#sku opuscoli-000010 #opuscoli 10 #cover a-m-alfredo-m-bonanno-anarchismo-insurrezionalista-x-cover.jpg #teaser Opuscoli provvisori – 10
2019, 3a ediz., pagine 192
euro 4,00

Dietro ogni aspetto della teoria anarchica insurrezionalista si nasconde un progetto, non dico un quadro asfittico completo in tutte le sue parti, ma un progetto sufficientemente individuabile, ben al di là di queste pagine. Se non si tiene conto di ciò nessun chiarimento analitico potrà fare molto, anzi correrà il rischio di restare quello che è, un insieme di parole che pretendono contrastare la realtà, pretesa incongruamente idealista. Ciò non vuol dire che il problema del metodo possa essere affrontato di punto in bianco senza tenere conto di quanto è stato detto in tutte le salse, sarebbe una ingenuità. In questa prospettiva non ci sono scorciatoie né ricette privilegiate, solo il duro lavoro rivoluzionario, lo studio e l’azione distruttiva. Nel volere essere liberi c’è una mostruosa tentazione, occorrerebbe squarciarsi il petto. Di già la stessa parola libertà è uno scandalo, che la si riesca a dire senza arrossire è uno scandalo. Che io insista a dire questa parola senza far fronte alle conseguenze che l’essenza stessa di quello che questa parola sottintende e mi pone di fronte è altrettanto scandaloso. La libertà, in fondo, non può essere detta, quindi questa parola, libertà, è ingannatrice, e mi inganna nel momento che la pronuncio. #title Anarchismo insurrezionalista #author Alfredo M. Bonanno #SORTauthors Bonanno, Alfredo M.; #date 2009 #cat opuscoli #lang it #pubdate 2015-04-24T16:10:35 #notes Prima edizione: giugno 1999
Seconda edizione: settembre 2009
Terza edizione: dicembre 2019
Opuscoli provvisori n. 10 ** Introduzione alla seconda edizione Dietro ogni aspetto della teoria anarchica insurrezionalista si nasconde un progetto, non dico un quadro asfittico completo in tutte le sue parti, ma un progetto sufficientemente individuabile, ben al di là di queste pagine e delle tante altre che nella mia vita ho scritto su questo tormentato argomento. Se non si tiene conto di ciò nessun chiarimento analitico potrà fare molto, anzi correrà il rischio di restare quello che è, un insieme di parole che pretendono contrastare la realtà, pretesa incongruamente idealista. Le piante grasse della filosofia classica tedesca, con i loro allettanti pungiglioni, hanno fatto tutto il danno possibile, spero che non costituiscano ancora più oltre specchietti per ingenue allodole rivoluzionarie. Ciò non vuol dire che il problema del metodo possa essere affrontato di punto in bianco senza tenere conto di quanto è stato detto in tutte le salse, anche dalla stessa filosofia classica tedesca, sarebbe una ingenuità. In questa prospettiva non ci sono scorciatoie né ricette privilegiate, solo il duro lavoro rivoluzionario, lo studio e l’azione. Le scivolate che ho visto fare in questi ultimi anni a tanti distruttori più o meno canuti mi confortano in questa mia rigidità d’intenti. Sarebbe inutile pensare la propria radicalità estrema quando poi ci si limita a nascondere la mano senza neanche gettare il sasso. Non è una corsa all’immagine più significativa, allo specchio magico che riempie di colori smaglianti e inghirlanda preziosamente quattro pensieri domenicali da bacetti Perugina. Questo libretto illustra un metodo, quello anarchico e insurrezionale, ma è di un’esperienza che esso parla, non di teorie che più o meno possono entrare in contrasto tra loro o anche andare d’accordo. Una esperienza che continua nel tempo e che si è andata sedimentando per così dire sul campo, nell’azione concreta, prendendo la sua forma ed espressione letteraria quasi per caso, in articoli, relazioni, volantini, o altro, sporadicamente affidati alle necessità del momento. Invece di vedere in questo un elemento di dissociazione, vi vedo, vi ho sempre visto, un movimento particolare, un incontro caratteristico tra idee ed azioni, in modo che dalle seconde si trovi luce particolare per le prime, e viceversa, senza soluzione di continuità. Molti, ministro dell’Interno in giù, fino all’ultimo appassionato di fanfaluche, vi hanno visto un miscuglio indigesto di vigorosa maturità di pensiero e di fantasia sciocca e puerile. Che me ne importa? Ho sufficiente spessore della pelle per rendermi conto che le nerbate fanno parimenti male quando vengono dalla critica occhiuta del carabiniere che sogna di farmi assegnare quanto più possibile anni di carcere e quando vengono camuffate e direi quasi imbastite nelle lodi di un imbecille o nei ragli letterari di un asino. Ogni metodo si basa sulla realtà, in caso contrario non è un metodo, né mai potrà dare vita a un progetto, è solo un movimento di gambe nervose e infaticabili, una passeggiata nel bosco delle favole, uno sciogliere enigmi della sfinge, un risolvere problemi di geometria descrittiva difficili solo per i fanciulli. La vita è un insegnamento troppo feroce per accettare, sia pure come compagni di viaggio, vertiginosi parassiti che si dilettano parlando delle loro impressioni e dei loro desideri di libertà. Parola pesante questa, molto pesante. Nel volere essere liberi c’è una mostruosa tentazione, occorrerebbe squarciarsi il petto. Di già la stessa parola libertà è uno scandalo, che la si riesca a dire senza arrossire è uno scandalo. Che io insista a dire questa parola senza far fronte alle conseguenze che l’essenza stessa di quello che questa parola sottintende e mi pone di fronte è altrettanto scandaloso. La libertà, in fondo, non può essere detta, quindi questa parola, libertà, è ingannatrice, e mi inganna nel momento che la pronuncio. Eppure è detta, ma occorre un’aggiunta fondamentale, mettere a rischio me stesso. Quest’aggiunta dona nuovo significato alla parola, la sconvolge e la mette a nudo criticamente, taglia i tanti ponti significativi con una insistente chiacchiera alimentata da perdigiorno in vena di stramberie e la scarnifica portando alla superficie la possibilità di una realizzazione. Concretizzare a ogni costo la libertà. C’è un meccanismo in questa fase interrogativa che è ancora perseguibile nei suoi dettagli, la parola risuona ancora nel gesto critico che scava dentro il di già detto, ma non è soltanto questo. Il senso profondo di questa parola sta proprio nel permettere un’apertura al proprio mettersi in gioco, faccia a faccia con la verità di se stessi, senza che niente possa essere inteso come schermo e riparo dietro cui attutire i colpi. Il meccanismo di cui parlo, il metodo rivoluzionario, non può essere diretto a rassicurare sui risultati, nel qual caso sarebbe una vera e propria critica positiva filosoficamente orientata a conservare più che a distruggere, ma è diretto a inquietare ulteriormente, a lacerare per l’ultima volta, prima del coinvolgimento, a mettere a disposizione non solo mia ma di tutti una possibile conclusione offerta proprio dall’applicazione del metodo e dall’assunzione delle responsabilità rivoluzionarie. La straordinaria condizione nuova che riesco così a intravedere è il metodo insurrezionale, un abisso senza fine di cui le poche tracce indicative che spaccio per di già accaduto sono solo una remota e pallida immagine. La distanza tra il pensiero e l’azione può, a volte, raccorciarsi di molto, e allora è il momento buono per colpire.
Trieste, 20 ottobre 2007 Alfredo M. Bonanno ** Introduzione alla seconda edizione spagnola dell’antologia di miei scritti dal titolo: No podréis pararnos. La lucha anarquista revolucionaria en Italia I compagni che hanno pubblicato la prima edizione di No podréis pararnos. La lucha anarquista revolucionaria en Italia mi fanno conoscere il loro desiderio di inserire una mia introduzione alla seconda edizione. Condivido questa necessità perché la scelta di scritti pubblicati lascia sottinteso l’esistenza di qualcosa di comune, l’esistenza di un progetto insurrezionale oltre che anarchico. Il testo: El proyeto revolucionario, inserito nel libro, comprende El trabajo del revolucionario, del 1988, Afinidad y organización informal, del 1985, Organización de sintesis y organización informal, anche del 1985, Autonomia del individuo, una parte del mio libro Autogestione e anarchismo, del 1977. In questi scritti affronto il problema del progetto rivoluzionario, ma molti aspetti non vi si trovano approfonditi, almeno sulla base delle considerazioni su cui ho avuto modo di riflettere in questi ultimi anni. Molti compagni hanno sottolineato la presenza di questo progetto rivoluzionario nelle mie analisi e come esso sia diventano sempre più dettagliato e pressante, in termini di scritti e di azioni, a partire dalla lotta a Comiso contro la base americana in costruzione, del biennio 1982-1983. Eppure, lo stesso concetto di insurrezionalismo, il sogno possibile di un anarchismo insurrezionale in grado di attaccare il potere smuovendo non solo i cuori delle persone ma anche i loro corpi, gli stessi concetti metodologicamente corretti di affinità, di organizzazione informale, di nuclei di base, di inclusi ed esclusi, ecc., non danno conto, in maniera chiara, del progetto. Che cosa intendo per progetto? Non soltanto un certo quantitativo, più o meno esteso, più o meno interessante, di analisi, di opuscoli, di libri, di giornali, e neanche, a stretto rigore, una serie di azioni concrete, dalla lotta di Comiso alle lotte oggi in corso contro la costruzione dei treni ad Alta Velocità. Il mio progetto abita nel mio cuore e si alimenta della mia vita. Voglio fare qui, cogliendo questa occasione introduttiva, uno sforzo per dire qualcosa in più. Prima di tutto quello che non è, mettendo a tacere così le preoccupazioni di coloro che mi hanno spesso accusato di essere troppo amante dei dettagli organizzativi. Il progetto non è un fondamento. Ma, se non è un fondamento, cioè se non può essere ristretto in un modulo stereotipato – e la pubblicistica di potere sta facendo di tutto per mettere a disposizione di sbirri e magistrati questo modulo – allora che cos’è? Penso sia un’anticipazione di qualcosa che potrebbe venire dopo, di una realizzazione che resta sempre in bilico e che mai si realizza compiutamente, di una concretezza che respira di fronte a me e di fronte a migliaia di compagni, una concretezza che si alimenta di fatti, ma che negli stessi fatti non si conclude. Il progetto, nei tanti flussi in cui continua a pulsare, comporta un riferimento al futuro. Parla di qualche cosa da fare oggi ma proiettata verso una possibile realizzazione futura. Nel progetto quindi si racchiude una possibile condizione che si realizzerà in futuro, in cui credo e per cui sono pronto a lottare. Qui sto parlando di un’idea, articolata e meravigliosa, complessa e difficile da comprendere, sto parlando dell’anarchia. E ne parlo come un valore che per me è qui, nel mio cuore, come anticipazione del futuro, del futuro in cui credo, non come un’esercitazione letteraria. Il valore che il progetto ha per me è valore presente, che indirizza la mia vita, che mi fa operare adesso scelte e azioni, non un semplice orizzonte temporale verso cui mi muovo, se non altro per il semplice fatto di vivere e di avvicinarmi alla morte. Non esiste progetto senza una fede nel futuro, come non esiste futuro senza progetto più o meno dettagliato. Mi ricordo che la parola d’ordine dell’insurrezione nera di Los Angeles di una quindicina di anni fa era: “No future”, e questo segnava il limite di quella rivolta, in un certo senso era il suo medesimo canto funebre. Se ho un progetto posso spezzare la rigidità del presente, la malignità ottusa di certi rapporti di forza, il ghigno passivo del potere che aspetta soltanto un mio errore per distruggermi, col mio progetto sono direttamente nel futuro, non accetto più la subordinazione al presente, quindi sono difficilmente controllabile. Il futuro, il mio futuro ma anche quello della società nel suo insieme, non è soltanto possibile è anche realizzabile, e questa possibilità di realizzazione si intreccia con la mia esperienza e l’esperienza che il mondo, e la società, accumulano. Avere un progetto, e agire per la sua possibile realizzazione, non significa sognare soltanto, ma anche significa agire, quindi concretizzare azioni sulla base di quello che io sono e sulla base di quello che la società è, sulla base storica che mi accompagna e che ci accompagna tutti. Vivere proiettati nel futuro non significa dimenticare la propria storia e la storia in cui la società è immersa, al contrario significa conoscerla cogliendo le tante differenze, non solo individuali ma anche continentali, nazionali, regionali, fino ad arrivare alla singola comunità, la più piccola. Penso che il progetto a cui ho lavorato tutta la mia vita sia qualcosa che sta continuamente per venire in essere, ma che ancora non è possibile individuare in questa o quella realizzazione. Ecco perché resto impassibile davanti alle critiche che continuamente vengono rivolte agli anarchici, secondo le quali tutto il loro darsi da fare, le loro azioni e le loro teorie, li lasciano sempre con un pugno di mosche in mano. La bellezza dell’anarchia sta proprio in questa sua inafferrabilità da parte della storia, e nella sua stabile collocazione nel futuro. Questa idea è contraria a qualsiasi logica della determinazione, a qualsiasi meccanismo dialettico, più o meno rivisto e modificato, a qualsiasi pretesa di vedere nella storia la maestra della vita vissuta. Ma il progetto non è, come ho detto, un sogno che può prendere le forme più incredibili e assurde, è un sogno di tipo particolare, un sogno ad occhi aperti. Il progetto, pure rivolgendosi a una possibilità futura, ha al proprio interno la necessità storica che lo rende vitale e operativo, che lo sottrae al possibile destino di tutte le semplici velleità letterarie. Si radica nella possibilità del futuro ma, al suo interno, si nutre delle coordinate della storia, è storia, quindi risponde a determinati princìpi, non ne può fare a meno. Pur non essendo deterministicamente pensabile determina, nel suo realizzarsi, la realtà che gli sta davanti. L’insurrezionalismo è uscito, come progetto, dal limitato sogno della “grand soire”, dalla rivoluzione come accadimento spontaneo e imprevedibile, dal vago millenarismo che aveva avuto larga diffusione per tanti anni, almeno a partire dalla Comune di Parigi. L’anarchismo insurrezionalista è un progetto rivoluzionario che si proietta nel futuro, ma ha le proprie basi nella storia e nel patrimonio di lotte che gli sfruttati di tutto il mondo hanno accumulato. Questo patrimonio rende leggibile la possibilità del futuro. Se il progetto insurrezionale non fosse anarchico finirebbe per cadere di fronte alle tragiche farse che sono state recitate da tante rivoluzioni autoritarie in tutto il mondo, e che continuano a recitarsi. Solo nel progetto anarchico di rivolta organizzata, emerge una possibilità positiva di dare corpo vivo e attivo all’idea di rivoluzione sociale, senza ripiegare su progetti di piccolo cabotaggio, in grado, all’apparenza, di fornire prospettive apparentemente più praticabili. L’insurrezionalismo anarchico come progetto, e come azione che mai si completa fino in fondo, perché continuamente si indirizza al futuro, può essere e può anche non essere, non ha nessuna necessità di essere, come l’anarchia non è necessariamente una caratteristica del futuro, non è per nulla certo che il mondo vada verso l’anarchia, come credevano nell’Ottocento i deterministi kropotkiniani. Questo potere anche non essere significa il fallimento possibile del progetto insurrezionalista? No. L’indeterminismo è una delle caratteristiche logiche della possibilità, il fatto che un progetto non si realizzi, qui e subito, o là dopo qualche tempo, non dimostra l’inaffidabilità del progetto stesso. Di più, quando è lo stesso progetto a dirsi incompleto e incompletabile, non c’è alcun dubbio sulla sua validità, che non potrà mai essere distrutta da questo o quel fallimento. L’agire rivoluzionario è questa incompletezza, salvo a modificare il progetto, abbassando la rivoluzione a semplice cambiamento di padrone. Queste poche note dovrebbero fare comprendere meglio che il progetto insurrezionalista non è né un insieme più o meno letterariamente coordinato di precetti e di regole, né una semplice prospettabilità operativa, come se ne trovano nei manuali di guerriglia. I sogni sono spesso molto più complessi della realtà.
Trieste, 6 gennaio 2007 Alfredo M. Bonanno ** Introduzione alla prima edizione Una scomoda contraddizione si nasconde, irrisolta, dentro questo libro, e minaccia di rendere difficile il compito del lettore. Dico subito che queste righe introduttive non saranno di aiuto alcuno. Eppure, nello stesso tempo, ai fini strettamente logici, esse sono indispensabili. La tesi qui sostenuta nasce da un lungo percorso di lotte e di riflessioni, è tesi travagliata e complessa, difficile non solo da esporre – il che potrebbe essere carenza del suo autore – ma anche da fissare in pochi elementi chiari, una volta per tutte. Ecco la contraddizione: tutto il libro, sviluppatosi in tempi diversi, nell’arco più o meno di quindici anni, risente dell’urgenza e della passione del momento, questa introduzione, freddamente, no. Qui ho l’intenzione anatomica, che fa a pugni con tutto me stesso, di esporre gli elementi fondamentali dell’anarchismo insurrezionalista. Sarà possibile? Non lo so. Io ci provo. Se la lettura di queste note introduttive dovesse minacciare troppo il legittimo desiderio di aria fresca del lettore, che si saltino a pie’ pari e buona notte al secchio. L’insurrezione di grandi masse, o di tutto un popolo, in un dato momento, presuppone alcuni elementi di già esistenti, presuppone condizioni sociali ed economiche disgregate, se non proprio una situazione di estrema incapacità da parte dello Stato di mantenere l’ordine e il rispetto delle leggi, ma presuppone anche individui e gruppi di individui capaci di cogliere questa disgregatezza al di là dei segni esteriori con i quali si manifesta. Occorre cioè, di volta in volta, saper vedere al di là delle motivazioni, spesso occasionali e secondarie, che accompagnano i primi fuochi insurrezionali, i primi scontri, le prime avvisaglie, allo scopo di dare il proprio contributo alla lotta e non, al contrario, di frenarla o di sottovalutarla come semplice e scomposta insofferenza al dominio politico in carica. Ma chi sono gli individui preparati ad affrontare questo compito? Potrebbero essere gli anarchici, non per una loro scelta ideologica di fondo, la loro dichiarata negazione di qualsiasi autorità, quanto per la capacità critica, che dovrebbero avere, di valutare metodi di lotta e progetti organizzativi. Inoltre, solo chi si ribella, chi si è di già ribellato, sia pure nel microcosmo della propria vita, chi ha affrontato le conseguenze di questa ribellione e le ha vissute fino in fondo, può avere i nervi sensibili e le necessarie intuizioni per cogliere i segni del movimento insurrezionale in corso. Non tutti gli anarchici sono dei ribelli, come non tutti i ribelli sono anarchici. A complicare le cose interviene il fatto che non basta essere un ribelle per capire la ribellione degli altri, occorre anche che ci si disponga alla comprensione, all’approfondimento delle condizioni economiche e sociali che si hanno di fronte, e che non ci si lasci trascinare via dal fiume in piena delle manifestazioni eclatanti del movimento popolare, anche quando quest’ultimo fila via col vento in poppa e i primi successi fanno alzare le bandiere dell’illusione. La critica è sempre lo strumento primo, il punto da cui partire, ma che sia critica partecipativa, critica che coinvolga il cuore, che faccia battere l’emozione dello scontro effettivo contro i nemici di sempre, con i loro visi disfatti per la prima volta nella polvere, e non arcigna valutazione dei pro e dei contro. Ma un ribelle non basta, anche se cento ribelli si mettono insieme non bastano, saranno cento molecole impazzite nell’agone distruttivo delle prime ore, quando la lotta divampa feroce e dilaga travolgendo tutto. Figure importanti, come esempio e come stimolo, i ribelli finiscono per soccombere di fronte alle necessità del momento. Più la loro coscienza li guida all’attacco, spesso cieco per quanto efficace e radicale, più essi stessi si rendono conto di un limite insuperabile, non riescono a vedere uno sbocco organizzativo, aspettano che i suggerimenti vengano dalle masse in rivolta, una parola qui, una là, nel vivo stesso dello scontro, nei momenti di sosta quando tutti vogliono parlare in attesa di riprendere la lotta. E non si rendono conto che anche in quei momenti esaltanti ci sono sempre i politici in agguato. Le masse, poi, non hanno le virtù che spesso siamo portati a concedere loro. L’assemblea non è di certo un luogo per mettere in gioco la propria vita, ma la propria vita è messa in gioco dalle decisioni che nell’assemblea vengono prese. E gli animali politici che in questi momenti collettivi alzano la testa hanno sempre le idee chiare su cosa suggerire, hanno in tasca pronto un bel programma di recupero, di rientro nella normalità, di richiamo all’ordine. Certo, non diranno nessuna parola meno che corretta, politicamente intendo, e quindi verranno scambiati per rivoluzionari, ma sono sempre loro, gli animali politici di sempre, che stanno gettando le basi per la ricostruzione del potere futuro, quello che recupererà la spinta rivoluzionaria indirizzandola verso più miti consigli. Limitiamo le distruzioni, compagni, per favore, dopo tutto è quello che ci appartiene che stiamo distruggendo, ecc. Sparare prima degli altri, e più velocemente, è una virtù da Far West, buona per un giorno, dopo bisogna sapere usare la testa, ed usare la testa significa avere un progetto. E l’anarchico non può essere soltanto un ribelle, ma deve essere un ribelle munito di un progetto. Deve cioè unire il cuore e il coraggio con la conoscenza e l’avvedutezza dell’azione. Le sue decisioni saranno pertanto sempre illuminate dal fuoco della distruzione, ma alimentate dalla legna dell’analisi critica. Ora, se riflettiamo un momento, non c’è progetto che possa nascere su due piedi, come si dice, nel pieno della mischia. Sarebbe stupido pensare che tutto deve venire dal popolo insorto, un determinismo cieco che minaccia di consegnarci imbavagliati nelle mani del primo politico che salito su di una sedia sa indicare alcune linee organizzative e programmatiche, gettando fumo negli occhi con quattro parole retoricamente messe in fila una dietro l’altra. Se l’insurrezione è in gran parte un momento rivoluzionario di grande creatività collettiva, momento che può dare suggerimenti analitici di intensità considerevole (pensate agli operai insorti della Comune di Parigi che sparavano sugli orologi), non può essere la sola fonte di approfondimento teorico e progettuale. I momenti più alti del popolo in armi sbarazzano, questo sì, degli indugi e delle incertezze preventive, fanno vedere chiaro quello che prima era sfumato, ma non possono illuminare qualcosa che non c’è. Quei momenti sono il potente riflettore che rende realizzabile un progetto rivoluzionario e anarchico, ma questo progetto, sia pure nelle sue linee metodologiche, deve esistere da prima, deve essere stato elaborato prima, sia pure non in tutti i dettagli, e, per quel che è possibile, sperimentato. D’altro canto, quando interveniamo nelle lotte di massa, in scontri per rivendicazioni intermedie, quasi esclusivamente non lo facciamo forse per suggerire il nostro patrimonio metodologico? Che gli operai di una fabbrica chiedano lavoro e cerchino di evitare i licenziamenti, che un gruppo di senza casa cerchi di farsi dare un riparo, che i carcerati scioperino per una vita migliore nei luoghi di pena, che gli studenti si ribellino contro una scuola senza cultura, tutto ciò ci interessa fino ad un certo punto. Sappiamo benissimo, quando partecipiamo a queste lotte in quanto anarchici, che in qualsiasi modo esse vadano a finire, la rispondenza in termini quantitativi, cioè di crescita del nostro movimento, è molto relativa. Spesso gli esclusi si scordano anche chi siamo, e non c’è un motivo al mondo per ricordarsi di noi, tanto meno un motivo fondato sulla riconoscenza. Difatti, più volte ci siamo chiesti, cosa ci facciamo noi, in quanto anarchici e quindi rivoluzionari, in mezzo a queste lotte rivendicative, noi che siamo contro il lavoro, contro la scuola, contro qualsiasi concessione dello Stato, contro la proprietà e perfino contro ogni tipo di patteggiamento che conceda graziosamente una vita migliore nelle carceri. La risposta è semplice. Ci siamo perché portatori di un metodo differente. E il nostro metodo prende corpo in un progetto. Siamo a fianco degli esclusi, in queste lotte intermedie, perché suggeritori di un modello diverso, quello basato sull’autorganizzazione delle lotte, sull’attacco, sulla conflittualità permanente. È questo il nostro punto di forza, e solo nell’eventualità che gli esclusi accettino questo metodo di attacco, siamo disposti a lottare insieme a loro, anche per un obiettivo che in se stesso rimane di natura rivendicativa. Un metodo resterebbe comunque lettera morta, agglomerato di parole prive di senso, se non riuscisse ad articolarsi in un progetto, un progetto capace di prendere sostanza dal problema specifico che gli esclusi si trovano davanti. Tanti ansiosi critici dell’insurrezionalismo anarchico sarebbero tornati al loro sonno interrotto se avessero prestato attenzione a questo aspetto. Che vale rimproverarci di essere fermi su richieste metodologiche vecchie di cento anni, quando non si è prestato attenzione a quello che diciamo? L’insurrezionalismo di cui parliamo è altra cosa dei gloriosi giorni sulle barricate, anche se potrebbe, in certi momenti specifici, avere in mano i suggerimenti più adeguati per una lotta che si indirizzi verso uno scontro sulle barricate. Solo che in sé, in quanto teoria e analisi rivoluzionaria, in quanto metodo incarnato in un progetto, non tiene necessariamente conto di questo momento apocalittico, ma si sviluppa e approfondisce a prescindere da sventolii di bandiere e luccichii di fucili. Molti compagni hanno piena coscienza della necessità dell’attacco, e s’industriano per quanto possono di realizzarlo. Avvertono confusamente la bellezza dello scontro e dell’affrontamento contro il nemico di classe, ma non vogliono assoggettarsi ad un minimo di riflessione critica, non vogliono sentire parlare di progetti rivoluzionari, e persistono, in questo modo, nello sprecare l’entusiasmo della loro ribellione che indirizzandosi in mille rivoli finisce per spegnersi in piccole e disunite manifestazioni d’insofferenza. Non c’è, com’è ovvio, una tipologia uniforme di questi compagni, si può dire che ognuno di loro costituisce un universo a parte, ma tutti, o quasi tutti, hanno in comune il fastidio per qualsiasi discorso che preveda chiarimenti di natura metodologica. Le distinzioni li infastidiscono. Che senso ha, mi dicono, parlare di gruppi di affinità, di organizzazione informale, di nuclei di base, di coordinamenti? Non è forse tutto chiaro, il sopruso e l’ingiustizia, lo sfruttamento e la ferocia del potere non sono là davanti a noi, ben visibili, non sono realizzati in uomini e cose che si distendono al sole come se nulla potesse disturbarli? Che vale soffermarsi su discussioni che lasciano il tempo che trovano? Perché non attaccare subito, qui e ora, anzi, perché non indirizzarsi sulla prima divisa che capita a portata di mano? In fondo perfino una persona “assennata” come Malatesta era in un certo senso di questo avviso quando diceva di preferire la ribellione individuale all’attendismo che aspetta per agire che il mondo venga messo a soqquadro. Personalmente non ho avuto mai nulla in contrario, anzi. La ribellione è il primo passo, la condizione essenziale perché i ponti vengano bruciati alle nostre spalle, perché i raccordi che, con mille fortissimi fili, ci legano alla società e al potere, vengano se non recisi almeno indeboliti, i raccordi con la famiglia, con la morale dominante, con il lavoro, con l’obbedienza alle leggi. Ma, credo che questo passo non sia sufficiente. Credo che bisogna andare oltre, riflettere sulle possibilità di dare maggiore forza organizzativa alla propria azione, perché la ribellione si trasformi in intervento progettuale verso l’insurrezione generalizzata, perché dall’insurrezione individuale, primo e necessario passo, si vada oltre. Che a molti compagni questo secondo momento non sia congeniale è un fatto evidentissimo. Per cui, dal sentirsi essi stessi estranei a ogni sforzo in questa direzione passano ad una sottovalutazione del problema, o peggio ancora ad un disprezzo verso tutti gli altri compagni che al problema organizzativo dedicano attenzione e sforzi. Questo libro cerca di fornire alcuni elementi essenziali perché si consideri, in modo approfondito, l’aspetto organizzativo dell’anarchismo insurrezionalista. In modo particolare, affronta i problemi dell’affinità, e quindi dei gruppi di affinità, dell’informalità, e quindi dell’organizzazione informale, dell’autorganizzazione delle lotte, e quindi dei nuclei di base e dei coordinamenti tra questi nuclei costituiti da anarchici e non anarchici con i gruppi di affinità, costituiti da anarchici, attraverso l’organizzazione informale. Come si vede l’argomento ha caratteristiche metodologiche abbastanza difficili, richiede quindi la disponibilità di alcuni concetti, spesso travisati a causa del loro significato comune non sempre coerente con il significato che assumono nel contesto di una teoria organizzativa insurrezionalista, e richiede principalmente un poco di attenzione critica, che ci si liberi cioè dei preconcetti che a volte ci limitano la vista senza che ce ne accorgiamo. Questa introduzione, nelle pagine che seguono, sarà più schematica su questi concetti, il testo sarà più articolato ma forse più difficile da seguire se non ci si impadronirà prima di questi concetti chiave. Un gruppo anarchico può essere costituito anche fra perfetti sconosciuti. Mi è capitato spesso di entrare nella sede di gruppi anarchici, in Italia e in altri paesi, e di non conoscere quasi nessuno. La sola presenza in un dato posto, l’atteggiamento, il modo di parlare e di porsi, la discussione, le dichiarazioni personali più o meno impregnate delle scelte ideologiche di fondo dell’anarchismo più ortodosso, fanno in modo che un anarchico, in breve tempo, si senta a suo agio comunicando con i compagni presenti nel migliore dei modi e con reciproca soddisfazione. Non è mia intenzione parlare qui del modo in cui si può organizzare un gruppo anarchico. I modi sono tanti e ognuno sceglie come meglio crede i propri compagni. Ma c’è un modo particolare di costituire un gruppo anarchico, ed è quello che tiene conto prima di ogni altra cosa, ma non esclusivamente, questo è ovvio, dell’affinità reale o presunta fra tutti i partecipanti. Ora, questa affinità è un bene che non si trova in nessuna dichiarazione di principio, in nessun programma a priori, in nessuna partecipazione alle lotte specifiche, in nessuna attestazione di “militanza” per quanto indietro questa vada nel tempo. L’affinità è un bene che si conquista attraverso la conoscenza reciproca. Ecco perché ci sono casi in cui si presume di essere affini con qualcuno per scoprire poi di non esserlo affatto, e viceversa. Un gruppo di affinità è pertanto un crogiolo in cui maturano e si cementano le relazioni di affinità. Ma, poiché la perfezione è faccenda degli angeli e non degli esseri umani, anche l’affinità va presa in considerazione con acume intellettivo e non accettata stupidamente come il toccasana per tutte le nostre debolezze. Io posso scoprire di essere affine con qualcuno solo se nei riguardi di questo qualcuno io stesso mi metto a rischio, cioè mi svelo, tolgo tutti gli infingimenti che di solito mi proteggono come una seconda pelle, più dura e coriacea di quella fisica. E questo svelamento mio non può avvenire solo con le chiacchiere, raccontandomi, in attesa di registrare le chiacchiere dell’altro, ma deve avvenire nelle cose da fare assieme, nell’azione. Ci sono piccoli segnali che nel fare spesso non controlliamo, che sono molto più significativi delle parole che nel dire controlliamo meglio. Ed è dall’insieme di questi reciproci scambi che si sviluppano le condizioni necessarie alla reciproca conoscenza. Se l’intera attività del gruppo è diretta non al fare per il fare, allo scopo di crescere quantitativamente, allo scopo di diventare cento mentre ieri si era solo in dieci, se questo calcolo numerico resta in secondo piano, mentre lo scopo essenziale diventa e permane quello qualitativo di sentire gli altri compagni, di avvertirli uniti e partecipi della propria tensione verso l’azione, del proprio desiderio di trasformare il mondo, se ciò accade, siamo in presenza di un gruppo di affinità. In caso contrario, la ricerca dell’affinità è, ancora una volta, la ricerca di una spalla su cui appoggiarsi per versare le lacrime di cui tutti sentiamo l’urgenza. La formazione di un gruppo di affinità non è quindi una faccenda legata esclusivamente a discussioni teoriche, ma essenzialmente si riversa nell’attività pratica del gruppo, nelle scelte che compie per intervenire nella realtà, nelle lotte sociali, perché è attraverso queste scelte, e queste lotte, che ogni singolo partecipante può approfondire la conoscenza con tutti gli altri compagni, e qui, in questo processo molteplice e complesso, inserire anche l’approfondimento teorico. L’affinità, se da un lato è quindi conoscenza reciproca, dall’altro, è conoscenza nell’azione, nella pratica, nella realizzazione delle proprie idee. Lo sguardo indietro che consento ai miei compagni riguardo quello che sono, viene così riassorbito nello sguardo in avanti che tutti insieme, io e loro, gettiamo nel futuro quando costruiamo insieme un progetto, cioè decidiamo di intervenire nella realtà delle lotte e vediamo di capire come e in quale direzione possiamo intervenire. I due momenti, quello indietro, consistente nel momento della conoscenza diciamo individuale, e quello in avanti, quello progettuale, consistente nella conoscenza diciamo di gruppo, si saldano insieme e costituiscono l’affinità del gruppo stesso, permettendo che quest’ultimo venga considerato a tutti gli effetti un “gruppo di affinità”. La condizione così ottenuta non è un bene fissato una volta per tutte. Si muove, si sviluppa e regredisce, si modifica nel corso delle lotte e, all’interno delle lotte, prende alimento per modificarsi teoricamente e praticamente. Non c’è nessuna monoliticità, nessuna decisione di vertice, nessuna fede su cui giurare, nessun decalogo su cui fare affidamento nei momenti di dubbio e di paura. Tutto va discusso all’interno del gruppo e nel corso delle lotte, tutto va riconsiderato di sana pianta, anche quando sembra che ci siano dei punti fermi garantiti per sempre. L’elaborazione di un progetto di intervento resta patrimonio comune del gruppo di affinità in quanto è proprio questa la sede più adatta per lo studio e l’approfondimento delle condizioni in cui si decide di operare. Così, apparentemente, il gruppo di affinità, confrontato con il gruppo aderente ad una organizzazione di sintesi, ha una visione più ridotta delle proprie possibilità di intervento. Ma l’ampiezza degli interessi di una struttura anarchica di sintesi è solo apparente. Infatti, nell’ambito dell’organizzazione di sintesi il gruppo riceve un indirizzo nel momento congressuale e, pur restando libero di interessarsi a tutti i problemi che caratterizzano una società divisa in classi, in sostanza, opera nell’indirizzo del dettato congressuale. In più, essendo legato dai principi programmatici accettati una volta per tutte, è lontano dal potere decidere diversamente, e non potendolo fare non lo fa, e non facendolo finisce per adeguarsi ai limiti rigidi fissati congressualmente dall’organizzazione, i quali per condizione necessaria e inevitabile prevedono prima di tutto la salvaguardia dell’organizzazione stessa, cioè “disturbare” il potere meno possibile per evitare di essere “messi al bando”. Tutti questi limiti il gruppo di affinità li evita, alcuni facilmente, altri solo col coraggio delle decisioni dei compagni che vi fanno parte. Ciò non toglie che anche questo tipo di struttura non può dare coraggio ai compagni che non lo posseggono in proprio, non può suggerire decisioni di attacco se non c’è l’animo del ribelle in ognuno di loro, non può agire se tutti decidono di pensare solo alle chiacchiere pomeridiane. Approfonditi i problemi della realtà, trovati i documenti indispensabili, formulate le analisi, il gruppo di affinità decide di prendere l’iniziativa. Ecco una delle caratteristiche fondamentali di questo tipo di struttura anarchica. Non aspetta l’arrivo dei problemi come un ragno in mezzo alla sua tela, se li va a cercare, li sollecita verso una soluzione che, una volta prospettata, deve ovviamente essere accettata dalla realtà di esclusi che subisce direttamente le conseguenze negative del problema. Ma per fare una proposta progettuale ad un contesto sociale che soffre un particolare attacco del potere, uno specifico attacco circoscritto, individuabile in una o più fonti repressive e in un dato territorio, occorre essere fisicamente presenti in mezzo agli esclusi, in quel territorio, e avere una conoscenza approfondita dei problemi che caratterizzano il fatto repressivo in corso. Così il gruppo di affinità finisce per indirizzarsi sempre verso un intervento localizzato, affrontando insieme alla gente un problema specifico, creando tutte quelle condizioni, psicologiche e pratiche, individuali e collettive, di approfondimento teorico e disponibilità di mezzi, perché quel problema venga affrontato con le caratteristiche di metodo che sono quelle dell’insurrezionalismo: autorganizzazione, conflittualità permanente, attacco. Non sempre un singolo gruppo di affinità ha la capacità pratica e teorica di pervenire ad un intervento del genere. Spesso, almeno a quello che le esperienze (poche e spesso controverse) hanno mostrato, il livello del problema, la complessità dell’intervento, la vastità del territorio, la gradualità dei mezzi da impiegare nel diffondere il modello progettuale suggerito in collaborazione con le idee e i bisogni della gente del posto, rendono necessaria l’unione di forze più ampie. Ecco quindi la necessità di mantenere contatti costanti con altri gruppi di affinità, allo scopo di prevedere un intervento più ampio, per adeguare il numero dei compagni, la disponibilità dei mezzi e la chiarezza delle idee alla complessità e alla dimensione del problema da affrontare. Nasce così l’organizzazione informale. Più gruppi anarchici di affinità si uniscono insieme dando vita ad un’organizzazione informale, la quale ha come scopo il problema che rendeva inadeguato l’intervento di un singolo gruppo di affinità. Naturalmente tutti i gruppi partecipanti all’organizzazione informale devono condividere l’intervento nelle sue grandi linee, per poi partecipare sia alle azioni pratiche che alle elaborazioni teoriche. Nella pratica accade spesso che gruppi di affinità abbiano rapporti informali fra di loro i quali a lungo andare finiscono per diventare costanti, cioè per solidificarsi in riunioni periodiche, preparatorie di lotte specifiche o – ancora meglio – incontri fatti proprio nel corso di alcune lotte. Ciò rende più facile la circolazione delle informazioni riguardo i singoli interventi in corso, i progetti in elaborazione, le sollecitazioni che arrivano da qualche parte del mondo degli esclusi. Il “funzionamento” di un’organizzazione informale è semplicissimo. Non ci sono nomi che la contraddistinguono in quanto non ci sono scopi di crescita quantitativa. Non ci sono strutture fisse (a parte i singoli gruppi di affinità, ognuno dei quali fa il proprio lavoro del tutto autonomamente), il termine “informale” in caso contrario non avrebbe più senso. Non ci sono momenti “costitutivi”, non ci sono congressi ma semplici riunioni periodiche (di preferenza da realizzarsi nel corso stesso delle lotte), non ci sono programmi, ma soltanto il comune patrimonio delle lotte insurrezionali e della metodologia che le contraddistingue: l’autorganizzazione, la conflittualità permanente, l’attacco. In positivo, lo scopo dell’organizzazione informale è quello che viene ad essa conferito dai singoli gruppi di affinità che la costituiscono. Di regola, nelle poche esperienze fatte, si tratta di un problema specifico, poniamo la distruzione della base missilistica di Comiso nel biennio 1982-1983, ma potrebbe trattarsi anche di una serie di interventi, per cui l’organizzazione informale si articola in modo da fornire una possibilità di intervento ai singoli gruppi nelle differenti situazioni, ad esempio alternandosi negli impegni quando si tratta di essere presenti a lungo in un dato posto (a Comiso, i gruppi presenti restarono sul posto per ben due anni). Un altro scopo potrebbe essere quello di mettere a disposizione mezzi, analitici e pratici, di ricerca ma anche di sostegno finanziario, che il singolo gruppo potrebbe non possedere. Sempre in positivo la funzione primaria dell’organizzazione informale è quella di consentire la conoscenza dei vari gruppi di affinità e dei compagni che li compongono. Si tratta, se ben si riflette, di un diverso grado di ricerca dell’affinità. Questa volta, nei limiti assegnati dall’obiettivo da raggiungere, la ricerca dell’affinità, intensificata dalla parte del progetto, ma non escludente l’approfondimento della singola conoscenza individuale, avviene a livello di più gruppi. Se ne deduce che anche l’organizzazione informale è una struttura di affinità, essendo basata infatti sull’insieme dei gruppi di affinità che la costituiscono. Queste considerazioni, che in maniera più o meno articolata facciamo ormai da quasi quindici anni, avrebbero dovuto per tempo fare capire a tutti i compagni interessati la natura dell’organizzazione informale. Non sembra che le cose stiano così. Il più serio degli equivoci deriva, a mio avviso, dal desiderio – latente in alcuni di noi – di mostrare i muscoli, di darsi una struttura organizzativa forte, perché non ci sarebbe altro mezzo per combattere un potere, a sua volta, muscoloso e forte. La prima caratteristica di una struttura forte, secondo questi compagni (in modo più o meno chiaro) dovrebbe essere specifica e robusta, stabile nel tempo e ben visibile, allo scopo di costituire quasi un faro nella nebbia delle lotte degli esclusi, un faro, una guida, un punto di riferimento. Ahinoi! Non siamo di questo avviso. Tutta l’analisi economica e sociale del capitalismo postindustriale fa capire come di una struttura del genere, forte e visibile a occhio nudo, il potere farebbe un boccone solo. La scomparsa di una centralità di classe (almeno di quello che in passato era stato scambiato per centralità) rende impraticabile un attacco condotto da strutture rigide, ben visibili e forti nelle proprie articolazioni. Nel caso in cui queste strutture non venissero distrutte al primo impatto, sarebbero di certo cooptate nell’ambito del potere con compiti di recupero e di riciclaggio degli elementi più irriducibili. Ma su questo punto rimandiamo alla lettura dei testi qui presentati, di certo molto più convincenti. Fin quando il gruppo di affinità resta chiuso al suo interno, insieme di compagni che si danno delle regole e le rispettano, e nel restare chiuso qui intendo non solo il non uscire dalla propria sede, limitandosi alle solite discussioni fra iniziati ai lavori, ma anche il rispondere con dichiarazioni e documenti opportuni alle varie scadenze repressive proposte dal potere, fin quando le cose restano a questo livello, la struttura di affinità differisce da qualsiasi altro gruppo anarchico solo negli aspetti apparenti, nelle parole, nelle scelte “politiche”, nel modo di interpretare le differenti risposte da dare alle pretese del potere di regolare la nostra vita, la vita di tutti gli esclusi. Il senso profondo, lo scopo essenziale del suo essere una struttura “diversa”, basata cioè su scelte organizzative differenti da tutti gli altri gruppi anarchici, appunto l’affinità, viene ad essere effettivamente operante solo nell’impostazione di un progetto di lotta specifico. E l’elemento caratterizzante questo progetto, al di là delle parole o delle motivazioni che lo rendono più o meno approfondito analiticamente ed efficace praticamente, è dato dalla presenza degli esclusi, cioè della gente, insomma delle masse, più o meno numericamente consistenti, che subiscono gli effetti repressivi da parte del potere contro cui quel progetto s’indirizza ricorrendo all’impiego del metodo insurrezionalista. La partecipazione delle masse è quindi l’elemento fondante del progetto insurrezionale e, partendo quest’ultimo dalla condizione di affinità dei singoli gruppi anarchici che vi partecipano, è anche elemento fondante di questa affinità stessa, la quale resterebbe povera camaraderie d’élite se circoscritta alla reciproca ricerca di una più approfondita conoscenza personale fra compagni. Sarebbe però un controsenso pensare di fare diventare anarchica la gente suggerendo di entrare nei nostri gruppi allo scopo di affrontare la lotta in modo anarchico. Sarebbe non solo un controsenso, ma una orribile forzatura ideologica e sconvolgerebbe tutto il significato dei gruppi d’affinità e della eventuale organizzazione informale nata per affrontare l’attacco repressivo che in un certo momento, in un dato territorio, una parte più o meno consistente degli esclusi subisce da parte del potere. Dovendosi però creare delle strutture organizzative capaci di raggruppare gli esclusi in modo da cominciare gli attacchi contro la repressione, ecco la necessità di dare vita ai nuclei autonomi di base, che ovviamente possono prendere qualsiasi altro nome che indichi il concetto di autorganizzazione. Eccoci quindi al punto centrale del progetto insurrezionale: la costituzione dei nuclei autonomi di base (per comodità accettiamo qui questo termine). La loro caratteristica essenziale, visibile e comprensibile immediatamente, è che vi fanno parte anarchici e non anarchici. Ma sono altri i punti di più difficile comprensione, e che nelle pochissime occasioni di sperimentazione pratica si sono rivelati fonte di non pochi equivoci. Primo fra tutti il loro essere strutture di tipo quantitativo. Se essi sono strutture di questo tipo, e di fatto lo sono, si deve chiarire che hanno una caratteristica particolare. Sono veri e propri punti di riferimento, non luoghi fissi dove la gente si conta e quindi dove occorre mettere in atto tutte quelle procedure che rendono possibile la persistenza aggregativa nel tempo (tesseramento, versamento di una quota partecipativa, fornitura di servizi, ecc.). Poiché i nuclei autonomi di base hanno soltanto lo scopo della lotta essi funzionano come un vero e proprio polmone nella sua funzione respiratoria, si ingrossano nel momento in cui la lotta si intensifica e si riducono quando la lotta si affievolisce per tornare a ingrossarsi al momento del prossimo scontro. Nei punti morti, fra un impegno e l’altro – e qui per impegno s’intende qualsiasi momento di lotta, anche la distribuzione di un semplice volantino, la partecipazione ad un comizio, ma anche l’occupazione di uno stabile o il sabotaggio di uno strumento del potere – il nucleo rimane come riferimento zonale, come segno di una presenza organizzativa informale. Pensare possibile una crescita quantitativa stabile dei nuclei autonomi di base significa trasformarli in organismi parasindacali, cioè qualcosa di simile ai Cobas, che difendono i diritti dei lavoratori dei diversi settori produttivi, proponendosi un ampio raggio di interventi difensivi e rivendicativi a favore dei propri rappresentati, con la conseguenza che più alto è il numero delle deleghe, più forte è la voce dell’organismo che propone la rivendicazione. Il nucleo autonomo di base non ha nulla di tutto questo. Non propone una lotta rivendicativa col metodo delle richieste e della delega, non propone una protesta su obiettivi generici che possono andare dalla difesa del posto di lavoro, all’aumento del salario, alla tutela della salute nelle fabbriche, ecc. Il nucleo di base nasce e muore col suo unico obiettivo individuato al momento di dare inizio alla lotta, obiettivo che in se stesso può anche avere natura rivendicativa, ma non viene cercato col metodo rappresentativo della delega, bensì col metodo diretto della lotta immediata, dell’attacco permanente e senza preavviso, del rifiuto di qualsiasi forza politica che pretende rappresentare qualcuno o qualcosa. Gli aderenti ai nuclei di base non possono quindi legittimamente aspettarsi un sostegno plurimo, coprente una fascia ampia dei loro bisogni, devono capire che non si tratta di un sostegno parasindacale, ma di uno strumento di lotta contro un obiettivo preciso e che resta valido, come strumento, solo se mantiene inalterata la decisione iniziale di fare ricorso soltanto ai metodi di lotta insurrezionali di cui si è detto. La partecipazione ai nuclei è quindi assolutamente spontanea non potendo essere sollecitata, o consigliata, da benefici qual si voglia che non siano quelli specifici ed esclusivi di una maggiore forza e organizzazione nel raggiungimento dell’obiettivo di attacco che, tutti insieme, ci si era prefisso. È quindi più che logico aspettarsi che questi organismi non raggiungeranno mai una composizione quantitativa elevata e tanto meno stabile. Quando ci si prepara alla lotta sono sempre pochi coloro che vedono l’obiettivo da raggiungere, lo condividono e, in più, sono disposti a mettersi a rischio. Quando la lotta inizia, e si hanno i primi risultati, anche i tentennanti e i deboli sono invogliati a partecipare, ed ecco che il nucleo s’ingrossa, per vedere poi la sparizione di questi partecipanti dell’ultima ora, fatto di per sé del tutto fisiologico che non deve impressionare negativamente, o avallare un giudizio negativo su questo strumento specifico di organizzazione di massa. Altro punto di incerta comprensione è la limitata vita del nucleo autonomo di base, limitata al raggiungimento (o all’accordo comune su di una impossibilità di raggiungimento) dell’obiettivo prefissato. Molti si chiedono: se i nuclei funzionano “anche” come punti di raggruppamento, perché non lasciarli in vita per un altro possibile utilizzo futuro, diverso da quello in atto? La risposta è ancora una volta legata al concetto di “informalità”. Ogni struttura che persiste nel tempo al di là dello scopo che l’ha vista nascere, se per sua condizione essenziale di esistenza aveva quello scopo e non una generica difesa ad ampio raggio di coloro che vi partecipano, si rattrappisce prima o poi in una struttura stabile che capovolge lo scopo iniziale in quello nuovo, e apparentemente legittimo, di una crescita quantitativa, di un irrobustimento per meglio raggiungere una molteplicità di scopi, tutti ugualmente interessanti, che non mancheranno di presentarsi all’orizzonte nebuloso degli esclusi. Parallelamente al radicarsi della struttura informale in una sua nuova forma stabile, si troveranno gli individui adatti che gestiranno questa struttura, sempre quelli, i più capaci, con maggiore tempo a disposizione, insomma, prima o poi il cerchio si chiuderà attorno ad una struttura, sedicente rivoluzionaria e anche anarchica, la quale avrà però scoperto così il suo vero e unico scopo: la propria sopravvivenza. Anche la forma più rarefatta di potere, quale è appunto quella che stiamo vedendo formarsi nella “stabilità” di una struttura organizzativa, sia pure anarchica e rivoluzionaria, attira moltissimo, naturalmente tutti compagni in buona fede, tutti desiderosi di fare il bene del popolo, e di questo passo, ecc. ecc. Un ultimo elemento organizzativo, che a volte può rendersi indispensabile, è il “coordinamento dei nuclei autonomi di base”. Questa struttura, avente le medesime caratteristiche di informalità, è costituita da alcuni rappresentanti dei nuclei di base e quasi sempre è indispensabile che venga dotata di mezzi adeguati allo scopo da raggiungere. Se i singoli nuclei, data la loro funzione di “polmone” possono avere una informalità anche riguardo l’assenza di una sede, di un luogo dove riunirsi, in quanto il nucleo può mettersi d’accordo per ritrovarsi direttamente in piazza, ciò non può accadere per il coordinamento, che necessita di un locale aperto ufficialmente che, nel caso di una lotta che si protrae nel tempo, per mesi o per anni, e che coinvolge un territorio abbastanza ampio, per quanto circoscritta dalla specificità del problema che ha generato il progetto, diventa il luogo in cui si coordinano le diverse attività dei nuclei di base. La presenza dei gruppi di affinità non è direttamente visibile nel coordinamento, e lo stesso può dirsi per quello che riguarda l’organizzazione informale. Naturalmente tutti i compagni anarchici impegnati nella lotta sono presenti nei diversi nuclei di base, ma quasi sempre qui non è certo il luogo migliore per la propaganda anarchica intesa in senso classico. Quello che all’interno del coordinamento, e dei singoli nuclei, va fatto, prima di ogni altra cosa, è un chiarimento analitico del problema di fondo, dello scopo che si vuole raggiunge, poi un approfondimento dei mezzi insurrezionali da impiegare nella lotta. Il compito dei compagni si concretizza nella partecipazione al progetto e nell’approfondimento, insieme a tutti gli interessati, dei mezzi da utilizzare, dei metodi da impiegare. Pur se la cosa sembra semplice nella presente schematizzazione, nella pratica si rivela molto complicata. La funzione del “coordinamento dei nuclei autonomi di base” è quindi quella del raccordo delle lotte. Qui si suggerisce solo un problema (estremamente indigesto per gli anarchici, ma molto semplice per chi non è anarchico): la necessità nel caso di un attacco di massa contro strutture del potere, di distribuire i singoli compiti prima dell’attacco stesso, cioè di mettersi d’accordo, nei minimi dettagli, su quello che bisogna fare. Molti immaginano queste occasioni di lotta come la festa della spontaneità: l’obiettivo è lì davanti a tutti, basta andare, sbaragliare le forze che lo presidiano, distruggerlo. Metto qui la cosa in questi termini, anche se so che molti vi vedranno cento sfumature diverse, ma la sostanza non cambia. In questi casi, o tutti i partecipanti hanno in mente, in modo preciso, cosa fare, trattandosi di una lotta che bene o male si svolgerà in un territorio e avrà di fronte una resistenza armata da superare, oppure se soltanto alcuni sanno cosa fare e il resto no, la confusione che ne verrà fuori sarà la stessa, se non peggio, del caso in cui nessuno sappia cosa fare. Occorre quindi un piano. Ci sono stati casi in cui occorreva un piano militare armato anche per distribuire un volantino (ad esempio, nel corso dell’insurrezione di Reggio Calabria). Ma questo piano può veramente essere messo a disposizione di tutti, sia pure qualche giorno prima dell’attacco? Io penso di no. Ci sono delle ragioni di cautela che dicono di no. Per un altro verso, i dettagli del piano di attacco devono essere messi a disposizione di tutti i partecipanti. Se ne ricava che non tutti possono partecipare, ma solo coloro che risultano in qualche modo conosciuti, sia per la loro appartenenza ai nuclei autonomi di base, sia per la loro appartenenza ai gruppi di affinità che tramite l’organizzazione informale si sono trovati a fare parte del coordinamento. Ciò allo scopo di evitare quelle infiltrazioni da parte degli organi di polizia e dei servizi segreti che in questi casi sono più che probabili. Le persone non conosciute dovrebbero essere garantite da altre conosciute. Il fatto può essere spiacevole, ma non è evitabile. Il problema si complica quando il progetto in corso, sia pure nelle sue grandi linee, è a conoscenza di molti compagni, i quali possono essere interessati a partecipare a una di queste azioni di attacco di cui stiamo discutendo. In questo caso, l’afflusso potrebbe essere considerevole (nel caso di Comiso, nei giorni del tentativo di occupazione, si arrivò ad una presenza di circa trecento compagni provenienti da tutta l’Italia e anche dall’estero) e la necessità di evitare la presenza di infiltrati molto più grave. I compagni arrivati all’ultimo momento potrebbero così trovarsi estranei all’organizzazione in atto dell’azione e non riuscire a capire cosa succede. Allo stesso modo, finiscono per trovarsi di fatto estranei, tutti coloro che decidono di non accettare la verifica di cui sopra. E adesso due domande conclusive: Perché consideriamo la metodologia e il progetto insurrezionali come i mezzi più adeguati allo scontro rivoluzionario oggi? Che cosa ci aspettiamo possa derivare dall’impiego di mezzi insurrezionali in una situazione che non è quella dell’insurrezione in atto? Per quel che riguarda la prima domanda, l’analisi della formazione sociale ed economica oggi fa capire come questi mezzi siano i più idonei, rendendo o impossibile, o utile solo alla ristrutturazione del dominio, ogni lotta condotta a partire da strutture di sintesi che riproducono, nel piccolo come nel grande, tutti i difetti delle forme partitiche del passato. La più gran parte di questo libro cerca di approfondire questo problema. Alla seconda domanda si può rispondere dicendo che non si conoscono quali sono le condizioni a priori che permettono lo sviluppo di una insurrezione. Qualsiasi occasione potrebbe essere quella buona, anche se si tratta di un piccolo esperimento apparentemente trascurabile. Ma c’è di più, sviluppare un progetto di lotta insurrezionale, svilupparlo a partire da un problema specifico, che sta operando in profondità come fatto repressivo a danno di masse considerevoli di esclusi, non è un semplice “esperimento”, è insurrezione in corso, senza con questo volere ingigantire quello che piccolo inizia e quasi certamente piccolo finisce per restare. Ciò che conta è il metodo, e gli anarchici, in questa direzione, hanno ancora molta strada da percorrere, altrimenti non si troverebbero impreparati di fronte agli appuntamenti con le tante insurrezioni di tutto un popolo che si sono verificate e si continuano a verificare. In fondo questo libro è un contributo al grande problema del “Che fare?”.
Catania, 21 novembre 1998 Alfredo M. Bonanno ** Esclusi e inclusi Fine delle ideologie, ma non del tutto. Nessun apparato politico ne potrà mai fare a meno completamente. Le trasformazioni sostanziali nella struttura produttiva del capitale, trasformazioni che, a livello mondiale, si sono verificate negli ultimi dieci anni, hanno improvvisamente svuotato di significato quasi tutte le coperture ideologiche esistenti. Con ciò non si può dire che la funzione politica, come azione gestionaria e repressiva dello Stato, sia diventata più aderente ai reali bisogni delle persone. Subito dietro i vecchi fantasmi ne sono sopraggiunti altri, dei quali non sembra agevole individuare le caratteristiche, essendo per altro coperture ideologiche ancora in formazione. Possiamo solo dire, allo stato attuale delle cose, che il loro obiettivo è quello di sempre, premere sui sentimenti e sugli istinti irrazionali, per sollecitare comportamenti favorevoli al mantenimento dell’ordine imposto dalla classe dominante. Fra i movimenti più immediati, balzati subito al centro delle cronache, c’è il vecchio miraggio della libertà, imbalsamato nelle trappole logiche dell’antico liberalismo, e rispolverato in tutta fretta per dare fondamento alle più bieche operazioni di gestione dei nuovi mercati all’Est. Che ogni liberalismo si basi su di una discriminazione precisa tra due categorie di persone, quella che può godere dei diritti umani, politici in primo luogo, ma anche più immediatamente concreti come ad esempio quello alla vita, e quella che questi diritti li ha in maniera ridotta, quindi suscettibile di eventuale sospensione o soppressione. Storicamente non occorre qui ricordare che Locke, paladino della libertà politica, doveva la sua fortuna privata agli investimenti fatti nelle compagnie inglesi che lavoravano da quasi un secolo nella tratta degli schiavi, e che la stessa rivoluzione inglese, da cui era nata l’idea di liberalismo politico, aveva considerato una grande conquista la vittoria sulla Spagna in quanto con la pace di Utrecht aveva ottenuto la distruzione del monopolio spagnolo della tratta degli schiavi e iniziato in proprio e su vasta scala questa lucrosa attività. In realtà, osservando bene, la nuova copertura ideologica, così come sta per essere velocemente predisposta, alla meno peggio, dalle organizzazioni accademiche che se ne occupano, consiste in un innesto dell’antica ipocrisia liberale nel corpo sociale che oggi appare quanto mai disgregato. Di quelle antiche chiacchiere una sola cosa diventa importante, e di fatto lo è al di là di ogni dubbio. Gli uomini sono uguali solo in linea di principio, in pratica sono divisi in due categorie, quelli che hanno diritti e quelli che non ne hanno. Quando, per diritti qui s’intende la possibilità sostanziale di accedere alle fonti della ricchezza, di determinare movimenti trasformativi atti a ridurre le differenze nella distribuzione del reddito, in altre parole, tutto quello che permette di sperare in un avvenire migliore e meno difficile del presente. Che questi nuovi movimenti politici, in pratica orientati a livello mondiale verso una fase di apertura gestionaria, definibile come possibile partecipazione degli strati inferiori alle condizioni di vita degli strati superiori, possano determinare una riduzione dell’apparato di potere complessivo degli Stati, resta da verificare, mentre per un altro verso è in atto l’effetto ideologico di questa prospettiva, effetto che contribuisce a creare le condizioni migliori per la strutturazione produttiva del mondo in una prospettiva postindustriale. Il punto essenziale di questo processo è che soltanto una parte, e ben ristretta, dei produttori potrà accedere a condizioni di vita umane, intendendo per condizioni umane una sempre più ampia corrispondenza tra occasioni offerte dal sistema statale e capitalista nel suo insieme e possibilità di sfruttarle. Il resto, la grande maggioranza, dovrà trovare posto nella separazione, in quel lavoro “sporco” che gli antichi liberisti, come ad esempio Mandeville, accomunavano a quello degli schiavi. Non “sporco” nel senso dell’antico abbrutimento fisico, ma “sporco” nel senso vero e proprio del termine, nel senso cioè che sporca l’intelligenza, abbrutendola, abbassandola, riducendola a livello delle macchine, snaturandola della qualità più caratteristica dell’uomo, l’imprevedibilità. In questo contesto, in cui l’ammodernamento ideologico cammina di pari passo con le profonde trasformazioni nella struttura produttiva, per cui ne viene fuori un sistema coordinato di processi reali e immaginari tutti basati, sincronicamente, sulla flessibilità, sull’adattamento, sulla discussione democratica e assembleare, e sul rifiuto critico di ogni autorità che non sia quella efficientista, l’antica funzione dello Stato, accentratore della gestione e della repressione, è destinata ad affievolirsi. E questo affievolimento è nell’ordine delle cose, nello spirito dei tempi, se così vi piace. Ma qui occorre chiedersi: È questo affievolimento un fatto positivo? La risposta, almeno per gli anarchici, dovrebbe essere positiva. E tale sarebbe stata se non fossero incorsi, in tempi recentissimi, riflessioni che ci pare utile sottolineare qui. Cominciamo con gli aspetti positivi. Ogni riduzione nella potenza degli Stati è un movimento positivo che rende possibili maggiori spazi di libertà, sia pure ridotti, più consistenti movimenti di difesa, attese di tempi migliori, sopravvivenze se si preferisce, ma anche forme organizzative di lotta che i grandi colossi repressivi distruggono invece con facilità. Partecipare alle lotte che disgregano gli Stati è quindi un movimento positivo, e in questo ambito le lotte di liberazione nazionale sono state, purtroppo non sempre, occasioni per intaccare la monoliticità del potere e per proporre possibili linee di divergenza sociale, alternative in grado di dimostrare praticabili percorsi differenti. Spesso tutto ciò è stato travolto dal sopraggiungere di movimenti più consistenti, ristrutturazione capitalista in primo piano, sconvolgimenti imperialisti nella ripartizione del potere a livello mondiale, meccanismo dello sviluppo ineguale, ecc. Allo stato attuale delle cose, altre considerazioni si sovrappongono alle precedenti. Non che queste siano tali da farci considerare in modo negativo le lotte di liberazione nazionale e tutti i movimenti che in un modo o nell’altro concorrono a disgregare gli Stati accentratori del passato, ma si tratta comunque di considerazioni che pongono il problema su altre basi, più adeguate ai tempi in cui viviamo. Prima di tutto c’è da considerare i flussi internazionali che equilibrano i differenti apparati repressivi e produttivi dei singoli Stati all’interno di accordi che prevedono unioni più o meno intime, più o meno ibride, comunque sufficienti a garantire quella circolazione di dati su cui si basa, in definitiva, ogni struttura di controllo e di ordine interno. Queste superstrutture si allargheranno nei prossimi anni fino a ricostituire, su linee non tanto diverse dalle precedenti, divisioni del mondo che abbiamo già visto. Per quanto queste nuove forme divisorie si presentano imballate in carta ideologica del tutto diversa, assolvono al compito di riconsegnare l’antica potenza statale alle attuali forme in via di disgregazione. Si potrebbe ipotizzare, e non a torto, che l’elaborazione del nazionalismo come elemento ideologico connettivo di alcuni processi di disgregazione, sia uno strumento non tanto stupido messo in campo a bella posta per consentire modificazioni di struttura altrimenti impossibili. Non c’è dubbio che l’assetto produttivo mondiale oggi non tollera la presenza di grandi Stati accentrati, quindi troppo elefantiaci nei rapporti col capitale che invece guadagna sempre più in capacità di velocizzazione dei processi produttivi. In secondo luogo, occorre tenere conto della necessità di adeguare lo strumento democratico di reperimento del consenso alle mutate condizioni produttive. Se quest’ultime producono un individuo dequalificato, che la salarizzazione precaria rende instabile non solo come capacità lavorativa ma come composizione psichica, intesa quest’ultima nel senso più largo del termine, se questo individuo, come elemento della società, della famiglia, della categoria lavorativa; dell’ambiente di svago cui appartiene, insomma in una parola, come elemento sociale, è mantenuto costantemente in condizioni di instabilità, non può poi essere obbligato a rapportarsi con una monolitica burocrazia statale che appare oggi più che mai roba d’altri tempi. Così, man mano che vengono sottratti al singolo, specialmente attraverso la scuola, gli strumenti di qualificazione culturale che avrebbero dovuto trasformarlo definitivamente da suddito in cittadino di uno Stato democratico, gli apparati statali si democraticizzano, chiamando il suddito – che tale comunque resta il cosiddetto cittadino dei diritti e delle libertà costituzionali – alla massima collaborazione. D’altro canto, non sarebbe stata possibile una ristruttura democratica degli Stati moderni senza un appiattimento qualitativo dei singoli individui, senza la rottura delle tradizionali forme organizzative del proletariato e, principalmente, senza l’annientamento di quell’unità di classe che in passato aveva dato frequenti segni di sé in movimenti se non proprio rivoluzionari, comunque capaci di frenare e disturbare i processi accumulativi del capitale. Infine, occorre considerare il fatto che questi movimenti disgregativi operano a due livelli, di cui soltanto il secondo appare interessante da un punto di vista rivoluzionario. Il primo di questi livelli è quello ufficiale, promosso dalla classe media dei paesi più avanzati, avente lo scopo di ricostituire su basi più accettabili, in funzione dei nuovi processi produttivi del capitale, le vecchie strutture monolitiche degli Stati. E queste basi appaiono disgregate a confronto con le precedenti amministrazioni, anche perché devono per forza essere più smaliziate dal punto di vista ideologico. Questo movimento ufficiale di disgregazione degli Stati affonda le sue radici ben in profondità, muovendo da quella tesi regionalistica che faceva del decentramento amministrativo, e sotto certi aspetti anche politico, la chiave di volta di un sistema statale rigenerato e più efficiente. Il sostanziale fallimento del regionalismo, in Stati come l’Italia, buon esempio in questo campo, non deve fare illudere riguardo una inversione di tendenza. Le classi dominanti hanno bisogno di fare illusoriamente partecipare quelle dominate alla gestione della cosa pubblica. Si tratta di un bisogno vecchio quanto il mondo, ma che in questi ultimi decenni è diventato non solo una facciata spudoratamente e continuamente violata, ma una realtà imprescindibile. Il leghismo italiano, fenomeno che tanto interesse riscuote oggi non solo in Italia, deve ricondursi a questo indirizzo verso la disgregazione degli Stati monolitici del passato, e può quindi ritenersi l’erede e l’estremo razionalizzatore del vecchio regionalismo. Il passaggio tra questi due modi di gestire la cosa pubblica non è però continuo, nel senso che esiste una frattura, forse non molto importante dal punto di vista di chi considera gli Stati comunque e in ogni caso come il nemico da abbattere senza andare tanto per il sottile, ma importante per chi cerca di capire meglio la composizione del nemico per individuarne i punti deboli: e questa frattura si colloca proprio nell’innesto ideologico operato sulla semplice ed ovvia constatazione che le classi agiate delle regioni più ricche dal punto di vista economico avrebbero da guadagnare a gestire in proprio uno Stato in formato ridotto. D’altro canto, questo innesto ideologico si è rivelato, come sempre, indispensabile per coinvolgere la gente a livello emotivo, scaricando le frustrazioni delle grandi masse, che in ogni caso sono ben lontane dal benessere delle ristrette classi dominanti, sui classici simboli della diversità: il nero, l’ebreo, l’immigrato, il ladro, il violento, oppure costruendo miti nazionalistici che qualche volta rasentano il ridicolo. Ma in queste cose il ridicolo, lungi dall’essere elemento negativo, nella generalizzata assenza di luce critica, diventa elemento di coesione e di forza connettiva all’interno delle grandi masse. Questo livello di disgregazione, pilotato e gestito dalle classi dominanti, le quali hanno tutto l’interesse a costruirsi zone privilegiate, possibili castelli teutonici all’interno dei quali arroccarsi per amministrare la loro condizione privilegiata di inclusi, tenendo a distanza e gestendo, con lo strumento principe dell’ignoranza, la costante pressione degli esclusi, si manifesta oggi a livello europeo e potrebbe domani assumere dimensioni mondiali. La disgregazione dell’impero sovietico ha determinato la più colossale spinta verso questo tipo di particolarismo, accentuandosi nelle regioni dove la specificità etnica non era stata cancellata in quarant’anni di comunanza forzata. Ed è questa specificità che si è fatta carico, quasi sempre, di sviluppare e adeguare alle condizioni del conflitto di classe in corso, l’elemento ideologico, fino a farlo pervenire alle esacerbazioni di ferocia e brutalità che è possibile vedere in atto nella ex Jugoslavia. Pur nelle diverse situazioni, e quindi malgrado l’estrema varietà dei comportamenti dei singoli Stati, emerge un andamento sufficientemente chiaro, che si può riassumere nell’ipotesi di disgregamento pilotato, oppure di passaggio dolce ad un altro tipo di gestione della cosa pubblica. La ricetta per questo passaggio è complessa ed in ogni caso, senza scendere troppo in particolari, si compone di un elemento amministrativo e di uno ideologico. Questi due elementi si compenetrano e si sostengono a vicenda, generandosi uno dall’altro, senza che né l’uno, né l’altro possano escludere eventuali ricorsi a strumenti repressivi e a gestioni temporanee del potere che oggettivamente potrebbero essere visti come un ritorno all’antico. Il pragmatismo politico non arretra davanti a piccolezze di questo genere. Ma resta l’altro livello della disgregazione, quello che entra nella testa della gente, che opera a livelli individuali, e che lo Stato non può evitare perché obbligato a gestire la disgregazione stessa e impossibilitato a proporre modelli di comportamento e scale di valori del passato. L’unico limite che può opporre a questo venir meno del senso dello Stato è la segregazione culturale, molto più rigida ed efficace di quella fisica che siamo stati abituati a vedere in passato. Un apartheid senza precedenti, invalicabile perché fondato sull’assenza del desiderio, in quanto non si può desiderare quello che non si conosce. Ma, per il momento, e non è prevedibile fino a quando, questa disgregazione è in atto ed è parallela al venire meno del connettivo ideologico, positivo per i paesi dell’Est e negativo per il blocco occidentale, cosiddetto anticomunista. La funzione che l’internazionalismo proletario aveva nell’URSS o in Cina, faceva da contrappeso alla paura del comunismo alimentata dagli interessi padronali dell’Occidente. Scomparso tutto ciò, alle grandi illusioni subentrarono le piccole illusioni, fantasmi su scala ridotta che in qualche caso sono stati messi in opera, come per i diversi nazionalismi operanti di fatto sulla scena europea, e in qualche altro caso sono ancora in cantiere. Non è priva d’importanza qualche riflessione sugli elementi che si trovano all’interno di questa erosione disgregativa dal basso, oggi operante negli Stati, non solo in quelli a capitalismo avanzato. Cominciamo con il tramonto dell’idea di progresso. Questo concetto, di origine illuminista, apparentemente, secondo le chiacchiere liberiste, doveva fondare lo Stato costituzionale prima e democratico poi, consentendo a tutti di contribuire al miglioramento della cosa pubblica. Solo che le illusioni del progresso, per usare il titolo di un famoso libro di Georges Sorel, servivano proprio ad alimentare le speranze di miglioramento, sia quelle a breve termine, di natura riformista, sia quelle a lungo termine, di natura rivoluzionaria. Abbracciati insieme nella medesima fantasticheria, rivoluzionari e politici riformisti condividevano l’attesa di un avvenire migliore, garantito dal movimento oggettivo della storia. Questa idea, lungi dall’essere vacua esercitazione di spiriti perdigiorno, alimentava in milioni di uomini sogni di futura abbondanza universale, di presa nel mucchio, mischiando nello stesso canestro utopia e pragmatismo gestionario. Tutto questo è finito, ed ha aggiunto tassello a tassello alla disgregazione in corso. Su questo punto, le ideologie marxiste e liberiste si identificano. Ambedue promettevano abbondanza e lavoro per tutti, consumi generalizzati, anche se differenziati, e crescita economica esponenziale. Poi ci si accorse che la domanda non poteva sostenersi all’infinito e che i consumatori dovevano dividersi in due fasce, quella con accesso ai consumi e quella con una progressiva riduzione dei bisogni fino alla sopravvivenza. Ciò, a livello mondiale, raggiunge chiarezze allucinanti nelle condizioni dei paesi sottosviluppati, dove la gente muore di fame, di malattie, di pestilenze medievali, il tutto in contrapposizione con condizioni di vita privilegiate tipiche della classe dominante. E questi contrasti non sono soltanto lontani nello spazio, circoscritti dal deserto o dalle paludi, ma si trovano fianco a fianco nelle grandi metropoli, che rappresentano forse la prova più evidente del fallimento dell’ideologia progressista. Nell’evolversi continuo delle condizioni sociali in questi ultimi anni si sono accentuati alcuni processi che si possono ormai considerare come veri e propri cambiamenti. La struttura del dominio si è modificata da un rapporto netto di padroneggiamento a discrezione, in un rapporto fondato sull’aggiustamento e il compromesso. Ne è conseguito un aumento notevole della domanda di servizi nei confronti della domanda di beni tradizionali (ad esempio, quelli di consumo durevole). Ciò ha determinato l’accelerazione degli aspetti produttivi fondati sull’informatica e la relativa robotizzazione dei settori produttivi finendo per far prevalere il settore terziario (commercio, turismo, trasporti, credito, assicurazioni, pubblica amministrazione, ecc.) sugli altri settori (industria e agricoltura). Tutto questo non significa che il settore industriale abbia perduto di consistenza o di significato produttivo, ma solo che percentualmente occuperà sempre meno lavoratori, pur restando o anche aumentando gli standard di produzione precedenti. Lo stesso discorso vale anche per l’agricoltura che vedrà una potente accelerazione dei processi di industrializzazione produttiva e che quindi potrà distinguersi dal settore industriale solo dal punto di vista statistico e non sociale. In sostanza, la situazione si prospetta come quella di un “passaggio”, non netto e chiaro, ma come una linea di tendenza. Non esiste uno stacco tra periodo industriale e periodo postindustriale. La fase che attraversiamo è certamente quella dell’oltrepassamento di strutture produttive obsolete che si stanno ristrutturando, ma non è ancora quella della completa chiusura delle fabbriche e dell’instaurazione del regno della produzione computerizzata. La tendenza verso la disgregazione delle unità produttive e verso la sollecitazione di piccoli nuclei indipendenti che applicano fino in fondo la logica dell’autosfruttamento all’interno del progetto produttivo industriale centralizzato, è certamente di già dominante; ma, come si conviene alle caute strategie del capitale, continuerà ad essere accompagnata da lenti aggiustamenti all’interno del settore industriale in senso tradizionale. Questo discorso vale molto di più per una situazione come quella italiana che risulta più arretrata del modello giapponese o americano. Strappati fuori dalle fabbriche, a poco a poco, in un processo lento e irreversibile, i lavoratori di ieri vengono proiettati in un’atmosfera di elevata competitività che cerca con ogni mezzo. di alzare la loro capacità produttiva, unico bene accettabile alla logica computerizzata dei centri produttivi. La conflittualità capitalista polverizzata è quanto di più micidiale esista come elemento capace di spegnere l’altra conflittualità, quella rivoluzionaria, diretta a rendere irrecuperabile la contrapposizione di classe. I maggiori guadagni degli abitanti delle “isole” produttive, la loro apparente maggiore “libertà”, la loro possibilità di autodeterminare l’orario di lavoro, le variazioni qualitative (pur sempre nella logica competitiva del mercato pilotato dai centri che forniscono le ordinazioni), tutto ciò produce il convincimento di essere arrivati alla terra promessa: il regno della felicità e del benessere. Guadagni sempre più alti e “creatività” sempre più esacerbata. E queste isole della morte si circonderanno di barriere ideologiche e pratiche indirizzate, per prima cosa, a ricacciare indietro, nel mare tempestoso dell’impossibile sopravvivenza, tutti coloro che non ne fanno parte. Perciò il problema che si pone è proprio quello riguardante gli esclusi. Dapprima coloro che resteranno al margine. Espulsi dal processo produttivo, penalizzati dalla loro incapacità di inserirsi nella nuova logica concorrenziale del capitale, spesso non disposti ad accettare livelli minimi di sopravvivenza assegnati da un assistenzialismo statale visto, per altro, sempre più come un rudere del passato in una situazione produttiva che tende ad esaltare le virtù dell’uomo che “si fa da sé”. Costoro non saranno soltanto le fasce etnicamente condannate a questo ruolo sociale, ma, con lo svilupparsi del cambiamento sociale di cui discutiamo, vi parteciperanno anche fasce sociali precedentemente avvolte nella soporifera salarizzazione ed ora proiettate in una situazione in veloce e radicale cambiamento. Anche i residui sostegni di cui queste fasce aggiuntive potranno godere (prepensionamento, cassa integrazione, assistenzialismi vari, ecc.), non potranno fare accettare una situazione che si farà sempre più discriminante, anche in termini qualitativi. Non dimentichiamo che il livello di consumo di queste fasce di esclusi non può essere nemmeno lontanamente paragonato con quello dei gruppi etnici mai inseriti nelle zone di salarizzazione. Ciò porterà sicuramente ad esplosioni di “malessere sociale” di tipo diverso che spetterà ai rivoluzionari raccordare con le spinte di ribellione più elementari. Poi ci sono gli inclusi, quelli stessi che soffocheranno nelle “isole” del privilegio. Qui il discorso che minaccia di diventare più complicato si essenzializza solo se si è disposti a dare credito all’uomo e ai suoi reali bisogni di libertà. Saranno proprio i “ritornanti” da questo settore ad essere quasi sicuramente fra i più spietati esecutori della logica dell’attacco contro il capitale nel suo nuovo assetto. Andiamo incontro ad un periodo di sanguinosi scontri e di durissime repressioni. La pace sociale, sognata da un lato e temuta dall’altro, resta il mito più inaccessibile di quell’utopia del capitale che si credeva erede della logica “pacifica” del liberalismo, che puliva il salotto della poca polvere del giorno e massacrava in cucina, che si dava atteggiamenti assistenzialisti in patria e uccideva nelle colonie. Le nuove opportunità di piccole, miserabili, oscene libertà quotidiane saranno pagate da una profonda, crudele e sistematica discriminazione nei confronti di vastissime fasce sociali. Ciò comporterà – prima o poi – all’interno delle stesse fasce privilegiate, la crescita di una coscienza dello sfruttamento che non potrà non causare ribellioni, anche se circoscritte a pochi individui, anche se limitate ai migliori. C’è da dire, infine, che manca nella nuova prospettiva capitalista un forte supporto ideologico come accadeva in passato, capace di dare sostegno agli sfruttatori, specialmente ai quadri intermedi. Il benessere per il benessere è troppo poco, specie per gruppi numerosi di individui che in un passato più o meno recente hanno sperimentato direttamente oppure semplicemente letto di utopie liberatrici, di sogni rivoluzionari e di tentativi (sia pure circoscritti e infelici) di progetti insurrezionali. E questi ultimi non tarderanno a raggiungere i primi. Non tutti gli inclusi vivranno beatamente la felicità artificiale del capitale. Molti di loro si renderanno conto che la miseria di una parte della società avvelena il benessere della parte restante e fa della stessa libertà (circondata da filo spinato) una prigione reale. Il progetto industriale ha assunto, in questi ultimi anni, alcune modificazioni di percorso, anche a seguito dell’innesto dei controlli statali e delle metodologie legate agli interessi politici di gestione del consenso. Vedendo la cosa dal lato tecnico si può osservare come l’organizzazione produttiva sia in corso di trasformazione. Non è più centrale l’attività da svolgersi in un luogo preciso, ad esempio la fabbrica, ma diventa sempre più sviluppata la diffusione nel territorio, anche a notevole distanza. Ciò sta consentendo lo sviluppo di progetti industriali che tengono conto di una migliore ed equilibrata distribuzione delle unità produttive nel territorio, cancellando un aspetto degli squilibri sociali del passato: ghetti e super-concentrazioni industriali, zone ad alto inquinamento e sistematica distruzione degli ecosistemi. Il capitale guarda adesso ad un futuro ecologico, attingendo a piene mani nel grande calderone degli ambientalisti e facendosi propugnatore di una ideologia di salvaguardia delle risorse naturali che fa sembrare possibile la costruzione di una città del futuro dal “volto umano”, socialista o meno. Il motivo reale che spinge il progetto capitalista verso queste lontane terre dell’utopia di ieri è molto semplice e niente affatto filantropico, esso si basa sulla necessità di ridurre al minimo il disagio di classe, smussando la contrapposizione effettiva dello scontro con un mieloso aggiustamento progressivo che si fonda sulla fiducia illimitata nella tecnologia. È ovvio che le proposte più allettanti saranno fatte agli inclusi, anche per evitare – per quanto possibile – le defezioni, che saranno la vera spina nel fianco del domani capitalista in quanto i singoli soggetti che modificheranno la loro progettualità in senso rivoluzionario, se provenienti dall’ambito stesso del processo produttivo, avranno mezzi reali da mettere a disposizione della rivoluzione contro l’egemonia dello sfruttamento. Ma questa speranza sansimonista di governare il mondo attraverso la tecnologia “buona” si rivela, fin da ora, infondata perché non prende in considerazione il problema delle dimensioni fisiche da assegnare al ghetto degli esclusi. Questi ultimi potranno essere riciclati all’interno del progetto-giardino in un miscuglio di felicità e sacrificio, ma fino ad un certo punto. La tensione e le continue esplosioni di rabbia metteranno in serio pericolo l’utopia vogliosa degli sfruttatori. Si vedeva già da prima. I guai della concorrenza e del monopolismo minacciavano di coinvolgere le strutture produttive in una serie di “crisi” ricorrenti. Crisi di produzione, nella maggior parte dei casi. Era infatti essenziale, per la mentalità precedente, raggiungere le cosiddette “economie di scala”, e ciò era possibile solo lavorando volumi sempre maggiori di produzione riuscendo a ripartire al meglio i costi fissi. Da ciò derivava la standardizzazione dei processi produttivi; l’accumulazione in luoghi deputati delle unità produttive, caoticamente distribuite in base ad una logica colonizzatrice (a esempio le “cattedrali nel deserto” siciliane); l’uniformità del prodotto; la parcellizzazione del capitale e del lavoro; ecc. Le prime correzioni sono venute dall’intervento massiccio dello Stato. Le opportunità aperte da questa presenza sono state diverse. Lo Stato, non più spettatore passivo, semplice “cassiere” del capitale, ma operatore attivo, “banchiere” e imprenditore. In sostanza, diminuzione della produzione di valore d’uso e aumento della produzione di valore di scambio in termini di reperimento di pace sociale. Il capitale ha trovato una soluzione parziale, mettendo fine al suo periodo concorrenziale. Lo Stato vi ha prestato mano, in vista di una totale trasformazione della produzione economica in produzione di pace sociale. Quest’ultimo progetto utopico è ovviamente inattingibile. Prima o poi la macchina si spezza. Il nuovo processo produttivo – che è stato definito molte volte come postindustriale – consente un basso costo dei prodotti anche di fronte a lavorazioni di non elevati volumi produttivi; permette modifiche notevoli nella produzione, anche con nessun aumento di capitale; sviluppa possibilità mai viste prima di cambiamenti nella uniformità dei prodotti. Ciò apre orizzonti di “libertà” per le classi medie, per i quadri produttivi, per lo stesso dorato isolamento delle classi dirigenti, orizzonti che prima non erano concepibili. Ma ricorda molto la libertà del castello dei cavalieri teutonici di stampo nazista. Intorno alle mura del maniero, irto di armati, regna soltanto la pace dei cimiteri. Nessuno dei facitori delle ideologie del neocapitalismo postindustriale si è chiesto cosa fare davanti al pericolo che verrà da quella parte. Le future sommosse saranno sempre più sanguinose e terribili. E ancora di più lo saranno quando sapremo come trasformarle in insurrezioni di massa. A produrre la selezione negativa nei confronti di coloro che resteranno esclusi dal castello dei cavalieri teutonici, sarà non solo la disoccupazione vera e propria, ma principalmente la mancanza della reale accessibilità ai dati. Il nuovo modello produttivo dovrà ridurre per forza la disponibilità di conoscenza dei dati. Ciò è solo in parte una conseguenza dell’informatizzazione della società. Maggiormente è una delle condizioni del nuovo dominio, programmate da almeno un ventennio e trovanti il loro culmine nella scuola di massa svuotata, da tempo, di strumenti culturali adeguati. Come ai tempi della rivoluzione industriale l’avvento delle macchine determinò una riduzione delle capacità di autodeterminazione di grandi masse di lavoratori e quindi causò il loro intruppamento negli opifici, distruggendo la precedente cultura contadina e consegnando nelle mani del capitale una forza lavoro praticamente impossibilitata a “capire” il nuovo mondo meccanizzato che si andava profilando; così, adesso, la rivoluzione informatica innestata nel processo di aggiustamento delle contraddizioni capitaliste da parte dello Stato, sta per consegnare il proletariato di fabbrica nelle mani di un meccanismo di nuovo tipo, munito di un linguaggio che sarà comprensibile solo per una minoranza privilegiata. Il resto verrà ricacciato indietro ed obbligato a condividere le sorti del ghetto. Il vecchio sapere, anche quello che era filtrato dagli intellettuali attraverso lo specchio deformante dell’ideologia, verrà codificato in linguaggio macchina e reso compatibile con le nuove necessità. Questa sarà una delle occasioni storiche per scoprire, fra l’altro, lo scarso contenuto reale delle balordaggini ideologiche che ci hanno propinato negli ultimi due secoli. Il capitale tenderà ad abbandonare tutto quello che non sarà immediatamente traducibile in questo nuovo linguaggio generalizzato. I processi educativi tradizionali si svaluteranno sempre più di contenuti mettendo in mostra la loro reale (e selettiva) sostanza di merce. In sostituzione del linguaggio verrà fornito un nuovo canone di comportamento formato da regole più o meno precise e, in linea di massima, costituito da quei vecchi processi di democratizzazione e funzionamento assembleari che il capitale ha di già imparato a controllare perfettamente. Ciò avrà la duplice utilità di mantenere occupati gli esclusi e di farli “partecipare” alla gestione della cosa pubblica. La società computerizzata di domani potrebbe magari avere il mare pulito e una salvaguardia “quasi” perfetta delle limitate risorse dell’ambiente, ma sarebbe una giungla di divieti e di regole, con sommo raccapriccio, introiettata e trasformata in profonda decisione personale di partecipare al bene collettivo. Privi di un linguaggio di orientamento i ghettizzati non potranno più leggere tra le righe delle comunicazioni del potere e finiranno per non avere altro sbocco che la sommossa spontanea, irrazionale e distruttivamente fine a se stessa. La stessa collaborazione degli inclusi disgustati della libertà fittizia del capitale, apportatori rivoluzionari di una sia pur piccola parte di quella tecnologia che saranno riusciti a strappare al capitale, non sarà sufficiente a costruire un ponte o a fornire un linguaggio su cui basare una sapiente e corretta controinformazione. Il lavoro organizzativo delle future insurrezioni dovrà per forza risolvere questo problema, costruire – forse partendo da zero – i termini essenziali di una comunicazione che sta per essere interrotta e che proprio nel momento della chiusura, per reazione spontanea e incontrollata potrebbe dare vita a manifestazioni di una violenza tale che le esperienze del passato impallidirebbero facilmente. Non si deve immaginare il ghetto come la bidonville del passato, manto di arlecchino dei rifiuti del superfluo gettato sulla sofferenza della privazione. Il nuovo ghetto, codificato dalle regole del nuovo linguaggio sarà fruitore – beninteso passivo – delle tecnologie del futuro, ed anche sarà in grado di possedere quelle rudimentali capacità manuali – ridotte all’osso – che consentono di far funzionare gli oggetti i quali più che soddisfare bisogni, sono essi stessi un grande e colossale bisogno. Questi gesti, saranno talmente impoveriti da risultare perfettamente adeguati al complessivo impoverimento della qualità della vita nel ghetto. Anche oggetti di notevole complessità produttiva potranno essere forniti a costi ragionevolmente bassi e pubblicizzati con quel senso panico di esclusività che coinvolge gli acquirenti ormai in preda ai progetti del capitale. Inoltre, mutate le condizioni produttive, non avremo più la ripetizione in serie dello stesso oggetto con notevoli difficoltà (specie in termini di costo) per modificazioni e sviluppi tecnologici, ma avremo (anche all’interno del ghetto) una riproduzione di processi articolati, flessibili, intercambiabili, capaci di utilizzare (a basso costo) le nuove idee di controllo e capaci in modo particolare di incidere sulla stessa domanda, orientandola e realizzando le condizioni essenziali della produzione di pace sociale. Tale apparente semplificazione della vita, sia per gli inclusi che per gli esclusi, tale “libertà” tecnologica lascia sognare oggi gli economisti e i sociologi che – da brave persone quali sono sempre state – si lasciano andare a tratteggiare i lineamenti di una società interclassista, capace di “vivere bene” senza risvegliare i mostri della lotta di classe, del comunismo, dell’anarchia. La caduta dell’interesse per i sindacati e lo svuotamento del significato riformista che queste organizzazioni hanno avuto in passato, il loro diventare semplice catena di trasmissione delle direttive padronali, vengono visti come prove della fine dello scontro di classe e dell’avvento della realtà interclassista, il tutto parallelamente all’avvento della società postindustriale. Ciò non ha senso per diversi motivi che vedremo più avanti. Il sindacalismo (di qualsiasi natura) ha perso il suo significato rivoluzionario (se mai lo ha avuto), ed anche quello riformista, non perché la lotta di classe sia finita, ma perché si sono profondamente modificate le condizioni dello scontro. In definitiva, siamo davanti ad una continuazione con contraddizioni sempre più elevate e irrisolvibili. Schematicamente si possono ricostruire due fasi. Nel periodo industriale prevale la concorrenza del capitale e un processo produttivo basato sulla fabbricazione. Il settore economico più significativo è quello secondario, il quale impiega come risorsa trasformatrice l’energia prodotta e come risorsa strategica il capitale finanziario. La tecnologia di questo periodo è essenzialmente quella meccanica e la figura del produttore di maggiore spicco sociale è quella dell’operaio. La metodologia impiegata nei progetti è quella empirica, la quale si basa sulla sperimentazione, mentre l’organizzazione del processo produttivo nel suo insieme è basata sulla crescita economica all’infinito. Nel periodo postindustriale, verso cui ci avviamo, ma dentro cui non siamo ancora entrati del tutto, specialmente nella situazione italiana, lo Stato prevale sulla concorrenza capitalista ed impone i suoi sistemi di reperimento del consenso e di ordinamento della produzione essenzialmente a scopo di pace sociale. Al modo tecnico della fabbricazione si sostituisce l’elaborazione di dati e la trasformazione di servizi. Il settore economico preminente diventa quello terziario (servizi, appunto), quello quaternario (finanza specializzata), quello quinario (ricerca, tempo libero, educazione, amministrazione pubblica). La principale risorsa trasformatrice è l’informazione la quale risulta costituita da un sistema complesso di trasmissione dati mentre la principale risorsa strategica è data dalla conoscenza che si sostituisce lentamente al capitale finanziario. La tecnologia abbandona la componente meccanica e si trasferisce in quella intellettuale, il tipico elemento che impiega questa nuova tecnologia non è più l’operaio ma il tecnico, il professionista, lo scienziato. La metodologia impiegata nei progetti è fondata sulla teoria astratta e non più sulla sperimentazione, mentre l’organizzazione del processo produttivo è basata sulla codificazione della conoscenza teorica. Tramonto della centralità operaia. Puntando l’attenzione sulla fase produttiva industriale il marxismo considerava fondamentale il contributo della classe operaia alla soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali. Da ciò derivava un profondo condizionamento della strategia del movimento rivoluzionario ispirato agli obiettivi della conquista del potere. Alla base del ragionamento c’era l’equivoco hegeliano, alimentato da Marx, che la contrapposizione dialettica tra proletariato e borghesia fosse estremizzabile rafforzando indirettamente il proletariato attraverso il rafforzamento del capitale e dello Stato. In questo modo, ogni vittoria della repressione veniva letta come anticamera della futura vittoria proletaria. Il tutto in una progressiva visione – tipicamente illuminista – di costruibilità dello “spirito” nel mondo della materia. Con modificazioni senza dubbio interessanti questa vecchia concezione dello scontro di classe è perdurata fino a ieri, almeno in alcuni sogni pieni di incubi che, di tanto in tanto, facevano i sopravvissuti ai vecchi progetti di gloria e di conquista. Sul piano teorico un’analisi critica seria di questa situazione puramente fantastica non è stata mai prodotta. Si è solo convenuto, più o meno concordemente, che la centralità operaia è stata dislocata altrove. Dapprima, timidamente, nel senso di una diffusione della fabbrica nel territorio. Poi, più decisamente. nel senso di una progressiva sostituzione dei processi produttivi terziari al classico secondario. Anche gli anarchici hanno avuto le loro illusioni, ed anche queste sono tramontate. Non hanno mai avuto, per la verità, quella della centralità operaia, però spesso hanno visto fondamentale il ruolo del lavoro, con una posizione trainante dell’industria nei confronti del settore primario (agricoltura). Ad alimentare queste illusioni era l’anarcosindacalismo. Gli ultimi fuochi in questo senso si sono visti con la rinascita e il successivo spegnimento degli entusiasmi per la CNT spagnola risorgente dalle ceneri, e sono stati tanti, alimentati in modo particolare da coloro che oggi appaiono i più radicali intraprenditori delle nuove “vie” dell’anarchismo riformista. La concezione di fondo, che alimentava questa forma di centralità operaia (diversa da quella dei marxisti, ma non tanto diversa quanto comunemente si crede), era l’ombra del partito. Il movimento anarchico, nella sua gran parte, ha agito per tanto tempo come organizzazione di sintesi, quindi con alcune delle pesantezze del partito. Certo, alcuni compagni potrebbero obiettare che queste affermazioni sono troppo generiche, ma non possono negare che la mentalità che regge il rapporto di sintesi che un’organizzazione anarchica specifica stabilisce con la realtà esterna di movimento sia un rapporto vicino a quello classico del “partito”. Le buone intenzioni, da sole, non bastano. Ecco, questa mentalità è tramontata. Non solo nei compagni più giovani che vogliono un rapporto aperto e informale col movimento rivoluzionario, ma, cosa più importante, è tramontata nella realtà sociale stessa. Se le condizioni produttive tipiche dell’industria rendevano ragionevole una lotta sindacalista o una strategia impostata sull’organizzazione di sintesi, oggi, in una realtà profondamente modificata, in una prospettiva postindustriale, l’unica strategia possibile per gli anarchici è quella informale, cioè di gruppi di compagni che si uniscono con obiettivi precisi, in base a scelte di affinità, contribuiscono a creare nuclei di base diretti a raggiungere scopi intermedi e, nel frattempo, costruiscono le condizioni per trasformare le situazioni di sommossa in condizioni insurrezionali. Il partito del marxismo è morto. L’organizzazione di sintesi degli anarchici pure. Quando leggo critiche come quella sviluppata dagli ecologisti sociali, i quali parlano della morte dell’anarchismo, mi rendo conto che si tratta di un equivoco linguistico, oltre che di una scarsa capacità di approfondire i problemi. Quello che è morto per loro – ed anche per me – è l’anarchismo che pensava di essere il punto di riferimento organizzativo della prossima rivoluzione, che vedeva se stesso come struttura di sintesi diretta a riassumere tutte le molteplici forme in cui si concretizza la creatività umana diretta a spezzare le strutture statali di consenso e repressione. Quello che è morto è l’anarchismo statico delle organizzazioni tradizionali, fondate sulle pretese rivendicative e quantitative. La speranza di vedere la rivoluzione sociale come qualcosa che deve necessariamente risultare dalle nostre lotte si è rivelata infondata. Essa può esserci e può anche non esserci. È morto il determinismo, e la legge cieca di causa ed effetto è morta con esso. I mezzi rivoluzionari che impieghiamo, ivi compresa l’insurrezione, non conducono necessariamente alla rivoluzione sociale. Nella realtà non esiste il modello causale tanto caro ai positivisti del secolo scorso. Proprio per questo motivo la rivoluzione diventa possibile. Riducendo i tempi di trasferimento dei dati si ottiene un’accelerazione nelle decisioni. Azzerando questi tempi (come avviene quando si parla di “tempo reale”), le decisioni programmatiche non vengono accelerate, ma trasformate. Sono qualcosa di diverso. Modificando i progetti, anche gli elementi dell’investimento produttivo si modificano trasferendosi dal capitale tradizionale (principalmente finanziario) al capitale del futuro (principalmente intellettuale). La gestione del diverso è uno degli elementi di base del tempo reale. Ma il potere, perfezionando il rapporto tra politica ed economia, frenando le contraddizioni concorrenziali, organizzando il reperimento del consenso, e, cosa molto più importante, programmando tutto ciò in una prospettiva di tempo reale, taglia definitivamente fuori una grossa fetta della società: la parte degli esclusi. La modificazione nella velocità delle operazioni produttive determinerà principalmente una modificazione culturale e linguistica. Ed è qui che si colloca il pericolo maggiore per i ghettizzati. Per negare legittimità al potere e produrre “comportamenti diversificati” occorre avere una comunità di linguaggio, se non proprio di interessi. La stessa cosa faceva il partito e lo stesso facevano i sindacati. La comunità di linguaggio si traduceva in contrapposizione fittizia di schieramenti di classe, caratterizzati dalla richiesta di miglioramenti e dalla resistenza a darli. Ma il chiedere qualcosa presuppone una “comunità” con chi detiene la cosa che si vuole chiedere. Adesso il progetto repressivo globale è diretto a recidere questa comunità. Non facendo ricorso necessariamente alle mura delle carceri speciali, ai quartieri ghetto, alle città satelliti, alle grandi zone industriali; ma, più semplicemente, decentrando la produzione, migliorando i servizi, ecologizzando la mentalità produttiva, pur nella più assoluta segregazione degli esclusi. E questa segregazione si otterrà privandoli progressivamente del linguaggio comune che fino ad oggi essi avevano con l’altra parte della società. Non si saprà più cosa chiedere. Il reperimento del consenso era fondato, in un’epoca ancora definibile come industriale, su di una possibile partecipazione ai benefici produttivi. In un’epoca in cui le possibilità di modificazione del capitale sono praticamente infinite, proprio per realizzare al meglio questa prospettiva, il binomio capitale-Stato avrà bisogno di un linguaggio suo, separato da quello degli esclusi. L’inaccessibilità al linguaggio dominante costituirà una segregazione ancora più efficace dei confini tradizionali del ghetto. La difficoltà sempre crescente di attingere il linguaggio dominante renderà quest’ultimo, via via, sempre più difficile, fino a farlo diventare assolutamente “altro”. Da quel momento esso sparirà dai desideri dell’escluso, rimanendo completamente ignorato. Da quel momento gli inclusi saranno “altro” per gli esclusi, e viceversa Nel progetto repressivo questa estraneità è essenziale. I concetti fondamentali del passato, come quelli di solidarietà, di comunismo, di rivoluzione, di anarchia, trovavano un fondamento propositivo nella riconosciuta importanza del concetto di uguaglianza. Ma per i cavalieri teutonici abitanti del castello, gli esclusi non saranno uomini, ma semplici cose, oggetti allo stesso modo in cui per i nostri progenitori gli schiavi erano semplici cose che si acquistavano e si vendevano. Noi non avvertiamo un sentimento di uguaglianza nei riguardi del cane, e ciò accade perché questo animale si limita ad abbaiare, cioè non “parla” il nostro linguaggio. Per tale motivo possiamo volergli bene, ma lo sentiamo per forza “altro” e non ci diamo molto pensiero della sua sorte, almeno non ce ne diamo a livello dell’insieme di tutti i cani, preferendo affezionarci al cane che ci fornisce i servizi la condiscendenza, l’affetto o la ferocia verso i nemici. Lo stesso accade nei riguardi di tutti coloro che non hanno il nostro stesso linguaggio. Da notare che non bisogna qui confondere “linguaggio” con “lingua”. La nostra tradizione progressista e rivoluzionaria ci ha fatto capire che tutti gli uomini sono uguali, a prescindere dalle differenze di pelle e di lingua. Qui si tratta invece di un possibile svolgimento del progetto repressivo nel senso di sottrarre agli esclusi la possibilità stessa di comunicare con gli inclusi. Riducendo di molto la fruibilità della parola scritta, sostituendo via via i giornali e la carta stampata con la parola trasmessa via cavo, con le immagini, i colori e la musica, il potere di domani potrebbe costruire un linguaggio adatto solo agli esclusi, i quali, a loro volta, elaborerebbero diversi modi, anche creativi, di riproduzione linguistica, ma sempre all’interno del proprio codice, del tutto tagliati fuori da ogni contatto col codice degli inclusi, e quindi da ogni possibile comprensione del mondo di quest’ultimi. E dalla mancanza di comprensione al disinteresse e alla chiusura mentale, il tragitto è breve. In questo senso il riformismo è sulla strada per morire. Non saranno possibili “rivendicazioni”, perché non si saprà cosa rivendicare di ciò che appartiene ad un mondo che ha cessato di interessarci o di dirci qualcosa di comprensibile. Tagliati fuori dal linguaggio degli inclusi, gli esclusi saranno di conseguenza tagliati fuori anche dalla tecnologia elaborata dai primi. Vivranno forse in un mondo migliore, più respirabile, con meno pericoli di conflitti apocalittici, con un progressivo affievolirsi delle tensioni su base economica, ma con un aumento delle tensioni su base irrazionale. Dalle zone più periferiche del pianeta, dove la penetrazione del progetto di sfruttamento malgrado il suo “tempo reale” troverà sempre ostacoli di natura etnica e geografica; alle zone più centrali, dotate di un più avanzato grado di rigidità nella divisione di classe, ci si allontanerà dalla conflittualità su base economica verso una conflittualità di natura irrazionale. Gli inclusi e i loro progetti di controllo potranno perseguire lo scopo di ottenere consenso riducendo le difficoltà economiche degli esclusi, potranno anche fornire loro linguaggi prefabbricati diretti all’utilizzo parziale e sclerotizzato di una parte della tecnologia dominante, potranno anche permettere una migliore qualità della vita, ma non potranno impedire gli scoppi di violenza irrazionale, quella che nasce dal sentirsi inutili, dalla noia e dalla mortale atmosfera del ghetto. I movimenti di massa che tanto impressionano alcuni nostri compagni oggi, tenendoli desti per la loro pericolosità (e inutilità, a loro dire), indicano lo sviluppo più ragionevolmente prevedibile delle lotte di domani. Molti giovani non sono più in grado – praticamente da adesso – di pervenire ad una valutazione critica della situazione in cui si trovano. Privati di quel minimo di cultura che una volta la scuola forniva, bombardati da messaggi fondati su contenuti di violenza gratuita e senza scopo, sono spinti in mille modi verso una ribellione inconsulta, irrazionale, spontanea e priva di quegli obiettivi “politici” che le generazioni precedenti credevano di vedere chiaramente. I “luoghi” di queste esplosioni collettive e i modi sono molto diversi. Le occasioni anche. In ogni caso però è ripercorribile all’indietro un tragitto di insofferenza alla gestione di morte che l’accoppiata capitale-Stato vuole imporre. È del tutto inutile spaventarsi davanti a simili manifestazioni perché mancanti di quelle chiavi di lettura che la tradizione ci aveva insegnato essere l’elemento indicatore delle istanze rivoluzionarle nei movimenti di massa. Non si tratta di spaventarsi ma di passare all’azione prima che sia troppo tardi. ** Trasformazioni nel mondo del lavoro e nella scuola Il convincimento che la programmazione di un incremento costante del benessere collettivo attraverso l’espansione della domanda è qualcosa di illusorio e di impossibile, scuote tutte le aspettative materiali, rinviando all’infinito un ingresso dei gruppi marginali nell’area dei consumi significativi. Si scopre con orrore che al contrario si assiste ad un restringimento di questa area, ad una riduzione delle capacità statali di assicurare un benessere accettabile, mentre sempre più ampi strati di popolazione premono dai confini degli imperi, facendo precipitare ogni ricetta a medio termine in periodici fallimenti prontamente riverniciati con definizioni di speranzoso possibilismo. I programmi monumentali si rivelano imbrogli politici di bassa lega. Non solo non si è in grado di risolvere il problema della povertà attraverso i grandi lavori di ristrutturazione sociale, ma ci si scopre deliberatamente non desiderosi di risolverlo. Gli Stati Uniti, come paese più ricco, mettono così in mostra la piaga di un triste futuro per le loro masse proletarie ormai sulla strada della desalarizzazione e dell’emarginazione. In un mondo che si concretizza sempre più come circolazione di notizie e gestione d’informazione, il divario tra ricchi e poveri anziché diminuire aumenta, e questo abisso ormai incolmabile si presenta molto più ampio proprio nelle condizioni statali più salde e monolitiche, quelle in cui il processo di decentramento è ancora fermo agli aspetti formali. Un immenso universo di derelitti si diffonde a macchia di leopardo dappertutto, coprendo con spaventose chiazze di miseria radicale anche zone che prima venivano considerate sviluppate, centri del mondo degli affari e della circolazione delle idee. Le metropoli registrano il punto di rottura estremo di questo universo concentrazionario all’interno di un movimento continuo e ininterrotto delle comunicazioni. Ci si scopre così abbandonati a se stessi in mezzo alla gente, isolati nel deserto contenuto nello stesso villaggio globale. Non solo un problema di benessere economico. Importante è anche il fallimento di tutte le promesse di libertà, di tutte le speranze alimentate riguardo una definitiva affermazione della dignità dell’uomo, di qualsiasi razza e di qualsiasi condizione sociale. I valori che alitano nel villaggio globale sono tutt’altro che universali, sono valori della separazione, della ghettizzazione, della ripetizione all’infinito di tutti i luoghi comuni che hanno costruito barriere e reso possibili la concentrazione coatta. Anzi, da più parti, sia da destra che da sinistra, vengono fuori argomentazioni che dichiarano inopportuni i valori universali, validi per tutti, concetti come quello di uguaglianza, reale e non fittizia, vengono criticati spesso con poco discernimento. Nella difesa delle differenze, da una parte, si marcano le affinità che potrebbero solidificare reazioni adeguate al di là dei vecchi schemi di classe; dall’altra parte si esacerbano diversità che tali non sono, come quelle fra nazioni e popoli, sottoscrivendo qualche volta discorsi che sembravano sepolti da più di quarant’anni. In questo calderone nessuna prospettiva statale accentratrice e forte appare accettabile, e la gente ne ha preso definitivamente coscienza. Uno dei sintomi, e per altri aspetti forse anche una delle cause, di questa disgregazione dal basso del senso dello Stato, è da ricercarsi nella crisi della cultura umanistica, fondamento tradizionale di ogni Stato forte. L’incredibile abbassamento qualitativo della preparazione scolastica, compresa quella universitaria, raggiunge livelli insospettabili proprio nelle facoltà umanistiche e il massimo grado nei paesi con il più alto livello di sviluppo industriale. La cosa non è affatto compensata da un, per altro trascurabile, aumento della cultura tecnologica, e in ogni caso quest’ultima cultura, quand’anche fosse identificabile in un modello di vita e di pensiero, come lo era la vecchia cultura umanistica, non sarebbe adeguata ad uno Stato forte e amministrativamente unitario. Questa condizione reale di disgregazione del senso dello Stato può essere molto interessante per un anarchico, quando quest’ultimo fosse realmente in grado di uscire dalle pastoie storiche di una concezione rivoluzionaria aggregativa ormai superata. Nello stesso tempo, questa condizione resta terreno per la proliferazione di una miriade di movimenti politici imperniati attorno a singoli argomenti, incapaci di fornire una visione globale della vita e della società, come è appunto l’anarchismo. Sul terreno della rinuncia allo Stato tradizionale operano pertanto molti referenti che restano comunque politici, i quali hanno il solo scopo di accompagnare nell’ambito della gestione della cosa pubblica le profonde trasformazioni produttive del capitalismo a livello mondiale. Ma questo è un altro discorso. *** a) Rapporti tra inflazione e occupazione L’inflazione è stata definita in molti modi che sono riassumibili nella semplice constatazione di una tendenza alla crescita del livello generale dei prezzi. Per il pensiero economico neoclassico (fino agli anni Venti) l’inflazione era ristretta solo al caso del totale collasso monetario (ad esempio, la Germania dopo la prima guerra mondiale), in cui gli aumenti dei prezzi sono fuori di ogni misura e progressione logica. L’andamento normale dei prezzi era considerato un andamento di riequilibrazione del mercato che, in questo modo, bilanciava con fasi di diminuzione i periodi favorevoli in cui i prezzi trovavano improvvisi rialzi. Dopo la seconda guerra mondiale l’aumento dei prezzi è stato invece un fenomeno ininterrotto, parallelo all’aumento dei redditi monetari. Gli economisti neoclassici pensavano che, nonostante i continui disequilibri e allontanamenti dal livello della piena occupazione, nel sistema esistesse una tendenza spontanea verso il ritorno all’equilibrio a causa della presenza di una serie di meccanismi automatici funzionanti come correttivi. Tra questi meccanismi ipotizzavano l’effetto del movimento dei prezzi. Essi dicevano che in un sistema economico con eccessi di offerta, e quindi con tendenza all’aumento della disoccupazione, una caduta dei prezzi (a seguito dell’aumento dell’offerta di prodotti), avrebbe determinato un ritorno alla piena occupazione (a seguito della diminuzione dei salari). In realtà le cose andavano diversamente. La flessione dei prezzi portava ad una riduzione dell’attività economica, da cui una diminuzione della domanda di acquisti (a causa della diminuzione delle linee di salario disponibili, cioè dell’aumento della disoccupazione), la qual cosa non spingeva ad un ripristino dell’occupazione a livelli ottimali, ma, al contrario, verso una sempre più grave disoccupazione. Keynes fu il primo a pensare che solo con un intervento dello Stato si poteva correggere la situazione. Egli dimostrò il rapporto che passa tra la domanda, il livello dei redditi e l’occupazione. In questo modo, agendo sull’occupazione si agiva sulla domanda la qual cosa aveva effetti di spinta sulla produzione e si avviava un meccanismo che tendeva alla piena occupazione. Il pensiero di questo economista inglese si sviluppò davanti agli eventi che coinvolsero il capitalismo degli anni Trenta, quando si ebbe una forte disoccupazione in un contesto che non faceva prospettare agli imprenditori possibili investimenti futuri nemmeno con una forte diminuzione dei costi (caduta dei salari, abbassarsi del tasso di interesse sui prestiti di capitali) e ciò perché essi avevano la quasi certezza di non vendere i loro prodotti La disoccupazione oggi ha caratteristiche diverse da quella degli anni trenta. Essa non è necessariamente correlata con salari in diminuzione e quindi con una ridotta combattività operaia, e ciò per la presenza di meccanismi istituzionali che rallentano questo processo (contratti collettivi, lotte sindacali, ecc.). Al contrario, può svilupparsi anche a seguito della paura degli imprenditori di non controllare la situazione. Ad esempio, un eccessivo potere sindacale può spingere la controparte a non fare più assunzioni e quindi a fare crescere la disoccupazione. In questo caso – quello della metà degli anni Ottanta – la ricetta di Keynes, di sostegno della domanda, non è sufficiente. Ne viene fuori la strana situazione che il sostegno del potere contrattuale operaio, inizialmente spacciato come strumento per dare più forza alla parte debole, ma in pratica diretto a sostenere la domanda, ottiene uno scopo altrettanto inevitabile di fare diminuire gli investimenti a causa della diminuzione delle aspettative di remunerazione del capitale, la qual cosa fa diminuire la produzione con relativo aumento dell’inflazione. Il capitale ha due modi di porsi di fronte all’inflazione. Il primo parte dal presupposto che il sistema capitalista sia retto da un meccanismo intrinseco che lo porti spontaneamente verso l’equilibrio di pieno impiego, situazione ottimale in cui dovrebbero corrispondere il benessere individuale con quello collettivo. Il secondo ritiene che il capitalismo sia intimamente contraddittorio e quindi impossibile una situazione di equilibrio. In questo modo, la sola soluzione è quella di ottenere – a medio termine – il massimo profitto in situazioni conflittuali non compatibili tra loro. Nel primo caso, l’inflazione è considerata un’anomalia, un male più o meno transitorio che può essere curato e che colpisce il sistema quando si avvicina alla piena occupazione o quando se ne allontana diametralmente. Così si cercano le responsabilità del non perfetto funzionamento del sistema nel comportamento non conforme alle regole di una o più categorie di soggetti economici (imprenditori, sindacati, forza lavoro, ecc.) che, con la loro azione, dovrebbero avviare il processo di ripristino dell’equilibrio. Nel secondo caso, l’inflazione viene considerata una delle condizioni dello sviluppo del sistema stesso, una forma che questo prende nel contesto complessivo dei problemi dell’accumulazione capitalista. Si individua così una precisa categoria di soggetti economici – gli imprenditori – i quali prendono le decisioni riguardanti gli investimenti. L’inflazione, in questa prospettiva, diventa uno degli strumenti che possono essere impiegati per realizzare gli interessi della parte dominante. Non è più una malattia che si deve evitare, ma un evento ineluttabile della vita travagliata del sistema capitalista. L’inflazione da domanda è il tipo classico di inflazione, determinata da un eccesso della domanda sull’offerta di merci e servizi, da cui deriva un aumento dei prezzi di mercato. In un andamento di lungo periodo, l’eccesso di domanda determina un aumento della moneta in circolazione (la quale, per altro, deriva da un aumento nominale dei redditi e quindi, proprio dall’inizio, l’inflazione da domanda si ricollega con quella da costi, come vedremo subito dopo), aumento di moneta che risulta in scompenso con il livello produttivo del capitale e il livello dell’offerta di prodotti. È chiaro che non è possibile stabilire cosa aumenti prima: i prezzi di mercato o i salari, e quindi non si può stabilire una differenza netta tra inflazione da domanda e inflazione da costi. Comunque, volendo distinguere, anche se limitatamente, è possibile parlare di inflazione da domanda solo quando si è davanti a espansioni autonome della domanda che non si collegano ad aumenti precedenti dei costi di produzione (in primo luogo dei costi del salario). Ciò si ha quando si seguono le politiche economiche di sostegno della domanda secondo la ricetta di Keynes, la qual cosa corrisponde, in un certo senso, ad una specie di ridistribuzione dei redditi in quanto può essere realizzata dallo Stato solo facendo ricorso al debito pubblico, visto che le imposte e le tasse sono sempre insufficienti. Ora, il debito pubblico è costituito sia dalle somme che i capitalisti, grandi e piccoli, e i risparmiatori, prestano allo Stato, ma anche è costituito dalla carta moneta stampata ed emessa. La prima parte teoricamente non è produttrice di inflazione, ma in pratica lo è perché sollecita la domanda e quindi concorre ad aumentare i prezzi di mercato; la seconda parte del debito pubblico è senz’altro elemento di spinta per l’inflazione (aumentando la quantità di moneta in circolazione i prezzi aumentano). L’inflazione da costi è costituita da un aumento dei prezzi al consumo dovuto ad un aumento, diretto o indiretto, dei costi di produzione (costo del lavoro in primo luogo). In fondo, anche l’aumento dei costi delle materie prime impiegate nella produzione dà un effetto inflazionistico, ma si tratta di aumenti che sarebbe più corretto riportare all’originario aumento dei salari delle industrie produttrici delle materie prime stesse. Ora, il mercato del lavoro non è un mercato concorrenziale, ma è di natura monopolistica (basato sulle contrattazioni sindacali dei salari). Per cui, ne deriva che nella inflazione da costi non si possono trovare gli elementi concorrenziali che potrebbero fare supporre l’esistenza di un ipotetico meccanismo di riequilibrazione. Qui, il fondamento del meccanismo, è totalmente di natura sociale e politica. Questa inflazione è quindi un conflitto sociale sul modo in cui è possibile distribuire il reddito nazionale, basato su continui tentativi di alcuni gruppi sociali di aumentare le proprie disponibilità (e quindi il proprio consumo) più velocemente di quanto sia compatibile con gli obiettivi di altri gruppi e con il concetto astratto di stabilità economica generale. Ciò porta ad un continuo aumento dei prezzi e ad un rapporto a spirale prezzi-salari e salari-prezzi. In questi ultimi anni si è verificato che anche davanti a condizioni che avrebbero consentito una diminuzione dei prezzi si sono avuti sempre aumenti, apparentemente senza limiti. Ora, fin quando si ha un sostanzioso aumento della produttività del lavoro, la cosa non determina ulteriori aumenti dei prezzi, in quanto il rialzo è coperto dall’andamento favorevole dell’economia e, anzi, il precedente aumento è visto come un contributo favorevole alla realizzazione della produzione perché rimanda o evita (mai del tutto, comunque) la sempre paventata crisi di sovrapproduzione. Ma questi aumenti costanti si riflettono, prima o poi, specie in condizioni di non aumento parallelo della produttività, sui salari reali, nel senso più ampio (cioè anche nel senso amplissimo di ricomposizione della forza lavoro nelle condizioni generali di vita attuali della società a capitalismo avanzato se non proprio postindustriale). Da ciò deriva che si rendono necessari costanti aumenti dei salari monetari con riflessi sui costi del lavoro e, quindi, sul profitto industriale. Certo, quest’ultimo passo può essere ritardato da elementi vari (capacità di autofinanziamento delle imprese, mercati in espansione, scarsa dipendenza dal mercato finanziario, ecc.), ma, non appena si innesca, finisce per dilagare come causa inarrestabile di inflazione da costi. Le cause internazionali dell’inflazione sono elementi economici e politici che determinano altrove aumenti dei prezzi di materie prime che, importate, causano un processo inflazionistico di immensa portata. Ciò determina una serie di conseguenze in termini di aspettative, conflitti, difese nel corpo sociale e quindi nel mercato del lavoro. La situazione monopolistica dei salari impedisce politiche correttive di intervento in senso capitalistico ed espone le aziende a subire in pieno i contraccolpi dell’inflazione internazionale, i quali non possono essere ammorbiditi da una riduzione dei salari o dell’occupazione in modo drastico. L’unica strada che i capitalisti possono prendere resta allora quella dell’aumento dei prezzi. Quali sono i tentativi capitalisti per risolvere il problema dell’inflazione? La politica dei redditi è la strada che sostiene la sinistra (sempre in nome del capitale, ovviamente). Lo scopo non è tanto quello di incidere sull’inflazione, quanto quello di incidere sulla disoccupazione, per cui, modificando la prima, si modifica la seconda. È certo che una parte delle politiche di sostegno dell’occupazione, in passato (anche recente), hanno portato ad un’alterazione del rapporto tra salario reale e produttività del lavoro, in altri termini hanno portato ad un peggioramento delle condizioni di produzione e quindi ad una riduzione dei profitti e alla conseguente riduzione degli investimenti. Ora, di fronte all’inflazione, i lavoratori sentono per prima cosa il taglio del salario reale che vengono a subire, quindi si battono per un aumento del salario monetario ferma restando l’occupazione. Da canto loro, gli imprenditori sono spinti, prima di tutto, a restringere la domanda di lavoro mentre cercano in tutti i modi di razionalizzare la produzione. Tutto ciò fa aumentare il salario puramente monetario, ma lascia senza soluzione i problemi dell’occupazione e della produttività. Resta solo la soluzione di trasferire sui prezzi qualsiasi aumento dei costi. Da ciò una diminuzione costante del salario reale (nel senso più ampio visto prima) e una pronta risposta con ulteriori aumenti del salario nominale. Per quanto riguarda l’occupazione, vediamo adesso la situazione precedente (economia industriale). Sull’andamento dell’occupazione influiscono, in un’economia tradizionale, molti elementi. In particolare, fanno aumentare la disoccupazione: l’aumento dell’età di pensionamento, l’afflusso di più alte qualificazioni scolastiche potenziali, l’aumento del lavoro delle donne, l’afflusso della manodopera dalle campagne in città in situazioni di diminuita capacità industriale. Gli aumenti salariali hanno anch’essi una influenza sull’aumento della disoccupazione. Le imprese si indirizzano verso un risparmio di lavoro modificando la composizione degli investimenti (si realizzano i primi tentativi di automazione delle fabbriche), si accelerano i ritmi di lavoro (straordinari, misurazione dei tempi, ecc.). La ristrutturazione consente di risparmiare lavoro e fa aumentare la disoccupazione. In questa fase – che per l’Italia si può individuare tra il 1973 e il 1980 – si sviluppa anche una fascia larghissima di non occupati che non si possono definire “disoccupati” in quanto non sono alla ricerca di un lavoro, ma semplicemente si “arrangiano” o rifiutano il lavoro ed anche tutte le procedure che fanno accedere al ruolo di disoccupati in cerca di lavoro. In questo clima di recessione gli economisti si sono accorti che il sistema non tende spontaneamente all’equilibrio, più o meno come accadeva in un clima di sviluppo economico iniziale, quando si usciva da situazioni economiche patologiche determinate dalla guerra e dalla necessità della ricostruzione. A seguito della crisi del 1973 gli economisti hanno capito meglio il rapporto che passa tra inflazione e disoccupazione. Esiste, difatti, entro certi limiti, un rapporto inverso tra la variazione dei salari (e quindi del livello dei prezzi) e la disoccupazione. Crescendo i salari e la domanda di beni che ne deriva (quindi diminuendo la disoccupazione) si ha una crescita del livello dei prezzi (cioè dell’inflazione). La prima conseguenza di questa scoperta è stata che la tesi di Keynes, basata su di una stabilità sociale come conseguenza di una stabilità di piena occupazione, diventava un’illusione. L’aumento dell’occupazione comporta necessariamente un aumento dei prezzi e quindi una situazione instabile economicamente e socialmente. È stato Milton Friedman a concludere per la necessità di un tasso “naturale” di disoccupazione, che dovrebbe mantenersi in relazione costante con un ipotetico ottimale livello dei prezzi, in modo da non determinare perturbamenti né sociali né economici. Ma questa indicazione teorica ha trovato ostacoli pratici che hanno portato il capitalismo sull’orlo del collasso alla fine degli anni Settanta, da cui si è ripreso con il passaggio alla fase postindustriale. Questi ostacoli sono stati: l’indicizzazione sindacale, i limiti della mobilità del lavoro, la rigidità degli investimenti, l’utopia della piena occupazione, le scarse informazioni sul mercato ed infine le lotte operaie vere e proprie. È stato sempre Friedman, seguito ben presto da Franco Modigliani ee Ezio Tarantelli, ad affermare che il sostegno della domanda comportava un aumento della disoccupazione e non una sua diminuzione come aveva pensato Keynes. Per l’Italia, la svolta post-industriale si può collocare attorno al 1981. Mentre prima l’economia italiana aveva privilegiato un sistema di aggiustamenti progressivi di fronte alle sollecitazioni inflazionistiche interne ed esterne (ad esempio, anche di fronte all’aumento del prezzo del petrolio); dopo questa data, si hanno processi di aggiustamento molto più duri ed efficaci. Le lotte sono praticamente spente. La strada della conflittualità sindacale, sia pure nei termini formali, è bloccata. Il gran parlare che si fa del pericolo “terroristico” contribuisce a spezzare le ultime resistenze autonome di lotta operaia. Si crea un clima di intimidazione e di criminalizzazione che porta alla possibilità capitalista di attuare questi aggiustamenti. La diminuzione dell’occupazione cresce notevolmente e si estende a tutta l’industria. Si ha una effettiva messa fuori uso dell’apparato industriale di grandi dimensioni. In Lombardia il calo annuale, dopo il 1981, è del 7 per cento. Non si modifica solo il livello occupazionale, ma anche la stessa struttura di classe. Tramontano i sogni assurdi dei marxisti antichi e nuovi. Si rivelano infondate le tesi dell’autonomia organizzata. Il mondo economico italiano comincia a modificarsi a seguito di una duplice azione. Primo, una crisi produttiva che comporta una flessione notevole dell’utilizzazione degli impianti industriali. Secondo, una crescita della produttività a seguito dei licenziamenti che cominciano dagli operai più anziani e dalle donne e poi si estendono anche alla fascia degli operai più giovani e di media età. Il mercato del lavoro si modifica di conseguenza. Il nucleo più combattivo della classe operaia si dissolve a seguito del largo uso di strumenti di stabilizzazione del ciclo produttivo: cassa integrazione in primo luogo. I salari si arrestano e non si verificano più quegli strani fenomeni così comuni nel decennio precedente che vedevano il salario in crescita anche in periodi di riduzione della produzione. Adesso l’occupazione non è più difesa da contratti sindacali rigidi e, principalmente, non fa più paura nelle sue capacità di lotta autonoma, anche al di là delle indicazioni sindacali e dei recuperi del PCI. Non facendo più paura al capitale, l’occupazione comincia a diventare meno rigida nei riguardi del ciclo produttivo. Si profilano i primi risultati positivi per il capitale. In una situazione di rigidità occupazionale i capitalisti avevano – per risolvere i loro problemi di produzione – solo la strada di alzare i prezzi, quindi di fare aumentare l’inflazione. Dopo il 1981 il sistema economico italiano si riprende. L’inflazione rallenta. Le indicizzazioni dei salari hanno una minore potenza contrattuale e quindi rendono più agevole la manovra del capitale. La produttività delle aziende cresce attraverso la mobilità esterna del lavoro. Inizia un uso feroce degli strumenti di stabilizzazione dei redditi (cassa integrazione). La classe operaia è al tappeto. I sindacati che vivevano sulla sua reale capacità di lotta, al solo scopo di controllarla e non certo di vivacizzarla, sono anch’essi al tappeto. Si possono così sperimentare nuove forme di controllo del mercato del lavoro. In modo particolare, Fiat e Montedison procedono verso un diverso sistema di controllo delle assunzioni e verso una liquidazione delle eccedenze di mano d’opera basata quasi esclusivamente sui licenziamenti. La produttività cresce quindi non per un incremento dell’uso dei fattori produttivi (miglioramenti tecnologici e aumenti nell’occupazione), ma, al contrario, per un più razionale sfruttamento di quelli già esistenti. I sindacati si vedono costretti a fare proposte che qualche anno prima essi stessi consideravano assurde, come i contratti di solidarietà, i contratti di formazione lavoro che ammettono la chiamata nominativa per i giovani, la riduzione dell’orario come tentativo di allargare l’occupazione (cosa assai dubbia, nella pratica, in quanto l’Italia è ai livelli più bassi di utilizzo orario annuale della propria forza lavoro). A partire dal 1983 si comincia a capire, nelle grandi imprese, che un semplice sotto-utilizzo degli impianti non può bastare ad assicurare la soluzione del problema in vista di tempi medi. Si allargano quindi i progetti di rinnovamento, ristrutturazione e innovazione. Dal canto loro, Stato e sindacati hanno tutto l’interesse a creare una nuova politica di invenzione dei posti di lavoro. Si identificano, ancora una volta, gli interessi dei capitalisti con quelli dei sindacati e dello Stato. I primi sono molto preoccupati per una futura ricollocazione dei lavoratori in eccedenza (in caso contrario, si avrebbe una troppo forte contrazione della domanda di beni); i secondi e il terzo sono preoccupati dal punto di vista dei sempre possibili disordini sociali, ed hanno ormai perduta l’illusione di un riassorbimento spontaneo dell’offerta di lavoro. Si allargano così i settori terziari con imponenti investimenti statali, con l’ausilio dei sindacati che ormai fanno dilagare la variabile della mobilità operaia e con la grande gioia dei capitalisti che proprio da questo settore trovano alimento per la trasformazione strutturale delle loro imprese. Allo Stato viene detto che la sola manovra monetaria non è più sufficiente per riorganizzare l’efficienza produttiva delle aziende. Occorre un travaso di investimenti finanziari. Quindi una politica economica basata su pubbliche elargizioni monetarie alle industrie per consentire le innovazioni tecnologiche, una politica creditizia e di reperimento dei capitali sul mercato azionario favorevole ai bassi tassi di interesse. Non si chiedono più semplici finanziamenti all’industria, ma un clima economico generale (dal mercato azionario a quello obbligazionario, dai cambi al debito statale) in grado di creare condizioni favorevoli alle innovazioni. È scomparso (o sta per scomparire) il vecchio concetto di favorire alcuni settori industriali considerati “portanti”. Adesso tutte le industrie si avviano verso il miglioramento tecnologico che riguarda tutto l’apparato produttivo a partire dalla qualità del prodotto per arrivare all’amministrazione. L’elettronica dilaga. Questa situazione, che è rimasta costante almeno fino al 1981, ha messo in luce critica la politica dell’occupazione basata sul sostegno della domanda (e quindi ha messo in crisi gli economisti neo-keynesiani). Ciò ha causato una limitata ridistribuzione dei redditi, ma principalmente ha causato una diminuzione delle potenzialità contrattuali dei sindacati, stretti tra la morsa di sostenere le richieste dei lavoratori e diventare elementi portanti del processo inflazionistico, o sostenere le richieste dei capitalisti e figurare come traditori degli interessi della classe produttiva. La politica monetarista è la scelta classica dei conservatori e dei tecnocrati. Si basa sul presupposto che un controllo della quantità di moneta in circolazione e della sua velocità di scambio, possa contribuire a mantenere il livello di inflazione dentro limiti accettabili per lo sviluppo capitalista. Ciò comporta necessariamente una disoccupazione al di sopra del livello naturale (che ora con la scuola dell’obbligo si è di molto allargato). Ma si tratta di un sacrificio che si deve fare per impedire danni maggiori. I salariati devono rendersi conto dei benefici che si hanno da un rallentamento dell’aumento dei prezzi e del fatto che questi benefici vengono dopo un certo tempo e non subito. Una terza via afferma – sulla base delle analisi di Modigliani e Tarantelli – che non è possibile una netta separazione tra le due strade precedenti. Questi due economisti sostengono (per la verità il secondo non più, essendo stato ucciso dalle Brigate Rosse) la necessità di un sostegno della domanda e quindi dell’occupazione ma, nello stesso tempo, parlano della necessità di abbassare il livello dei salari reali. Modigliani ha anche affermato che la sola via di uscita, per evitare lo schiacciamento totale dei profitti, fatto che distrugge ogni incentivo agli investimenti, è quella di ridurre l’eccessivo costo del lavoro. Quindi, fermare i salari e licenziare. Il primo aspetto della ricetta consente un riequilibrio della produttività, il secondo una ristrutturazione celere del settore industriale. Le preoccupazioni che si avevano in precedenza riguardo questa soluzione, per le eventuali ripercussioni in termini di disordini sociali, sono state dimostrate parzialmente infondate proprio da Modigliani e Tarantelli che hanno a lungo insistito sul fatto che i benefici in termini di stabilità politica, che derivano da una prospettiva del genere, consentono di evitare i disordini sociali in quanto la gente si sente meglio governata, vede che i prezzi ritardano la propria ascesa e tutti si illudono di ottenere benefici a breve termine proprio perché vivono in una situazione di rilancio economico e istituzionale. *** b) La nuova professionalità lavorativa: la flessibilità La professionalità lavorativa è chiesta oggi diversamente dal sistema produttivo. Non si tratta di una semplice assenza di professionalità, né di una professionalità allargata. Esistono problemi notevoli in merito alla flessibilità. Il concetto di specializzazione orizzontale significa lavorare in modo superficiale, al contrario della specializzazione verticale di cui aveva bisogno il mondo produttivo del passato. Per capire meglio i problemi relativi alle modificazioni nelle richieste di professionalità che il sistema produttivo indirizza al sistema educativo, dobbiamo conoscere, in breve, le condizioni in cui queste richieste vengono inoltrate, i modi di inoltro e le possibili risposte. La situazione generale del sistema produttivo è quella di una più profonda integrazione tra componente tecnologica e componente socio-organizzativa. Gli strumenti tecnici sono aumentati in quantità e qualità e gli uomini che li guidano hanno adesso ruoli diversi i quali richiedono diverse professionalità. Si può quindi affermare che l’entrata in massa (e in qualità) della tecnologia nel sistema produttivo ha determinato una modificazione profonda nell’organizzazione sociale che sta alla sua base. Questa modificazione si può specificare in due aspetti: a) un aspetto quantitativo, dato da una rilevante diminuzione di occupazione, per quanto il rapporto tra informatizzazione ed occupazione sia molto più difficile di una banale equazione tra aumento da un lato e diminuzione dall’altro; b) un aspetto qualitativo, dato da una profonda modificazione nella distribuzione della professionalità. Il primo di questi due aspetti ha conseguenze sul secondo in quanto presenta una pressione a livello di scelte endogene al sistema produttivo che, a loro volta, si trasformano in segnali indirizzati al sistema educativo. Le scelte di quest’ultimo, solo in un ulteriore momento, diventano scelte orientative sia da parte di chi elabora i programmi di studio che da parte degli studenti stessi. Tutto ciò finisce per condizionare la produzione di un nuovo modello di professionalità, ormai abbastanza diffuso. In fondo, forse, il problema del nostro prossimo futuro non sarà tanto quello della disoccupazione, e quindi dei possibili rivolgimenti sociali (rivoluzionari) ad essa collegati; quanto il problema di una separazione di conoscenze, il problema della creazione di un muro culturale assolutamente invalicabile tra chi possiede una professionalità operativa e decisionale e chi possiede solo una pseudo-professionalità soltanto esecutiva. Emerge quindi, con tutta la sua importanza, il secondo aspetto di cui sopra, l’aspetto qualitativo. Il mutamento riguarda la natura e i contenuti della professionalità, come pure la sua distribuzione nei diversi livelli in cui si articola l’unità produttiva. Ciò ha conseguenze evidenti sulla permanenza all’interno della medesima unità, su cui una volta si basava ciò che veniva definito “possibilità di fare carriera”. Oggi questa possibilità è molto ridotta, anche a causa della ridotta professionalità, da qui l’importanza della flessibilità. Ma su questo argomento vedremo più avanti. L’appiattimento della professionalità viene fuori dal sistema che si è costruito all’interno dell’unità produttiva. Si tratta di un modello “chiuso” o, comunque, che cerca di chiudersi, secondo l’ideale astratto dell’automazione. L’operatore umano e la realtà fisica che si trasforma, non possono “inserirsi” a causa di un sistema informatizzato di regolazione e controllo. Questo sistema si fonda su di una logica matematica, e su questa logica modella il processo produttivo delle trasformazioni, attraverso una serie di informazioni che pervengono ai terminali operativi in tempo reale. È quindi il sistema di automazione intermedio tra uomo e realtà che viene ad incorporare la “competenza tecnica”, che il processo di trasformazione continua a richiedere. All’uomo è lasciato solo il compito di supervisione e controllo delle eccezioni. La nuova “professionalità” ha quindi caratteristiche molto diverse da quelle di una volta, non solo nell’ambito della produzione tradizionale (settore industriale o di fabbrica), ma anche nella dimensione del sistema produttivo che include le cosiddette “attività libere”, dall’artigianato alle professioni indipendenti. Schematizzando, questa nuova caratteristica si può specificare come segue: a) Processi di visualizzazione. Sono essenziali e richiedono un’educazione dell’occhio e una risposta dello stimolo visivo a velocità che appena pochi anni prima sarebbero state non coglibili dall’apparato ottico. La lettura di un video è un fatto molto complesso che l’adattamento visivo riesce a coprire solo per gradi e con una “educazione” o, se si preferisce, con un condizionamento che dura anni. In questi processi di visualizzazione si devono però includere anche le reazioni programmatiche, cioè tutto quello che viene dopo l’impatto visivo puro e semplice. In altre parole, alla “lettura” video segue l’elaborazione di uno schema mentale in grado di dare al soggetto una sufficiente indicazione sulla situazione del processo in corso di svolgimento. Non tanto i singoli elementi del processo, ma un’idea globale che indichi, per grandi linee, la maggiore o minore adeguatezza del processo reale ad uno schema di sicurezza che è in grado di fissare i livelli delle eccezioni. Alcuni di questi livelli sono infatti di carattere discrezionale e non sarebbero raggiungibili agevolmente attraverso un’elaborazione semplicemente matematica in quanto la risoluzione dei relativi algoritmi non può affrontarsi nemmeno con i moderni computer. b) Processi di concettualizzazione. Si tratta dell’elemento di valutazione che il soggetto deve mettere in atto attraverso lo schema mentale. Qui si vede lo scadimento effettivo della capacità di concettualizzare, cioè di trasformare in idee i problemi che la realtà pone in vista di una decisione, cioè il coordinamento della volontà alle necessità di uno scopo da raggiungere. I limiti di discrezionalità di questi processi di concettualizzazione sono molto rigidi. Qui il soggetto muore. La sua autonomia tramonta nel momento stesso in cui tutta la tecnologia è disponibile a risolvere i grandi problemi che lo impacciavano in passato. Meno cose deve fare, meno cose vorrà fare perché meno cose saprà fare. Lentamente il soggetto pensante si trasforma in soggetto che individua la soluzione migliore all’interno di uno schema funzionale solo ai fini del raggiungimento di uno scopo che sta fuori della sua desiderabilità. La scala di valori su cui si basa un simile processo è fissata al di fuori dei desideri del singolo. Nell’elaborare informazioni il calcolatore taglia in due l’uomo. c) Processi di comprensione. Anche questi si riducono. Meno possibilità di idee, meno possibilità di capire qualcosa. Nessuno può capire fuori dai concetti che elaborano le distinzioni. Da qui il fatto che meno cose ci sono da capire e meno si capisce, Ora, se ci sono meno cose da capire si ha l’illusione di capire di più, più velocemente e meglio. Questo dà un senso di sicurezza che è tipico delle persone che sanno poco e che si illudono che il proprio modesto sapere sia, più o meno, “tutto” il sapere. Il dubbio, e il relativo travaglio, è proprio di coloro che stanno allargando i confini della propria conoscenza e che in questo lavoro si accorgono di scoprire nuovi limiti, sempre più lontani. Riassumendo, la “nuova” professionalità ha contenuti molto ridotti che si accompagnano al perfezionamento di alcune facoltà e al tramonto definitivo di altre. Tra queste facoltà che vengono rivalutate, al primo posto, in una ipotetica scala di valori, si pone l’attenzione. È questa un’abilità che si può sviluppare e che consiste nel mantenere costante – dentro certi limiti di frequenza – la percezione del processo e la sua trasformazione in schema mentale. Questa costanza tende, ovviamente, ad avere degli abbassamenti di frequenza, dovuti non solo alla stanchezza ma anche alla ripetitività e alle pulsioni varie del desiderio e della memoria. La ripresa, all’interno dei limiti di tolleranza, di questi abbassamenti, ripresa che deve avvenire in tempi molto brevi, caratterizza l’attenzione, la quale, come si vede, si qualifica adesso come una facoltà mentale fondata sulla velocità di intervento di fronte a situazioni di anomalia. Qui, al verificarsi delle eccezioni nel comportamento del processo, l’attenzione deve manifestare la sua capacità di ripristino della normalità. Anche il senso di responsabilità, di cui si fa conto nella considerazione dei livelli di nuova professionalità, non è tanto (o, per lo meno, non è solo) un condizionamento ideologico e un’accettazione incondizionata di determinati valori (il buon funzionamento del sistema produttivo), quanto una vera e propria “facoltà”, anch’essa quantificabile come l’attenzione. Difatti, il senso di responsabilità viene preso in considerazione, da chi valuta i diversi livelli di “professionalità” del soggetto operativo, dal punto di vista della capacità, in una data unità di tempo, di intervenire in una serie ben determinata di possibilità di scelta, operando quella e soltanto quella singola scelta che consente di ottenere il miglior funzionamento possibile del sistema. Sarebbe errato pensare a questa possibilità come ad un elemento di natura tecnica. I contenuti del senso di responsabilità, una volta presi singolarmente in esame, si nientificano e denunciano la loro essenza ideologica. Tenendo conto di queste considerazioni si può schematizzare una diversa distribuzione della professionalità nella fabbrica tradizionale e nell’unità produttiva post-industriale. a) Nella fabbrica tradizionale esiste un vasto raggio di differenziazioni nelle mansioni e nei livelli culturali. Esso si estende da una zona di contenuti bassi ad un’altra di contenuti alti e altissimi. In termini di richiesta si ha che il sistema produttivo tradizionale assorbe di meno la bassa e l’alta professionalità, mentre la curva di richiesta di mano d’opera si alza moltissimo ai livelli intermedi. Ciò significa che nella fabbrica del passato si chiedeva una professionalità media molto di più di una bassa o di un’alta professionalità. b) Nella unità produttiva postindustriale, al contrario, la bassa professionalità ha una forte richiesta, mentre tende ad abbassarsi a livelli minimi la professionalità media, per poi ritornare di nuovo consistente l’alta professionalità (che, comunque, resta ben al di sotto dei livelli quantitativi della bassa professionalità). In questa situazione viene annullata la possibilità di passaggio o di mobilità all’interno di una stessa unità produttiva. In altri termini, è impossibile passare da una bassa ad un’alta professionalità in quanto c’è una strozzatura nelle richieste della professionalità media. Questa strozzatura, che tende ad aumentare fino a diventare un vero e proprio muro culturale, renderà, col passare del tempo, sempre più rigida la struttura interna dell’unità produttiva e quindi sarà possibile solo una mobilità interstrutturale. Da qui l’enorme importanza da dare alla flessibilità in termini di accettazione di possibilità di lavoro sempre diverso. Restando sempre ferma, comunque, la profonda separazione tra le zone di bassa e alta professionalità. Prima di abbandonare questo problema dobbiamo ricordare che per quanto il concetto di nuova professionalità sia diretto a svuotare di contenuti il singolo operatore e ad acutizzare solo alcune delle sue facoltà, è pur sempre valido il ragionamento che la differenza tra la bassa e l’alta professionalità non si risolve esclusivamente in termini di acutizzazione di singole facoltà, ma anche in termini di ripristino di contenuti, anche di quelli tradizionali o culturali in senso stretto. È per altro logico che questo ripristino avvenga esclusivamente nell’ambito dell’alta professionalità, la quale ha pur sempre il compito di procedere anche alla elaborazione di quelle condizioni ideologiche che consentono l’accettazione, da parte delle fasce di bassa professionalità, della loro reale situazione di sfruttamento. La flessibilità, come si è visto, è uno dei concetti portanti che sono stati sviluppati nel passaggio dalla fase degli anni Settanta a quella degli anni Novanta. Il periodo conclusivo degli anni Settanta, che ha segnato i processi di involuzione più spettacolari all’interno del sistema capitalista vecchia maniera, lo si può ricordare come un periodo di rottura in cui sono venute a cadere le certezze di un passato lontano e meno lontano. La prima di queste certezze era la programmazione del progetto capitalista, fondato sull’accumulazione progressiva e sull’appianamento dei conflitti attraverso l’innesto dello Stato come produttore e non più come semplice gendarme. Non è più legittimo parlare di “crisi” (tra virgolette), lo si può fare solo coinvolgendo anche all’interno di questo concetto la teoria economica stessa e non soltanto la struttura produttiva. Ad essere sconfitte, sul finire degli anni Settanta, sono state proprio quelle teorie (sia neoclassiche che manageriali in senso stretto) che sostenevano la possibilità di mettere ordine nella molteplicità dei fenomeni, per arrivare ad una linea di programmazione dello sviluppo del capitale. È proprio questa la situazione che coinvolge non solo la struttura, ma anche le teorie che volevano far prevalere la ragione sulla forza degli eventi. La prima scoperta che viene fatta agli albori degli anni Ottanta è proprio quella della mancanza di ordine nella realtà economica, la quale è senz’altro una scoperta della situazione di crisi, ma è anche una nuova teoria che azzera il precedente significato delle crisi e ne fa un punto di forza per andare avanti. Le imprese operano in situazioni di estrema incertezza e di instabilità. Il controllo sulla situazione industriale è praticamente perso. La turbolenza diventa una realtà costante. Gli elementi di questa turbolenza sono allora isolati teoricamente con molta accuratezza: il movimento sindacale degli anni Sessanta, l’alto livello dell’occupazione, l’inflazione, l’instabilità monetaria. Si sviluppa la tesi che questa realtà turbolenta non sia regolabile. La pluralità delle forze in azione diventa comprensibile quindi solo all’interno di situazioni di breve termine. Ciò richiede all’impresa produttiva una nuova capacità: la flessibilità, cioè la possibilità di sapersi adattare a questa situazione di perenne instabilità e turbolenza e ciò al contrario di quanto avveniva prima, quando si pretendeva adattare le contraddizioni del sistema produttivo alla rigidità della struttura della singola impresa. Portare al massimo la flessibilità, quindi, sia nelle decisioni, sia nell’organizzazione dei cicli produttivi, sia nell’impiego di mano d’opera, sia nei programmi, sia nell’impiego delle ideologie. In tal senso le strutture organizzative si decentralizzano, gli aspetti burocratici (contabilità, fisco, ecc.) cercano di perdere la loro eterna fissità, il pacchetto di mano d’opera si sposta incontrando in questa operazione, che si presupponeva molto pericolosa, meno resistenze del previsto. I rischi (compreso quello dei perturbamenti sociali) si inseriscono nella strategia di mercato e qui trovano la loro risoluzione attraverso la ristrutturazione (cioè la suddivisione delle unità di produzione). In un ambiente turbolento ed ostile, l’unità produttiva si adatta e diventa flessibile. Come il morbido giunco si china per far passare la tempesta. Quello che prima era rigido e ordinato in forme stabili che lottavano, senza riuscire, con le avversità costanti di un ambiente che si riteneva fisso per definizione, adesso si scompone in mille modi, in cento strutture produttive, in decine di mentalità diverse e scopi molteplici. Il pluralismo fa la sua entrata nel mondo della produzione e scopre che è, in fondo, il solo elemento che si può connettere armonicamente con una situazione politica a struttura democratica. Le ideologie autoritarie e le pratiche repressive del passato sono un vago ricordo. Il gran da fare che tutti si danno per combattere il cosiddetto “terrorismo” (compresi i compagni che usano con noncuranza questo termine non rendendosi conto che così tornano funzionali proprio a ciò che vogliono combattere) contribuisce ad alimentare questa nuova veste di possibilisti in camice bianco. I “cattivi” vengono messi da parte, ma non in modo brutale (si fa sempre un gran parlare dei limiti e della pericolosità delle decisioni repressive basate sull’idea di “emergenza”). È stato proprio un caso che si sia scelta la strada della flessibilità per superare la situazione degli anni Settanta, proprio nel momento in cui la tecnologia metteva a disposizione apparati specifici capaci, in concreto, di far diventare flessibili le aziende? Certamente no, e, altrettanto certamente, non è possibile fissare i termini di questo rapporto, cioè in che modo la tecnologia abbia influito su quelle scelte e quelle scelte sullo sviluppo delle ricerche tecnologiche. Lo stesso, e molto di più, avviene in questi anni. Non sapremo mai in che modo oggi la tecnologia spinga il sistema produttivo e sociale nel suo insieme verso scelte di natura flessibile e quanto queste scelte – ormai diventate indispensabili – sollecitino ritrovati tecnologici sempre più in grado di realizzare flessibilità organizzative. L’irrazionalità viene a trovarsi alla base del progetto teorico dell’economia e soppianta le vecchie mitologie meccanicistiche dell’equilibrio. Ciò riporta la teoria neoclassica nell’ambito degli sviluppi più recenti della scienza che, come è ovvio, sono lontanissimi dal meccanicismo ottocentesco. Ma questo, per quanto interessante, è tutto un altro problema. *** c) Il mondo della scuola Sono ormai finiti i tempi in cui la scuola si poteva considerare un sistema chiuso, con problemi suoi, che si dovevano portare fuori per inserirli in un contesto più ampio (quartiere, fabbrica, ecc.). Adesso la scuola è proiettata in pieno nelle condizioni generali del conflitto sociale. Solo che, pur essendosi proiettata di fatto, non è detto che gli studenti (e i professori) siano coscienti e compartecipi di questa realtà. In pratica la scuola assolve a ben precise funzioni che si vanno sempre di più adeguando alle realtà produttive. 1) Qualificazione. La funzione di produrre capacità lavorativa qualificata si è ridotta moltissimo in quanto il sistema produttivo non ha più bisogno di specializzazioni verticali, caratterizzate da alte qualificazioni e scarse capacità di adattamento, ma, al contrario, ha bisogno di specializzazioni orizzontali, con gente che sappia fare un gran numero di cose, scarsamente qualificate, e quindi abbia una maggiore disponibilità ad adattarsi a cambiare lavoro o anche a vivere a lungo semplicemente cercando lavoro. 2) Indeterminazione dei contenuti insegnati. In sostanza i contenuti culturali della qualificazione sono sempre disponibili e, dato il notevole progresso scientifico, a tutti i livelli, esistono strumenti molto accessibili per il travaso di questi contenuti (ad esempio, libri di testo, audiovisivi, computer, film, registrazioni, ecc.). Solo che il passaggio non avviene e, quando avviene, si realizza in modo parziale. Il contesto generale non è stimolante. Gli insegnanti non sono, a loro volta, sufficientemente qualificati. Inoltre, si rendono conto che non esistono sbocchi operativi ai loro sforzi. Da qui una riduzione anche dello sforzo minimo di trasmettere questi contenuti culturali che, pure, sarebbero disponibili. Ne risulta una generale depauperizzazione culturale della scuola, la quale corrisponde al bisogno del capitale di costruire una massa di esclusi con minori contenuti culturali a disposizione. 3) Mentalità democratica. È una funzione “nuova” del sistema educativo. Un individuo per essere flessibile, adattabile, mobile, non può essere educato autoritariamente. Deve imparare a partecipare fin dalla più tenera età. Da ciò il largo uso di processi assembleari e la scomparsa della vecchia concezione autoritaria e nozionistica. 4) Contributo alla soluzione del problema occupazionale. Consiste nel tentativo di indirizzare preventivamente la futura mano d’opera verso i settori che correranno di meno il rischio di disoccupazione. Ciò non tanto facendo ricorso ai “numeri chiusi” nelle facoltà o nelle scuole superiori, ma, semplicemente, sviluppando una diversa ideologia e una scala di valori modificata rispetto alle tradizionali ripartizioni dell’attività umana. 5) Tutela sociale. La scuola riduce la tensione e i conflitti sociali fermando la potenziale futura pressione sui livelli occupazionali, dentro un’istituzione che diventa così una specie di parcheggio. 6) Produrre consenso. La scuola impiega vari processi per realizzare questo scopo. Alcuni hanno una natura “oggettiva”, cioè vengono realizzati semplicemente perché la scuola è diventata obbligatoria fino ad una certa età (ciò, come abbiamo visto, comporta notevoli benefici per il capitale). Altri sono proprio voluti e programmati. Questi ultimi sono: a) valutazione positiva del modello culturale capitalista attraverso la rielaborazione dei concetti di risparmio, lavoro, proprietà, famiglia, Dio, Stato, ecc.; b) accettazione del modello economicistico della società, per cui la soluzione migliore è sempre quella che produce col minimo sforzo il massimo risultato; c) ostacolo ai comportamenti “devianti”, ma facendo ricorso alla discussione e alla critica ed evitando – per quanto possibile – la repressione brutale; d) accettazione (critica) del modello gerarchico, in quanto la gerarchia esiste perché è la soluzione migliore al problema del funzionamento sociale. Essa, quindi, non viene imposta ma solo accettata criticamente (cosa molto più efficace); e) costruzione di un ponte tra sistema economico e sistema scolastico, cosa che garantisce una migliore rispondenza delle attività della scuola alle richieste della situazione produttiva in genere; f) veicolazione all’interno della scuola dei problemi sociali più scottanti (“terrorismo”, mafia, droga, ecc.) perché qui possano ricevere un “trattamento” idoneo per diventare altrettanti elementi di uniformità ideologica e quindi di consenso sociale; g) fornitura di una generica capacità di adattamento, la quale consentirà alla futura forza lavoro di sopravvivere anche in condizioni di profonde modifiche occupazionali. ** Perdita del linguaggio Fra i progetti del potere c’è quello della riduzione del linguaggio come mezzo vario e creativo di comunicazione. Come linguaggio bisogna qui considerare l’insieme di tutti i mezzi espressivi e, in modo particolare, quelli che consentono la manifestazione di concetti complessi riguardanti sia oggetti che sentimenti. Questa riduzione è necessaria per il potere in quanto, nel progetto di lenta sostituzione del controllo alla pura e semplice repressione, il consenso gioca una parte fondamentale e non può esserci consenso immediato e uniforme in presenza di creatività diffusa. Da parte sua, il vecchio problema rivoluzionario della propaganda si è modificato moltissimo in questi ultimi anni, mettendo a nudo i limiti di un realismo che si basava sulla pretesa di riuscire a far vedere con chiarezza le storture del mondo agli sfruttati, permettendo loro così di prendere coscienza. Restando nell’ambito storico dell’anarchismo, abbiamo il caso veramente eccezionale della capacità letteraria di Malatesta, tutta basata su di una essenzialità di linguaggio scritto che, per i suoi tempi, costituisce un modello quasi ineguagliato. Malatesta non premeva sugli effetti retorici o sulla costruzione di frasi ad effetto, ma sulla logica elementare delle deduzioni, partendo da spunti facili, fondati sul senso comune, arrivando a conclusioni complesse che risultavano così più comprensibili al lettore. Su di un versante linguistico molto diverso, operava invece Galleani che puntava molto di più sulle costruzioni retoriche e sulla ricerca di una struttura musicale della frase, oltre che sull’impiego di parole di già accantonate all’epoca sua e da lui riportate in uso, il tutto allo scopo di costruire un’atmosfera linguistica capace, secondo la sua opinione, di commuovere gli spiriti all’azione. Ambedue oggi non sono proponibili come esempio di linguaggio rivoluzionario. Malatesta, perché c’è sempre meno da “dimostrare”, Galleani, perché c’è sempre meno da “commuovere”. Forse modelli di letteratura rivoluzionaria si possono scorgere meglio in Francia, sia per la grande tradizione specifica, senza paragoni con quella italiana, spagnola o inglese, sia per il particolare spirito della lingua e della cultura di quel popolo. Restando nella medesima epoca dei citati esempi italiani, per la chiarezza e l’esposizione dimostrativa si propongono alla nostra attenzione: Faure, Grave e Armand, mentre per la ricerca espositiva, e sotto certi aspetti retorica, Libertad e Zo d’Axa. Non dimentichiamo che la Francia aveva di già l’esempio di Proudhon, il cui stile aveva sollevato consensi e perfino entusiasmi all’interno della stessa accademia e, più tardi, quello di Faure il quale verrà considerato una sorta di continuatore di questa grande scuola, insieme al metodico e asfittico Grave, autodidatta e allievo entusiasta di Kropotkin, il cui francese era niente male ma proprio perché, come quello di Bakunin, era il francese di un russo. Degli esperimenti linguistici, letterari e giornalistici di Libertad, Zo d’Axa ed altri, che si riconnettono idealmente al precursore Cœurderoy, si potrebbe parlare a lungo, ma pur costituendo uno degli esempi più alti del giornalismo rivoluzionario, anche questi sono oggi improponibili nei modi in cui furono realizzati. Il fatto è che la realtà è cambiata, mentre i rivoluzionari continuano a produrre i loro linguaggi sempre allo stesso modo, anzi peggio. Per calcolare il peggioramento basta paragonare, per quel che può valere un paragone del genere, un volantone “En dehors” di Zo d’Axa, con il grande disegno di Daumier da un lato e lo scritto di Zo d’Axa dall’altro, con certi volantoni pietrificati di oggi. Ma qui non è neanche più un problema di pietrificazione. Non solo i nostri interlocutori privilegiati stanno perdendo il linguaggio, ma lo stiamo perdendo anche noi e siccome, se vogliamo comunicare, dobbiamo per forza incontrarci su di un punto d’incontro comune, la perdita risulta irrecuperabile. Il processo di appiattimento generalizzato colpisce tutti i linguaggi, in quanto per rendere possibile i mezzi di comunicazione, abbassa l’eterogeneità dell’espressione all’uniformità del mezzo. Il meccanismo è più o meno il seguente, e si può esemplificare con la televisione. La crescita quantitativa di dati (notizie) tende a ridurre il tempo disponibile, in immagini e parole, per la trasmissione di ognuno di esse. Questo porta ad una progressiva e spontanea selezione dell’immagine e delle parole, per cui, da un lato, questi elementi, di per sé eterogenei, si essenzializzano e, dall’altro lato, cresce la quantità di dati. La tanta sospirata chiarezza su cui hanno pianto generazioni di rivoluzionari che volevano spiegare la realtà al popolo, è stata finalmente raggiunta nell’unico modo possibile, cioè non rendendo chiara la realtà (cosa impossibile), ma rendendo reale la chiarezza, cioè facendo vedere come realmente esistente una realtà costruita dalla tecnologia, Ciò accade con tutte le espressioni linguistiche e coinvolge anche i tentativi disperati di salvare la creatività umana attraverso la porta privilegiata dell’arte, la quale riesce a far passare sempre meno possibilità che per altro devono, a questo livello, lottare su due fronti: contro il risucchio dell’appiattimento che fa apparire creativa l’uniformità, e contro il risucchio contrario, ma avente la medesima origine, del mercato e delle quotazioni. Le mie vecchie tesi sull’arte povera e sull’arte come distruzione, mi stanno sempre più a cuore. Facciamo un esempio chiarificatore. Tutto il linguaggio, in quanto strumento, ha sempre molteplici possibilità d’uso. Per essenzializzare, anche noi diciamo che può servire per trasmettere un codice diretto a riconfermare o perfezionare un consenso o per creare una trasgressione. La musica non fa eccezione per quanto, avendo problemi tutti suoi, le riesce più difficile la strada trasgressiva. (Più facile sembra la trasgressione e più lontani si è dal realizzarla). Ora, il rock è una musica di recupero e ha contribuito a spegnere una gran parte delle energie rivoluzionarie degli anni Settanta. Lo stesso, a suo tempo, accadde con l’innovazione musicale wagneriana, secondo la notevole intuizione di Nietzsche. Pensate però a quale grandissima differenza tematica e culturale, quindi anche tecnica e sociale, c’è in queste due produzioni musicali, ambedue dirette allo stesso scopo recuperativo. Wagner dovette costruire un impianto culturale vastissimo e un profondo stravolgimento dello strumento linguistico per affascinare la gioventù rivoluzionaria del suo tempo. Oggi il rock ha fatto il medesimo lavoro, su scala enormemente più vasta, con uno sforzo culturale che a paragone con quello è addirittura ridicolo. La massificazione musicale ha favorito il lavoro di recupero e di catalogazione. Si può dire quindi che l’azione riduttiva opera in due sensi, prima nel senso dello strumento, che viene sottoposto ad un processo di semplificazione e scarnificazione, poi, nel senso del suo impiego, che viene standardizzato, producendo effetti sempre riconducibili ad una media accettata da tutti o da quasi tutti. Ciò avviene nella cosiddetta letteratura (poesia, narrativa, teatro) ed avviene anche in quel ristretto microcosmo che è l’attività rivoluzionaria di approfondimento dei problemi sociali. Sia che quest’ultima si risolva in scritti su giornali di movimento, sia che prenda la forma di volantini, opuscoli, saggi di un certo spessore, o libri, i rischi che si corrono sono abbastanza simili. Anche il rivoluzionario è figlio del suo tempo e di quest’ultimo usa gli strumenti. La possibilità di leggere in filigrana le condizioni attuali della società e della formazione produttiva, sono diminuite, sia perché c’è molto di meno da portare alla superficie, sia perché sono diminuiti gli strumenti interpretativi. In una società estremamente polarizzata in classi ben distinte, il compito della controinformazione era quello di portare alla luce quella realtà di sfruttamento che il potere aveva interesse a nascondere, quindi anche i meccanismi di estrazione del surplus produttivo, le trame repressive, le distorsioni autoritarie dello Stato e così via. In una società che tende sempre di più verso una gestione democratica e una produzione informatizzata, il capitale diventa più leggibile proprio perché è meno importante leggerlo, meno importante scoprirne i metodi di sfruttamento o, almeno, meno essenziale per promuovere quel sommovimento massiccio dell’opinione e dell’azione. La società oggi deve essere letta con strumenti culturali capaci di fornire non soltanto interpretazioni di fatti sconosciuti, quindi tratti alla superficie, ma anche conflittualità inconsapevoli, molto lontane dall’antica e visibilissima contraddizione di classe. Ciò per evitare che mettendo in campo il rovescio dei modi di essere si finisca per farsi trascinare in una semplicistica operazione di rigetto, incapace di valutare i meccanismi del recupero, del reperimento del consenso e dell’inglobamento. Più che una documentazione, adesso abbiamo bisogno di una partecipazione attiva, anche attraverso lo scritto, a quello che deve essere un progetto complessivo. Non ci si può limitare a denunciare, occorre analizzare inserendo le analisi all’interno di un progetto preciso, adatto ad essere capito nel corso stesso dell’analisi. Non sono più accettabili le documentazioni o le denunce, occorre di più, finché avremo la lingua per parlare, finché non ce l’avranno tagliata. Questa nuova interazione tra modo di esprimersi e progetto, costituisce la forza del modo di usare lo strumento linguistico, ma trova nell’uso di questo strumento il suo proprio limite, se il linguaggio si è lasciato impoverire assorbendo e facendo proprie le intenzioni riduzioniste studiate ed applicate dal potere. Mi sono sempre battuto contro la presenza di una distaccata oggettivazione negli scritti indirizzati a chiarire problemi rivoluzionari. L’espressione linguistica ha sempre, in quanto strumento, una dimensione sociale, che si riassunte nello stile, il quale non è soltanto “l’uomo”, come diceva Buffon, ma è “l’uomo in una data società”, com’è più esatto dire. Ed è lo stile a risolvere il problema, certo difficile, di fornire assieme a quel minimo di contenuto indispensabile, i cosiddetti dati di fatto, l’inserimento all’interno di un progetto. Se questo progetto è vivo ed adeguato alle condizioni dello scontro, lo stile potrà essere vivificato, ma se lo stile non è adatto, o è perduto in un sogno illusorio di oggettività, anche il progetto più adeguato corre il rischio di sperdersi. Il nostro linguaggio deve quindi avere forme che siano in grado di sostenere i nostri contenuti rivoluzionari, che abbiano slancio di provocazione, che siano capaci di violare e sconvolgere i modi consueti di comunicare, che sappiano rappresentare la realtà che abbiamo in cuore senza lasciarsi avvolgere in sudari imposti da logiche nascoste e difficilmente coglibili. Progetto e linguaggio impiegato per illustrarlo, devono incontrarsi nello stile, e qui devono reciprocamente riconoscersi. Oggi sappiamo bene che lo strumento costituisce una parte considerevole del contenuto, anche senza arrivare all’estremizzazione di questa tesi. Dobbiamo avere cura di questi processi, non lasciare che una nuova ideologia praticistica ci sommerga suggerendoci l’importanza dell’usa e getta, senza alcuna relazione tra progetto e modo di dire il progetto. L’impoverimento linguistico in corso, generalizzato, si riflette quindi anche nello strumento comunicativo che possiamo usare come rivoluzionari. Prima di tutto perché in quanto uomini e donne della nostra epoca partecipiamo dei processi culturali riduttivi che la caratterizzano, perdiamo strumenti come li pérdono tutti, ne atrofizziamo altri, ne impoveriamo altri ancora. È normale, per quanto dovremmo sforzarci di più per ottenere migliori risultati, insieme ad una maggiore capacità di resistere ai progetti riduttivi. Questa riduzione delle capacità stilistiche è conseguenza di un impoverimento dei contenuti, ma è anche capace di produrre da sé un ulteriore impoverimento, non riuscendo ad esprimere quella parte essenziale del progetto che resta legato al modo dell’espressione, non potendo essere oggettivata differentemente. Non è quindi il “genere” che salva il contenuto, ma, prima di ogni altra cosa, il modo in cui questo contenuto prende corpo. Qualcuno si fa uno schema espressivo a priori, nell’ambito delle proprie capacità, e di questo schema non si libera mai, anzi pretende filtrarvi dentro tutti i contenuti di cui riesce ad entrare in possesso, pensando che quello schema sia il “suo modo di esprimersi”, come se avesse una gamba zoppa o gli occhi scuri. Ma non è così, prima o poi deve liberarsi da questa prigione, come di qualsiasi altra, se vuole dar vita a quello che sta comunicando. C’è chi, per fare un esempio, sceglie il taglio ironico per veicolare l’urgenza che ha dentro. Bene, ma l’ironia ha per sua natura, cioè per risultare ironica, quindi gradevole, la leggerezza, la danza, lo scherzo, la metafora allusiva. Non si può eleggere a sistema, in questo caso scade nel ripetitivo, diventando patetica come gli inserti satirici dei quotidiani, come le strisce di cui si deve conoscere prima come va a finire la storia altrimenti nemmeno si riesce a capirla, come gli scherzi da caserma. Allo stesso modo, per motivi inversi, il richiamo della realtà, lo sforzo per rendere quest’ultima visibile e palpabile attraverso la comunicazione, partendo dal presupposto che non ci può essere fruizione immediata di qualcosa che non somigli alla realtà, finiscono per diventare stucchevoli, irrealizzabili, perdendosi in una continua necessità di riprova materiale, smarrendo quella concettualità che sta alla base della comunicazione vera e propria. Un luogo comune, preso dal museo delle imbecillità del senso quotidiano, recita che non si sa come dire quando non si sa cosa dire. Non è vero. Il flusso comunicativo non è unidirezionale, ma multidirezionale, quindi noi non solo comunichiamo, ma anche riceviamo comunicazioni. E il medesimo problema che abbiamo nel comunicare agli altri, lo abbiamo anche per ricevere dagli altri. C’è un problema di stile anche nella ricezione, identiche difficoltà, identiche illusioni. Limitandosi al linguaggio scritto, poniamo leggendo un articolo di uno dei nostri giornali, noi possiamo anche ricostruire il modo in cui l’estensore di quell’articolo riceve le comunicazioni che gli provengono dall’esterno, lo stile deve essere per forza il medesimo, vi possiamo identificare le stesse letture, gli stessi errori, gli stessi cortocircuiti. E ciò perché questi incidenti e questi limiti non sono solo elementi dello stile, ma componenti essenziali anche del suo progetto, del metodo impiegato e della sua stessa vita. Possiamo vedere bene che più povere e ripetitive sono le comunicazioni in arrivo, per quanto possano provenire direttamente dalla realtà dei fatti, più modesta è la capacità di cogliere le articolazioni di un progetto rivoluzionario che per forza di cose deve travalicare sia quelle comunicazioni in arrivo, sia quei fatti. Ne viene fuori, nelle parole e, purtroppo, anche nei fatti, un’approssimazione, un’incertezza, una elementarità di idee che fanno torto sia alla complessità delle intuizioni e delle realizzazioni del nemico, sia alla nostra stessa intenzionalità rivoluzionaria. Se le cose stessero diversamente, il realismo socialista sarebbe stato l’unica soluzione possibile, con la sua brava classe operaia sempre pronta a mobilitarsi, come i bravi minatori rumeni, per ristabilire l’ordine nuovo di Iliescu. ** Perdita della cultura Sul concetto di cultura ci sarebbe da discutere, potendo spaziare dalla visione genericamente umanistica, che si aveva una volta, ad una concezione più moderna, fondata su una centralità delle scienze. Per noi la cultura è qualcosa di diverso, per quanto non possiamo dire che sia completamente altro. Prodotto della realtà in cui viviamo, somma di cognizioni, disponibilità di strumenti, essa è anche parte considerevole di ognuno di noi, fino a costituire elemento della vita e possibilità di cogliere qualcosa che nella vita rischia di sfuggire nella monotonia e nella ripetitività. C’è quindi un modo passivo e uno attivo di vivere il proprio rapporto con l’eterogeneo sistema culturale che attraversiamo, da cui siamo penetrati continuamente. Possiamo goderne gli effetti, lasciarci plasmare come creta e venire fuori pappagalli ammaestrati, restando a bocca aperta davanti alle paccottiglie fornite dai centri universali del sapere (ormai nemmeno più diviso in tecnologia e umanesimo). Ma, in un’altra prospettiva, possiamo attivamente disporci alla conquista di questo sapere, senza illuderci di seguirlo in tutte le sue folli variazioni, ma senza neanche scarnificarlo per farne pappetta adatta alle gengive dei neonati. Questo misterioso universo culturale che ci sta di fronte, in una realtà contrassegnata dalla storia del potere, è sicuramente frutto delle attività del potere stesso, strumento e prodotto nello stesso tempo, causa ed effetto, elementi mai scindibili della continua creazione umana. Ma l’uomo è anche questa cosa qui, questo prodotto storico del potere che bisogna scrostare, liberare, e ciò non può avvenire traendo alla superficie un simulacro bellissimo, ma morto, dell’ideologia libertaria, un uomo astrattamente libero, incontaminato e puro, quindi non necessitante della cultura come possibilità di vita. L’istinto rivoluzionario di pulizia, la distruzione innanzi tutto, è certo una delle componenti essenziali dell’azione trasformativa della realtà, ma non può considerarsi, di per sé, custode e portatore della nuda verità, la cosa si ridurrebbe ad una semplificazione banale, oltre che odiosa. La realtà è sempre più complessa di come la si riesce a pensare, e ciò vale non solo per le condizioni attuali, giacenti sotto lo sfruttamento, ma anche per quelle future, definitivamente liberate. La naturalezza scarnificata è una produzione culturale anch’essa, purtroppo tragicamente ideologizzata, e ne fanno le spese gli estremismi più folcloristici e privi di giustificazione, fondati sull’illusione d’un contatto personale e definitivo con la natura. La realtà, da parte sua, è sempre avvolta in veli che dobbiamo scoprire interpretare, squarciare, ma che non possiamo ignorare. La cultura gestisce questi veli, naturalmente a suo modo e per i suoi interessi, personificandosi con la gestione del potere in carica, ma essa non si chiude solo in questa gestione, è essa stessa, in quanto cultura, un momento della vita, un aspetto del divenire, del diventare azione. La riappropriazione della cultura è quindi processo molteplice, dai diversi stimoli e ostacoli. Farlo coincidere con una semplice riduzione all’evidente, mi sembra pericoloso, perché l’evidente, l’estremamente semplice, è proprio la componente a più alto contenuto ideologico, basti pensare alla pubblicità, al linguaggio dei giornali sportivi, alle conventicole e ai loro turpiloqui confezionati in serie. Gli anarchici che hanno avuto da sempre, all’interno del loro movimento, diverse componenti che si sono coscientemente dirette a provocare questi disvelamenti, adesso, in questi ultimi decenni, hanno subìto anch’essi un forte calo di creatività, con le dovute eccezioni. Una volta, escludendo la componente anarcosindacalista, per forza di cose legata ai moduli della ripetitività, altre componenti producevano cultura di prim’ordine, subito magari ripresa dalle componenti più avanzate del potere, oggi, almeno dopo il fenomeno “sessantotto” e il relativo recupero, si può dire che prevale piuttosto l’adagiarsi su modelli culturali forniti dall’accademia e opportunamente espunti e adeguati. Per sovraccarico questo processo di adattamento è stato fatto e continua a farsi sempre al ribasso, cioè spogliando quei contenuti accademici della parte tecnica in nome di una malriposta essenzialità rivoluzionaria, accompagnata da un disprezzo per le difficoltà di questi contenuti che cela la nostra comune ignoranza. Quante sconsideratezze sono state dette sulla musica, ad esempio. Che la musica sia una parte della cultura non ci può essere dubbio, che questa parte ci viene sistematicamente sottratta, anche questo è vero, ma che sia solo “ricreativa” e non “creativa” o che non “ha mai preteso di essere una cosa seria”, mi paiono delle enormità. La musica è cultura e quindi ha il diritto di far parte, con tutti i suoi limiti imposti dalla gestione del potere, delle possibilità umane di liberazione. Bisogna vedere in che modo la si accosti, ma questo è un altro problema. Mi dispiace dovere ammettere che non è certo questo il modo di un accostamento critico capace di produrre disvelamenti rivoluzionari. Buttando lì affermazioni giuste in mezzo ad altre contraddittorie e superficiali, diamo una mano a coloro che ci vogliono sottrarre questi strumenti culturali. E, da questo punto di vista, tra la musica e la matematica (poniamo) non corrono differenze. Siamo assediati da una pseudo-cultura, questo è vero, zavorra che ci viene propinata per farci accettare condizioni di sopravvivenza maniacali, ma ciò non vuol dire che tutto si sia trasformato in questa merda indigesta. E questa invasione diventa valanga quando prende la forma dell’informazione, del dato di fatto. Montagne informative si accumulano davanti a noi, siamo sommersi da eruzioni e mareggiate di carta, immagini, pubblicità. Rumori, ritmi, mode, record si accumulano in modo vessatorio. Siamo sollecitati ad accettare, ricevere, guardare, muoverci con una nevrosi ossessiva che ci colpisce e ristagna dentro di noi. Non è più nemmeno il caso di sognare un dominio critico su questo spaventoso universo culturale che l’avvento della telematica sta perfezionando dal punto di vista del dominio. Ma non possiamo neanche buttare a mare tutto, sognare un’innocenza che non è mai stata di questo mondo, un ritorno alla natura dove se c’è un rumore non è quello della musica di regime ma solo quello dell’orchestra della foresta. Assurdità. L’asfissia che avvertiamo non può spingerci a dire (e fare) stupidaggini. L’uomo è oggi più che mai immerso in una situazione culturale complessa, che deve essere conosciuta se si vuole trasformarla. Pensare di poterne fare a meno, semplicemente esorcizzandola, o producendo sentenze astratte di condanna, non fornisce mezzi idonei all’azione rivoluzionaria. ** La tecnologia buona La logica spicciola, diciamo quella legata al comune buon senso, impone che per fare una cosa ci vogliono i mezzi adatti. Ecco perché mi capita di leggere che i compagni, i quali come me condividono non solo la necessità ma anche l’urgenza di attaccare e distruggere le reti telematiche, pensano che bisogna “impadronirsi delle conoscenze sui computer” come primo passo per attaccare tutto il resto. Io condivido questa premessa conoscitiva, nel senso che la conoscenza è sempre, o quasi sempre, un fatto positivo, purché ci si renda conto di quello che si sta apprendendo e di come lo si possa usare, evitando di cadere nelle trappole, ormai apprestate, capaci di farci apprendere solo quello che vogliono i nostri nemici e non quello che vogliamo noi. Il problema è difficile, ma può essere schematizzato in modo semplice partendo da quello che si definisce il limite della tecnologia “buona”. La quasi totalità delle tesi ecologiste si fondano su di una presunta soluzione di questo problema, oltre che su di un’altrettanto presunta individuazione di quel limite. Ora, fin che si resta in questa prospettiva, l’uso di tecnologie meno dannose è certamente possibile e a nessuno verrebbe in mente di suggerire un ritorno all’età della pietra. Ma le tecnologie non sono tutte uguali e, poniamo, c’è una grande differenza tra quelle dirette a sviluppare l’energia nucleare e quelle dirette a realizzare la rete telematica, ormai in celerissimo sviluppo. Il settore della produzione nucleare è settore a rischio e propone un pericolo per l’incolumità di tutti, quindi tocca interessi che possono, dentro certi limiti, sensibilizzare strati socialmente contrastanti tra di loro, esclusi e inclusi. La paura della guerra totale, in definitiva, ha portato ad un assetto differente del mondo che ripiega su guerre parziali e su di una riduzione progressiva dell’arsenale atomico. Siamo qui davanti ad un interesse che, sia pure considerato in modo antitetico, viene capito dai due lati della barricata di classe. Il settore della produzione telematica è certamente anch’esso settore a rischio, e ciò perché sta sconvolgendo l’assetto del mondo per come lo conosciamo noi, ma è un rischio che gli inclusi stanno a poco a poco eliminando, staccando da sé gli esclusi e quindi proponendo una diversa interpretazione degli interessi da tutelare di fronte al diffondersi dei mezzi telematici. In altre parole, le conseguenze, di cui diremo subito dopo, non saranno uguali per tutti – come nel caso della morte atomica – ma saranno percepite e controllate dagli inclusi, mentre per gli esclusi saranno sconosciute, quindi incontrollabili e quindi letali. Quello che il nucleare in fondo accomunava in un ibrido sociale, la telematica separa alzando un muro che consentirà una divisione in classi molto più rigida di quella che storicamente conosciamo. Ma quali potrebbero essere mai queste conseguenze? Molti si chiedono che male ci sia nell’informatica e nei computer, perché questo neoluddismo? Non è forse qualcosa di desueto? Non rischiano i suoi sostenitori di intaccare nel loro sacro furore anche la tecnologia buona, quella che potremo usare dopo la rivoluzione, anzi quella che dobbiamo usare oggi per combattere contro il nemico di classe? Si tratta di domande cui bisogna dare una risposta. La telematica ha aperto un mondo nuovo, ma è un mondo che per essere gestito e utilizzato, tecnologicamente appunto, abbisogna di una riduzione notevole delle attuali possibilità umane in termini di intelligenza, di capacità analitiche, di coscienza di sé, di autonomia dell’individuo, di riflessione, di progettualità. Nessuna tecnologia è di per sé buona, bisogna vedere come la si usa; ma questa tecnologia è di per sé cattiva e non per il motivo per cui era, ed è, cattiva la tecnologia nucleare (cattiva per tutti), ma perché la tecnologia telematica è cattiva solo per gli esclusi. Infatti, mentre tutta la tecnologia, perfino quella derivata dal nucleare, costituisce una protesi moltiplicativa della capacità umana, la telematica, al contrario, costituisce una protesi riduttiva della stessa capacità. La telematica, per diffondersi a livello di conquista del mondo, deve educare l’uomo al suo uso. Non potendo raggiungere l’individuo ai suoi livelli, anche quelli del semplice senso comune, lo deve abbassare ai propri, che sono quelli della macchina. L’uomo nuovo, che la telematica vuole fabbricare, in massa e per i bisogni massicci di una tecnologia sostitutiva, è un uomo dotato di scarsa intelligenza, poca capacità di comunicazione, ridotte possibilità immaginative e creative, ma altissime capacità di mobilità, di riflessi, di decisioni tra elementi diversi però indicati in un preciso quadro precostituito. Per far questo, il progetto telematico si sta muovendo per costruire una profonda modificazione delle capacità percettive dell’uomo. Ora, se riflettiamo anche un poco sull’importanza fondamentale che per noi hanno queste capacità, ci rendiamo conto della drammatica situazione che si verrebbe a creare in un contesto sociale in cui questo progetto riuscisse a passare inosservato e totalmente applicato. Quello che senza accorgercene stanno modificando è il rapporto che è sempre esistito tra il nostro corpo e la tecnologia, un rapporto di protesi, quindi di aumento delle capacità del corpo. È certo che un miope con gli occhiali vede meglio, e correggendo opportunamente le lenti può anche arrivare a vedere come un uomo con la vista buona. Invece l’immagine digitale fornita dalla telematica non ha nulla a che vedere con la realtà. Se noi vediamo una casa con i nostri occhi, diamo inizio, attraverso i processi mentali di percezione e memorizzazione, a un complesso sistema di ricostruzione analogica che ci permette di affermare di trovarci davanti a una casa. Ma, se vediamo una casa nello schermo di un computer, sono migliaia di impulsi luminosi della macchina che ci suggeriscono un’immagine che non ricorda per nulla una casa, per vedervi una casa dobbiamo essere educati a farlo, dobbiamo cioè ridurci a livello della macchina. Certo, sulle prime siamo portati a ribellarci e a trovare “strana” l’immagine della casa, ma tutto sta nel far passare il tempo senza reagire. A poco a poco, dentro la nostra coscienza emerge una nuova mappa del comportamento. Reagiamo in modo diverso davanti a quel disegno e con maggiore difficoltà ci ribelliamo all’idea che sia veramente la figura di una casa. A questo punto, il computer sta entrando in noi, la tecnologia non è più qualcosa di esterno, la mano meccanica dalla forza immensa è una protesi rovesciata che sta penetrando nel nostro cervello e ci sta condizionando. Siamo così in grado di accettare una sequenza di immagini anche lunga, e perfino un’intera trasmissione televisiva, scambiandola realmente per una riproduzione della realtà. Il nostro condizionamento televisivo non ci consentirà più, nei fatti, una ribellione, anzi con definizione appena più elevata, il circuito integrato cancellerà ogni differenza ancora oggi percepibile. Ma la telematica non si occupa soltanto del problema della ricezione (percezione), ma anche della trasmissione (linguaggio). Anche in questo senso ci si deve adattare a una riduzione. Una continua selezione dei patrimonio linguistico è in atto attraverso la tecnologia telematica, con un vasto numero di parole che cadono completamente in disuso e vengono dimenticate per essere sostituite da altre parole, spesso in inglese, più essenzializzate. In questi anni si sta quindi ponendo un problema centrale nella storia della lotta contro il nemico di classe: decidersi o non decidersi ad un attacco immediato e diffuso al massimo contro le realizzazioni della telematica? Questa decisione deve essere presa prima che lo sviluppo di questa tecnologia ci sottragga la capacità di decidere per una lotta contro di essa. Potremmo non essere in grado, dentro breve tempo, di capire gli effetti generalizzati della telematica e questa nostra ignoranza potrebbe crescere anche parallelamente alla conoscenza del mezzo telematico stesso, proprio perché non è possibile una vera e propria conoscenza di questa tecnologia che non sia in se stessa vicaria, cioè sottomessa all’accettazione di condizioni di sudditanza intellettuale generalizzata. Su questo problema della conoscenza dei computer, conoscenza che si ipotizza necessaria per combatterli e contribuire alla loro distruzione, c’è qualche aspetto poco chiaro che vorrei sottolineare. Affermando, come è stato fatto, la necessità di “impadronirsi delle conoscenze sui computer” mi chiedo cosa si voglia intendere. A questo proposito mi permetto di ricordare un fatto che, sia pure indirettamente, ho vissuto io stesso. Agli inizi degli anni Sessanta due miei amici matematici, ambedue assistenti di statistica all’università di Catania, attirati da un’interessante proposta sovvenzionata dall’Olivetti e coordinata dall’Istituto di matematica dell’università di Pisa, accettarono di trasferirsi in quest’ultima facoltà per partecipare alla costruzione del primo calcolatore interamente italiano. Dopo qualche tempo, credo un paio d’anni, incontrai uno dei due che mi raccontò le sue tristi vicissitudini in quel di Pisa. Qui, ad un certo punto, il progetto complessivo si era arenato per sopravvenute difficoltà nella risoluzione di alcuni algoritmi più complessi. Il direttore del progetto aveva avuto la brillante idea di aggirare la soluzione diretta degli algoritmi, che richiedeva molto tempo e una grossa dose di creatività matematica, mettendo un avviso sulla ‘Settimana enigmistica” e sollecitando la collaborazione degli appassionati del settore, i quali, dietro pagamento, per altro modesto, si fecero avanti e risolsero i problemi, come si dice, in modo indiretto, cioè attraverso le tabelle o matrici che sviluppano tutte le possibilità della logica binaria, un lavoro incredibilmente lungo, ma anche incredibilmente stupido. Quando il calcolatore Olivetti della cosiddetta prima generazione fu pronto, risolse facilmente da solo gli algoritmi suddetti. La triste realtà dell’elettronica è che, a parte gli aspetti strettamente tecnici della componentistica, non c’è quasi più traccia di problemi conoscitivi reali. Molti compagni, forse attirati dai clamorosi furti elettronici o dai sabotaggi tramite i programmi “virus”, s’immaginano di realizzare anche loro queste belle imprese e quindi ne deducono la necessità di imparare a conoscere come si fanno i programmi e così via. Da qui si passa poi alle fantasie più o meno sensate sulla validità di “corsi” da frequentare o di manuali da ‘studiare”. Secondo me, il problema non è diverso da quello che porta a concludere che pur potendosi fabbricare gli esplosivi anche nella propria cucina è meglio evitare di farlo: si fa prima ed è meno pericoloso comprarli e imparare, molto semplicemente, ad usarli. ** Il linguaggio della tecnica La nostra lettura della tecnologia deve essere doppiamente critica, in primo luogo perché apporta un sostegno al potere in generale rendendo possibili utilizzi futuri imprevedibili, in secondo luogo perché insinua un secondo territorio del discorso, quello capace di ripiegare su se stesso fino all’adattamento alle condizioni sociali in corso di modificazione. Si può dire, e le recenti trasformazioni ecologiste ne sono documento, che non c’è affermazione apologetica che non contenga un risvolto critico nascosto e altrettanto plausibile. Allo stesso modo, non c’è analisi critica positiva, quella che individua i difetti di oggi per correggerli, che non possieda un risvolto apologetico, tanto più forte quanto più si trova in grado di superare le stesse considerazioni critiche. Spesso, la molteplicità dei campi d’intervento, dove la tecnologia s’impiega e si riproduce, e dove vengono elaborati quei sistemi di pensiero che creano i presupposti, contemporanei e ambivalenti, del suo consumo e della sua produzione, questa molteplicità crea problemi di interazione assolutamente imprevedibili. La sconsiderata gestione degli impieghi di alcune tecnologie non consente di fare previsioni, né positive, né negative. A stretto rigore di termini non giustificherebbe nemmeno l’istanza negativa, quindi distruttiva, di cui ci facciamo portatori. Ma, l’incoscienza degli altri, da cui il semplice mettere la testa sotto la sabbia, non ci ha indotto a ritenere giustificata l’attesa passiva e l’intuizione. Potremmo anche avere torto, e contribuire a bloccare sul nascere, o a rendere più difficile, il geniale parto d’un futuro di felicità per l’uomo, ma non sembra che nell’attuale panorama scientifico esistano indicazioni tali da fare gridare al miracolo. L’approssimazione e la superficialità regnano sovrane, mitigandosi solo in quei progetti a corto respiro che stanno sempre di più prendendo il posto delle vecchie illusioni a lungo termine. Certamente le ipotesi scientifiche e le relative applicazioni tecnologiche hanno da sempre modificato la condizione della materia, assoggettando quest’ultima ai bisogni dell’uomo, al suo fondamentale desiderio di adeguare la realtà alle proprie idee. Questo percorso “storico” della vicenda umana non corrisponde esattamente a quello che siamo soliti chiamare realtà, in quanto molti adeguamenti tecnologici e scientifici della materia non si può dire che siano stati avvenimenti positivi per l’uomo, dalla polvere da sparo alla bomba atomica, ma certamente si può fare riferimento ad un movimento, tortuoso e spesso contraddittorio, diretto a ridurre la spontaneità della natura, e dei processi vitali in genere, alla controllabilità e alla riproducibilità della tecnica. In fondo l’uomo è, fra gli animali, quello meno capace di vivere in natura, fra i più sprovvisti di difesa, con i cuccioli più deboli, ma con una capacità di cambiare le condizioni ambientali da sfavorevoli in favorevoli. Per questi motivi, l’uomo come lo conosciamo oggi, prodotto di una breve evoluzione storica di qualche migliaio di anni, è anch’esso un prodotto della tecnica. Fin qui non ci sarebbe nulla di male se questa tecnica avesse anche oggi il semplice programma di cambiare la realtà, creando protesi se non proprio utili all’uomo, almeno da questo controllabili. Naturalmente, ogni protesi, ingigantendo le possibilità limitate dell’uomo, lo trasforma in gigante capace di distruzioni che i Titani nemmeno sognavano, e questo è anche vero, nel senso quindi che proprio nell’idea stessa di moltiplicazione della forza sta il germe della pericolosità, ma poiché la protesi è sempre una cosa utile, bisogna pure accettare certi rischi. E così si è fatto per millenni. Protesi spaventose, dal bronzo al ferro, dall’acciaio ai missili, si sono accavallate spesso senza dare tempo di riflettere. Convogliando entusiasmi e imbecillità, sterili opposizioni e incantamenti speranzosi. Restando nell’ambito dei cambiamenti della materia, quindi nella costruzione delle protesi, per quanto si poteva andare incontro a seri pericoli, c’era sempre la possibilità, se non altro teorica, di provvedere a dei controlli capaci di frenare la sconsideratezza umana. Tutto ciò, con la tecnologia di questi ultimi due decenni, si è profondamente trasformato. La pericolosità ha raggiunto limiti intollerabili per due motivi che spesso non vengono capiti bene, per cui ogni critica alla tecnologia finisce per sbilanciarsi o in un generico massimalismo, che tenta solo di esorcizzare un ignoto pericolo, o in un desiderio di distinguere qualcosa che proprio a causa dell’ignoranza con cui la si avvicina, non si può distinguere e nemmeno conoscere. Il primo di questi motivi è dato dal fatto che la tecnologia oggi non solo cambia la materia, cioè lavora su di essa producendo impieghi diversi, ma entra dentro la materia, quindi ne stravolge la composizione. Il secondo motivo è che l’insieme dei mezzi disponibili, realizzati dalla tecnologia, può essere modificato in modo imprevedibile da questa entrata dentro la materia, rendendo pericolosi aspetti scientifici, ipotesi, o semplici ritrovati tecnici, che prima erano mantenuti sotto controllo. La creazione di nuovi materiali, di nuovi esseri viventi, di una nuova realtà virtuale, considerata come una ulteriore mossa della ricerca scientifica e della relativa applicazione tecnica, non può preoccupare più di quanto hanno preoccupato, e continuano a preoccupare, le invenzioni delle armi chimiche, dei reattori nucleari o della bomba ad idrogeno. Ma, non appena ci si sofferma un poco di più, anche senza entrare in argomenti specifici, non si può non restare sorpresi dal fatto di trovarsi di fronte ad una soglia mai superata prima. Le modificazioni a livello genetico o molecolare, come la realizzazione di una realtà fantastica all’interno della quale si può avere la sensazione piena di essere ed agire, permettono la produzione su ampia scala di esseri viventi e materiali assolutamente sconosciuti, come pure lasciano pensare come possibili comportamenti impensabili, accelerando il processo di distacco dalla realtà che torna tanto utile alla gestione del consenso. Molti di questi nuovi prodotti – considerando come prodotto anche la possibilità virtuale di sperimentare una realtà inesistente – inserendosi nell’insieme di tutti gli altri materiali, e quindi di tutti gli altri esseri viventi, e nell’esperienza della realtà che conosciamo tutti i giorni, daranno vita a conseguenze imprevedibili per coloro che oggi, nel chiuso dei laboratori, si limitano a realizzare queste trasformazioni senza nulla chiedersi in merito alle possibili conseguenze. La semplice produzione di una mucca gigantesca, di un cavallo piccolissimo per laboratori, o di un topo enorme quanto un cavallo, non possono impressionare se non gli appassionati di fantascienza. Lo stesso per la produzione di materiali superconduttori, capaci di trasferire l’elettricità quasi senza perdita. Lo stesso per le esperienze derivanti dalla realtà virtuale, che costituiranno la semplice soglia di un utilizzo massiccio e coinvolgente dell’intera rete telematica mondiale, affascinando dapprima, sconvolgendo poi, uniformando in definitiva alle norme del nuovo senso comune, inscatolato e condizionato proprio nel momento in cui si presenta nelle vesti della maggiore libertà raggiunta, quella di vivere concretamente i propri sogni. Nessuno può dire quale sarà la reazione dell’ambiente a certi materiali e a certi esseri viventi, nessuno potrà prevedere in che modo il nostro mondo verrà modificato dai nostri modificati comportamenti, una volta che questi potranno interagire con nuovi materiali a disposizione. Se la tecnologia del passato, in quanto sistema complesso, fondato sulle ipotesi scientifiche di ricerca e di analisi, presentava pericoli circoscrivibili, dentro certi limiti, o comunque reciprocamente controllabili nell’ambito di interessi contraddittori, e se infine, come sogno liberatorio, presentava l’allettante possibilità rivoluzionaria di essere un giorno strumento di libertà per tutti, abolendo la divisione in classi e il fantasma dello Stato, se tutto ciò era sotto molti aspetti fondato e plausibile, lo si doveva al fatto che ogni nuovo tassello del quadro tecnologico e scientifico complessivo, poteva essere dentro certi limiti previsto. Oggi, venendo a mancare questa possibilità di previsione, sia per le singole protesi, che ormai diventa inesatto definire tali, sia per l’interazione che ogni singola nuova produzione tecnologica ha all’interno dell’insieme totale della formazione sociale, finalmente abbiamo capito che anche l’antica illusione gestionaria del controllo e della limitazione era soltanto il prodotto di un’epoca storica ormai conclusa. E non potendo prevedere tali conseguenze, anche la più innocua sperimentazione può concorre alla diffusione irrimediabile di una spaventosa catastrofe. ** La “fine” della crisi Fra i diversi cambiamenti che si possono cogliere nelle analisi in circolazione, c’è il diverso ruolo che viene assegnato alla “crisi economica”, intesa nel senso più ampio del termine. In un passato, anche recente, si parlava molto – negli ambienti marxisti – di un “divenire oggettivo della crisi”, su cui venivano fondate diverse considerazioni strategiche ed organizzative. Ad esempio, non solo si fondava su di esso la stessa possibilità di pervenire ad un rendiconto rivoluzionario col nemico di classe, ma si scendeva nei particolari legando all’andamento preteso oggettivo della “crisi”, la funzione strategica del partito rivoluzionario e la scelta “vincente” dello strumento generalizzato sotto il termine di “lotta armata”. Adesso le cose non stanno più così, questo lo sappiamo anche noi, ma i motivi che hanno portato alle presenti titubanze sono di natura tutt’altro che seria e non meritano un approfondimento potendosi riassumere nei capovolgimenti di prospettiva che si sono avuti a seguito di banali questioni di bottega. Le cose sono andate male (ma, partendo da quelle premesse, potevano forse andare meglio?) e quindi si è arrivati alla conclusione che il “funzionamento” del meccanismo oggettivo non ha funzionato come di dovere. Altre conclusioni sono andate verso la negazione del meccanismo in uno con la conversione a pratiche collaborazioniste che rivelano soltanto il fatto che la grettezza mentale di oggi è identica a quella di ieri, solo che quella di ieri era nascosta dal manto misericordioso delle parole e dei concetti prefabbricati. Che i marxisti abbiano usato questo concetto anche in senso consolatorio è un fatto accertato. In tempi di basso livello conflittuale, quando i cuori diventano tiepidi, il treno determinista continua la sua marcia. La crisi lavora al posto dei rivoluzionari, scavando nel vivo della formazione sociale ed economica, preparando il terreno per le contraddizioni del futuro. In questo modo, il militante, che ha tutto sacrificato alle speranze rivoluzionarie, non si vede mancare il terreno sotto i piedi, e continua a lottare pensando di avere un potente alleato nascosto nella natura stessa delle cose. In tempi più contraddittori, quando il livello dello scontro di classe si alza, il determinismo si ferma, cioè diventa poco utile, e viene messo dietro le quinte, sostituito da un volontarismo opportunista capace (o speranzoso) di cavalcare le iniziative del movimento, le improvvise decisioni distruttive, le creazioni organizzative spontanee, ecc. Ma, ben al di là delle questioni di bottega, che i sognatori del potere revisionato portano avanti, c’è l’effettiva consistenza del problema. Di fatto, l’andamento del processo economico e sociale nel suo insieme, sia nel dettaglio della specifica situazione, come nell’insieme delle grandi polarizzazioni internazionali, non è omogeneo. Ci sono periodi di assestamento, di costanti indici produttivi, di maggiori equilibri internazionali (politici ed economici); ci sono periodi, al contrario, in cui le contraddizioni si esaltano e tutto il sistema sembra arrivare ad un punto critico. Gli stessi economisti hanno parlato di “cicli”, mai mettendosi d’accordo sulla loro individuazione o specificazione. Si può dire che il capitolo dei cicli è quello che racchiude le cose più umoristiche di tutta questa ridicola scienza. Esiste la possibilità per i capitalisti di mettere ordine nella formazione economica e nelle singole strutture che la compongono? La risposta è negativa. Ma questa risposta negativa non è affatto quella che conduce all’ammissione dell’ineluttabilità delle crisi e quindi alla possibile, pacifica, attesa che le cose – di per se stesse – ci conducano allo sbocco rivoluzionario. Al contrario. Una simile teoria “rivoluzionaria” ha fatto il paio con la teoria capitalista della pianificazione (il Long Range Planning, cioè la pianificazione strategica a lungo termine). In un caso e nell’altro si commetteva lo stesso errore. Si pensava la formazione economica (e sociale) come un tutto retto da leggi ben ordinate che una scienza precisa (l’economia) e la sua ancella da camera (la sociologia), studiavano e mettevano in luce, consentendo ai rivoluzionari (da un lato) e ai capitalisti (dall’altro lato) di trarre indicazioni certe per fissare le proprie strategie a lungo termine. Adesso si è capito che la crisi non esiste, non perché il mondo sia perfettamente ordinato ma, al contrario, perché è assolutamente disordinato, perché è continuamente in balia di turbolenze che possono acutizzarsi o ridursi, ma che non possono essere considerate come “crisi”, in quanto non corrispondono a situazioni “anomale” ma, ben più precisamente, alla realtà stessa della formazione economica e sociale. Per i capitalisti, il Long Range Planning, è diventato obsoleto agli inizi degli anni Settanta. Per i rivoluzionari il parallelo concetto di “crisi” si può dire che non è ancora diventato obsoleto. Il ritardo non è trascurabile. Mi pare utile riflettere meglio sulle mutate condizioni dell’economia – almeno a livello microeconomico – per cominciare a capire i cambiamenti che si stanno producendo nelle analisi rivoluzionarie fondate sulla “crisi”, intesa come concetto limite che permette un più adeguato uso degli strumenti di rottura. Difatti, è fuor di dubbio che molta parte della stessa analisi anarchica si basa su ritardi di comprensione, su trasferimenti indebiti e su accettazioni involontarie. Per molto tempo abbiamo pensato che si potessero utilizzare, semplicemente privandole di alcune premesse e di certe conclusioni, le analisi economiche fornite dalla chiesa marxista. Questo fatto ha di già causato sufficienti guasti. È bene cercare di porvi rimedio. Penso che le riflessioni marxiste non si possono utilizzare sotto nessuno aspetto. Salvo a spurgarle delle premesse dialettico-deterministe, cosa questa che finisce per trasformarle in banalità indigeste. La necessità di adeguare la produzione alle previsioni fatte sulla base di un presupposto inesistente (ordine economico e leggi economiche), rendeva molto rischiosa la situazione delle imprese capitaliste, le quali costituiscono l’elemento sostanziale di quello che definiamo “capitale”. Si consideravano così elementi spuri, da imputare alle sopravvenute congiunture, tutti gli scostamenti dalla previsione. Sfuggiva in tal modo la natura durevole e costante di questi accadimenti pretesi eccezionali. Le modificazioni nei livelli della domanda, la concorrenza oligopolistica, le difese corporative dei mercati, i livelli dei prezzi, dei cambi, dei costi, la normativa occupazionale, i condizionamenti ambientali; tutto questo non si poteva continuare a consideralo “un insieme di elementi di disturbo” che contraddiceva alle “certezze” della teoria, la quale era la sola autorizzata ad interpretare la realtà. In questo modo, il capitale finiva per avere sorprese sul piano strategico. In altri termini, affrontava continue modificazioni delle previsioni, che lo mettevano in una situazione in cui diventava sempre più difficile adeguarsi ai cambiamenti della realtà economica. Cominciava così a diffondersi – in negativo – il sospetto della possibile irrazionalità dei comportamenti economici. L’intervento correttivo dello Stato, specie sul finire degli anni Settanta, è stato senz’altro uno degli aspetti di un possibile risanamento, ma, da solo, non poteva risultare sufficiente. Anche perché, ben considerando, gli stimoli dello Stato andavano sì verso una riduzione degli aspetti negativi della “concorrenza capitalista”, ma risultavano troppo puntati sulle necessità istituzionali del controllo sociale. In fondo lo Stato è un’impresa economica particolare che tende a ridurre l’intera formazione economica (e sociale) ad un’unica azienda produttrice di un’unica merce: la pace sociale. Il capitale sa bene, perché si vede riflesso nello specchio deformante delle esperienze basate sul socialismo reale, che quella strada di rigenerazione capitalista che passa per il capitale di Stato è, forse, per lui, un male ancora peggiore, in quanto garantisce la persistenza del dominio, ma snatura troppo gli aspetti classici del modello capitalista, addomesticandolo nei ristretti confini delle necessità istituzionali di controllo. In fondo, a ben considerare, tutta la fase di inserimento della variabile correttiva “Stato”, – fase che possiamo dire conclusa nei termini strettamente economici intorno ai primissimi anni Ottanta – aveva anche lo scopo di fare finanziare allo Stato – almeno per quanto riguarda i paesi a capitalismo avanzato – quel progetto in avanzata fase di realizzazione con cui si dava inizio alla più profonda innovazione tecnologica della storia, quella elettronica. Era questo infatti un elemento indispensabile per convivere con il mostro. La soluzione stava nel raggiungere, nel più breve tempo possibile, la massima flessibilità produttiva. Gli economisti hanno lavorato sodo. Di fronte al pericolo di non riuscire a uscire dagli schemi della “crisi” si sono dati da fare. Per prima cosa hanno criticato la teoria neoclassica dell’impresa, poi quella manageriale. Agli inizi, questa critica cercava di spingere la teoria ad una più approfondita ricerca delle “uniformità”, perché si mettesse fine alle incertezze determinate dalla estrema molteplicità dei fenomeni. Poi è stata avanzata la critica della “cultura della crisi”, intesa come accettazione passiva di una situazione anomala che si presupponeva superabile. Tutto il periodo degli anni Settanta è attraversato da ricerche economiche dirette ad approfondire, in senso negativo, la scarsa validità delle previsioni basate sulle teorie economiche precedenti (neoclassiche o manageriali). Infine, con l’inizio degli anni Ottanta, la “instabilità” e la relativa complessità dei fenomeni vengono ad essere riconosciute come strutture della formazione economica e l’idea di una compresenza di forze e di interessi contrastanti all’interno dei quali mettere ordine, viene messa definitivamente da parte. Gli economisti parlano adesso chiaramente di “non regolabilità”. Una determinata situazione – nel breve, se non nel brevissimo termine – diventa comprensibile per l’azienda solo se si considera la realtà economica come un insieme privo di centri e di capacità di ordinamento, una pluralità di forze agenti su decisioni non sempre riconducibili ai canoni astratti di “razionalità”. La risposta data dalla teoria economica a questo problema è stata chiara. L’impresa capitalista può affrontare questa situazione solo se porta al massimo la propria flessibilità. Non si tratta di una situazione “nuova”, ma di un “nuovo” modo di vedere la realtà. L’impresa deve essere flessibile sia nelle decisioni, sia nella organizzazione della produzione, sia nel proprio adeguamento ai mutamenti congiunturali complessivi. Così le imprese si decentralizzano, i processi produttivi non sono più fissi, le “anomalie” diventano regola, il caos è ricondotto nei canoni tranquillizzanti della “legge economica”. In realtà il caos è rimasto tale, a modificarsi sono stati solo i modi di considerarlo. Il capitalista sta imparando a cavalcare il mostro. Da sempre egli è stato un uomo con pochi scrupoli e con un certo coraggio da pirata. Oggi lo diventa ancora di più. Sono scomparsi i sacerdoti dell’economia che gli cantavano nenie consolatorie. Se vuole sopravvivere deve farlo mettendosi il coltello tra i denti. La rapina e la violenza sono sempre più le armi del breve e medio termine. Le grandi prospettive pianificatrici – spesso seguite da sviolinature in chiave sociale – sono messe da parte. La teoria economica del passato fa una brutta fine. Il modello neoclassico che ipotizzava un calcolo economico razionale degli operatori, i quali venivano poi a scontrarsi nel mercato e qui vi raggiungevano il proprio equilibrio, è messo in soffitta. Lo stesso per la teoria manageriale che si fondava esclusivamente sulla stabilità organizzativa dell’impresa e sulla sua capacità di pianificazione. A questi ruderi del passato si sostituisce il concetto di procedere per “tentativi”, concetto che viene prelevato di peso dalla cibernetica. Naturalmente questi tentativi sono possibili solo se l’impresa è diventata altamente flessibile e solo se può esercitare un sufficiente controllo su questi tentativi stessi, non un controllo a priori (che si è rivelato anch’esso ipotetico), ma un controllo a posteriori in grado di rendere efficaci i diversi tentativi. Queste tesi mettono da canto anche le ipotesi di “razionalità limitata” che caratterizzavano la teoria manageriale degli anni Settanta. La nuova situazione pone chiaramente il problema di come l’impresa deve regolarsi davanti all’impossibilità di controllare le variabili esterne ed alcune delle stesse variabili interne. Le stesse componenti “politiche” dell’impresa, la tecnostruttura nel senso definito dagli economisti americani di “sinistra” degli anni Sessanta, diventano elementi di incertezza. Dal lato della macroanalisi – lo Stato in particolare e i suoi influssi sull’economia – perdono determinatezza le ipotesi di qualche decennio prima. Dal lato della microanalisi le singole imprese perdono la loro capacità strategica di pianificazione. La nuova realtà è quindi caratterizzata dall’ingresso dell’instabilità esterna all’interno dell’impresa, dalla fine della stabilità dei rapporti tra imprese diverse, dalla modificazione della funzione statale di regolamentazione (maggiore accentuazione dell’aspetto di semplice reperimento del consenso), dal tramonto della stabilità delle procedure organizzative interne all’impresa, dal superamento del concetto di accumulazione capitalista e di crescita quantitativa della produzione. I nuovi metodi sono tutti basati essenzialmente sulla velocità di decisione, sulla flessibilità della modificazione produttiva, sulla notevole sostituibilità dei fattori di produzione. In questo modo l’impronta manageriale dell’impresa si modifica profondamente. La scienza delle decisioni economiche tramonta, vi si sostituisce una pratica (o, se si preferisce, un’arte) delle decisioni empiriche, eclettiche, agili e sfrontatamente legate all’utile immediato e al brevissimo periodo. Gli economisti elaborano la “contingency theory”, una teoria della contingenza che lega l’impresa, dall’interno, alle irripetibili situazioni esterne. Non si possono sottoporre a calcolo economico previsioni fondate su leggi, si possono fare solo valutazioni di orientamenti a breve scadenza, fondate su considerazioni empiriche, frutto di esperienze recenti slegate da ogni legge di lungo periodo. I sogni del neocapitalismo cadono per sempre. Con essi cade – o comincia il suo declino e il suo definitivo tramonto – la grande impresa. Ci si accorge che le categorie analitiche elaborate nell’ottica dell’organizzazione rigida impediscono di considerare la realtà economica nel suo aspetto reale e quindi impediscono un’azione produttiva adeguata. Per capire questi cambiamenti occorre fermare l’attenzione su alcuni elementi essenziali della precedente analisi economica. Ad esempio, il ciclo di vita del prodotto, la curva di riduzione dei costi in funzione dell’esperienza fatta sui singoli processi di produzione, gli indici di concentrazione (per singola impresa e per gruppi oligopolistici di settore), la dimensione delle imprese, la tesi che la piccola impresa costituisce la parte arretrata dell’economia, la funzione propulsiva degli investimenti statali, l’esistenza di nuclei di investimento più avanzato sul piano tecnologico capaci di trascinare tutta l’economia di una zona: si tratta di una serie di punti classici dell’impostazione tradizionale. Questi a poco a poco cadono tutti. La conclusione è che non è possibile una teoria generale ma, di volta in volta, solo approssimazioni che rendono meno dannosi i contrasti tra realtà esterna e impresa. Da questo crogiolo esce la “nuova impresa”. Essa non è più centralizzata e non intende servire da punto di riferimento per polarizzare – nella propria struttura – le funzioni e gli interessi che sono esterni. Una volta, la ricerca, la produzione periferica manifatturiera, la distribuzione commerciale, la domanda statale (che restava obbligata ad una crescita costante nel tempo), la ricerca delle materie prime, la diffusione della proprietà nel territorio, la crescita di potere politico, ecc., una volta, erano elementi di pianificazione collegati alla posizione “centrale” dell’impresa. Adesso l’impresa non si sviluppa più verso una dimensione sempre più grande e non si considera più un’unità compatta. Continua a crescere, ma in modo diverso. Capire questo concetto è importante. La “nuova crescita” si basa esclusivamente sulle relazioni che l’impresa ha con l’esterno. Crescono quindi gli accordi, i progetti, le sintonie comuni di linguaggio e di codice. Non solo con le altre imprese (senza limiti di frontiera), ma anche con l’ambiente nel suo insieme, con lo Stato (anzi, con gli Stati), oltre che con i centri che producono tecnologia avanzata e ricerca scientifica. Questo nuovo sistema (il Giappone è stato fino a poco tempo fa all’avanguardia, molto più avanti degli USA), da sistema chiuso si trasforma in sistema-situazione o, come è stato chiamato, in “sistema-paese”. Il sistema-situazione fornisce la tecnologia, la professionalità del lavoro, i servizi, le possibilità di superare e migliorare le infrastrutture giuridiche, le materie, i comportamenti sociali e ideologici. In una parola fornisce l’ambiente adatto. Non quello oggettivo, che esiste e nei confronti del quale l’impresa tradizionale si rapportava cercando di ridurlo alle proprie necessità di ordine, ma un ambiente rielaborato, reso idoneo al nuovo concetto di sviluppo dell’impresa. Quando si parla di parcellizzazione dell’impresa bisogna tenere presente questo concetto. Non si polverizza una situazione fisica, quanto una situazione complessiva. Ciò è stato reso possibile, ovviamente, in primo luogo dalla disponibilità della nuova tecnologia elettronica che ha abolito il confine dello spazio e quello, correlato, del tempo. Adesso, lavorando in tempo reale, l’impresa moderna non ha più bisogno di magazzini e previsioni rigide di approvvigionamento, non ha più bisogno di impianti di produzione immodificabili per lungo tempo, non ha nemmeno bisogno di grandi investimenti finanziari per realizzare le necessarie modificazioni delle linee di produzione. La sua flessibilità è tale che cresce in modo esponenziale, specialmente dopo che è stato risolto il grosso nodo problematico della mano d’opera e sono stati messi da parte i fantasmi delle lotte sociali che questo nodo portava con sé. Cambia anche la multinazionale così come siamo stati abituati a vederla negli anni passati. Non si ha più il grande colosso autosufficiente. Non esiste più un centro capace di imporre il proprio sviluppo strategico anche agli Stati. La nuova multinazionale è legata all’ambiente verso cui interloquisce cercando di volgere a proprio favore le condizioni esterne. Essa non domina più i circuiti tecnologici e non controlla più i mercati. Nessuna singola impresa, per quanto grande, può oggi controllare lo sviluppo della tecnologia e decidere da sola sulla sua applicazione o meno. La multinazionale tende a diventare impresa collettiva sovranazionale, si trasforma in un insieme di imprese complementari legato al proprio interno dalle condizioni di produzione della tecnologia e dalle capacità di sfruttamento individualmente circoscritte. Quanto abbiamo descritto – sia pure per grandi linee – non può mancare di interessare i compagni anarchici rivoluzionari. Se la “fine” della crisi permette al capitalismo di sopravvivere adeguandosi alla realtà economica intesa in termini di caos, non è più possibile aspettare col cuore in pace. Per lo stesso motivo per cui non è più possibile parlare di programmazione, prevedibilità e leggi economiche, non possiamo parlare di “crisi” come situazione da volgere a nostro favore. Non possiamo nemmeno pensare allo scontro di classe come una lotta con fasi alterne. Certo, questo scontro non è costante nel tempo, in quanto al suo interno appaiono troppo visibili momenti di maggiore e di minore intensità, ma si tratta di modificazioni qualitative e quantitative che non possono essere ricondotte deterministicamente alla semplice sollecitazione economica. Un vasto tessuto di relazioni sociali ed economiche è alla base dello scontro di classe. Nessuna analisi potrà darci una strada sicura per misurare attese e legittimazioni di comportamenti. Il tempo è sempre maturo per l’attacco anche se, ovviamente, le conseguenze possono essere quanto mai diverse. In questo senso dovremmo pensare ad una possibile organizzazione rivoluzionaria capace di rispondere meglio alla realtà dello scontro di classe. La struttura organizzativa del passato – dal partito al gruppo federato, dal sindacato ai Consigli – corrispondeva più o meno esattamente ad una concezione della realtà economica che vedeva al centro l’impresa capitalista, un concentrato di potere e di capacità di sfruttamento. Per contrapposizione si pensava necessaria una struttura altrettanto (o poco meno) monolitica (sindacato, partito, federazione di gruppi, ecc.). Oggi, non solo si è modificata la realtà produttiva (cosa che per certi aspetti è fuori discussione, specie dopo l’innesto tecnologico avanzato), ma anche il modo in cui questa realtà è considerata. Pure in passato, quando si giurava sull’eternità delle leggi economiche, la realtà produttiva era caotica e, sistematicamente, penalizzava quanti l’avvicinavano in modo deterministico. Forse i concetti stessi di “ciclo economico” e di “crisi” si possono riportare a queste penalizzazioni collettive. Una struttura organizzativa diversa, in gran parte da studiare e da realizzare, ma non certamente da scoprire di sana pianta. Questo compito ci sembra primario. Tutti i tentativi di riportare in vita i cadaveri dei processi organizzativi passati (in primo luogo, ovviamente, il cadavere del partito armato “rivoluzionario”) dovrebbero spiegare in che modo ci si pone nei riguardi di una realtà economica (e sociale) che oggi diventa sempre di più leggibile in chiave di indeterminazione e non certo in chiave di leggi economiche rigide. Tutte le volte che questa spiegazione viene tentata, tutte le volte che si parte da una proposta organizzativa rivoluzionaria legata a immagini del passato (partiti, federazioni di gruppi, sindacati, ecc.), si vede come la concezione di fondo della realtà economica sia legata al presupposto dell’esistenza di leggi più o meno rigide. Se non altro, quando queste leggi vengono date per scontate o, pudicamente, vengono tenute nascoste tra le righe, resta in piena evidenza la fede nel concetto ciclico di “crisi”, fede che come sappiamo torna molto comoda in momenti difficili, come quell’altra fede, quella che parla del regno dei cieli. ** Affinità Nei compagni anarchici c’è un rapporto ambivalente con il problema dell’organizzazione. Ai due estremi si collocano l’accettazione della struttura permanente, dotata di un programma ben delineato, con mezzi a disposizione (anche se pochi) e suddivisa in commissioni; e, dall’altro lato, il rifiuto di ogni rapporto stabile e strutturato anche nel breve periodo. Le federazioni anarchiche classiche (vecchia e nuova maniera) e gli individualisti, costituiscono i due estremi di qualcosa che cerca comunque di sfuggire alla realtà dello scontro. Il compagno aderente alle strutture organizzate spera che dalla crescita quantitativa venga fuori una modificazione rivoluzionaria della realtà, per cui si concede l’illusione a buon mercato di controllare ogni involuzione autoritaria della struttura e ogni concessione alla logica del partito. Il compagno individualista è geloso del proprio io e teme ogni forma di contaminazione, ogni concessione agli altri, ogni collaborazione attiva, pensando queste cose come cedimenti e compromessi. Anche i compagni che si pongono criticamente di fronte al problema dell’organizzazione anarchica, e che rifiutano l’eventuale isolamento individualista, spesso approfondiscono il problema solo in termini di organizzazione classica, riuscendo difficilmente a pensare forme alternative di rapporti stabili. Il gruppo di base è visto come elemento imprescindibile dell’organizzazione specifica e la federazione tra gruppi, sulla base di una chiarificazione ideologica, diventa la sua naturale conseguenza. L’organizzazione nasce così prima delle lotte e finisce per adeguarsi alla prospettiva di un certo tipo di lotta che – almeno si presuppone – fa crescere l’organizzazione stessa. In questo modo la struttura risulta una forma vicaria nei riguardi delle decisioni repressive prese dal potere, il quale per svariati motivi domina la scena dello scontro di classe. La resistenza e l’autorganizzazione degli sfruttati sono viste come elementi molecolari, che si possono cogliere qua e là, ma che diventano significative solo quando entrano a far parte della struttura specifica o si lasciano condizionare in organismi di massa sotto la guida (più o meno dichiarata) della struttura specifica. In questo modo, si resta sempre in posizione di attesa. Tutti noi siamo come in libertà provvisoria. Scrutiamo gli atteggiamenti del potere e ci teniamo pronti a reagire (sempre nei limiti dei possibile) davanti alla repressione che ci colpisce. Quasi mai prendiamo l’iniziativa, impostiamo interventi in prima persona, ribaltiamo la logica dei perdenti. Chi si riconosce in organizzazioni strutturate aspetta una improbabile crescita quantitativa. Chi lavora all’interno di strutture di massa (per esempio, nell’ottica anarcosindacalista) aspetta che dai piccoli risultati difensivi di oggi si travalichi nel grande risultato rivoluzionario di domani. Chi nega tutto ciò aspetta lo stesso, non sa bene che cosa, spesso chiuso in un astio contro tutti e contro tutto, sicuro delle proprie idee senza rendersi conto che queste non sono altro che il vuoto risvolto negativo delle altrui affermazioni organizzative e programmatiche. Ci sembra invece che altre cose si possono fare. Partiamo dalla considerazione che occorre stabilire dei contatti tra compagni per passare all’azione. Da soli non si è in condizione di agire, salvo a ridursi ad una protesta platonica, cruenta e terribile quanto si vuole, ma sempre platonica. Volendo agire in modo incisivo sulla realtà occorre essere in molti. Su che base trovare gli altri compagni? Scartando l’ipotesi dei programmi e delle piattaforme a priori, stese una volta per tutte, cosa resta? Resta l’affinità. Tra compagni anarchici esistono affinità e divergenze. Non sto parlando qui delle affinità di carattere o personali, cioè di quegli aspetti del sentimento che spesso legano i compagni tra loro (l’amore in primo luogo, l’amicizia, la simpatia, ecc.). Sto parlando di un approfondimento della conoscenza reciproca. Più questo approfondimento cresce, più l’affinità può diventare maggiore, in caso contrario le divergenze possono risultare talmente evidenti da rendere impossibile ogni azione comune. La soluzione resta affidata alla profonda conoscenza comune, da svilupparsi attraverso un dettaglio progettuale dei diversi problemi che la realtà delle lotte di classe pone davanti. Esiste tutto un ventaglio di problemi che, di regola, non viene spiegato nella sua interezza. Ci limitiamo spesso ai problemi più vicini perché sono quelli che ci toccano di più (repressione, carceri, ecc.). Ma è proprio nella nostra capacità di approfondire il problema che vogliamo affrontare, che si cela il mezzo più idoneo per fissare le condizioni dell’affinità comune, che non potrà certo essere assoluta o totale (tranne casi rarissimi), ma potrà essere sufficiente per fissare rapporti idonei all’azione. Restringendo i nostri interventi agli aspetti più evidenti e superficiali di ciò che riteniamo problemi immediati ed essenziali, non avremo mai modo di scoprire le affinità che ci interessano, e vagheremo sempre in balia di improvvise e insospettate contraddizioni capaci di sconvolgere ogni progetto d’intervento nella realtà. Insisto nel sottolineare che non bisogna confondere affinità e sentimento. Ci possono essere compagni, con i quali ci riconosciamo affini, che non ci sono molto simpatici e, viceversa, compagni, con i quali non abbiamo affinità, che riscuotono la nostra simpatia per diversi altri motivi. Occorre, tra l’altro, non farsi intralciare nella propria azione da falsi problemi, come ad esempio quello della presunta differenziazione tra sentimenti e motivazioni politiche. Da quanto detto prima potrebbe sembrare che i sentimenti siano una cosa da tenere separata dalle analisi politiche, per cui potremo, ad esempio, amare una persona che non condivide affatto le nostre idee e viceversa. Ciò in linea di massima è possibile, per quanto lacerante sia. Però nel concetto di approfondimento del ventaglio dei problemi, concetto espresso sopra, deve essere incluso anche l’aspetto personale (o, se si preferisce, dei sentimenti), in quanto il soggiacere in modo istintivo alle nostre pulsioni è spesso una mancanza di riflessione e di analisi, non potendo ammettere di essere semplicemente posseduti dal dio dell’eccesso e della distruzione. Da quanto detto emerge, sia pure nebulosamente, una prima approssimazione del nostro modo di considerare il gruppo anarchico: un insieme di compagni legati da comune affinità. Tanto più approfondito sarà il progetto che questi compagni costruiranno insieme, tanto maggiore sarà la loro affinità. Ne consegue che l’organizzazione reale, la capacità effettiva (e non fittizia) di agire insieme, cioè di trovarsi, studiare un approfondimento analitico e passare all’azione, è in relazione all’affinità raggiunta e non ha nulla a che vedere con le sigle, i programmi, le piattaforme, le bandiere e i partiti camuffati. Il gruppo di affinità è quindi un’organizzazione specifica che si raccoglie attorno ad affinità comuni. Queste non possono essere identiche per tutti, ma i diversi compagni avranno infinite sfumature di affinità, tanto più varie quanto più ampio sarà lo sforzo di approfondimento analitico che si è raggiunto. Ne consegue che l’insieme di questi compagni avrà anch’esso una tendenza alla crescita quantitativa, ma limitata e non costituente il solo scopo dell’attività. Lo sviluppo numerico è indispensabile all’azione ed è anche una riprova dell’ampiezza dell’analisi che si sta svolgendo e della sua capacità di scoprire via via affinità con un maggior numero di compagni. Ne consegue che l’organismo così nato finirà per darsi mezzi comuni d’intervento. Per prima cosa uno strumento di dibattito necessario all’approfondimento analitico, capace, per quanto possibile, di fornire indicazioni su un vastissimo ventaglio di problemi, e, nello stesso tempo, di costituire un punto di riferimento per la verifica – a livello personale o collettivo – delle affinità o delle divergenze che sorgeranno man mano. Da ultimo c’è da dire che l’elemento che tiene insieme un gruppo di questo tipo è senz’altro l’affinità, ma il suo aspetto propulsivo è l’azione. Limitandosi al primo elemento e lasciando sottodimensionato il secondo aspetto, ogni rapporto si inaridisce nel perfezionismo bizantino. ** Organizzazione informale Per prima cosa distinguiamo l’organizzazione specifica anarchica informale dall’organizzazione specifica anarchica di sintesi. Da questa distinzione, per contrasto, verranno chiarimenti notevoli. Cos’è un’organizzazione di sintesi, ovviamente anarchica e specifica? Si tratta di una struttura organizzativa, fondata su gruppi o individualità, in rapporto più o meno costante tra loro, che ha il suo momento culminante nei congressi periodici. In queste assemblee pubbliche si discutono le analisi teoriche di fondo, si analizza un programma e si dividono gli incarichi che coprono tutta la gamma degli interventi nel sociale. Questa organizzazione si pone pertanto come punto di riferimento, come polo capace di sintetizzare le lotte che si svolgono nella realtà dello scontro di classe. Le diverse commissioni di questo modello organizzativo intervengono nelle lotte (come compagni singoli che le compongono, o come gruppi) e, intervenendo, danno il loro contributo, ma non perdono di vista l’orientamento teorico e pratico che l’organizzazione, nel suo insieme, ha deciso nel precedente congresso. Quando questo tipo di organizzazione si sviluppa nel pieno delle sue forze (come è accaduto nella Spagna del ’36) comincia pericolosamente a somigliare ad un partito. La sintesi si trasforma in controllo. Certo, in momenti di stanca, questa involuzione è poco evidente, e può anche sembrare una bestemmia, ma in altri momenti risulta più visibile. In sostanza, nell’organizzazione di sintesi (sempre specifica e anarchica), esiste il presupposto di un nucleo di specialisti che formula le proposte sul piano teorico ed ideologico, adeguandole, per quanto possibile, al programma di massima deciso in sede congressuale. Gli scostamenti da questo programma possono anche essere notevoli (dopo tutto gli anarchici non ammetterebbero un adeguamento troppo pedissequo), ma, quando si verificano, si ha cura, in breve, di riportarli alla normalità della linea decisa precedentemente. Il progetto d’intervento di questa organizzazione è quindi quello di essere presente nelle differenti realtà: antimilitarismo, nucleare, sindacati, carceri, ecologia, interventi nei quartieri, disoccupazione, scuole, ecc. Questa presenza si traduce in interventi diretti, cioè organizzati direttamente, oppure in partecipazioni ad interventi gestiti da altri compagni o da altre organizzazioni (anarchiche o no). Se ne deduce che avendo la partecipazione lo scopo di portare la lotta all’interno del progetto di sintesi, la stessa non può essere autonoma, non può realmente adeguarsi alle condizioni dello scontro, non può collaborare effettivamente su di un piano di chiarezza con le altre forze rivoluzionarie, se non grazie al filtro ideologico della sintesi, se non attraverso le condizioni imposte dal progetto approvato in sede congressuale. Questa situazione, che comunque non è sempre così rigida come qui sembrerebbe, comporta l’ineliminabile tendenza delle organizzazioni di sintesi a tirare verso il basso il livello delle lotte, proponendo cautele ed accorgimenti che hanno lo scopo di ridimensionare ogni fuga in avanti, ogni scelta di obiettivi troppo scoperti, ogni impiego di mezzi troppo pericolosi. Facciamo un esempio. Se un gruppo facente parte di questo tipo di organizzazione (di sintesi, e pur sempre specifica e anarchica) aderisce ad una struttura di lotta, poniamo contro la repressione, si vedrà costretto a valutare le azioni proposte da questa struttura alla luce delle analisi precedentemente fatte e, grosso modo, approvate in sede congressuale. Ne deriva che la struttura di lotta si dovrà adeguare a queste analisi, oppure il gruppo facente parte dell’organizzazione di sintesi interromperà la sua collaborazione (nel caso costituisca una minoranza) o imporrà l’espulsione (nei fatti, se non con una precisa mozione) di coloro che avevano proposto metodi diversi di lotta. Per quanto questa realtà politica possa fare dispiacere a qualcuno, le cose stanno esattamente così. Ci sarebbe da chiedere perché mai, per definizione, la proposta del gruppo facente parte dell’organizzazione di sintesi, deve sempre essere più arretrata, cioè di retroguardia, o più cauta di altre proposte, riguardo possibili azioni di attacco contro le strutture della repressione e del consenso sociale. Perché? La risposta è semplice. L’organizzazione di sintesi, specifica e anarchica, la quale, come abbiamo visto, trova il suo momento principale nel congresso periodico, ha come scopo fondamentale la crescita quantitativa. In quanto struttura di sintesi ha bisogno di una forza operativa che deve crescere. Non proprio all’infinito, ma quasi. In caso contrario non avrebbe la capacità di intervenire nelle diverse realtà e non potrebbe nemmeno ipotizzare il proprio compito principale che è, appunto, quello di procedere alla loro sintesi in un punto di riferimento unico. Ora, chi ha come scopo primario la crescita quantitativa deve utilizzare strumenti di intervento che possano garantire il proselitismo e il pluralismo. Di fronte ad ogni problema non può assumere una posizione netta e chiara, che spesso risulta invisa ai più, ma deve trovare una via di mezzo, una strada politica per dispiacere ai meno e risultare accettabile ai più. Ancora, su alcuni problemi, come quello repressivo e le carceri in particolare, la posizione più corretta è spesso molto pericolosa, e nessun gruppo può mettere a repentaglio un’organizzazione di cui fa parte senza prima mettersi d’accordo con gli altri gruppi. Ma ciò può avvenire solo in sede congressuale, o almeno di convegno straordinario, e tutti sanno che proprio in queste sedi finisce sempre per prevalere l’opinione più moderata e non certo quella più avanzata. Così, la presenza dell’organizzazione di sintesi all’interno delle lotte reali, delle lotte che si inseriscono nel vivo dello scontro di classe, costituisce un freno e un controllo (spesso involontario, ma pur sempre un controllo). L’organizzazione informale non ha questi problemi. I gruppi di affinità e i compagni che si riconoscono in un’area progettuale di natura informale sono insieme di fatto e non certo per l’adesione ad un programma fissato in un congresso. Il progetto in cui si riconoscono è realizzato da loro stessi, dalle loro analisi e dalle loro azioni. Può trovare occasionale punto di riferimento in un giornale o in una serie di riunioni, ma ciò solo per facilitare le cose, mentre non ha nulla a che vedere con congressi o altre faccende del genere. I compagni che si riconoscono in un’organizzazione informale ne fanno automaticamente parte. Si tengono in contatto con gli altri compagni, tramite il giornale o tramite altri mezzi, ma, quel che è più importante, si tengono in contatto partecipando alle diverse azioni, manifestazioni, incontri, ecc. che, di volta in volta, si realizzano. Il punto centrale di verifica e di approfondimento è dato dal vedersi in momenti di lotta che, all’inizio, possono anche essere semplicemente momenti di verifica teorica per poi diventare altro. In un’organizzazione informale non c’è problema di sintesi, non si vuole essere presenti nelle diverse situazioni e tanto meno formulare un progetto che riconduca le lotte nell’alveo di un programma precedentemente approvato. L’unico punto di riferimento è la metodologia insurrezionale: in altri termini l’autorganizzazione delle lotte, la conflittualità permanente e l’attacco. ** Il progetto rivoluzionario Cogliere i diversi aspetti dell’intervento rivoluzionario non è cosa facile. Coglierli tutti insieme, inseriti in una proposta complessiva che abbia una sua logica intrinseca e un’articolazione operativa valida, è cosa ancora più difficile. È questo che intendo per progetto rivoluzionario. Sull’individuazione del nemico (quasi sempre) ci intendiamo a sufficienza. Nella vaghezza della definizione collochiamo gli elementi che ci provengono dalle nostre esperienze (sofferenze e gioie), dalla nostra situazione sociale, dalla nostra cultura. Ognuno crede di avere elementi idonei per disegnare una mappa del territorio nemico e per identificare obiettivi e responsabilità. Che le cose non stiano poi in questo modo è fatto anch’esso normale. Ma non ce ne curiamo. Quando se ne presenta l’occasione, approntiamo le opportune modificazioni e andiamo avanti. Oscuro il modo di procedere, oscure le cose che ci circondano, ci illuminiamo solo ed esclusivamente del misero cero dell’ideologia e sicuri come dietro la guida di un faro andiamo avanti. Il fatto tragico è che le cose che ci circondano si modificano, spesso velocemente. I termini del rapporto di classe, che nella situazione contraddittoria si allargano e si restringono continuamente, si disvelano oggi per tornare a nascondersi domani. Così, le certezze di ieri precipitano nel buio di oggi. Chi mantiene un polo direzionale costante, anche se non immobile, non viene preso per quello che in effetti è, cioè un onesto navigatore del mare delle perplessità di classe, ma è preso per un cocciuto ripetitore di schemi superati e di astratte metafore ideologiche. Chi persiste nel vedere il nemico dietro la divisa, dietro la fabbrica, dietro il ministero, dietro la scuola, dietro la chiesa, ecc., viene guardato con sufficienza. Alle cose, nella loro dura realtà, si vuole sostituire il rapporto astratto, il modo di essere, il relativo delle posizioni. Lo Stato, così, finisce per diventare un modo di vedere le cose, e non un fatto materiale, costituito da uomini e cose. Il risultato è che le idee dello Stato non si possono combattere senza attaccare gli uomini e le cose dello Stato. Volere combatterle isolatamente, nella speranza che la realtà materiale loro sottostante si modifichi a seguito del loro precipitare nel baratro critico delle contraddizioni logiche, è una tragica illusione idealista. Ed è quanto avviene in tempi come questi, di rinculo delle lotte e delle proposte operative. Nessuno anarchico, per non mancare di rispetto verso se stesso, ammetterebbe la funzione positiva dello Stato. Da ciò la deduzione logica che se questa funzione non è positiva deve essere negativa, cioè deve danneggiare qualcuno a beneficio di qualcun altro. Ma lo Stato non è (soltanto) l’idea di Stato, è anche la “cosa Stato”, e questa “cosa”, è costituita dal poliziotto e dal palazzo della questura, dal ministro e dal ministero (anche dal palazzo dove il ministero ha sede), dal prete e dalla chiesa (anche il luogo dove si svolge il culto dell’imbroglio e della menzogna), dal banchiere e dalla banca, dallo speculatore e dal suo ufficio, e giù giù fino alla singola spia e al suo più o meno confortevole appartamento di periferia. Lo Stato è questa cosa articolata, o non è nulla: una vana astrazione, un modello teorico, impossibile da attaccare e sconfiggere. Certo, lo Stato è anche dentro di noi, e dentro gli altri. Quindi è anche idea. Ma, nel suo essere idea, è subordinato ai luoghi fisici e ai corpi fisici che lo realizzano. Un attacco all’idea dello Stato (anche a quella che alberghiamo dentro di noi, spesso senza accorgercene), è possibile solo nel mentre che stiamo attaccando fisicamente e in senso distruttivo la sua materializzazione storica, cioè il suo essere lì davanti a noi in carne ed ossa e in mattoni e calcestruzzo. Ma come attaccare? Le cose sono dure. Gli uomini si difendono e si premuniscono. La scelta dei mezzi d’attacco è anch’essa vittima di un equivoco simile a quello che precede. Possiamo attaccare (anzi dobbiamo) con le idee, contrapponendo critica a critica, logica a logica, analisi ad analisi. Ma ciò sarebbe inutile esercitazione se avvenisse in modo isolato, staccato da un intervento diretto sulle cose e gli uomini dello Stato (e del capitale, ben s’intende). Quindi, in correlazione con quanto detto prima, non solo attacco con le idee, ma anche attacco con le armi. Non vedo altra via d’uscita. Limitarsi ad un certame ideologico contribuisce a fornire elementi al nemico. Quindi, approfondimento teorico parallelo e contemporaneo all’attacco pratico. Di più. È proprio nell’attacco che la teoria si modifica in pratica e la pratica assume i suoi fondamenti teorici. Limitandosi alla teoria si resta nel campo dell’idealismo, tipica filosofia borghese, che ha da centinaia di anni alimentato le casseforti della classe dominante ed anche i lager degli sterminatori di destra o di sinistra. Non importa se qualche volta questo idealismo si è camuffato da materialismo (storico), sempre di quel vecchio idealismo fagocitatore di uomini si trattava. Un materialismo libertario deve per forza superare la separazione tra idea e fatto. Se si individua il nemico bisogna colpirlo, e colpirlo in modo adeguato. Non tanto adeguato alle valutazioni ottimali della sua distruzione, valutazioni fatte dall’attaccante; quanto alla situazione generale che costituisce parte non trascurabile delle difese e delle possibilità di sopravvenienza e di incremento di pericolosità del nemico. Se lo si colpisce, bisogna farlo distruggendo una parte della sua struttura, rendendo quindi più difficile il funzionamento dell’insieme. Tutto ciò, isolatamente considerato, corre il rischio di restare poco significativo. Non riesce, cioè, a convertirsi in qualcosa di reale. Per aversi questa trasformazione occorre che l’attacco sia accompagnato da un approfondimento critico delle idee del nemico, quelle idee che sono parte della sua azione repressiva e oppressiva. Ma questo reciproco convertirsi dell’azione pratica nell’azione teorica e della teoria nella pratica, non può avvenire come qualcosa di artificialmente sovrapposto. Nel senso, per fare un esempio, di chi, compiuta un’azione, ci stampa sopra il suo bravo documento di rivendicazione. Le idee del nemico, in questo modo, non si criticano, né si approfondiscono. Si cristallizzano all’interno del processo ideologico e si fanno vedere come contrapposte massicciamente alle idee dell’attaccante, anche loro trasformate in qualcosa di massicciamente ideologico. Credo che poche cose mi siano altrettanto odiose quanto questo modo di procedere. Esiste altro da fare? Il luogo della conversione della teoria nella pratica, e viceversa, è il luogo del progetto. È il progetto, nel suo insieme articolato, che rende diversamente significative l’azione pratica e la critica delle idee del nemico. Ne deriva che il lavoro del rivoluzionario è, essenzialmente, l’elaborazione e la realizzazione di un progetto. Ma, prima di sapere cosa può mai essere un progetto rivoluzionario, occorre mettersi d’accordo su quali sono le cose che il rivoluzionario deve possedere per lavorare alla elaborazione di un suo progetto. Per prima cosa il coraggio. Non quello, banale, dello scontro fisico o dell’assalto alla trincea nemica, ma quello più difficile delle proprie idee. Se pensa in un certo modo, se ha una certa valutazione delle cose e degli uomini, del mondo e delle sue faccende deve avere il coraggio di andare fino in fondo, senza compromessi, senza mezze misure, senza pietismi, senza illusioni. Fermarsi a metà è delittuoso o, se si preferisce, assolutamente normale. Ma il rivoluzionario non è un uomo “normale”. Deve andare oltre, oltre la normalità, ma anche oltre l’eccezionalità, che è il modo aristocratico di considerare la diversità. Oltre il bene, ma anche oltre il male, direbbe qualcuno. Non può aspettare che altri faccia quello che va fatto. Non può delegare agli altri quello che la sua coscienza gli detta di fare. Non può accettare in pace che in altri luoghi, altri uomini come lui, come lui frementi e desiderosi di distruggere chi ci opprime, facciano le cose che lui stesso potrebbe fare, solo che lo volesse, solo che uscisse fuori dal torpore e dagli imbrogli, dalle chiacchiere e dagli equivoci. Quindi, deve lavorare, e lavorare duro. Lavorare per fornirsi dei mezzi necessari con i quali dare fondamento idoneo ai propri convincimenti. E qui si colloca la seconda cosa: la costanza. La forza di continuare, di perseverare, di insistere, anche quando gli altri si scoraggiano e tutto sembra difficile. Non c’è possibilità di procurarsi i mezzi di cui si abbisogna se non con la costanza del lavoro. Il rivoluzionario ha bisogno di mezzi culturali, cioè di analisi, di conoscenze di base, di approfondimenti istituzionali. Anche studi che sembrano lontanissimi dalla pratica rivoluzionaria sono indispensabili per l’azione. Le lingue, l’economia, la filosofia, la matematica, le scienze naturali, la chimica, le scienze sociali, e così via. Tutte queste conoscenze non devono però essere viste come settori di specializzazione, ma nemmeno come esercitazioni dilettantesche di uno spirito balzano che pizzica a destra e a manca, desideroso di sapere ma costantemente ignorante perché non possiede un metodo che gli consente di apprendere. E poi le tecniche: lo scrivere correttamente (ed anche in modo idoneo allo scopo che si vuole raggiungere); il parlare agli altri (con tutte le tecniche del parlare, che sono cosa non facile e di grande importanza); lo studiare (che è tecnica anch’esso e che va studiata anche in quanto tale per facilitare l’apprendimento e non come specializzazione in se stessa); il ricordare (che può migliorarsi e non essere lasciato sempre alla disposizione più o meno naturale che ci portiamo dall’infanzia); il manipolare gli oggetti, cioè l’uso delle mani, (che molti considerano un misterioso dono della natura ma che invece è tecnica che si può apprendere e perfezionare); ed altre ancora. La ricerca dei mezzi è lavoro che non si esaurisce mai. Il loro perfezionamento, come il loro allargamento a campi diversi, è impegno costante del rivoluzionario. Resta poi un terza cosa: la creatività. Non c’è dubbio che l’insieme di mezzi che si vanno costruendo non sarebbe produttivo e annegherebbe nello specialismo fine a se stesso se non producesse, da subito o dopo un certo tempo, esperienze nuove, profondamente trasformatrici dell’individuo, dalle quali esperienze si producono senza sosta modificazioni nell’insieme dei mezzi stessi e nelle possibilità di un loro impiego. È qui che si può cogliere la forza della creatività, cioè del frutto degli sforzi precedenti. I processi logici restano indietro, diventano fatto di fondo, elemento trascurabile, mentre emerge un nuovo elemento, totale e diverso, l’intuizione. Il problema, adesso, è visto diversamente. Non più come prima. Innumerevoli raccordi e raffronti, inferenze e deduzioni, avvengono senza che ce ne accorgiamo. Tutto l’insieme dei mezzi di cui siamo entrati in possesso vibra e diventa vivo. Ricordi e nuove comprensioni, vecchie cose non capite che adesso divengono chiare, idee e tensioni. Un miscuglio incredibile che è esso stesso fatto creativo e che deve essere immediatamente sottoposto alla disciplina del metodo, al dominio delle tecniche, perché possa produrre un qualcosa, se si vuole limitato, ma immediatamente percepibile e fruibile. Purtroppo il destino della creatività è che la sua immensa potenzialità esplosiva iniziale (la quale diventa misera cosa in assenza dei mezzi di fondo di cui parlavamo prima) deve successivamente essere ricondotta all’interno dei limiti della tecnica in senso stretto, deve diventare parola, pagina, figura, suono, forma, oggetto. In caso contrario, fuori degli schemi di questa piccola prigione comunicativa, essa resta abbandonata e dispersa nel mare dell’incommensurabilità. E infine, un’ultima cosa: la materialità. La capacità, cioè, di cogliere il fondamento materiale, reale, di quello che ci circonda. Ad esempio, la capacità di capire che per agire occorrono mezzi idonei all’azione non è cosa semplice. La faccenda dei mezzi sembra molto chiara, ma causa malcomprensioni. Prendiamo il caso dei soldi. Non c’è dubbio che senza soldi non si possono fare le cose che vogliamo fare. Non c’è dubbio che un rivoluzionario non può chiedere finanziamenti allo Stato per costruire quei progetti diretti a distruggere lo Stato stesso. Non può chiederli per un motivo etico e poi per un motivo logico (lo Stato non glieli darebbe). Non può nemmeno pensare seriamente che con piccole (e, di regola, modeste) sottoscrizioni personali si possano fare tutte le cose che si vogliono fare (e che si reputa necessario fare). Non può nemmeno continuare a piangere all’infinito sulla mancanza di soldi o rassegnarsi davanti al fatto che vista la mancanza di soldi alcune cose che si dovrebbero pur fare non si possono fare. Non può nemmeno assumere a lungo la posizione di colui che essendo senza soldi si sente perfettamente in regola con se stesso dicendo di non averne e non partecipa allo sforzo comune aspettando che altri al posto suo faccia quello che va fatto. Certo, è chiaro che se un compagno non ha i soldi non è tenuto a pagare quello che non può permettersi di pagare, ma è proprio vero che ha fatto tutto quanto poteva fare per procurarsi i soldi? Oppure esiste solo un modo per trovare i soldi: quello di andare a mendicarli facendosi sfruttare dai padroni? Penso proprio di no. Nell’arco di variazioni di un possibile modo di essere, tendenze personali e acquisizioni culturali polarizzano due comportamenti di confine che sono entrambi limitati e penalizzanti. Da un lato, colui che privilegia il momento teorico; dall’altro, colui che si racchiude nel momento pratico. Quasi mai queste due polarizzazioni sono allo “stato puro”, ma spesso sono sufficientemente caratterizzate per diventare impedimenti. Le grandi possibilità che l’approfondimento teorico mette a disposizione del rivoluzionario, restano lettera morta, anzi, diventano elemento di contraddizione e di ostacolo, quando sono esasperate all’infinito. C’è chi non sa fare altro che pensare teoricamente la vita. Non occorre che sia un letterato o uno studioso (per questa gente, la cosa sarebbe quasi normale), ma può anche essere un proletario qualsiasi, un emarginato cresciuto nella strada facendo a cazzotti. Questa ricerca dell’ipotesi risolutiva attraverso la sottigliezza del ragionamento, si trasforma in un’ansia disorganica, un tumultuoso desiderio di capire che immancabilmente si trasforma in pura confusione, abbassando quel primato del cervello che pure si vuole mantenere a qualsiasi costo. Queste esasperazioni riducono la possibilità critica di mettere ordine nelle proprie idee, allargano la possibilità creativa dell’individuo ma soltanto allo stato puro, si potrebbe dire allo stato brado, fornendo immagini e giudizi assolutamente privi di un metodo organizzativo che li possa rendere utilizzabili. Il soggetto vive in una specie di trance, mangia male, ha un pessimo rapporto col proprio corpo, vive male il rapporto con gli altri. Diventa facilmente sospettoso, se non altro ansioso di essere capito, e per questo accumula sempre di più una farragine di ragionamenti contraddittori, senza essere capace di trovare un filo conduttore. La soluzione, per uscire dal labirinto, sarebbe l’azione. Ma l’azione, per essere tale, secondo questo modello di polarizzazione che stiamo esaminando, deve prima essere sottoposta al dominio del cervello, della logica, del ragionamento. In questo modo, l’azione viene uccisa o rinviata, o vissuta male perché non capita, perché non ricondotta al primato del pensiero. Dall’altro lato, la costanza del fare, il dispiegamento della propria vita nelle cose da portare a compimento. Oggi, domani. Giorno dopo giorno. Magari nell’attesa di un giorno particolare che metta fine a questo rinvio in avanti all’infinito. Ma, nel frattempo, nessuna, o quasi, ricerca di un attimo di riflessione che non sia esclusivamente attinente alle cose da fare. Il primato del fare uccide come il primato del pensare. Nell’azione, da per se stessa, non c’è il superamento del momento contraddittorio dell’individuo. Per il rivoluzionario le cose stanno ancora peggio. I corteggiamenti classici, che l’individuo sviluppa per convincere se stesso riguardo l’utilità e la completezza dell’azione che vuole fare, non bastano per il rivoluzionario. L’unico espediente, cui può fare ricorso, è il rinvio in avanti, ad un tempo migliore, quando non sarà più necessario dedicarsi esclusivamente al fare e si potrà anche pensare. Ma, come si potrà pensare senza i mezzi per poterlo fare? Forse che il pensiero è un’attività automatica dell’uomo quando smette di agire? No di certo. Allo stesso modo in cui il fare non è un’attività automatica dell’uomo quando smette di pensare. Possedute quindi alcune cose, il coraggio, la costanza, la creatività, la materialità, il rivoluzionario può mettere a frutto i mezzi di cui è in possesso e, con questi, costruire il suo progetto. E questo dovrà riguardare gli aspetti analitici e gli aspetti pratici. Ancora una volta si ripresenta una divisione che per potere essere eliminata deve approfondirsi fino in fondo, cioè nella sua reale dimensione di luogo comune della logica dominante. Un progetto è analisi (politica, sociale, economica, filosofica, ecc.), ma è anche proposta organizzativa. Nessun progetto può essere solo l’uno o l’altro di questi aspetti. Ogni analisi riceve una diversa angolazione e un differente sviluppo se viene inserita in una proposta organizzativa anziché in un’altra. E viceversa, una proposta organizzativa diventa fondata solo se viene assistita da un’analisi idonea. Il rivoluzionario che non sia in grado di padroneggiare l’analisi e l’elemento organizzativo del suo progetto, sarà sempre in balia degli eventi, arrivando costantemente subito dopo le cose, mai prima. Lo scopo del progetto è infatti quello di vedere per prevedere. Il progetto è una protesi, come qualsiasi altra elaborazione intellettuale dell’uomo, per consentire l’azione, per renderla possibile, per non nullificarla nel dibattersi inutile dell’improvvisazione, ma non è “causa” dell’azione. Il progetto, se correttamente inteso, è azione esso stesso, mentre l’azione è progetto essa stessa in quanto lo accresce, lo arricchisce, lo trasforma. Il non capire queste fondamentali premesse del lavoro rivoluzionario, causa, spesso, confusioni e frustrazioni. Molti compagni, che restano legati agli interventi che possiamo definire riflessi, subiscono sovente contraccolpi simili alle demotivazioni, agli scoraggiamenti. Un fatto esterno (la repressione, quasi sempre), determina lo stimolo ad un intervento. Quando quel fatto si arresta, o si esaurisce, l’intervento non ha più ragione di esistere. Da qui la constatazione (frustrante) che si è costretti a tornare al punto di prima. Si ha l’impressione di volere scavare una montagna con un cucchiaio. La gente non ricorda, dimentica presto. L’aggregazione non avviene. Si è quasi sempre in pochi. Quasi sempre i soliti. Fino all’avvento del prossimo stimolo esterno, le vicende del compagno che sa agire solo di riflesso, sopravvivono andando spesso dal rifiuto radicale alla chiusura in se stesso, dal mutismo sdegnato alle fantasticherie di distruzione del mondo (esseri umani compresi). Molti altri compagni restano invece legati agli interventi che possiamo definire di routine, cioè legati alle ricorrenze letterarie (giornali, riviste, libri) o assembleari (congressi, convegni, dibattiti, assemblee). Anche qui la tragedia umana non tarda a fare la sua comparsa. Il più delle volte non si tratta tanto della frustrazione personale (che anche questa c’è, e si vede), quanto della trasformazione del compagno in burocrate congressuale o in redattore di fogli più o meno leggibili che cercano di nascondere la propria inconsistenza propositiva andando dietro agli avvenimenti per spiegarli alla luce critica del proprio punto di vista. Come si vede la tragedia è sempre la stessa. Il progetto è quindi necessariamente propositivo. È l’elemento che conclude e salda l’affinità. Questa, partita dalla conoscenza fra i diversi compagni che fanno parte del gruppo di affinità, sboccia nel terreno progettuale, dove cresce e dà i suoi frutti. Essendo propositivo, il progetto non può non prendere l’iniziativa. Innanzi tutto, iniziativa di tipo operativo: le cose da fare, viste in un determinato modo. Poi, iniziativa di tipo organizzativo: come fare queste cose. Molti non si rendono conto che le cose da fare (contrapposizione di classe) non sono codificate una volta per tutte, ma che assumono, nel tempo e nel trascorrere delle relazioni sociali, significati diversi. Ciò comporta la necessità di valutazioni teoriche delle cose da fare. Il fatto che alcune di queste cose permangano più a lungo come se fossero immobili, non significa che siano immobili. Per esempio, che ci sia una necessità di organizzarsi per colpire il nemico di classe, comporta, in quanto necessità, una permanenza nel tempo. Mezzi e modi organizzativi tendono a cristallizzarsi. E, sotto certi aspetti, è bene che sia così. Non è necessario inventare tutto di sana pianta ogni volta che ci si riorganizza, magari dopo avere subito i colpi della repressione. Ma ciò non vuol dire che questa “ripresa” debba per forza presentare le caratteristiche della ripetitività assoluta. I modelli precedenti possono essere sottoposti a critica, anche se, in fondo, restano validi e quindi possono costituire un punto di partenza non trascurabile. In questa materia ci si sente, spesso, sotto il mirino delle critiche, anche disinformate e preconcette e si vuole evitare, a tutti i costi, l’accusa di irriducibilismo che suona sì come valutazione positiva, ma contiene anche un elemento notevole di denuncia dell’incapacità di capire l’evolversi delle condizioni sociali nel loro insieme. Quindi, possibilità di utilizzo di vecchi modelli organizzativi, purché sottoposti a critica radicale. Ma quale potrà essere questa critica. Principalmente una: denuncia dell’inutilità e della pericolosità di strutture centralizzate e organigrammate, denuncia della mentalità della delega, denuncia del mito del quantitativo, denuncia del mito del simbolico e del grandioso, denuncia del mito dell’utilizzo dei grandi mezzi di informazione, ecc. Come si vede, si tratta di critiche che fanno vedere l’altro aspetto del cielo rivoluzionario, l’aspetto anarchico e libertario. Negare le strutture centralizzate, gli organigrammi dirigenziali, la delega, il quantitativo, il simbolico, l’entrismo informativo, ecc., significa entrare in pieno nella metodologia anarchica. E una propositività anarchica necessita di alcune considerazioni preliminari. Agli inizi, specie per chi non è profondamente convinto della necessità e della validità di questo metodo, esso può sembrare (e, sotto certi aspetti, è) meno efficace. I risultati sono più modesti, meno evidenti, hanno tutto l’aspetto della dispersione e della non riconducibilità ad un progetto unitario. Sono risultati polverizzati e diffusi, cioè derivano da obiettivi minimi che non sembrano subito riconducibili ad un nemico centrale, almeno per come appare nelle iconografie descrittive redatte dal potere stesso. Molte volte il potere ha interesse a far vedere le diramazioni periferiche di se stesso, e delle strutture che lo reggono, sotto aspetti positivi, come se queste diramazioni assolvessero funzioni sociali indispensabili alla vita. Nasconde invece assai bene, e molto facilmente vista la nostra incapacità di denunciare le connessioni, il rapporto che passa tra queste strutture periferiche e la repressione o il reperimento del consenso. Da qui il notevole compito che spetta al rivoluzionario, il quale, colpendo, ha anche da aspettarsi una iniziale non comprensibilità delle sue azioni, da dove la conseguente necessità di chiarimenti. E qui si colloca una ulteriore trappola. Tradurre questi chiarimenti in termini ideologici significa ripresentare, nella diffusione e nella perifericità, le condizioni esatte della concentrazione, della centralità. Il metodo anarchico non può mai essere spiegato attraverso un filtro ideologico. Quando ciò è accaduto, si è semplicemente giustapposto il nostro metodo a pratiche e a progetti che ben poco di libertario possedevano. Dalla denuncia della delega, come pratica deleteria, oltre che autoritaria (questo secondo aspetto potrebbe suonare meno comprensibile a compagni non anarchici da sempre), porta all’approfondimento dei processi aggregativi. Porta cioè, alla possibilità di costruire una aggregazione indiretta fondata sull’affinità e l’informalità, cioè una forma di riferimento organizzativo che non sia condizionata da basi organigrammatiche. Gruppi separati, uniti insieme dall’affinità e da una metodologia comune, non da rapporti gerarchici. Obiettivi comuni, scelte comuni, ma indirette, il tutto voluto attraverso l’oggettività delle scelte comuni, delle analisi comuni, degli scopi comuni. Ognuno fa le proprie cose e non sente il bisogno di proporre rapporti aggregativi diretti che finiscono, prima o poi, per costruire organigrammi gerarchici (anche se orizzontali, in quanto si pretende restare all’interno del metodo anarchico) e che hanno come bel risultato, quello di essere distrutti da ogni alzarsi del vento repressivo. È il mito del quantitativo che deve cadere. Il mito del numero che impressiona il nemico, il mito delle “forze” da fare scendere in campo, il mito dell’“esercito di liberazione” e altre faccende del genere. Così, senza quasi volerlo, le vecchie cose si trasformano in nuove. I modelli del passato: obiettivi e pratiche, si rivoluzionano al proprio interno. Emerge in primo piano, senza ombra di dubbio, la fine definitiva del metodo politico, la pretesa di ripresentare modelli ideologici da imporre alle pratiche sovversive. Sotto altri aspetti, e fatte le debite proporzioni, è tutto il mondo nel suo insieme che sta rigettando il modello politico. La “fine” del politico è faccenda di ogni giorno. Le strutture politiche tradizionali, con le loro connotazioni forti, sono o stanno tramontando. I partiti della sinistra si uniformano a quelli di centro e i partiti di destra si stringono sempre verso il centro per non restare isolati. Questo cedimento delle impalcature politiche corrisponde ad una profonda modificazione delle strutture economiche e sociali. Nuove necessità emergono per coloro che devono pensare alla gestione delle potenzialità sovversive delle grandi masse. I miti del passato, anche quello della “lotta di classe controllata” sono finiti. Le grandi masse di sfruttati sono state risucchiate in meccanismi che fanno a pugni con le ideologie politiche di ieri, nette ma superficiali. Ecco perché i partiti di sinistra si sono avvicinati a posizioni di centro, il che, in sostanza, corrisponde ad uno azzeramento delle discriminanti politiche e ad una possibile gestione, in proprio, del consenso, se non altro dal punto di vista amministrativo. Sono le cose da fare, i programmi a brevissimo termine, la gestione della cosa pubblica, che focalizzano le discriminanti. I progetti politici ideali (e quindi ideologici) sono tramontati. Nessuno (o quasi) è disponibile a lottare per una società comunista, ma può ancora una volta essere irregimentato all’interno di strutture che pretendono salvaguardare i suoi interessi immediati. Da ciò la crescita di importanza delle lotte e degli schieramenti politici municipali nei confronti delle strutture politiche di più ampio respiro, parlamenti nazionali e sovranazionali. Il tramonto del politico non è, da per se stesso, a questi livelli, elemento che può far pensare ad una svolta “anarchica” nella società, la quale, presa coscienza della propria primarietà, si contrappone ai tentativi di gestione politica indiretta. Niente di tutto questo. Si tratta di modificazioni profonde nella struttura moderna del capitale, che si uniforma anche a livello internazionale, proprio per la sempre maggiore interdipendenza che oggi esiste tra le diverse realtà periferiche. Queste modificazioni determinano, a loro volta, l’impossibilità di un controllo consensuale attraverso i miti politici del passato e il passaggio a metodi di controllo più adeguati ai tempi. Comunque, per quanto strano possa sembrare, la crisi del politico, in quanto fenomeno generalizzato, comporterà necessariamente una crisi dei rapporti gerarchici, di delega, ecc., cioè di tutti quei rapporti che tendono a dislocare nella dimensione ideologica quelli che sono i termini reali della contrapposizione di classe. Ciò non potrà restare a lungo senza conseguenze anche sulla capacità di molta gente di capire che la lotta non può più passare attraverso i miti del politico, ma deve entrare nella dimensione concreta della distruzione immediata del nemico. Esistono anche coloro i quali non volendo capire, nella sostanza, quale deve essere il compito del rivoluzionario, si fanno propugnatori, davanti alle modificazioni sociali viste prima, di metodi di contrapposizione dolce, i quali pretenderebbero di ostacolare il nuovo dominio con la resistenza passiva. Si tratta, a mio avviso, di un equivoco basato sul fatto che si pensa il potere moderno, proprio perché più permissivo e più largamente basato sul consenso, meno “forte” di quello del passato, basato sulla gerarchia e sulla centralizzazione assolute. È un errore come un altro, e deriva dal fatto che dentro di ognuno di noi restano i residui di un parallelo: potere-forza, che le moderne strutture dominanti stanno smontando pezzo per pezzo. Un potere debole ma efficiente è, forse, un potere più efficace di un potere forte ma grossolano. Il primo penetra nei tessuti psicologici della società, fin dentro l’individuo, coinvolgendo; il secondo resta esterno, fa la voce grossa, morde, ma, in fondo, costruisce solo mura di prigioni che prima o poi si possono scalare. La molteplicità degli aspetti del progetto conferisce al lavoro del rivoluzionario una prospettiva anch’essa molteplice. Nessun campo di possibile attività può essere escluso a priori. Non possono, per lo stesso motivo, esistere campi di intervento privilegiato, campi “congeniali” all’individuo singolo. Conosco compagni che non si sentono portati per alcuni settori d’intervento – poniamo per la lotta di liberazione nazionale – o per alcune pratiche rivoluzionarie, come l’attività minoritaria specifica. Le obiezioni che reggono il rifiuto di un certo campo di intervento sono le più varie, ma si riconducono tutte all’idea (errata) che ognuno deve fare le cose che gli arrecano la massima soddisfazione possibile. Questa idea è errata non perché non sia giusto che una delle molle dell’azione sia la gioia e la soddisfazione personale, ma perché la ricerca di questa motivazione individuale può essere preclusiva di un’altra ricerca più ampia e significativa, quella che si fonda sulla totalità dell’intervento. Partire preconcetti nei riguardi di determinate pratiche o teorie, significa trincerarsi – esclusivamente per “paura” – dietro il fatto, quasi sempre illusorio, che quelle pratiche e quelle teorie non ci piacciono. Ma ogni rifiuto preconcetto è sempre fondato sulla scarsa conoscenza di quello che si rifiuta, sulla scarsa o nulla disponibilità ad avvicinare la cosa che si rifiuta. La soddisfazione e la gioia di oggi vengono così elette a scopo definitivo, nella loro immediatezza esse ci chiudono le prospettive di domani. Diventiamo, senza volerlo, paurosi e dogmatici, astiosi verso coloro che riescono a superare questi ostacoli, sospettosi verso tutti quelli che ci avvicinano, scontenti, infelici. L’unico limite accettabile è quello delle nostre (limitate) possibilità. Ma anche questo limite può essere individuato sempre nel fatto concreto e non sospettato come esistente a priori. Io sono sempre partito dall’ipotesi (evidentemente assurda, ma operativamente reale) di essere senza limiti, di avere possibilità e capacità immense. Poi, la pratica, quella di ogni giorno, si è incaricata di indicarmi i limiti oggettivi miei e delle cose che sono andato facendo. Ma questi limiti non mi hanno mai fermato a priori, sono emersi come ineluttabili ostacoli a posteriori. Nessuna impresa, per quanto incredibile o gigantesca mi ha bloccato prima di cominciarla. Solo dopo, nel corso delle pratiche ad essa relative, la modestia dei miei mezzi e delle mie capacità è emersa ma, pur con la sua invalicabile presenza, non mi ha potuto impedire di cogliere risultati parziali che poi sono le sole cose umanamente attingibili. Ma anche questo fatto è un problema di mentalità, cioè di modo di vedere le cose. Spesso si resta troppo legati all’immediatamente percepibile, al realismo socialista del quartiere, della città, della nazione, ecc. Si è internazionalisti a chiacchiere, ma, nel fatti concreti, si preferisce quello che è più conosciuto. In questo modo ci si chiude verso l’esterno e verso l’interno. Si rifiutano i rapporti internazionali reali, che sono rapporti di comprensione reciproca, di superamento delle barriere (anche linguistiche), di collaborazione e di mutuo scambio. Ma si rifiutano anche i rapporti specifici locali, con le loro caratteristiche, le loro contraddizioni interne, i loro miti e le loro difficoltà. Il fatto comico è che i primi si rifiutano in nome dei secondi e i secondi in nome dei primi. Lo stesso accade riguardo le attività specifiche, preparatorie, dirette al reperimento dei mezzi rivoluzionari. Anche qui la delega ad altri compagni è un fatto che, spesso, viene deciso a priori. Ci si basa su remore e paure che, se ben approfondite, non hanno molto da dire. Il professionalismo che viene sbandierato altrove non trova ospitalità nella metodologia anarchica, ma nemmeno il rifiuto a priori, o la chiusura preconcetta. Lo stesso per quanto accade in merito alla smania dell’esperienza fine a se stessa, dell’urgenza del fare, della soddisfazione personale, del brivido. I due estremi si toccano e si compenetrano a vicenda. Il progetto spazza via questi problemi perché riesce a vedere le cose nella loro globalità. Per lo stesso motivo il lavoro del rivoluzionario è necessariamente legato al progetto, si identifica con questo, non può limitarsi ad aspetti parziali. Da canto suo, un progetto parziale non è un progetto rivoluzionario, può essere un ottimo progetto di lavoro, può impegnare compagni e risorse anche per lunghi periodi di tempo, ma, prima o poi, finisce per risultare penalizzato di fronte alla realtà dello scontro di classe. ** Note editoriali Riporto le indicazioni dei giornali e delle riviste dove alcuni dei pezzi qui pubblicati sono usciti per la prima volta. Vista la frequenza e l’eterogeneità degli pseudonimi talvolta impiegati, gli stessi non vengono segnalati. Per lo stesso motivo non vengono segnalati i casi di articoli non firmati. Per il fatto di essere qui riprodotti, senza altra indicazione, s’intendono tutti scritti da me. Tutti gli articoli e i saggi pubblicati sono stati riveduti e aggiornati. Esclusi e inclusi, relazione dal titolo Per un’analisi di un periodo di superamento dalle illusioni post-industriali alle illusioni post-rivoluzionarie, presentata al Convegno “Anarchismo e progetto insurrezionale”, tenuto a Milano il 13 ottobre 1985, pubblicata in Atti del Convegno “Anarchismo e progetto insurrezionale”, Seconda Ed. Catania 1993, pp. 41-51 e 58-62. Esiste una traduzione inglese col titolo: From Riot to Insurrection, London 1988, pp. 13-37. Trasformazioni nel mondo del lavoro e nella scuola, pubblicato col titolo: “Scuola e società post-industriale”, in “Anarchismo” n. 56, marzo 1987, pp. 6-19. “Perdita del linguaggio”, pubblicato su “Provocazione” n. 25, agosto 1990, pp. 8-9. “Perdita della cultura”, pubblicato su “Provocazione” n. 26, febbraio 1991, p. 9. “La tecnologia buona”, pubblicato su “Provocazione” n. 24, giugno 1990, p. 11. “La ‘fine’ della crisi”, pubblicato su “Anarchismo” n. 57, giugno 1987, pp. 1-6. Affinità, pubblicato col titolo “Affinità e organizzazione informale” su “Anarchismo” n. 45, marzo 1985, pp. 12-14. Organizzazione informale, pubblicato col titolo “Organizzazione di sintesi e organizzazione informale” su “Anarchismo” n. 47. Giugno 1985, pp. 24-25. Il progetto rivoluzionario, pubblicato col titolo: “Il lavoro del rivoluzionario” su “Anarchismo” n. 59, gennaio 1988, pp. 45-52.