che soggiace alle condizioni riduttive dell’accumulazione. Il fatto di collocare l’infinito nel soggetto è stata una giusta intuizione dell’idealismo, intuizione sprecata proprio per le caratteristiche di centralità che sono state poi attribuite al soggetto. Si aveva quindi un rapporto, spesso di semplice sudditanza, altre volte dialettico, tra il centro e la periferia, non si aveva una relazione sostanziale per cui il centro è nello stesso tempo periferia e viceversa. Se l’oggetto resta per sempre alla periferia del soggetto ne conseguono due ordini di conseguenze, il primo relega per sempre l’oggetto nel suo ruolo privandolo di ogni possibilità di ribaltare il meccanismo accumulativo, secondo fissa il soggetto nel suo ruolo dominante e non gli riconosce incertezze o perplessità. Certo, la metafisica può rigirare la realtà come vuole, essendo facile costruire grandi palazzi senza fondamenta, ma è anche facile farli precipitare. Nel soggetto c’è un oscuro punto di oggettività, il suo versante oggettivo, dove agisce l’accumulazione e il controllo, e dove il soggetto può ricondursi alla sua natura, parimenti legittima, di oggetto fra gli oggetti. Ciò consente di potere mettere in discussione l’oggetto, non solo quello del soggetto, ma l’oggetto dell’oggetto, cioè il lato oggettivo dilagante nell’oggetto ridotto appunto in queste condizioni dalle modificazioni produttive. Ciò si verifica solo agendo nell’ambito della coscienza, creando quelle inquietudini capaci di produrre la diversità e da qui innestando un processo di rimessa in discussione di tutto il contenuto fino al punto che l’oggetto stesso, nel flusso unificato finisce, sia pure per significati specifici per subirne le conseguenze. Nell’intenzionalità possiamo cogliere meglio la totalità del reale in quanto è qui che elaboriamo gli strumenti e mettiamo alla prova le nostre convinzioni, trovando in essa sia gli elementi del soggetto che quelli dell’oggetto, possiamo intervenire in modo globale riguardo a un meccanismo che invece insiste nel proporsi come produttore di parzialità.

La presenza nell’intenzionalità dell’insieme delle relazioni possibili non è colta immediatamente dalla coscienza, cioè questa presenza, con tutte le sue infinite possibilità, non può diventare materia nelle mani della volontà. L’orizzonte circoscritto dentro cui quest’ultima opera è, come sappiamo, quello dell’accumulazione, ma la coscienza non è solo coscienza immediata, essa presenta tutta una sfumatura di contenuti che la moltiplicano come espressioni produttive, come movimenti modificativi. La coscienza produce incessantemente e non riesce a scoprire né il mistero di questo meccanismo necessario e nemmeno l’altro mistero, quello legato a una possibile soluzione diversa. È stato sostenuto che questi aspetti lontani e sconosciuti appaiono progressivamente alla coscienza proprio attraverso l’introspezione, in quanto sono contenuti in essa perché è proprio essa a produrre quegli aspetti. A parte il fatto evidente che la coscienza non può produrre tutto, si potrebbe concordare sull’affermazione che comunque la coscienza contiene tutto, però bisogna intendersi sul termine contenere. Non è certo l’immagine della scatola che contiene oggetti quella che può risultare accettabile. La coscienza è punto d’incrocio relazionale, attraverso di essa passa certamente la totalità delle relazioni che quindi in essa non trova una nascita ma semplicemente un luogo di transito. Resta quindi difficile immaginare un luogo di transito come qualcosa che produca effettivamente quello che gli passa attraverso e resta ancora più difficile immaginarlo alle prese con un’attività di scoperta, in quanto qualcosa che passa è tutt’altro che nascosto.

L’intenzionalità non può fissare i flussi in una istantanea capace di dare una indicazione di tutti i movimenti, però può cogliere alcuni aspetti delle relazioni, man mano che questi flussi si organizzano e si orientano o si unificano. C’è sempre qualcosa di conosciuto e qualcosa di sconosciuto in questa attività intenzionale, anche se l’aspetto sconosciuto non è praticamente nascosto ma semplicemente non presente davanti alla intenzione stessa. Da qui una urgenza del prevedere, per meglio apprendere, valutare, decidere. Ma questo vedere oltre comporta un rischio, la necessità del coinvolgimento. Si vede oltre solo quando si vuole vedere oltre, c’è una decisione non solo della volontà, ma della coscienza riflessa, della coscienza che si sta rendendo conto di una presenza che sta oltre e che quando viene portata dentro, proprio a causa delle carenze che trova nella coscienza stessa, risulta incomprensibile.

Questa valutazione della presenza avviene anche prima del coinvolgimento, e in questo caso risulta del tutto racchiusa nell’ambito dell’accumulazione. L’oggettivazione è diretta dalla coscienza e si estende alla coscienza stessa, ma non è nascosta, diventa anch’essa appunto palese man mano che si estendono i processi di manipolazione. Eppure la cosa è tutt’altro che sufficiente. Il dominio della coscienza assicura una falsa certezza, un fare che non la invera, anzi la riduce sempre di più nei limiti della sola oggettività. Il grande afflusso della totalità viene quindi sprecato, i flussi continuano a passare ma non lasciano tracce apprezzabili, se non un vago senso di inquietudine. La capacità di cogliere la tensione, l’elemento che si è definitivamente allontanato, non è uno scoprimento di qualcosa che è nascosto, ma una frattura, una inversione di rotta, una diversità.

Non bisogna pensare che la certezza apparente dell’accumulazione possa sostituire, con buona sicurezza, la tensione, e non bisogna ragionare in termini di risparmio o riduzione del rischio. Per altro non c’è nemmeno certezza in quello che sentiamo passare attraverso la coscienza e che cogliamo solo nebulosamente, mentre l’intenzionalità risulta ancora prigioniera dell’immediato e del rassicurante. Spesso pensiamo che tutto quello che ci appare come nascosto, in un mondo di inganni e perplessità, possa essere la pietra filosofale capace di risolvere tutti i nostri problemi. Solo che nessuna scoperta del genere potrà mai risolverli questi problemi, solo il nostro coinvolgimento potrà indicare una strada, rischiosa e perfino brutale, in grado però di dare indicazioni a un vasto territorio di sperimentazioni, interpretazioni, valutazioni, un territorio che è anch’esso cosparso di ingenuità e cattiverie, di incongruenze e vigliaccherie, un territorio che continuamente tenta ma che nello stesso tempo offre parecchie allettanti occasioni per tornare indietro e ricominciare la commedia della sicurezza fittizia.

La possibilità della conoscenza è quindi una operazione molto complessa che non si può fondare né sulla intenzionalità né sull’accumulazione. Non c’è modo di collocarla in un punto qualsiasi dell’avventura verso l’azione, come non si può negare che sarebbe impossibile senza fare continuamente ricorso al serbatoio di contenuti costituito dall’accumulazione. Eppure c’è un modo di considerare il problema in maniera direi più semplice. Le condizioni della conoscenza sono certo teoriche ma sono anche pratiche, in entrambi i casi non è possibile una separazione netta o peggio ancora una contrapposizione, e ciò dipende dal fatto che all’origine della conoscenza ci sta la totalità del reale e la presenza di questa totalità è in ogni singola relazione per quanto infinitesimale sia. La spiegazione non è quindi un fatto esterno, di perfezione costruttiva o di semplificazione manualistica, ma è sempre un elemento interno di raccordo e di sistemazione, insomma di movimenti capaci di riportare sul piano del campo e della situazione l’immensa potenzialità totale che è a disposizione nel singolo fatto, nella singola idea, nel più banale e apparentemente inutile avvenimento.

Eccoci quindi a riaffermare per altre strade la grande validità logica, nel senso del tutto e subito, anche all’interno delle condizioni specialissime del campo. Proprio qui, e proprio nel momento in cui si riconoscono condizioni e deformazioni dovute alla logica dell’a poco a poco, emerge prepotente la necessità di una critica negativa che sappia indicare le cautele e i modi per utilizzare processi e operazioni in modo del tutto diverso. Non più attese di completamenti impossibili, ma utilizzo di strumenti possibili in vista di scoprire proprio tutto quello che si è, nel campo la più gran parte delle condizioni presenti e, in prospettiva, la totalità delle condizioni possibili. Così la logica analitica viene riportata in blocco a una sua condizione precedente, quando non doveva giustificare o fondare ma solo fornire qualcosa, non certezze ma strumenti, non verità ma facilitazioni. La ricostruzione può avvenire nell’azione, quindi nell’orientamento verso la tensione, può avvenire nella ricognizione e può perfino avvenire nell’accumulazione quando si manifesta come inquietudine.

Le difficoltà aumentano se anche gli stessi strumenti analitici vengono sottoposti a questa indagine totale della presenza delle relazioni, per cui devono cedere almeno una parte della loro potenzialità, ben al di là di quelle che sono le condizioni fissate dalla stessa logica analitica per il loro utilizzo. Ciò risulta palese nella pluralità di senso che viene riscontrata nel corso della presente ricerca in alcuni di questi strumenti, poniamo il caso dell’affievolimento, che non è certo impiegato nel senso tradizionale della logica dell’a poco a poco. I concetti logici non possono essere calati astrattamente in una ricerca che intende partire dall’angolazione del tutto e subito, ma devono emergere dalla stessa sperimentazione, per come viene condotta nello sviluppo circolare dell’indagine, ecco perché a un primo cominciamento se ne contrappone un secondo, radicale ma che riapre la possibilità di tornare un’altra volta al primo, ed ecco perché non c’è modo di porre l’uno come giustificazione del secondo e viceversa. È nella vita concreta che si sperimentano gli stessi concetti e quando lo si fa non è possibile ordinare in modo accettabile la sperimentazione stessa, comunque non è mai possibile farlo in modo che si parte dal più facile per arrivare al più difficile. Ogni ordinazione, che non sia quella dell’accumulo, e dentro certi limiti anche quest’ultima, non è mai definitiva e non può essere preordinata a priori, subisce sempre l’influenza e le deformazioni della contingenza.

Ora, se l’intenzionalità comprende anche la coscienza immediata, muovendo alla ricerca di un fondamento per la propria ricerca non solo fa uso di strumenti, ma fa uso di se stessa in quanto intenzionalità, cioè di se stessa in quanto movimento al cui interno, per quanto modesto e appena abbozzato possa essere il proprio relazionarsi, è già presente la totalità del reale. Ogni individuazione della ricerca, come ogni iniziale inquietudine o incertezza, sono movimenti che corrispondono anche a realizzazioni interne all’intenzionalità stessa, che comincia a diventare se stessa, a riconoscersi in quanto intenzionalità, e quindi a conoscersi e a diventare capace di conoscere. Nel proiettarsi all’interno del flusso, quindi nell’esteriorizzarsi nei riguardi dell’orientamento verso il senso, l’intenzionalità è senso essa stessa e contribuisce ad affievolire la tensione all’interno di questo orientamento, quindi contribuisce a produrre oggetti, attraverso modificazioni.

Dire che un movimento, un flusso, un campo sono relazionati con la totalità del reale, cioè con l’insieme totale di tutte le relazioni possibili, significa che sono relazionati anche con tutti gli altri movimenti, flussi, campi e così via. Ma questo essere relazionati, più propriamente parlando, è che essi contengono tutto quello con cui sono relazionati in quanto da un singolo punto passano tutte le relazioni possibili della realtà e, al contrario, da un singolo punto si può risalire a tutte le stesse relazioni possibili. La coscienza diversificata comincia a scoprire l’altro orientamento del flusso, quindi si indirizza, come sappiamo, verso la cosa, ma con ciò non perde la sua natura essenziale di punto, più o meno articolato, attraverso cui passa la totalità delle relazioni. Questo accadeva anche nella fase precedente all’apertura, ma si trattava di un movimento diverso che pur comprendendo sempre la medesima totalità, la comprendeva in una differente maniera, né più piccola né più grande, ma solo differente.

Nel campo, cioè nell’ambito strutturato, appaiono le condizioni della quantità, ma sono puramente contrattuali. Scavando al di sotto della superficie delle misure e delle operazioni utilitariste, si trova sempre questa angolazione della totalità che fa vedere come esattamente si relazionano tutte le cose. Anche considerando le valutazioni nella pratica della vita, troviamo che un individuo è maturo e agisce con responsabilità e concretezza, proprio quando comincia a capire che non può estraniarsi dalla vita stessa e che questa esige la sua totale partecipazione, se non vuole trasformarsi in una tragica farsa di appuntamenti mancati e alibi da sostenere. Non vorrei che questo fosse visto come un invito al disinteresse per le piccole cose di tutti i giorni, considerate in questo modo come attività inferiori, non degne dell’impegno che invece richiedono. Penso che la prigione accumulativa, il fare coatto per intenderci, sia una triste esperienza, un luogo in cui costruire il proprio laboratorio, e quindi una esperienza indispensabile se non si vuole restare per tutta la vita con la testa fra le nuvole filosofiche.

Fra i mille problemi che il coinvolgimento solleva, con maggiore aderenza allo specifico dell’intenzionalità, c’è quello di come esperire la totalità del reale una volta messi nell’angolazione adatta per coglierla. Infatti, fin quando il coinvolgimento stesso non avviene, e si rimane sulle sue, anche il punto di vista della totalità risulta sprecato in quanto sarà una totalità ipotetica teoricamente e monca praticamente, se non altro a causa della nostra personale e unica assenza. Ma ci sono problemi relativi anche al momento in cui il coinvolgimento si realizza. La prima fascia di questi problemi riguarda il sospetto, per cui ci si chiede se il punto di vista della totalità sia quello giusto, se siano presenti tutte le condizioni che rendono fruttifera la nostra entrata in questione, il nostro personale e gravoso rischio da correre. Il più delle volte preferiamo rapsodiche puntate di partecipazione, non proprio distaccate in assoluto, ma certo non perfettamente adeguate. Siamo così, nei riguardi della realtà, generosi ma con misura, temiamo di ingannarci, di non sapere distinguere tra situazione e situazione, cerchiamo di verificare, ovviamente dal punto di vista quantitativo, se ci sono tutte le condizioni giustificanti la nostra calata nella realtà.

La seconda fascia di questi problemi riguarda il risparmio, spesso siamo portati a mascherare il coinvolgimento con uno sguardo distratto e passeggero dal ponte, per cui la vista delle acque limacciose ci fa sentire tale brivido di paura da farci ritenere più che ardimentosi e avventurieri e toglierci il desiderio concreto di andare avanti. Pensare a fare veramente un salto cominciando a nuotare, nemmeno a parlarne. La zona di salvaguardia, che circonda l’intenzionalità è la più resistente alla generosità dell’intervento, la più capace riguardo il calcolo dei profitti e delle perdite, la più attaccata alla gestione volontaristica del controllo e dell’ordine. Rimettere in questione, continuamente, il proprio assetto, è difficile e questa difficoltà richiede decisioni spesso radicali, cominciamenti che la coscienza immediata rifiuta di condurre fino in porto, ai quali accenna, prospettandosi mille modi, tutti allettanti, di dare vita a un cominciamento relativo, ma mai sviluppando la cosa fino in fondo. Se si restasse nel gioco semplice e testardo della volontà, non ci sarebbe mai nulla di realmente diverso nell’ambito dell’accumulazione, la vera nota propositiva e sconvolgente la pone l’inquietudine che cresce e non si può mettere a tacere nemmeno con imperiosi movimenti della coscienza immediata.

Penso che il coinvolgimento sia, prima di tutto, frutto dell’inquietudine, e anche della coscienza immediata, in fondo esso è sempre una decisione, ma per capirlo bene occorre considerarlo sotto altri aspetti. Il coinvolgimento è rapido e silenzioso, improvvisamente, in modo quasi automatico, cedono le preclusioni e le giustificazioni che l’avevano preceduto e ostacolato. Tutte le considerazioni precedenti, favorevoli o sfavorevoli, perdono di valore, non hanno più rilevanza etica, non giocano più con le ipotesi e le previsioni, con i profitti e le perdite. Di colpo ci si trova nella totalità del reale, nell’intenzionalità di questa totalità. Nel preciso momento del coinvolgimento non c’è più neanche la sollecitazione del rischio e dell’avventura, non c’è più niente, nessuna traccia della precedente inquietudine, dell’oscura volontà incapace di trovare la strada verso la tensione. C’è solo la presenza nella prospettiva dell’azione.

L’atto con cui ci coinvolgiamo in fondo è un atto solitario, l’estremo momento dell’intenzionalità. Nell’impossibilità di tagliare le relazioni di cui siamo componente essenziale, al limite totalità vivente, nella necessità di portarcele dietro, senza esclusioni o patteggiamenti, nel coinvolgimento siamo più nudi in quanto abbandoniamo improvvisamente il calcolo che ci ha assillati nell’ambito dell’accumulazione. Il contenuto adesso ci esaspera, il processo quantitativo ci appare ridicolo mentre le tecniche dell’antico laboratorio cominciano a somigliare a simulacri che rimandano a qualche altra cosa, all’infinito, una corsa di immagini riflesse, finalmente siamo davanti a una concretezza ben posta, se così è possibile dire.

La novità prima che incontriamo è una materialità incerta, perturbata, attraverso cui non vediamo ancora quasi niente, l’apertura non è più invitante dell’inquietudine, a questo punto le due fasi del movimento si equivalgono. Ci stiamo liberando? Stiamo uscendo dalla prigione? La coscienza immediata non lo sa, la diversità ancora lo ignora. L’ingenuità del coinvolgimento come assenza di altri scopi, come rarefazione dei motivi di fondo e delle titubanze o delle garanzie, adesso deve prendere corpo, diventare vita concreta, rischio personale, non più gioco con le parole dell’ideologia, attesa in nome di processi deterministicamente garantiti. Non c’è più attesa che possa giustificare la nostra ingenua fede, non c’è più ideologia che possa coprire le nostre colpe e la grande responsabilità del non agire. Nel pieno collettivo, nella dimensione dello spazio sociale, è sempre e comunque l’individuo che decide, la lotta fondamentale che sta sotto la struttura, quella dell’intenzionalità, emerge come luogo concreto dello scontro, una vicenda singolarissima che non si può giustificare se non con la propria vita. Uscendo dal ghetto portiamo con noi degli strumenti, in primo luogo portiamo il linguaggio, ma in che modo lo utilizzeremo? Non possiamo sempre imporlo come mezzo per risolvere problemi, specialmente per il fatto a dire il vero elementare che di problemi il linguaggio non ne ha mai risolti. Nemmeno nell’ambito quantitativo dell’accumulazione.

Ma del linguaggio abbiamo bisogno per documentare il tragitto, per segnare i luoghi dell’incertezza e celebrare quelli della vittoria e, infine, per sigillare quelli definitivi della sconfitta. La straordinaria ambiguità del rapporto tra linguaggio e azione è ancora una volta fondamentale. Più ci si addentra nella ricognizione, più ci si rende conto dei limiti e della incongruità della parola, ma anche della sua insostituibile necessità. Poi interviene il silenzio, la desolazione. Ma per un lungo tratto insistiamo con il contatto linguistico, almeno fin quando dura il ricordo della paura. Il silenzio è la migliore risposta, il migliore equipaggiamento per la desolazione del territorio dell’azione, ma si può accettare il silenzio solo quando si ha il coraggio pieno del coinvolgimento. Le parole possono coprire, aiutare il nascondimento, possono trarre in inganno e anche servire da guida nell’inganno verso la liberazione, cosa che avviene con molte difficoltà nella ricognizione. Ma il silenzio non può coprire, alla fine disvela quello che era da sempre alla superficie, visibile, presente. Difatti, il silenzio non ha una capacità di approfondimento e neanche di superficialità, non può che essere testimone, muto, solitario, della difficoltà di divenire qualcosa sia pure alla lontana che possa somigliare al semplice dispiegamento.

L’obbligo del linguaggio ci costringe alla struttura, rimpicciolisce l’intenzionalità nell’ambito della convenienza, dell’utile e del calcolo. Non che tutte queste cose non abbiano la loro legittima fondatezza, la vita è fatta anche di punti solidi di fondamento, ma è anche solitudine e riflessione, fine delle chiacchiere, del cicaleccio, del balbettio. Al fragore delle vittorie, piccole o grandi, delle conquiste e delle acquisizioni strumentali, della ragione vincente che pretende regolare il mondo, a un certo punto occorre trovare la forza di sostituire il raccoglimento in se stessi, la preparazione allo slancio, la tensione muscolare per come viene studiata e calibrata dall’atleta nel chiuso delle proprie speranze. Non c’è soltanto il fragore nella vita, c’è anche la sfumatura, il lento declinare del senso, il tramonto dell’immagine e del suono. C’è il territorio dell’azione, la sua desolazione, la fine della parola e la prospettiva del delirio sono collocati in uno scenario da scoprire, non più pauroso ma quasi allettante.

L’angolazione che ricerchiamo e che definiamo totale può certo essere immaginata, pensata e perfino descritta, ma non può essere penetrata realmente se non attraverso l’esperienza vissuta, il luogo dell’assenza della parola, il luogo in cui il frastuono serve solo a rendere accettabile l’esperienza con tutti i suoi contrasti che l’allontanano dalla realtà, per cui il linguaggio diventa strumento del nascondimento più che mezzo di apertura. Ma la descrizione, il lungo percorso della parola, più insiste nella destinazione circolare più denuncia la propria incapacità, la propria limitatezza a cogliere la totalità. Man mano che questa limitatezza diventa palese, a seguito dei tanti fallimenti, essa stessa produce ulteriori descrizioni e giustificazioni. Parole che coprono parole, immagini che si sovrappongono a immagini. Sia nella estensione che nella intenzione non ci si salva da questa regola paradossale. Più si usa lo strumento della struttura per eccellenza, meno si colgono i motivi per avvicinarsi alla forma, ma non ci si può avvicinare alla forma senza accettare proprio quegli strumenti che ce ne allontanano di fatto.

La conclusione che la logica del tutto e subito potrebbe presentare a questo punto è quella di condanna nei riguardi dello strumento privilegiato, cioè del linguaggio. La totalità si dovrebbe cogliere a priori, a prescindere dal successivo intervento di strumenti che per la loro natura non possono essere che analitici, quindi si avrebbe la totalità ancora prima di cercarla, anzi la ricerca stessa sarebbe un modo progressivo di perderla. Il fatto è che la pienezza non può essere colta che come differenza, come sottrazione di qualcosa che getta di continuo una luce creativa, qualitativamente fondata, proprio su quello che si è totalmente, una luce all’inizio modesta, poi via via sempre luminosa e ampia, ma sempre infinitesimale nei confronti della totalità di ciò che si è. E tutto questo può accadere soltanto nell’ambito dell’impiego di strumenti e strutture, cioè il modesto armamentario della vita concreta, pratica, che sfugge così alla morte e alla prigionia, attraverso la totalità, per ricostruire una concretezza parziale ma almeno viva e capace di determinare trasformazioni.

Quando la totalità viene scambiata con Dio si assiste a due linee di interpretazione, ambedue riduttive e dettate dalla paura e dal conformismo. La prima, quella mistica, insegue una qualità che somiglia molto a quello da cui parte, la potenzialità del reale, l’intuizione dell’assoluto può essere vissuta come riduzione all’esperienza concreta antropologica, quindi a una vacuità senza aperture, immobilità estatica senza rapportazione che non sia annichilente, abolizione di tutte le possibilità, anche quelle negative, in un’unica espressione immota. La seconda, quella razionalista, si dirige quasi sempre verso l’accumulazione, anche se non sempre colloca la sua speranza di prova al di là dell’esperienza concreta e materiale, concorrendo a volte, come nella tragica esperienza sadiana, a una coscienza inquieta dettata dalla verifica dell’impossibilità di coordinare totalità e accumulo, coinvolgimento e risparmio.

Ma non c’è motivo di scambiare la totalità con Dio, la presenza della realtà nell’estremo punto relazionale, per quanto piccolo sia, è una presenza concreta, che può essere conosciuta attraverso un accostamento anch’esso totale che non è né estatica eontemplazione, passività e sudditanza, né addensamento progressivo di contenuti, ma è flusso continuo, coglibile nell’intenzionalità, di tutte le relazioni sia nella coscienza, nelle sue varie dimensioni, sia nella cosa, per cui la singolarità immaginabile diventa globalità concreta, pratica. Il soggetto è anche oggetto e l’oggetto è soggetto. Per quanto il soggetto possa lavorare alla riduzione dell’oggetto nella modificazione, finisce poi, per altra via, una via appunto diversa, per ritrovare una qualità oggettivata nella tensione che si raccoglie e si esalta nell’azione. In forme cariche di diverso affievolimento la totalità, più o meno affievolita, si trova in ogni movimento, anche in quello estremamente ridotto dell’accumulazione che riduce il flusso a oggetti accumulabili.

L’intenzionalità non avrebbe più senso se non partisse dalla totalità. Cosa succederebbe se fosse vera l’ipotesi che non esiste altra strada che quella della parte, da cui si muovono i primi passi della conoscenza? Succederebbe che la realtà scomparirebbe come passato, allo stesso modo che non esiste come futuro. Queste illusioni pratiche hanno validità nell’ambito circoscritto del campo, ma non possono restare in piedi considerando le cose per come stanno, cioè considerando che al di là del campo esiste una realtà che non conosciamo e che comunque esiste a prescindere dalla nostra conoscenza. È questa realtà che non conosciamo che è in noi, proprio allo stato di non ancora conosciuta ma estrinsecante tutte le sue capacità relazionali a prescindere da questa non ancora compiuta conoscenza. Quindi non siamo noi che dobbiamo fare sforzi intenzionali per entrare nella totalità, ma al contrario è quest’ultima che ci attraversa con tutta se stessa, cioè con tutte le sue relazioni. Noi non possiamo conoscere la totalità, ma siamo conosciuti da essa. Lo stesso succede con l’azione, che produce e subisce un genere di conoscenza diversa da quella che produciamo e subiamo noi, e perfino lo stesso succede con l’oggetto sia pure in forma molto più affievolita.

Quando fissiamo, attraverso la conoscenza e tutte le operazioni del flusso, unificato od orientato, i limiti del campo, lo facciamo involontariamente, in quanto non siamo noi a precluderci questa o quella relazione, questo o quel flusso, ma è la naturale limitatezza della nostra intenzionalità che corrisponde a una diversa ma non per questo altrettanto circoscritta limitatezza dell’azione e perfino dell’oggetto. Per quel che concerne l’intenzionalità questa manifesta il desiderio di totalità proprio rendendosi conto di essere presenza, cioè potenzialità fattiva o attiva, comunque, di essere effettualità. Se non fossimo in grado di percepire questa nostra situazione, non solo a livello di spazio sociale, ma anche a livello di flusso singolo, quindi come coscienza immediata, non potremmo neanche renderci conto del nostro essere soggetto capace di fare e di agire, la differenza con l’oggetto e con l’azione ci sfuggirebbe, in quanto ci muoveremmo nell’ambito del flusso senza riuscire a trovare una collocazione definitiva o comunque sufficientemente definita.

Quello che differenzia radicalmente la nostra condizione in quanto soggetto dalla condizione dell’oggetto e dell’azione è il cominciamento, semplice o radicale che sia. Infatti, la diversità, con cui scatta l’epoca del cominciamento semplice, e la trasformazione, con cui avviene il cominciamento radicale, non si verificano a opera dell’oggetto o dell’azione, ma si verificano nell’oggetto, o comunque nell’ambito della produzione di oggetti.

L’identificazione di una parte non può essere fatta in modo definitivo, come sappiamo, ma facendo ricorso alla constatazione dell’affievolimento. Mezzi radicali di affievolimento sono per prima cosa la polarizzazione che porta a compimento l’azione trasformativa e negativa iniziata dalla diversità con il ritiro del coinvolgimento, la quale polarizzazione causa la scissione del flusso. Poi, all’interno dell’orientamento verso il senso la produzione di oggetti perfeziona i sistemi di affievolimento producendo parti le quali sono sempre attraversate, singolarmente, dalla totalità delle relazioni possibili, ma sono localizzate nell’ambito del campo, per definizione, in termini di tempo e di spazio, cosa che conferisce loro alcuni residui qualitativi che in massima parte si traducono in funzionalità e utilizzo. La divisione è quindi sempre un’astratta operazione di misura, la creazione artificiale del discreto, e consente realizzazioni operative forse più facili, convenzioni e accordi che coprono la complessiva area su cui si estende il campo e da questo travalicano nell’intero spazio sociale.

Non c’è pertanto un’antitesi tra totalità e parte, come non c’è un’antitesi tra realtà e campo, come non si può dire che la totalità è una somma di parti o che la realtà è una somma di campi. La parte realmente qualificata, quindi non solo prodotta nell’ambito accumulativo, ma trasformata, cioè la parte che contiene la struttura e la forma, per come si esprime nel livello estremamente complesso del campo, delle situazioni e dello spazio sociale, questa parte avrà un suo modo di essere, una sua capacità di produrre flussi e relazioni, ma sarà sempre, a ben considerare, la totalità del reale, la presenza assoluta di tutte le relazioni possibili, anche di quelle che nella logica del senso comune, ormai ineluttabile a livello dello spazio sociale, sono passate o vengono considerate future.

 


[1989]

 
 

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