#sku pensiero-000011 #pensiero 11 #cover a-m-alfredo-m-bonanno-l-ateismo-di-paul-henry-thir-x-cover.jpg #teaser Pensiero e azione – 11
2009, 2a ediz., rilegato in tela, pagine 332
euro 20,00

Il Sistema della natura è una grande opera filosofica. Per quanto si possano individuare, e condividere, i suoi limiti, resta lo stesso un punto di riferimento nella storia dell’avventura umana contro Dio.
Oggi, per molti aspetti, non è accettabile, ma il coraggio va sempre tenuto da conto, va ammirato e ciò in particolar modo quando entra a far parte del pensiero, come faccenda viva, e non si affida soltanto a un rumore di parole più o meno reboanti. E di coraggio Holbach e compagni ne dovevano avere da vendere. Pochissimi anni erano passati dai roghi cattolici e riformati, dalle torture e dagli squartamenti, da Damiens al cavaliere De la Barre. Quest’ultimo, appena quattro anni prima [1766] della pubblicazione dell’opera di Holbach, era stato giustiziato per non essersi inginocchiato per strada davanti al passaggio del santissimo sacramento.
L’argomento centrale di cui si occupa Holbach è la materia. L’ateismo ne è un corollario.
La creazione di una vera architettura scientifica è frutto della parola che costruisce e produce dicendo, ed è quanto più possibile inserita nelle costrizioni di una preordinata corrispondenza. Inarrestabilmente lavoro per smembrare la volontà e i suoi meccanismi di controllo. Lotto da decenni contro il pregiudizio che ha incensato per secoli questo infausto feticcio portatore di un’aggressività falsa diretta al possesso e alla produzione costruttiva. L’insignificanza di questi risultati è continuamente riconfermata con la forza del controllo e della repressione, con la riduzione del senso a mancanza di significanza e di libertà. Insisto su tutto ciò perché è un meccanismo che mi continua a catturare e che alimenta l’inquietudine che mi tiene desto. Pure essendo un meccanismo arido e unidimensionale, è dotato di molti aspetti e di molte e continue modificazioni. La libertà di cui fruisce la parola non è la libertà assoluta, questo lo so, ma non è neanche una delle libertà concesse nella modificazione produttiva, orribilmente deturpate dai limiti e dalle regole imposti dall’utilità dello scopo da raggiungere.
Questa potenza della parola contrassegna le sue condizioni di portanza nelle varie evoluzioni della vicenda nominativa, dove prende l’aspetto determinato del dire molte volte differente e molte volte ripreso e ricondotto al punto di partenza, movimento circolare che dà l’impronta fondamentale a tutta la vicenda della parola e che consente una continua perdita e un parimenti continuo ritrovamento del cosiddetto filo del discorso.
Contenuto del volume
Introduzione – L’ateismo di Paul-Henry Thiry d’Holbach – Il vero senso del Sistema della natura – Saggio di bibliografia generale su Paul-Henry Thiry d’Holbach – Saggio bibliografico delle opere di Paul-Henry Thiry d’Holbach #title L’ateismo di Paul-Henry Thiry d’Holbach #subtitle Seconda edizione riveduta e corretta con l’aggiunta di due saggi bibliografici #author Alfredo M. Bonanno #LISTtitle Ateismo di Paul-Henry Thiry d’Holbach #SORTauthors Bonanno, Alfredo M.; #date 2009 #cat pensiero #lang it #pubdate 2015-07-30T09:49:51 #notes Prima edizione: La Fiaccola, Ragusa 1971
Seconda edizione: giugno 2009
Pensiero e azione n. 11 Gli adepti dei diversi culti si accusano reciprocamente di superstizione e di empietà. I cristiani hanno orrore della superstizione pagana, cinese, maomettana. I cattolici romani trattano da empi i cristiani protestanti; questi a loro volta declamano senza posa contro la superstizione cattolica. Hanno tutti ragione. Essere empio significa avere opinioni ingiuriose verso il proprio dio; essere superstizioso significa averne idee errate. Accusandosi volta a volta di superstizione, i diversi teologi somigliano a dei gobbi che si rinfacciano l’un l’altro la loro deformità. Paul-Henry Thiry d’Holbach ** Introduzione alla seconda edizione Il Sistema della natura è una grande opera filosofica. Per quanto si possano individuare, e condividere, i suoi limiti, resta lo stesso un punto di riferimento nella storia dell’avventura umana contro Dio. Oggi, per molti aspetti, non è accettabile, ma il coraggio va sempre tenuto da conto, va ammirato e ciò in particolar modo quando entra a far parte del pensiero, come faccenda viva, e non si affida soltanto a un rumore di parole più o meno reboanti. E di coraggio Holbach e compagni ne dovevano avere da vendere. Pochissimi anni erano passati dai roghi cattolici e riformati, dalle torture e dagli squartamenti, da Damiens al cavaliere De la Barre. Quest’ultimo, appena quattro anni prima [1766] della pubblicazione dell’opera di Holbach, era stato giustiziato per non essersi inginocchiato per strada davanti al passaggio del santissimo sacramento. L’argomento centrale di cui si occupa Holbach è la materia. L’ateismo ne è un corollario. “È in mancanza dell’esperienza che si sono costituite idee imprecise sulla materia”, egli scrive sempre nel Sistema, da cui prenderemo le successive citazioni sull’argomento. “Consultiamo l’esperienza, contempliamo l’universo: non abbiamo davanti che materia e movimento». Ecco le due grandi arterie dell’esistenza, la materia e il movimento. Così Vladimir Jankélévitch: «Il movimento, la qualità, l’atto libero, non han più da render conto alla ragione: come nella filosofia del common sense, sono dati immediati e irriducibili, fatti puri, originali, che si giustificano con la loro semplice presenza, senza attendere di essere consacrati dalle nostre prove. Il difficile non è, allora, giustificare il dato, ma trovarlo. La mente si mette continuamente in imbarazzo da sé, nell’atto di conoscere. Occorrerebbe saper ricordare e anche saper dimenticare, per coincidere con se stessi. L’oblio è ringiovanimento: è lui quello che rende più solenni le decisioni, più vivi i colori, più commoventi le melodie». (Henri Bergson, Paris 1959, p. 228). Il modo in cui l’intuizione dell’assolutamente altro interrompe il percorso dell’immediatezza con tutti i suoi accidenti, percorsi labirintici compresi, è una espressione ricettiva della ragione stessa che la ospita e la derubrica. Di per sé, e immediatamente considerando questa irruzione, non sfugge né come prodotto primario né come residuo al controllo volontario esercitato dalla ragione. La soluzione dell’archivio è sempre disponibile, ma le sottigliezze dell’intuizione e l’arbitraria connessione intuitiva, sospinta avanti da propulsioni sconosciute alla stessa interpretazione critica negativa, rendono parziale e quindi inaccettabile l’eventuale archiviazione diretta. La risposta attiva prende spunto critico da quella sollecitazione intuitiva senza chiudersi in essa. Dall’interno della ripetitività viene fuori una negazione delle distinzioni e una sorta di movimento delle commistioni. Il flusso nuovo di significanze si lega così a tutte quelle percorrenze, a volte oziose, che avevano teatralizzato il percorso di controllo della volontà, conducendolo in regioni di improbabile cattura. L’evocazione del voglio ora e non dopo è come quella di un fantasma, se la voglio abbracciare non stringo più niente tra le braccia. La linea di confine, retrocedendo l’intuizione, è l’apertura, e questa non ha mai le caratteristiche topografiche di un luogo preciso, quello di una percezione circoscrivibile sia pure in maniera percettiva. Non c’è motivo di giustificare il movimento, questo semplicemente è. Ma io ho bisogno di nominarlo, di conferirgli un’esistenza stabile, un luogo dove posso andare a trovarlo, uno spazio. Movimento e spazio sono, per me, intercambiabili. Non lo erano per Holbach e per il suo determinismo. La creazione di una vera architettura scientifica è frutto della parola che costruisce e produce dicendo, ed è quanto più possibile inserita nelle costrizioni di una preordinata corrispondenza. Inarrestabilmente lavoro per smembrare la volontà e i suoi meccanismi di controllo. Lotto da decenni contro il pregiudizio che ha incensato per secoli questo infausto feticcio portatore di un’aggressività falsa diretta al possesso e alla produzione costruttiva. L’insignificanza di questi risultati è continuamente riconfermata con la forza del controllo e della repressione, con la riduzione del senso a mancanza di significanza e di libertà. Insisto su tutto ciò perché è un meccanismo che mi continua a catturare e che alimenta l’inquietudine che mi tiene desto. Pure essendo un meccanismo arido e unidimensionale, è dotato di molti aspetti e di molte e continue modificazioni. La libertà di cui fruisce la parola non è la libertà assoluta, questo lo so, ma non è neanche una delle libertà concesse nella modificazione produttiva, orribilmente deturpate dai limiti e dalle regole imposti dall’utilità dello scopo da raggiungere. Questa potenza della parola contrassegna le sue condizioni di portanza nelle varie evoluzioni della vicenda nominativa, dove prende l’aspetto determinato del dire molte volte differente e molte volte ripreso e ricondotto al punto di partenza, movimento circolare che dà l’impronta fondamentale a tutta la vicenda della parola e che consente una continua perdita e un parimenti continuo ritrovamento del cosiddetto filo del discorso. Questo parlare estremo è un parlare indiretto, non può confrontarsi con il proprio oggetto assente e questa impotenza gli fa assumere una maggiore gravità e profondità, permettendogli di cogliere quello che di importante c’è nell’agire, il mondo che rimane sullo sfondo è un contesto diverso, assolutamente altro, che mi accoglie nell’azione. La parola dice il contesto desolato descrivendone non la paesaggistica ridotta all’osso, tranne qualche spunto retorico per meglio rendere la tensione, ma la mia coscienza diversa, il mio essere un tutto con l’azione stessa, un tutto conchiuso. Ma come accade che di quell’avventura assolutamente diversa, in sé conchiusa, ci sia un dire, un dire della parola estraneo a quell’avventura? Accade che la parola si addentra nell’universo della mia coscienza diversa, dove tensioni diverse si sono animate a causa dell’esperienza nell’agire oggi e non nella semplice ricostruzione storica, cioè nell’azione, e non potendole descrivere fino in fondo, apertamente, in quanto troverebbe l’ostacolo difensivo della volontà, le affronta indirettamente, facendo parlare le diverse intensità, le tensioni diverse, le nuove e mai preavvertite emozioni, insomma un universo conchiuso e irripetibile che si trova nella condizione diversa della mia coscienza. Così, mi rendo conto che la mia vita è, dentro certe cautele e distanze dalla volontà di controllo, dicibile, la diversità assolutamente altra dell’azione non lo è. Però, essendo per un certo tempo contrattomi nell’unità dell’assenza, vissuta nell’azione, le parole che parlano della mia vita, tralignando nella modificazione ove non sono in grado di fronteggiare adeguatamente il dilagare della immediatezza, riescono anche a dire l’azione, indirettamente, ed è questa l’impresa che è riuscita a tenere a bada le istanze analitiche di controllo. La vita è la mia, la vita di cui si parla qui, ed è da parte a parte attraversata dalla parola. Pensare è ricerca della perfezione sapendo di non poterla raggiungere e avendo la coscienza di non saperne fare a meno. Se chiedo non ottengo altro che una risposta impersonale e vaga. Perché la vita è circondata da questi paletti di insofferenza a qualsiasi sguardo indiscreto? L’aridità è un modulo perfettamente coincidente con il dare e l’avere, con le continue diserzioni che negano l’accesso alla palpitante voglia di oltrepassamento. Lasciarsi andare contro i limiti è un modo di avvicinarsi alla perfezione della qualità. Per fare ciò occorre non avere paura del ridicolo. Per questo mi occupo di Holbach e del suo problema del movimento. Non me ne occupo come potrebbe farlo uno scienziato e, cosa molto difficile a dirsi per me, non me ne occupo allo stesso modo in cui me ne sono occupato quasi quarant’anni fa. Lo stesso per la materia, l’altra immane costruzione che riempie il Sistema in tutte le sue parti. “Il movimento è stato prodotto dalla natura stessa, essendo essa il ‘gran tutto’ al di fuori del quale non esiste nulla, esso è l’essenza della materia, la quale si muove di una propria energia, ha sue proprie regole e agisce conformemente a queste”. Qui si colloca la cerniera di passaggio, il tramite. Se tolgo gli ostacoli produttivi, elementi difensivi e quasi mai realmente offensivi, opero in questo modo una radicale modificazione critica interpretativa, sono pronto a costruire condivisioni con un fare che comincia a scontrarsi con i risultati pretesi come controllabili dalla volontà. Di già questo movimento, interno al fare, ma di confine, ha una carenza di senso, cioè ha un senso alterato, un modulo non corrispondente con le pretese protocollari. Da esso sgorgano domande difficili per il fare, corrispondenze false, labirinti inesauribili, dove gioco una partita differente, dove metto in forse la mia stessa capacità di dare un senso al mio fare, quindi di testimoniare con certezza la mia modificazione fattiva o il mio contributo all’intero progetto produttivo. La palpitante visibilità della cosa non è di certo garantita, ma lascia intravedere inquietanti balenii. Sostanza senza inizio e senza fine, continuamente in trasformazione e mai estinguibile. “Supponendo una causa motrice della materia, bisogna supporre un inizio della propria esistenza, la qual cosa non è possibile. Infatti se la materia non può totalmente annientarsi o cessare d’esistere come si può pensare che abbia avuto un inizio?”. Dispongo adesso di una incredibile larghezza di mezzi, tutti impiegati dalla parola, dalla mia parola, che cerca di dire l’avventura della vita nella qualità del comprendere, e cerca anche di impedire l’accesso alla duplicazione banalmente analitica, alla pretesa sfera assoluta della scientificità. È sbalorditivo come tutti i tentativi di allontanarmi dalle certezze di Holbach, a parte quella della non esistenza di Dio, mi riconducano verso la tensione che mi stringe la gola, finiscano nel gesto supremo della inarrivabilità, nel grido che ripercuote la voce dell’uno che è, quindi nella non parola, nel silenzio della parola, se così si preferisce. E, alla fine, nel dubbio verso la fondatezza di ogni analisi scientifica che pretenda prendermi per mano e condurmi nella mia battaglia contro Dio. Qui si colloca uno dei misteri del dire, questo silenzio non dice la tensione ma è, esso stesso, la sommità raggiungibile della tensione, il silenzio, intrinsecamente vuoto del dire. La pacatezza esteriore della parola svela il suo tumultuoso contenuto, poi è questo contenuto, in mille modi svuotato, che si ribalta nel silenzio, oppure nel grido strozzato che può essere anche un commiato di fronte al destino, oppure una svolta radicale. Inserisco la ricerca della materia, del significato filosofico della materia, all’interno del problema della parola, di come dire la ricerca stessa. Questo è il mio modo di vedere il materialismo. Continua Holbach nel Sistema: “La materia è eterna, ma le sue combinazioni e le sue forme sono passeggere. È probabile che l’uomo sia una produzione fatta nel tempo, specifica del nostro globo, sul quale le altre produzioni, gli uomini stessi, variano in ragione della differenza del clima. Un essere intelligente è un essere che pensa, che vuole, che agisce per giungere ad un fine. Egli bisogna per questo di organi e di uno scopo simile ai nostri. Se la natura è governata da un’intelligenza,. questa non le gioverà gran che, in quanto priva di organi non può avere né percezioni, né idee, né intuizioni, né pensieri, né volontà, né piani, né azioni. La materia prende azione, intelligenza, vita, quando è combinata in determinati modi”. Se questi movimenti, queste forze, la stessa materia, sono da ignorare, al punto in cui sono, con lo sforzo conoscitivo in corso, non dipende da una loro autonomia, ma dalla incompletezza connaturata alla mia capacità di capire delineata dalla mia limitazione produttiva. Non ho ancora prodotto la totalità della mia forza di comprensione, ma la presenza della materia, sia pure a me sconosciuta, è implicita in quello che faccio. Questo restare implicita nel fare, la materia lo manifesta indirettamente attraverso lo stimolo alla completezza che alimento continuamente dentro il fare scientifico stesso, rendendolo incapace di soddisfarmi, dopo il tramonto delle illusioni del Settecento e, in modo particolare, dell’Ottocento. Io, in quanto coscienza immediata, e la natura che attacco con la mia incessante fattività, siamo ambedue nello stesso processo di modificazione. Una distanza incolmabile si viene a creare invece nel mio indirizzarmi verso la trasformazione, nel mio avere coscienza di una diversa possibilità di agire. La natura sconosciuta mi si rivela nel momento dell’azione, anche se non posso portarla con me e definirla all’interno delle regole del mondo, completando l’insoddisfacente creazione prima realizzata attraverso il fare. L’esperienza dell’azione potrà essere rammemorata, ma questo intervento della parola avrà uno scopo indiretto, perverrà certo al fare produttivo, ma solo successivamente, mentre la realtà, in questo caso la materia, resterà sempre estranea e remota, luogo del desiderio e dell’avventura. L’impossibile unione conoscitiva di quantità e qualità rende a sua volta impossibile il mondo perfetto della natura, il sogno dell’isola felice. La qualità vuole l’eccesso, non l’acqua ma il profumo, non la semplicità ma la complicanza. Aggirarsi sull’orlo del fare senza fondo e non tenere da conto questo legato di prudenza attiva, è vanificare ogni tentativo. Non occorrono commenti astiosi, né apologie invitanti, solo sollecitudine sfrenata, attacco costante. Bersagliare l’immediatezza è possibile solo negando l’apertura, ritrovandosi di fronte a una insuperabilità incapace di puntare i piedi sulla conoscenza riconosciuta come forza, sia pure oggettuale. Riverso allora il mio orizzonte felice nella infelicità di un mancato soccorritore, zappo la mia inferiorità fattiva per produrre ulteriore inquietudine, ma nel fare ciò volgo le spalle all’intuizione, mi identifico con gli adepti dei protocolli e con l’uso delle loro formule magiche. Miglioro nella coazione e non mi accorgo di avere abbandonato il mio sogno di oltrepassare le tristi condizioni della immediatezza. L’amore per quello che sta dentro la qualità è passione che consuma la carne non fatica di dotti o precisazione pedante di eruditi. L’angelo terribile mena la spada del tutto, il resto non c’è, è compreso anche questo non esserci nel tutto della realtà, anche la precisazione ultima che prudentemente conferma. La spada furiosa non accetta tentennamenti, taglia nell’unico modo radicale, andando al di là di ogni taglio o separazione. L’eccesso di questo taglio che non divide è negazione assoluta di ogni concessione parziale. L’Illuminismo inizia con una critica a tutto campo, affrontando tutti i campi del pensiero e dell’attività umana. Ecco perché l’Enciclopedia, è un suo punto di riferimento costante. L’apparente solidità del fare si liquefa in uno scorrere ininterrotto, da un prodotto all’altro, da un protocollo all’altro. La speranza illuminista di pervenire alle radici di questo ritrovare e perdersi, è negata o annegata nella mancanza di completamento. Il produrre è una condanna a vita, come il misurare o il contendere la ricerca di uno scopo. Una critica quanto possibile libera dai dogmi e quindi destinata a entrare nel terreno dell’ateismo o, in molti casi, per motivi di scelta o di prudenza, in quello del deismo. Scrivono Horkheimer e Adorno: «L’Illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura». (Dialettica dell’Illuminismo, tr. it., Torino 1966, p. 11). In due parole è descritta l’ascesa e la catastrofe di una scalata al cielo. Dalla conoscenza ho una distanza che non so misurare se non catturandola negli stereotipi protocollari, ma essa sfugge a questa misurazione di sicurezza e mi riempie. L’intuizione di questo riempimento mi conduce a poco a poco nella logica del fare, a stringere alleanze non sempre codificabili che, a loro volta, dischiudono piani conoscitivi multiformi dove il tempo gioca un ruolo di tutela e garanzia, ma azzera la possibilità profonda del senso. Una monade assolutamente impermeabile non ha cognizione del mondo e nemmeno di se stessa, ma la coscienza immediata è l’altro intuìto da un sé conosciuto, almeno dentro certi limiti, visto che la conoscenza non arriva mai a completamento. È in quel nulla che piomba il desiderio della conoscenza infinita, della distruzione del tabù dell’ignoto che non deve essere svelato pena le conseguenze dettate dalla divinità. Questo nulla non può ricevere vestimenta che lo caratterizzano come una banale continuazione, abbellita, del mondo dove mi arrostisco a fuoco lento nelle continue determinazioni che mi amministrano. Niente mi lega all’infinito possibile se non il mio desiderio e l’intuizione della sua esistenza. Il disgusto del mondo che io stesso ho creato è tale da produrre un desiderio cocente di altra acqua da bere, altre fonti alle quali dissetarmi, di leggere altre parole che so essere scritte dappertutto nel grande libro della natura. Il salto nell’assolutamente altro non è mai stato fatto dall’Illuminismo, non c’è un fare che possa portare al di là del fare stesso, al di là di me stesso, io sono il fare e il fatto, la partenza e l’arrivo di un percorso che eternamente ricomincia, a partire dalla separazione percettiva, e che mi collega a una catena inestinguibile e incompletabile, fino a quando qualcosa romperà questa catena, azzerandomi nella morte. Il Rinascimento aveva tentato questa strada, erano forse un’altra tempra di uomini, forse non erano così assillati dalla figura di Prometeo. L’interruzione che alzo di fronte alle conseguenze logiche dell’a poco a poco, cioè di fronte al predominio della scienza, è l’assolutamente altro che si concretizza davanti a me, l’infinito che mi apre la porta del suo essere quello che è, e l’apre a me pellegrino del desiderio di diventare quello che sono. Gli occhi stretti per impedire il riverbero, non vedo bene ma intuisco con uno sforzo. Pescando intuitivamente cognizioni puntuali, immerse nell’agire, quindi nella desolazione della cosa, tesso stati d’animo diversi, inaccostabili l’uno all’altro, inimitabili, non sovrapponibili. La conoscenza, filtrata dalla critica interpretativa, intreccia e riattualizza movimenti del fare, azzerandone la memoria topografica in un solo punto, ed è da qui che mi accingo a porre la mia vera e propria intuizione con l’uno che è, con la sua voce. Sciami di immagini si sovrappongono, ma sono sempre fermo nella mia puntualità, colate laviche di accadimenti si sedimentano, ma non mi producono come movimento. Questi lampi febbrilmente compaiono e scompaiono, assumono significati emozionali e si sciolgono nella loro consistenza di neve al sole. Non c’è continuità intenzionale, la volontà è un sole freddo e lontano, ininfluente. L’emblematica figura dell’uno insiste nel suo silenzio desolato, ma la mia forza è la mia puntualità, non ci sono fratture o separazioni. Ancora Horkheimer e Adorno: «L’Illuminismo torna a rovesciarsi in mitologia» (Ibidem, p. 8). Affermazione impegnativa, ma è proprio questo che considero alla stregua di una emersione del corredo mitico della scienza, una potente molla per rafforzare il potere, indebolito dallo sviluppo e dal dilagare (perfino statalista) dell’ateismo e del materialismo. La parola, alla fine, estrinsecando al massimo ciò che non può non essere un segreto, l’unità completa della realtà, mette allo scoperto quello che è assente e che non può diventare, anche se scoperto, privo di veli, semplice presenza. Il contrasto è immane. Lo svelamento è pertanto un modo per dire velando ulteriormente all’interno del meraviglioso meccanismo del linguaggio. Il dire si scopre così portatore di un segreto, sorvegliante dell’assenza, e questa custodia è difesa non solo dai falsi e dai camminamenti labirintici, ma anche, e forse di più, proprio dallo stesso tessuto del dire, dalla portata complessiva della trama e dell’ordito. L’attaccamento al fare è rafforzato dalla parola, un dire grigio, monotono, remoto, che presenta ipotesi e inclinazioni, non vie diverse, anche se a volte il suono di una parola annuncia inesorabili effetti, accadimenti imprevedibili, rimozioni dinamiche, scavi scoperchiati senza una opportuna analisi di sostegno. Ma il dire non potrà mai riuscire a mettere tra parentesi il fare, non può rispedire un immaginario mondo nella dura corteccia coatta del mondo da me creato veramente e profondamente nel fare e col fare. Dico e incido una differenza, questa si alza diritta davanti a me e mi indica molteplici possibilità, a volte semplici elementi disparati che vengono gettati nel duro piano conoscitivo. Ogni momento dell’architettura che critica la fondatezza della scienza tiene in vita questo segreto, lo blandisce e lo mette a rischio di svelamento, ma non lo rende presenza. Ho paura che la mia parola possa avvelenare il mio fare, se non prendo coscienza immediata della mia capacità orientativa, sono sostanzialmente un balbuziente risentito del mondo da me creato, un pauroso della vita, rincorrente ipotesi e progetti di scarsa intensità, anche se praticamente carichi di senso. Quello che manipolo come conquista è il mondo dell’orientamento benedetto da Dio, il vecchio modello calvinista. La parola è una sorta di chiave per capire la vita, dapprima nei ristretti limiti della immediatezza, poi nella rammemorazione dei risultati ottenuti, ovviamente distruttivi. Le due condizioni producono due parole differenti, nel primo caso una parola che dà la massima impressione di resistenza e forza, mentre in sostanza è schiava della volontà dei protocolli che la spinge verso una completezza non solo improbabile ma anche impossibile. Nel secondo caso, la parola è debole e soggetta a ingrottamenti dove le ridondanze e i rimbalzi retorici si moltiplicano continuamente, mentre si rendono necessari opportuni accorgimenti per evitare che la stessa parola venga uccisa dallo svuotamento dei propri significati. Non voglio rispettare il sistema che mi imprigiona, neanche sotto le vesti apparentemente asettiche del semplice dire, dell’affermazione che pretende registrare la realtà privandola della sua consistenza eterogenea e insostituibile. Non voglio muovermi in un mondo amministrato come se passeggiassi in via Etnea a Catania, di cui conosco palmo a palmo il selciato. Il peso delle due parole resta comunque differente, la prima porta il marchio dell’attualità, quindi incontra circostanze esteriori che pure rafforzandola nella sua certezza contenutistica la sigillano in essa e la condannano al ruolo di sostegno del controllo. La seconda è l’unico ponte che permette l’accesso alla critica negativa, alla possibile pulsione di libertà. La retorica della scienza è presente come qualsiasi altra superfetazione. In più aumenta la pericolosità di quello che enfatizza. Non è vero che la scienza distrugge le apparenze, le sottolinea e così facendo ne esalta la sostanza fittizia. L’Illuminismo è interamente calato in questo ruolo che oggi sappiamo improbabile, per quanto all’epoca dovesse sembrare assolutamente certo. Continuano Horkheimer e Adorno: «La mitologia stessa ha avviato il processo senza fine dell’Illuminismo, dove, con ineluttabile necessità, ogni concezione teorica determinata viene continuamente sottoposta alla critica distruttiva di essere soltanto una fede, finché anche i concetti di spirito, di verità e perfino d’Illuminismo vengono relegati tra la magia animistica. Il principio della necessità fatale sulla quale naufragano gli eroi del mito, quella necessità che si dipana come logica conseguenza dal responso dell’oracolo, non domina soltanto – purificato fino alla coerenza della logica formale – in ogni sistema razionalistico della filosofia occidentale, ma governa anche la successione stessa dei sistemi, che comincia con la gerarchia degli dèi e, in un permanente crepuscolo degli idoli, tramanda, come identico contenuto, l’ira per la mancanza di onestà. Come i miti fanno già opera illuministica, così l’Illuminismo, ad ogni passo, s’impiglia più profondamente nella mitologia. Riceve ogni materia dai miti per distruggerli, e, come giudice, incorre nell’incantesimo mitico». (Ibidem, pp. 19-20). Molte delle stazioni avanzate del movimento recano tracce di rammemorazione. Solo che nella interpretazione come critica negativa il sorvolare la parola concerne la produzione vera e propria non la stessa interpretazione o l’esperienza nella cosa. Niente che è interpretato può costituire riferimento o metodo ermeneutico. Il dio dei ladri è silenzioso, si muove prudente. Le tracce del discorso sono frammenti di parole incapsulate e governate da regole che non conosco, che scopro, in termini di significatività, mano a mano che mi avvicino alla realtà. Intrecci polifonici dove la voce dell’uno si scontra e confligge con la parola del fare, scontri che sono divergenze e associazioni, esclusioni e interdizioni, preminenze e significanze prive di sbocco. Il mito presenta molti di questi nodi, una geografia della significazione mitica è stata tentata molte volte, mai in questo modo. Non è possibile una esegesi topografica, non saprebbe ascoltare le ridondanze e i geroglifici che il produrre, da un lato, e la resistenza al produrre, dall’altro lato, alimentano in maniera contrastante. L’esegesi di quanto si accumula nella produzione, sia pure sotto forma di detriti interpretabili in senso critico e negativo, preme alle porte dell’oltrepassamento ma non è in grado di avviarsi da sola verso l’apertura. Tutto sembra avvitarsi su se stesso in mancanza di una chiara visione di che è il coinvolgimento. Puntare tutto sulla individuazione del nemico non basta. Devo imparare ad ascoltare la remota voce dell’uno che è, una voce desiderante anch’essa, ma desiderante in maniera assolutamente altra. Lo scontro di questi desideri non produce mai una somma, la mia conquista è muta per la cosa, il suo ridondante rumoreggiare è muto per la mia modesta capacità di intuire. La miseria del fare è fondata sul rifiuto dell’anomia, una regola deve comunque regnare, e questo regno merita sacrifici e finisce per riconoscere la prepotenza del mondo che senza regole sarebbe diverso, non esisterebbe o si avvicinerebbe all’assenza. Non è solo una questione di limitare le conseguenze del fare, per esempio i convincimenti di certezza e di verità, ma proprio di assenza. Il mondo considera tutto quello che si avvicina all’assenza come iniquità, come l’opposto della regola che è considerata fondamento ed esercizio di giustizia, il che è palesemente privo di senso. Piombare di colpo nell’assenza è desolazione, non ne posso essere capace, non posso di colpo saltare se non a spese della mia totale corrispondenza con il mondo, ma posso iniziare un percorso critico di avvicinamento all’assenza. Il punto e l’uno corrispondono, eppure si fronteggiano anche nell’assenza di lontananza. Sono privo di autonomia, la qualità non è banale autonomia, se sono libero, per esserlo, devo fare ancora uno sforzo, devo andare oltre il punto di non ritorno. Perché non rispondo alla domanda fondamentale? Perché non è scomparsa del tutto la mia radice conoscitiva immediata, anche se apparentemente rimossa dalla vista, essa permane nella memoria, senza tempo senza luogo, improvvisamente senza preventivo avvertimento, eccomi ricacciato indietro, pronto a ringuainare il pugnale e non per un sopravvenuto frammento friabile di speranza immediata, non perché la puntualità dell’azione è, a breve, intollerabile, lo sforzo intuitivo mai incrinato sarebbe uno sforzo mortale. Questo percorso è coscienza che si costituisce in modo diverso dai protocolli scientifici, è un anelito alla libertà che abbatte la potenza del possesso, della cupidigia che nasconde e tesaurizza. Il fare scientifico stesso ha un nocciolo duro e intransigente che lascia intravedere la possibilità di una simile apertura, una capacità di cogliere l’assenza nel modo più prezioso e nascosto, come qualcosa che non si vede oggi ma che diventerà frutto in avvenire, manifestazione fuori regola, dissonanza essenziale che al momento continua a concordare e che può essere presa in considerazione solo come promessa di future dissonanze ancora più radicali. Scrive Pietro Rossi: «Condizioni politico-sociali arretrate impediscono il miglioramento delle condizioni di vita, e si associno per dar vita a un ordine sociale più adeguato, ben lungi dall’essere una ragione astratta, che pretenda di guardare dall’alto dei suoi principi il processo storico, la ragione, così com’è concepita dal pensiero illuministico, è una forza operante nella storia, ed impegnata in uno sforzo di trasformazione delle condizioni storiche. Ma il suo atteggiamento dinanzi a queste condizioni non è di accettazione né tanto meno di giustificazione; è un atteggiamento di critica, ispirato dalla convinzione di un possibile progresso ulteriore dell’umanità. La ragione si propone, in primo luogo un compito di distruzione degli ostacoli che si oppongono alla propria affermazione e al miglioramento delle condizioni di esistenza. Ma questa distruzione è in funzione di un’opera di ricostruzione, cioè dello sforzo di condurre l’umanità ad un livello di civiltà più elevato, attraverso l’edificazione di un miglior ordine sociale. Questo rapporto tra distruzione e ricostruzione ispira il pensiero filosofico dell’Illuminismo francese, nel suo sforzo di critica della tradizione e di riforma della società, che fa di esso un momento fondamentale dello sviluppo della cultura moderna». (Gli illuministi francesi, Torino 1962, pp. XXIV). L’avere sottolineato il problema della ricostruzione consente di fare capire a Rossi i limiti della distruzione avanzata dall’intero movimento illuministico francese. Distruzione e azione non sono distinguibili, non posso fare dilagare nel mio cogliere intuitivo immagini corporee di ricostruzione o aggiramento volontario, chiuderei i conti immediatamente col territorio della cosa. Mille attenzioni individuali della mia diversa puntualità mi sollecitano a rendere meno crudeli quelle penetrazioni distruttive, a spezzare le pareti ghiacciate che si alzano nell’estesa solitudine dell’azione. Non devo dimenticare che di fronte all’uno che è, il destino tace. Ci sono mille modi di impiegare la parola, solo uno è quello privilegiato, il parlare come parlare a me stesso o me stesso che parla, uso consueto di questa insulsaggine. Qui ne faccio a meno. Ipotizzo un dire della parola che, per quanto straordinariamente fuori del comune, è, alla fine, il caso in cui la parola fuoriesce dal cerchio utile della chiacchiera e diventa se stessa. Rifiuto di ritenere paradossale questa rinuncia, ho sempre considerato artificioso l’altro versante del fenomeno, l’io che parla. Tutte le volte che questo paradosso cerca il sopravvento cercherò di applicare le opportune correzioni. Essendo ottimista l’ottimismo non mi disturba affatto, sta di certo però che non mi entusiasma, specie quello degli idioti. Il loro è un ottimismo tormentato e infelice, essendo vuoti come un peperone devono riempire la loro speranza di vita con una visione contorta della realtà. Non c’è ritratto terrificante che possa descriverli all’opera, forse solo la penna di Voltaire. Attaccare gli stupidi è una questione di pulizia intellettuale, alla lunga stanca, essa è una forma lineare di crearsi nemici fittizi. Il risultato è veramente misero, ma lasciare dilagare questa genia è una colpa. Alla fine mi dichiaro colpevole ed è sempre più difficile mantenermi alla larga. Mi sono andato convincendo che a farmi attaccare gli stupidi è una sorta di invidia, la loro sorte mi sembra felice, così come sono, sempre sicuri di tutto. Non c’è stupido peggiore dell’ateo racchiuso nel suo bozzolo meccanico di certezze assolute. Che permane della cultura se non riesce nemmeno a tenermi lontano gli imbecilli? Qualcosa si incarna in essa nel momento in cui la possiedo? I massacri, di certo. Ma l’oscurità vera, quella totale, deve ancora venire, l’oscurità che la cultura riesce solo a fare intravedere, senza identificarla in qualcosa di preciso. Ridiventano attuali, pertanto, le parole di Horkheimer e Adorno: «Ogni tentativo di spezzare la costrizione naturale spezzando la natura, non fa che sprofondare sempre più nella costrizione naturale. Questo è stato il corso della civiltà europea». (Dialettica dell’Illuminismo, op. cit., p. 21). Valutazioni che dalla infanzia non prendevo in considerazione, ora sono importanti, fino nei loro piccoli dettagli, il colore del cielo, la grande sorpresa di poche ore di passeggiata all’aria fresca del mattino, la riflessione elaborata su una lettura. L’Illuminismo mi ha garantito tutto questo, malgrado le sue tesi di fondo che, per molti aspetti, avevano un fondamento totalitario, per quanto attenuato nei migliori. Libri accantonati nella notte dei tempi, escono dalla polvere delle biblioteche solo per me, mi vengono incontro, utensili della mia anima, misura della mia ritrovata forza. Fantasmi pretenziosi mostrano davanti a me la loro apparenza, ma io li considero in controluce e vedo chiaramente che sono immersi fino al collo nell’accettazione del potere costituito. L’avarizia mi disgusta ma può aiutare a vivere. Anche le fogne hanno funzioni simili. Il possesso quantifica e qualifica nello stesso tempo, un avaro è un povero con denari apparentemente a disposizione. A un certo punto – scrive Paul Hazard – «avvenne nella coscienza europea una crisi: tra il Rinascimento, da cui derivava direttamente, e la Rivoluzione francese, che preparò, non ce ne fu nessuna più importante nella storia delle idee. A una civiltà fondata sull’idea del dovere, i doveri verso Dio, i doveri verso il sovrano, i “nuovi filosofi” tentarono di sostituire una civiltà fondata sull’idea del diritto: i diritti della coscienza individuale, i diritti della critica, i diritti della ragione, i diritti dell’uomo e del cittadino». (La crisi della coscienza europea, 1680-1715, tr. it., Torino 1946, p. XII). Ciò è vero ma non mi convince del tutto. Troppa edulcorazione, troppe bandiere al vento. Preferisco la nudità. La nudità è impietosa perché nel migliore dei casi mette in rilievo mirabili armonie, perfette corrispondenze di morte. Solo il gusto può salvarmi, il gusto per un particolare minimo, ma spesso quando la perfezione è dominante, non mi riesce di trovarlo. Horkheimer e Adorno parlano di Odisseo e si chiedono quanto sia stato importante il suo sacrificio, e come lo si possa considerare “moderno” di fronte all’ottusità del ladruncolo degli dèì Prometeo. «L’astuto sopravvive solo a prezzo del proprio sogno, che egli paga disincantando se stesso come le potenze esterne. Proprio lui non può mai avere il tutto, egli deve sempre sapere aspettare, avere pazienza, rinunciare; non deve cibarsi di loto o dei buoi del sacro Iperione e, pilotando attraverso lo stretto, deve mettere in conto la perdita dei compagni che Scilla strappa dalla nave. Egli sguscia e sgattaiola, questo è il suo modo di sopravvivere, e ogni fama accordatagli da se stesso o dagli altri non fa che ribadire che la dignità di eroe si acquista solo con l’umiliazione dell’impulso alla felicità intera, universale, indivisa». (Dialettica dell’Illuminismo, op. cit., p. 66). Se non trovo la strada più agevole, che è quella provvista di una mappa corretta, sono sempre a rischio di inaridirmi. E questa mappa è il metodo, il mio metodo. Intuito e sensazioni vive e palpitanti, desiderio che irrompe nella metodologia coatta e la manda a gambe per aria. L’intuito seduce per la sua condizione mezza matta, staccata in parte ma non del tutto da un’aspirazione fredda e studiata verso la globalità. La messa in scena, non ancora libera della volontà, è essenziale e dilaniata di fronte alle macerie del controllo che avanzano. Quello che si presenta spesso mi impaurisce e allora lo rivesto di parole, una gerarchia significante che cura la traduzione in termini di senso del fantasma che sta volatilizzandosi. Lo stile del recupero, da lapide mortuaria, è sempre stile sobrio e concreto, niente ricorda la passione dell’intuito, lo splendore dell’effimero che prepara la terra all’inutile. Insisto nel desiderio di mantenere tutto il fare nell’ambito della volontà e della ragione, ma un rimprovero mi sorge spontaneo dal cuore e dalle viscere, la vita, la mia vita, non viene da là. Detesto le mie stesse pratiche conoscitive, le mie tecniche e i miei presuntuosi salamelecchi alla scienza dominante, tutto ciò ha fatto di me un fornitore dell’accumulo accettando il possesso nevrotico e inappagante, parallelo all’esaltazione della conquisa. Mi sono difeso e sto continuando a difendermi dagli assalti della intellettualizzazione che arrivano, a volte, a prendermi alla gola. Lotto per ridurre il rischio di sperdermi nei limiti accettabili per me, la lotta diventa ogni giorno più impari, ma mantengo la mia fierezza e la mia unicità, della coerenza non me ne importa, non saprei che farmene, non mi sono mai mummificato in essa. Sarebbe apologetica e non sono debole fino a questo punto. Continuo a lottare. Non c’è un tramonto ma un’aurora davanti a me sulla linea dell’oceano. Io accedo alla mia vita e la mia vita accede in me, ci incontriamo senza concederci reciproche sospensioni di giudizio. La metto alla prova attraverso la critica della certezza che potrebbe condurla altrove, verso una sorta di portanza a ritroso, un risalire il corso del fiume, per questo non accetto nessuna delle possibili conclusioni proposte più o meno nascostamente dall’architettura illuminista, fino alla cancellatura di ogni dubbio che oggi impera in ambito scientifico. Entrando al Luxembourg, lasciata alle spalle la Sorbonne, ho pensato al compito interrotto della Comune di Parigi. Eppure avevano cannoni. Gli insorti avrebbero dovuto sparare a zero sulla città. «Tutti gli atti di sacrificio degli uomini – precisano Horkheimer e Adorno – eseguiti secondo un piano, ingannano il dio a cui sono destinati: lo subordinano al primato degli scopi umani, dissolvono il suo potere e l’inganno nei confronti del dio trapassa insensibilmente in quello che i sacerdoti miscredenti compiono nei confronti della comunità dei credenti. Odisseo non fa che elevare ad autocoscienza il momento dell’inganno nel sacrificio, che forse è la ragione più intima del carattere illusorio del mito. Antichissima dev’essere stata l’esperienza che la comunicazione simbolica con la divinità attraverso il sacrificio non è reale. La funzione di rappresentanza implicita nel sacrificio, esaltata da irrazionalisti alla moda, è inseparabile dalla divinizzazione della vittima, dall’inganno, dalla razionalizzazione sacerdotale dell’assassinio mediante l’apoteosi dell’eletto. Qualcosa di questo inganno, che eleva proprio la persona caduca a veicolo della sostanza divina, si può cogliere da sempre nell’Io che deve se stesso al sacrificio dell’istante per il futuro». (Ibidem, pp. 59-60). L’Illuminismo è ricondotto nel binario della ragione, quella sostanziale, corposa, non quella idealizzata dall’esplosione rivoluzionaria successiva. Non che questo accadimento non fu una enorme esplosione di gioia e di eccesso, comunque fu anche un nuovo progetto di terrore, modulato soltanto dal prepotente affacciarsi alla ribalta di nuovi soggetti storici. Purtroppo l’ideologia dominante, fino a poco tempo fa, ha oscurato le nostre capacità critiche. La conoscenza che non presta se stessa a questo mancato chiarimento, si dirige subito verso l’accumulo, per restarvi imprigionata come se fosse essa stessa un bene finalizzato solo al proprio calcolo quantitativo, è cattiva conoscenza, mi soffoca invece di liberarmi. Tutte le rivoluzioni sono state finora nell’ambito delle regole fissate dalla controparte, il capitalismo per ultimo è una di queste. Occorre adesso mettere mano a una rivoluzione diversa. Si è andato avanti, per la verità non sempre, ora si deve saltare, saltare assolutamente. Tutti i parametri interpretativi dei valori danno il voltastomaco, per non vomitare occorre l’orgoglio di dire no a tutti i gerghi e a tutte le posture. L’avventura deve cominciare, e che allora cominci davvero. Ma perché tutto questo sia possibile qualcosa deve cominciare prima dentro di me. Il punto estremo dell’apertura non è di natura spaziale e non ha nulla da dire nella lingua dell’immediatezza, parla certamente questa lingua, il saluto però è privo di logica, nemmeno quello gestuale reggerebbe di fronte a un passaggio così radicale, aspettarsi chiarezza sintattica su questo punto è assurdo. Non mi trovo in quel punto per andare oltre e dirlo, ma solo per oltrepassare, e non mi ci trovo guidato dalla volontà. Eccomi quindi ad assecondare le indicazioni dell’accerchiamento non quelle della linea diretta. Il punto in questione non è l’acme di un processo tenuto sotto controllo, è qualcosa che mi coglie nel corso delle mie intuizioni e contro cui insisto, come portatore di tutele immediate non del tutto aggirate, a opporre resistenza. La spinta all’oltrepassamento è sollecitata dalla mia stessa resistenza, mentre attorno si dispongono le forze coordinatrici che hanno reso possibile l’accerchiamento del controllo volontario. Ma non è una spinta che posso direttamente intensificare con uno sforzo di volontà, l’astenersi volontario è pratica lunga e difficile, non sempre dà i frutti desiderati, ma fa capire come non è strada percorribile quella che torna indietro a recuperare gli sforzi volontariamente intensificabili. Non posso, in altri termini, dare porte aperte all’intuito e, viceversa, fondare questa apertura sui meccanismi protocollari della ragione, prima o poi una di queste due tendenze deve cedere all’altra. Per un altro verso, questi frustranti scenari coatti non possono essere messi da parte con una raffinazione dell’impegno delle decisioni volontarie. La limitatezza della parola appartiene al fare, alla distinzione, ma pretende accedere alla totalità. Questa pretesa diventa patetica nella specificazione che afferma la possibilità oggettiva di quantificare la totalità, invece ha grossi margini di esaltazione quando rinunciando si coinvolge e tenta la sovrumana impresa di parlare di ciò che non può essere detto. Il risultato di questa impresa è spesso spaesante e scandaloso, anche se non produce concretezze adattabili. L’Illuminismo, nelle sue versioni ortodosse e contestuali, non poteva avviarsi verso questa impresa. Difatti ecco come continuano i due autori precedenti: «Mentre tutte le trasformazioni precedenti, dal preanimismo alla magia, dalla civiltà matriarcale a quella patriarcale, dal politeismo degli schiavisti alla gerarchia cattolica, mettevano nuove mitologie (anche se più illuminate) al posto di quelle vecchie, il dio degli eserciti al posto della gran madre, l’adorazione dell’agnello al posto del totem, alla luce della ragione illuminata si è dissolta come mitologica ogni devozione che si ritenesse oggettiva e fondata nella realtà». (Ibidem, pp. 101-102). Il compito del Romanticismo sarà proprio quello di ricostruire questa sollecitazione verso il mito, e la prima analisi, forse una delle migliori, sarà quella di Schelling. Ma ancora prima, perfezionando il corso dei lavori, ormai di già avanzati, ponendosi, come si è detto, al quadrivio degli accadimenti filosofici del suo tempo, Kant scriveva: «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessa è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sàpere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo». (I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, tr. it., Torino 1965, p. 141). I mezzi a favore del dominio dell’uomo sull’uomo si accatastano, tutto sembra avviarsi verso i migliori destini. Eppure le nubi all’orizzonte sono tante, non solo quelle della ghigliottina al lavoro, ma anche quelle della guerra. Invano gli enciclopedisti avevano scritto: «Qualsiasi guerra è ingiusta nelle sue cause». (Louis de Jaucourt, Enciclopedia, voce Guerra). Il meccanismo della ragione quando macina stritola tutto, nessuno è innocente. Posseggo le chiavi di un accumulo di ostinata speranza, di dolorosa sofferenza fisica, di estrema concentrazione senza profitto, capace solo di articolare senso promiscuamente senza programmare itinerari diversi. Queste sono chiavi forgiate dalla ragione dominante, non mi consentono un coinvolgimento attivo, gridano la fredda e neutrale distanza, l’ideale scientifico del portinaio o del custode del carcere. Se mettessi in primo piano la ragione diversa, quella che mi palpita in cuore, verrebbe capovolto ogni senso, rimessa in discussione ogni critica negativa, ogni interpretazione, la desertica utopia della cosa, che mi pulsa nelle vene, mi suggerirebbe ossessivamente il salto oltre il punto di non ritorno, oltre il dolore e la speranza. Abbandono alla principale insignificanza il significato pieno del senso, lo riduco a una scheletrica e in modo complesso articolata ragione lineare, incido nelle mie carni percorsi possibili, portatori di una prospettiva fiammeggiante di oltrepassamento e, in queste gloriose condizioni, mi atteggio al saluto. So bene che questo percorso scarnificante me lo sono prospettato più volte, e più volte ne ho esaminato la portanza ermeneutica, evitando di andare indietro di colpo di fronte alle pretese dell’assolutamente altro, spesso indecifrabili, un rantolo ridondante. Non ho smesso per questo di guardare negli abissi, dove si plasma la paura e l’abiezione, ma anche il coraggio esclusivo dell’oltrepassamento. Se guardo il mostro negli occhi, e la desolazione del reale ha questo livello di mostruosità, devo per forza permettere che una parte di questa gelida e astratta estraneità mi penetri nel cuore, e devo anche avere dalla mia forze in grado di andare oltre. Non posso nutrirmi solo di senso, sia pure palpitante e in grado di sopportare il mondo da me creato, devo andare verso il più radicale dei cambiamenti. L’incandescenza della realtà insieme a tutte le sfumature tematiche della solitudine devo trovare modo di farle mie, di essere io stesso la qualità, cioè quello che sono. «La chronique scandaleuse di Justine e Juliette, che sembra prodotta alla catena di montaggio, e ha anticipato nello stile del secolo XVIII il romanzo di appendice ottocentesco e la letteratura di massa del Novecento, è l’epos omerico che si è liberato persino dell’ultimo velo mitologico: la storia del pensiero come organo del dominio», (Dialettica dell’Illuminismo, op. cit., p. 127), indica l’orizzonte cupo che si apre di fronte all’analisi di Horkheimer e Adorno, i massacri e l’ulteriore mezzo secolo di guerre più o meno calde. Il pensiero è ora strumento del dominio, la scienza ha firmato un contratto impossibile a essere disdetto. C’è una persistenza interessante nei problemi della gestione del potere oggi. Il collocamento della conoscenza produce una interazione che ha conseguenze sullo sviluppo successivo della scienza. Ogni dimostrazione scientifica, avendo pretese oggettive, è destinata a essere sostituita da un’altra con le medesime pretese, cioè a dare vita a un aggiustamento. Questo movimento è in parte conseguenza della disposizione interna dell’accumulo. I risultati, a loro volta, hanno conseguenze considerevoli nel mio modo di creare il mondo e possono ostacolare o favorire la trasformazione rivoluzionaria. La formazione spicciola delle analisi impone che si seguano alcune regole e, per converso, l’esistenza e la formulazione di alcune regole impone la produzione di un certo tipo di conoscenza. Molti aspetti sconosciuti vengono colti da coloro i quali, come me, condividono l’urgenza di attaccare e distruggere le strutture che producono un certo tipo di conoscenza, per esempio quelle fondate sulla telematica, non ritenendo possibile, se non dentro limiti trascurabili, impadronirsi prima delle conoscenze relative. Condivido questa premessa conoscitiva, anche se so benissimo che la conoscenza è sempre, o quasi sempre, un elemento utile, purché ci si renda conto di quello che si sta apprendendo e di come lo si possa impiegare nella prospettiva dell’azione, evitando di cadere nelle trappole, ormai apprestate da tempo, capaci di farmi apprendere solo quello che vuole il nemico e non quello che mi sarà di aiuto nell’azione. Il problema è difficile, ma può essere schematizzato in modo semplice, partendo da quello che si definisce limite della conoscenza buona. La quasi totalità delle tesi ecologiste si fonda su di una presunta soluzione di questo problema, oltre che su di una altrettanto presunta individuazione di quel limite. Ora, fino a che si resta in questa prospettiva, l’uso di conoscenze meno dannose è certamente possibile e a nessuno verrebbe in mente di suggerire un ritorno all’età della pietra. Ma le conoscenze non sono tutte uguali e, per esempio, ci sono differenze tra quelle dirette a sviluppare l’energia nucleare e quelle dirette a sviluppare la telematica. Il settore della produzione nucleare è settore a rischio e propone un pericolo per l’incolumità di tutti, quindi tocca interessi che possono, dentro certi limiti, sensibilizzare strati socialmente contrastanti tra loro. La paura della guerra totale, in definitiva, ha portato a un assetto differente del mondo, che ripiega su guerre parziali e su di una riduzione progressiva dell’arsenale atomico. Si è davanti a un interesse che, sia pure in modo antitetico, viene capito dai due lati delle barricata. Il settore della produzione telematica è di certo anch’esso settore a rischio, in quanto sta sconvolgendo l’assetto del mondo. Ma è un rischio che gli inclusi stanno a poco a poco eliminando, staccando da sé gli esclusi e quindi proponendo una differente interpretazione degli interessi da tutelare di fronte al diffondersi dei mezzi telematici. In altre parole, le conoscenze telematiche, a un certo punto del loro sviluppo, non saranno uguali per tutti, come nel caso della morte atomica, ma saranno percepite e controllate dagli inclusi, mentre per gli esclusi saranno marginalmente disponibili. Quello che il nucleare accomunava in un ibrido sociale, la telematica separa alzando un muro che permetterà una divisione in classi molto più rigida di quella storicamente sperimentata. Ogni conoscenza può essere considerata come strumento da impiegare nell’oltrepassamento della modificazione produttiva, ma questa è una affermazione troppo generica per essere accettabile. Più corretto è dire che alcune conoscenze sono difficilmente impiegabili come strumenti da portarsi dietro in quest’avventura, e ciò non per come sono costituite, o per quello che mettono a disposizione, ma per l’abbassamento che richiedono alle mie facoltà per essere impiegate. Su questo abbassamento il discorso è ancora aperto, ed è in fondo il vero e proprio problema delle conoscenze che il potere sta sviluppando, in particolare quelle atomiche e telematiche. Limo queste righe [2008] mentre avverto, dilagare attorno a me, il tanfo mefitico dell’appiattimento. La povertà non è mai così povera come quando è povertà di sentimenti e di pensiero, miseria di conoscenza, riduzione all’osso di contenuti e di senso. Una vita priva di senso, ecco che cos’è veramente una vita povera, relegata per sempre nella zona oscura dove non sorge mai il sole, dove la presa di partito a priori sostituisce la scelta e dove la volontà continua a marciare con il passo dell’oca come se niente fosse avvenuto attorno a sé, dove i campi di concentramento sono ancora aperti e in attesa di nuovi ospiti, dove tutto quello che aspira a migliorare diventato se stesso viene respinto come incomprensibile, dove ogni desiderio è triviale e fallito irrimediabilmente e senza speranza. Di queste, come ho detto prima, le prime hanno una sorta di deterrente implicito, fino a un certo punto, perché il delirio di onnipotenza non è ancora stato sconfitto, ma le seconde non possiedono nessuno deterrente interno di questo tipo, anzi, al contrario, vengono spacciate come protesi generalizzata. Un esempio di abbassamento è dato oggi dal modo in cui può essere usato Internet. Gli effetti utili dell’assolutamente altro sono visibili nella miseria del fare e producono modificazioni. La trasformazione, illeggibile nella qualità se non come una immersione in apnea, diventa conseguenza quantitativa leggibile che si può esprimere nella rammemorazione. Il fuoco che brucia e non può essere vissuto se non affrontando la morte, diventa gioco e potere del fanciullo che si trastulla nel fare. Ma qui ha poco significato questo potere, non risolve il problema dell’inquietudine e della incompletezza e, alla fine, è ridotto a mero ricordo, fantasia risibile se una nuova ventata dell’assenza non rimescola le carte. «Noi dobbiamo comprendere questo sviluppo [il processo inarrestabile dei Lumi] e possiamo farlo solo se in noi c’è qualcosa che non vi si sottomette. Un’attitudine del genere è evidente in ognuna delle tue annotazioni, particolarmente quando tu ti trovi in una posizione difensiva piuttosto disperata; mentre non c’è in nessuna parola dei due altri interlocutori». (Lettera di Horkheimer a Pollock, 7 maggio 1943). La barbarie, nella sua profonda solitudine, è un richiamo molto forte, prima o poi il vantaggio momentaneo della garanzia sfuma. Distogliersi dalla conoscenza è tornare alla conoscenza con una logica diversa, quella del tutto e subito, senza inflessioni finalistiche. Liberarsi dalla costrizione della conoscenza, dalla schiavitù che la cultura impone, evitare di soggiacere alle ingiunzioni dei fini e delle scadenze, ecco ciò che la leggerezza della saggezza suggerisce a se stessa. La saggezza scava nella conoscenza come un gioco, ruota su se stessa e penetra nell’accumulo. Questo ruotare è uno sforzo che la saggezza compie sotto la mia sollecitazione, non ruota la trottola, come è stato dimostrato, se non per un impulso esterno che la spinge. Il motivo di questo girare, l’indole stessa del gioco, è presentare le varie facce che la compongono e ricevere una risposta diversa per ogni singola faccia. Ma la continuazione del gioco sovrappone le risposte e le contraddice, ecco come cadono le singole difese della conoscenza, sottoposte a questa sollecitazione. La trottola è il gioco del dio bambino, almeno uno dei giochi, e porta con sé quel tanto di follia che attiene alla saggezza. Seppure lieve nel movimento, la trottola, come se danzasse, è spinta dal dio della follia verso il fondo della conoscenza senza alcuna intenzione critica o ricostruttiva, il bimbo gioca e non tiene conto delle facce diverse del suo giocattolo, ma la saggezza suggerisce svuotamenti particolari a ogni passaggio, diversi fra loro, in maniera che la conoscenza deve arrendersi, e lo fa a poco a poco. Non c’è bisogno di sollecitare il movimento della trottola, il dio bambino, se questo sollecito si verifica la trottola fischia e il silenzio è rotto. Il gioco riprende con impulsi più lievi, la mia mano imita quella del dio, naturalmente non è la stessa, né la mania è venuta a installarsi definitivamente in me, essendo tornato indietro dal punto del non ritorno, anche ad andamenti più leggeri, la trottola è sempre in movimento. La saggezza sa regolare alla lunga se stessa fino a dare l’impressione di potere restare immobile, malgrado che il lavoro di scavo continua perché una volta iniziato nessuno può interromperlo. Tutte le immagini dello svuotamento, che a poco a poco mi avvicinano alla saggezza, contrastano con i miei convincimenti ma mi svuotano profondamente, mi sento leggero e il senso di potenza che mi ha accompagnato tutta la vita, non è presente. Per altro questo senso di potenza non l’avevo nemmeno nell’azione, anche in questa condizione mi sentivo leggero, ma della leggerezza specifica della completezza, che non guarda a nuove aggiunte, che nemmeno se ne preoccupa o forse neanche conosce. Sfasciare questa prigionia, come di certo avviene nella critica negativa, porta il dire della parola nella vita e dalla vita, dalla mia vita, esso riceve l’impulso a continuare, costruendo una connessione strutturale ad architettura complessa che non può sottomettersi alle regole della modificazione produttiva, opportunamente controllata. Ogni sforzo di questa critica si consolida in una intensità direzionale, prende corpo fermo seppure non stabile in uno svolgimento privo di regole, dove l’evoluzione libera delle componenti sintattiche, pure restando imballata nella significatività del singolo elemento, si scioglie a nuovi stimoli provenienti dall’insieme stesso che viene rammemorato. Il dire a cui sto facendo riferimento non è un vero parlare, una chiacchiera, ma una risposta alla vita, un modo per penetrare i misteriosi gangli che permettono un processo quasi mai decisionale, eppure sempre provvisto di quella pienezza vitale che non può trovare altra comprensione se non quella della tensione verso l’oltrepassamento, verso la qualità. Ciò è udibile perfino nella immediatezza più ottusa, da cui il travaglio angoscioso della inquietudine, messo a tacere quasi sempre dalla paura. La salvezza è l’anticamera del panico, e viceversa, bisogna vedere dove uno si trova. In genere, chi aspira a mettersi in salvo, e per fare questo si dibatte e perde la testa, o la dignità, è a un passo del perire. «Ad onta del loro carattere eterodosso e persino anticristiano – scrive Christopher Dawson – tutti gli elementi positivi del nuovo credo [illuminista] derivano dall’antica tradizione religiosa della cristianità. Una civiltà, infatti, non può sbarazzarsi del proprio passato nello stesso modo in cui un filosofo rifiuta una teoria: la religione che ha retto la vita di un popolo per un millennio penetra nelle sue più intime fibre e plasma ogni suo pensiero e sentimento. Quando i filosofi del Settecento tentarono di sostituire le loro nuove dottrine razionaliste all’antica fede della cristianità, non facevano in realtà che astrarre da quest’ultima quegli elementi di cui il loro pensiero era così profondamente permeato che essi non ne sapevano più riconoscere l’origine. Il deismo settecentesco fu soltanto la larva o l’ombra del cristianesimo, un’astrazione mentale, priva di una propria vita, ottenuta dalla realtà viva di una religione storica. Essa conservava certe concezioni fondamentali del cristianesimo: la credenza in un creatore benefico, l’idea di una onnipotente Provvidenza che ordinava ogni cosa per il meglio, e i principali precetti della legge morale cristiana; ma tutte queste concezioni perdevano ogni significato soprannaturale e si componevano nello schema utilitario e razionale della filosofia allora regnante. Così la legge morale fu spogliata di tutti gli elementi ascetici e ultramondani e intesa come pratica filantropica, l’ordine della Provvidenza si trasformò in una legge naturale meccanicistica. Fu questo, in modo particolare, il destino dell’idea di progresso, poiché mentre la nuova filosofia non aveva posto per il soprannaturalismo dell’escatologia cristiana, essa non riuscì a disfarsi della concezione teleologica della vita propria del cristianesimo. Ne venne così che la credenza nella perfettibilità morale e nel progresso illimitato del genere umano sostituì la fede cristiana nella vita del mondo avvenire come meta ultima degli sforzi dell’umanità. È del resto perfettamente consono con quanto ho detto a proposito delle origini di questo complesso di idee il fatto che il primo teorizzatore dell’idea di progresso sia stato un prete (l’abate di Saint Pierre), il primo di quella lunga serie di ecclesiastici scettici e riformatori che comprende personalità come Mably, Condillac, Morelly, Raynal e Sieyès, così caratteristiche dell’epoca dell’Illuminismo». (Progresso e religione, tr. it., Milano 1948, pp. 198-199). Forse è riduttiva questa tesi, ma non è infondata. Forse i motivi di un certo progetto del minimo danno possibile si devono alla repressione, forse no, non è facile ricostruire il problema. Di certo Holbach, Lamettrie e qualche altro, seguirono la strada di Bruno, di Vanini, e delle migliaia di “eretici” bruciati vivi dalla santa madre Chiesa, non escludendo la nuova Chiesa riformata, altrettanto feroce nelle sue inquisizioni. Che nella riflessione scientifica ci sia la possibilità di impiegare mezzi di ricerca oggettiva, questo non è possibile. La distanza necessaria manca, tutto è coinvolto nel meccanismo di completamento e lascia staccate le giunture che potevano fornire l’impressione di una continuità. Riguardo gli strumenti intuitivi, questi daranno vita a un lavoro approfondito sulla esperienza diversa, impiegando la parola della spiegazione teorica. Ma perché questa spiegazione? Semplicemente perché la memoria che porto dentro di me, l’impronta stessa dell’azione incisa e sanguinante nel mio cuore, non mi basta. Se esposta come si suol dire nuda e cruda, corre il rischio di risultare appena qualcosa di più di un rantolo, il destino vuole essere corteggiato, le parole non lo istupidiscono, eppure attraverso di lui è a me che esse si rivolgono. Questo lo straordinario percorso dell’approfondimento scientifico, una volta che si è liberato dalle pastoie del determinismo. Non voglio con ciò negare l’importanza di questo rantolo, è quello che sentirò nettamente in punto di morte, della mia morte, di cui non so nulla, né mai saprò qualcosa, esso nella sua disumana significatività è il corrispondente concreto, quantitativamente concreto, della mia esperienza dell’ignoto, è l’estremo saluto agonizzante dell’eco che la voce dell’uno che è fa giungere fino al momento della mia morte. Nell’azione e nella sua atemporale puntualità, il destino si avvicina e si propone, non come scopo, ma come roccia battuta dalle onde, priva di scopo, ma visibile nelle tenebre, un segnale di morte e di dissolvimento, ma anche una fonte che sprigiona lampi di cui solo parzialmente intuisco il contenuto. C’è una enorme difficoltà nell’ascoltare il destino, con i suoi messaggi criptici, e nell’agire, la puntualità contemporanea impedisce ogni compartimentazione di movimenti. Dare spazio a pressioni interpretative finisce per tagliare l’azione e fissare un ritorno più o meno repentino al fare coatto. Il fare rallenta, mi procura, nella sua profonda coazione, un senso di indulgenza verso il nemico. Dapprima un semplice rinvio, per mettere insieme i fatti e l’interpretazione relativa, per una ipotetica completezza. L’indulgenza è anticamera della soddisfazione personale, dell’essere alla fine gonfio di superbia come un rospo. L’ammirazione per un altro è uguale all’armonizzazione per me stesso, deformata da uno specchio opportunamente modificato. Lo sviluppo fattivo è multilaterale ma spesso si incentra in equivoci fondati su modelli che pongono i propri limiti creativi al centro del mondo. Su questo contesto esclusivamente fattivo e potenzialmente contraddittorio si innestano le proposte rammemorative. Non ci sarebbe modo di dire l’azione se non ci fosse l’antica immedesimazione tra me e il mio fare, intersecata dal fare degli altri, dal mondo che insisto a interpretare. Tutto questo può essere semplicemente negato, posso tenere dentro di me l’inquietudine della incompletezza. Sarebbe una postura riduttivistica, mi avvolgerei il capo nel lenzuolo di morte per non vedere e così comincerei a morire prima di morire. E qui sopraggiunge la domanda, perché questa esperienza critica radicale, che pure appartiene al mio passato, non vuole passare? È come se restasse acquattata dietro l’angolo, e mi sollecitasse a tornare. Ma tornare dove e come? Ecco l’esperienza della riflessione filosofica. Con essa quell’avventura non è semplicemente un accadimento da ripetere, impossibile e incomprensibile, neppure da comprendere, non c’è modo di persuadermi a conoscerlo come si fa con un qualsiasi oggetto scientificamente osservato, con la rammemorazione quell’accadimento viene detto, ma la parola che lo dice, dicendolo, lo tradisce e conduce con sé non giustificazioni o bubbole storiche, solo se stessa, quello che continua a dire, superfetazioni architettoniche che, come un castello di carte, potrei buttare giù con un soffio e che invece coltivo e curo, essendo della mia stessa vita che ne va di mezzo. Oggi è questa la condizione della ricerca scientifica. Qualcuno e qualcosa l’hanno buttata giù dal soglio regnante. L’amore per la conoscenza è fortissimo in questi nuovi filosofi, in particolare in coloro che si sono spinti più oltre, e senza infingimenti, nel rifiuto di Dio, ma resta sempre un fine, e quindi deforma la realtà in rappresentazione, richiede giustificazioni, calcoli e definizioni. L’aspirazione della saggezza che ha vissuto la contraddizione del sapere come strumento e come fine, è invece lo svuotamento, l’inutilità, e tutto questo fa a pugni con il calcolo. Sapere e vivere sono due direzioni che si sfiorano a volte, ma che non sempre camminano insieme, il saggio guarda alla propria vita non a quello che riesce ad accumulare nella conoscenza e agli onori e alle prebende che ne derivano. Ecco perché spesso la sorte del saggio è l’incomprensione degli altri, l’astio, l’ottusa resistenza, l’imbroglio, la trama dei paurosi e dei mistificatori. Tutta questa genia collabora volentieri per entrare in possesso dell’eredità conoscitiva del saggio, ma questa non esiste. Alla fine, considerando come un corpo unico tutta la filosofia dell’Illuminismo, cosa peraltro non giustificabile, se ne possono ricavare conseguenze molto vicine alla critica moderna delle pretese scientifiche di dominio e di conquista della realtà. «I filosofi del secolo XVIII, come gli scolastici medievali, si tenevano aggrappati a un corpo di sapienza rivelata, e non erano disposti né capaci di imparare dalla storia quelle cose che non potessero conciliarsi con la loro fede. La loro fede, come ogni fede che di sé informa un tempo, scaturiva dalla loro esperienza e dai loro bisogni, e poiché la loro esperienza e i loro bisogni si trovavano in mortale conflitto con la tradizione, con la stabilizzata e tuttora potente filosofia della Chiesa e dello Stato, gli articoli della loro fede erano in ogni punto opposti a quelli della filosofia ortodossa. Gli articoli essenziali della religione dell’Illuminismo si possono enunciare così: 1) l’uomo non è depravato per natura; 2) il fine della vita è la vita stessa, la buona vita in terra, invece della vita beatifica dopo morte; 3) l’uomo è capace, guidato unicamente dalla luce della ragione e dall’esperienza, di render sempre più perfetta la buona vita sulla terra; finalmente 4) la prima ed essenziale condizione della buona vita sulla terra è la liberazione delle menti umane dai legami dell’ignoranza e della superstizione, e dei loro corpi dall’arbitraria oppressione delle autorità sociali e costituite. I “costanti ed universali principi della natura umana”, che secondo Hume vanno tratti dallo studio della storia, devono essere in armonia con questo credo. I filosofi sapevano quali dovessero essere questi “universali princìpi” prima di andarne in cerca, e buona conoscenza avevano anche dell’“uomo in generale”, avendolo creato a loro propria immagine. Sapevano istintivamente che l’“uomo in generale” è buono per natura, facilmente illuminabile, disposto a seguire la ragione e il senso comune, generoso e tollerante, più facilmente guidato dalla persuasione che costretto dalla forza, e sopra ogni cosa buon cittadino e uomo virtuoso, essendo conscio che, siccome i diritti da lui reclamati non son altro che i naturali e imprescrittibili diritti di tutti gli uomini, gli è necessario assumersi volontariamente gli obblighi e sottomettersi alle limitazioni imposte da un giusto governo per il bene comune». (Carl C. Becker, La città celeste dei filosofi settecenteschi, tr. it., Napoli 1946, pp. 81-82). Ottimo riassunto dei principi illuministi. Le cosmogonie nascono e si sviluppano, per tutta la storia del pensiero umano, e non è vero che finiscono una volta per non più ricomparire, continuano a prodursi anche oggi, ed è un’attività che spesso viene a suggerire timidamente un tentativo di mettersi dalla parte della realtà, per quanto il più delle volte si torna a fare funzionare le conclusioni nel vecchio modo, quello delle scatole. Nella dislocazione non faccio altro che spostare armi e bagagli appartenenti alla mia soggettività nella realtà oggettiva, sarebbe meglio dire nella costruzione fantastica della realtà, riducendo lo statuto di quest’ultima al ristretto schematismo del mio essere individuale. Ognuno può trarre le conseguenze che vuole da questa operazione, così nella realtà si individuano movimenti che non è possibile provare e di cui non c’è traccia, in questo modo c’è una realtà per ognuno, diversa e contrastante, insomma si finisce per cadere in pieno relativismo. Non lascerò che le tue grandi orecchie facciano vento ai miei banchetti, sarei ein völlig unbrauchbarer Mensch (un uomo completamente inetto).
Trieste, 19 aprile 2008 Alfredo M. Bonanno * * * * * La religione sembra fatta apposta per esaltare i prìncipi al di sopra dei popoli e abbandonare i popoli al loro arbitrio. Paul-Henry Thiry d’Holbach ** L’ateismo di Paul-Henry Thiry d’Holbach *** I Frutto di un’epoca particolare e di una propizia situazione finanziaria, l’opera di Holbach apre la strada a quella che nel secolo successivo sarà definita l’avventura positivista, gettando le basi di un particolare tipo di materialismo che, se non condiviso da tutti i philosophes, resta sempre abbastanza rappresentativo della mentalità scientifico-filosofica del secolo dei lumi. Non che possa considerarsi originalmente produttiva di nuovi movimenti di idee o di nuove aperture in seno a quella politica sociale che fu la maggior conquista del Settecento francese, essendo l’opera di Holbach più che altro rilevazione sistematica di idee correnti, nello sforzo di quest’ultima diretto a tagliare fuori per sempre l’influenza nefasta della religione. Traduttore dal tedesco di opere di carattere scientifico, aiutato in questa impresa dalla sua nascita a Edesheim (Renania-Palatinato) e quindi dal fatto di avere avuto il tedesco come lingua materna, ebbe grande dimestichezza anche con l’inglese in conseguenza dei suoi studi a Leyde. Accanto ai testi in lingua tedesca (Johan Gottschalk Wallerius, Johann-Christian Orschall, il famoso Georg Ernst Stahl, Johann Gottlob Lehmann, il geniale Jean-Frederic Henckel) troviamo i testi in lingua inglese (Jonathan Swift, John Toland, John Davisson, Anthony Collins, ecc.); un immane lavoro che lo portò a possedere una grande padronanza scientifica, specie nell’indirizzo chimico, e una notevole penetrazione nelle correnti anticlericali e atee inglesi. A questo punto non si deve dimenticare la sua traduzione di Hobbes, il cui Saggio sulla natura umana gli chiarisce molti punti dell’ateismo teorico. Eppure, malgrado tutte queste premesse decisamente positive, l’opera del barone d’Holbach presenta una peculiarità negativa: è decisamente priva di intrinseco equilibrio. Vedremo specificamente più avanti come questo, di per se stesso, non costituisca un difetto insanabile per un militante della lotta anti-religiosa, sebbene non si possa nascondere che per un pensatore “puro” la remora è veramente notevole. Un primo motivo di squilibrio è dato dalla non sufficiente apertura verso la nuova scienza, mancanza che resta almeno ingiustificata tenendo conto della preparazione di Holbach e del suo lungo tirocinio tecnico quale traduttore. Un secondo motivo è costituito dalla cittadinanza rilasciata nei suoi lavori teorici alla retorica, per cui gli stessi risultano a volte appesantiti, resi contorti e di non piacevole lettura. Non bisogna dimenticare, infine, un ulteriore motivo di squilibrio dato dall’adesione totale ad un materialismo deterministico che confonde continuamente necessità e determinazione, impossibilitato a trovare quella via di sbocco che poi la scienza moderna e la filosofia moderna in senso metodologico troveranno nella prima metà del Novecento. Ma non è stato questo senso di intrinseco squilibrio a tradire l’opera di Holbach, lavori ben più caotici e meno interessanti hanno avuto maggiore fortuna. Specialmente in Italia il suo lavoro più importante, il Sistema della natura, non ha avuto traduzioni [1971] e non è stato mai studiato veramente. Travisato, citato inopportunamente, considerato come una specie di manuale del più trito ateismo, quel lavoro – anche in conseguenza della sua mole e della difficoltà di affrontarlo nelle molteplici pieghe delle sue ripetizioni – è rimasto quasi del tutto obliato. Anche in Germania è accaduta la stessa cosa malgrado che le ristampe non siano mancate. La Francia ha dedicato una edizione di testi scelti abbastanza recente (1957) e alcuni studi di cui il più importante è quello relativamente recente di P. Naville (D’Holbach et la philosophie scientifique au XVIIIe siècle, Paris 1943). Forse più interessante dell’opera è l’uomo, indiscutibilmente la sua azione personale di anfitrione e di sostenitore di una tendenza antireligiosa fu determinante per sollecitare lo sviluppo d’un ambiente e di una resistenza allo strapore del clero e della religione costituita. Ricchissimo, diviene il sostenitore, in via Saint-Roch, di un frequentatissimo salotto, l’unico non animato da un’esponente femminile: i migliori nomi dell’epoca fecero la loro assidua comparsa, Denis Diderot, Claude Adrien Helvetius, Charles Duclos, Guillaume Thomas François Raynal, Bernard-Joseph Saurin, Gabriel-François Venel, Guillaume François Rouelle, Cesare Beccaria, Ferdinando Galiani, Joseph Priestley, ecc. Infine la lotta anticlericale, condotta con un tono e un mordente che è stato definito “giornalistico”. Sorge così quella che gli studiosi chiameranno la “secte holbachique”, un gruppo di uomini che favoriranno la pubblicazione di libelli e studi anonimi dei quali i principali sono: Sulla crudeltà religiosa (1760), Dell’impostura sacerdotale (1767), I preti smascherati o le iniquità del clero cristiano (1768), Esame critico della vita e delle opere di S. Paolo (1770), ecc. Tra i vari scritti che trattano della personalità di Holbach e dei suoi rapporti umani in modo particolare con i frequentatori del suo salotto, preferiamo indicare al lettore un passo tratto dalla corrispondenza di Friedrich Melchior Grimm: «Ho conosciuto il barone d’Holbach soltanto negli ultimi anni della sua vita; ma, per conoscerlo, per condividere i sentimenti di stima e di venerazione che verso di lui avevano tutti i suoi amici, e che non potevano non essere ispirati dal carattere, dalla sua anima e del suo spirito, non è necessario avere avuto con lui legami fortissimi o particolarmente antichi. Cercherò quindi di dipingerlo come sento osando sperare che se fosse ancora in vita la semplicità e la franchezza dei miei omaggi non gli sarebbero dispiaciute. «Non ho mai più incontrato un uomo più colto, più universalmente colto di d’Holbach; non ho mai più visto qualcuno riuscire ad essere così colto con tanta poca ambizione e con tanto poco desiderio di apparire colto. Senza il sincero interesse che egli aveva per il progresso di tutti i “lumi”, di tutte le conoscenze; senza il vero bisogno che aveva di comunicare agli altri tutto ciò che credeva essere utile, si sarebbe potuto ignorare per sempre il segreto della sua vasta erudizione. «Lo si deve in gran parte al barone d’Holbach se la storia naturale ha fatto tanti rapidi progressi insieme alla chimica negli ultimi trent’anni; è lui che ha tradotto le migliori opere dei tedeschi in questo settore, quasi del tutto sconosciute in Francia, o almeno del tutto trascurate. Queste traduzioni sono arricchite da eccellenti note, si utilizzavano da tanto tempo senza sapere a chi si dovevano, soltanto oggi si conosce che è stato lui a tradurre quelle opere. «La stessa riservatezza l’ha avuta in merito al libro che ha fatto tanto rumore in Europa, circa diciotto venti anni or sono, il famoso Sistema della natura. Tutta la fama di cui godette questo lavoro non riuscì a sedurre un solo istante il suo amor proprio. Il motivo per cui egli ebbe per tanto tempo la fortuna di restare al riparo dai sospetti fu la sua modestia che lo servì meglio a questo riguardo di tutta la prudenza dei suoi amici». [Nota redatta nell’agosto 1789]. D’Holbach ebbe per amici gli uomini più celebri di Francia: Helvetius, Diderot, Jean Baptiste Le Ronde d’Alembert, Jacques André Naigeon, Étienne Bonnot de Condillac, Anne-Jacques-Robert Turgot, Georges-Louis Leclerc de Buffon, Jean-Jacques Rousseau, e molti stranieri degni di essere a questi accomunati, come David Hume, William David Garrick, Galiani, ecc. Se da un canto un insieme così scelto di amici ha contribuito a dare al suo spirito una maggiore forza ed estensione, bisogna tenere presente che non vi fu uno solo di questi uomini illustri che non ebbe ad apprendere qualcosa di utile o di curioso. Egli possedeva una grandissima biblioteca mentre la vastità della sua memoria riusciva a contenere tutte le conoscenze che i suoi studi gli procuravano, riusciva a ricordare senza sforzo tutto quello che meritava o che non meritava di essere ricordato. *** II È possibile oggi un aggiornamento del Sistema della natura? Nel senso di un aggiornamento scientifico decisamente no. Nel senso di un raffronto tra determinate posizioni del materialismo vecchia maniera e le nuove posizioni del materialismo scientifico così come è stato formulato dalla scienza odierna decisamente sì. Ovvio che un compito del genere comporta tutta una rivalutazione del pensiero scientifico del nostro autore, eliminando quei vieti giudizi di massa che sulla sua opera sono diventati tanti luoghi comuni. Che la sua non sia stata una vera e propria opera scientifica, almeno nel senso in cui oggi l’intendiamo, è cosa scontata, d’altro canto questi non erano di certo gli intendimenti dell’autore; ma ammettere da questa premessa il fatto nudo e crudo che siamo davanti ad una semplice elucubrazione retorica oppure – al limite – davanti ad un saggio di teoria sociale semplicemente, mi sembra perlomeno strano. Non dobbiamo dimenticare che lo scopo principale di Holbach era pur sempre quello di combattere la religione, scopo che aveva perseguito per tanti anni con una serie vastissima di libelli e opere varie pubblicate alla macchia e anonime, e che intendeva completare con una vasta opera solidamente costruita in forma scientifica. Ora, se lo scopo era questo, in pratica i risultati non furono molto aderenti alle premesse. Il vastissimo apparato scientifico finì per diventare più un peso che una vera e propria fonte di alimentazione per la teoria atea, ciò dipese non tanto da un difetto di impostazione attribuibile all’autore, come taluno ha voluto supporre, quanto da un difetto della stessa concezione materialistico-determinista. La sua ferma intenzione di aderire all’esperienza, il suo vivo desiderio di darci una struttura del mondo intesa in termini strettamente fisici, la sua spinta quasi primordiale verso ogni forma di razionalità perfezionistica, gli valsero da un lato un punto di appoggio – donde la sua fu veramente un’opera superiore a tutte le altre che partendo da presupposti non precisamente scientifici tentarono di abbattere il vecchio mito della credenza in un Dio creatore del mondo e regolatore dell’universo – ma dall’altro gli costituirono un peso grandissimo da trascinarsi legato al piede. Tutta quella aderenza alla realtà non ci dà la vera misura della materia, non ci convince intorno all’oggettività di qualcosa che in definitiva resta legata ad una pura e semplice “idea”. Sembrerebbe strano ma qui Holbach si imbatte in alcune incompletezze di informazione scientifica veramente strane anche per la scienza dell’epoca, incompletezze che, in ogni caso, non si possono fare risalire ad una non sufficiente penetrazione dell’autore quanto ad un interesse distorto per un problema più eminentemente umano: l’essenziale indipendenza della vita e quindi della migliore espressione della vita stessa, cioè dell’uomo. Ritorna in questo modo il tema della retorica. Il ritmo è veramente contorno quasi specioso in molte occasioni, quasi un attacco febbrile, scomposto, misto a periodi di grande compostezza che fanno pensare a momenti di intima riflessione. Ma sopraggiungono le ripetizioni, i difetti di non persistente revisione, il tutto sommerso dallo scopo principe: la lotta alla credenza, alla fede cieca, alla religione. Per questa curiosa situazione Holbach è stato accusato di combattere la metafisica facendo il metafisico (cfr. D. Deschamps, Le vrai Système, Introduzione di J. Thomas e F. Venturi, Ginevra-Lilla 1939, pp. 41-42), naturalmente emettendo così un giudizio non solo impreciso ma deliberatamente cattivo. La lotta alla metafisica è posta in atto da Holbach con gli strumenti che il razionalismo dell’epoca metteva a sua disposizione, è naturale che nessun filosofo può precorrere i tempi come nessun pensiero può essere pensato prima che la struttura sociale ed economica che ospita il pensatore lo renda possibile; e su questo piano Holbach fu non solo estremamente inflessibile ma intrinsecamente coerente, mai nella sua opera si possono indicare dei momenti in cui indulge verso la metafisica, se la retorica qualche volta ha il sopravvento questo avviene a danno della compostezza scientifica – il che sarebbe poi un problema di strumento comunicativo non di sostanza – mai a danno del principio della realtà che viene sempre posto al centro delle attenzioni del ricercatore. Ecco perché risulta ingiusta l’accusa di metafisico avanzata contro Holbach, la qual cosa non sposta, come vedremo, il problema dagli eventuali difetti di parziale documentazione di fondo della struttura costruita per fondare la vasta lotta contro il principio fideistico dell’esistenza di Dio. Se Holbach venisse aggiornato nel senso scientifico della parola la sua essenza più intima verrebbe ad essere tradita, viceversa un aggiornamento diretto ad emendarlo da queste estensioni retoriche svilirebbe il suo lavoro rendendolo adatto solo per il tavolo del notomista. Come tutte le opere che hanno una propria intrinseca unità pur nell’aspetto della più grande esteriore disarmonia il Sistema della natura deve essere affrontato dal lettore così com’è stato scritto, con tutte le pecche e con i non pochi difetti che contiene. *** III A prescindere dalla questione sulla gravitazione che Holbach stranamente non vede nell’ordine delle nuove idee dettato da Newton, resta pur sempre il fatto che la fisica del nostro autore non è quella che da un lettore attento dei testi scientifici dell’epoca legittimamente ci si potrebbe aspettare. Non tanto perché il “sacro” nome di Newton non viene quasi mai pronunciato, quanto perché l’aria stessa che tira in tutta l’opera è del tutto estranea alla nuova fisica. Più importante, come segno di una lontananza, l’uso fatto della terza legge di Newton per dimostrare la tendenza dei corpi in riposo a mettersi in movimento. È il chimico che compare dietro il fisico, e come chimico egli considera la materia sotto l’aspetto del panenergismo, continuando la lunga teoria dei filosofi chimici, la necessaria rispondenza fisica della sua teoria viene posta da canto, per altro non importando in definitiva all’autore quanto invece gli importava la lotta contro la religione. Non bisogna dimenticare che Newton viene elogiato proprio per avere contribuito, con i suoi studi, a distruggere le chimere alimentate dalla religione sul moto dei pianeti: per Holbach ogni altro merito del grande scienziato inglese passa quasi in seconda linea in relazione al grande risultato ottenuto di fronte all’umanità liberalizzando il pensiero su di un argomento tanto importante e tanto lontano dalla riprova pratica ottenibile direttamente con i sensi. La materia diventa, da qui l’idea che sostituisce la sostanza, non più un essere ma un “modo d’essere” (Parte I, cap. III), non necessita di un’origine ma eterna si mantiene con tutte le sue proprietà primitive. Da ciò il corollario immediato dell’inesistenza di Dio inteso come “essere differente”; ad esistere resta soltanto il gran Tutto. È la chimica che assiste Holbach nella sua avventura scientifica intorno alla materia: gli elementi di questa non sono identificabili con i corpuscoli che oggi definiamo atomi o molecole ma sono qualche cosa di diverso fondato su di una differenziazione qualitativa, quindi di natura chimica. Un posto particolare, tra questi elementi, è assegnato all’elemento da cui Stahl sviluppa la teoria flogistica. In altri termini quando Holbach parla della essenza di un corpo non fa altro, in termini moderni, che riferirsi alla sua formula chimica. La teoria del movimento, fondamentalmente nella sua base scientifica di partenza, trova riscontro nei presupposti hobbesiani, sebbene non manchi la presenza della tradizionale filosofia scolastica specie nel rapporto tra nisus e impetus. In questo modo il movimento non è soltanto “inerente” alla natura ma gli è essenziale, cioè coeterno alla natura stessa, donde la definizione dell’assenza dello stato di quiete. Eccoci davanti alla grande conseguenza che Holbach ricava da questo strumento scientifico di base: la natura non è un oggetto costruito da un essere supremo, ma è una e sola nell’eternità e nella solitudine del suo agire. È l’uomo che egli pone accanto a questo meraviglioso sistema della natura e lo individua come parte di un tutto, come anello puramente fisico di una catena che se eterna nel tempo non per questo può definirsi divina. Certo il livello di organizzazione di certi organi dell’uomo, come ad esempio il cervello, è tale da fare alimentare ogni sorta di favole, ma nulla sposta il problema di partenza, della totale appartenenza dell’uomo alla natura. In questo rapporto Holbach colloca i termini del suo determinismo sociale, che da un particolare tipo di determinismo fisico trovano alimentazione. L’ordine o il disordine non sono che nello spirito dell’uomo in quanto nella natura tutto è necessario, tutto è predeterminato ad un fine stabilito che è quello voluto dalla stessa natura per la propria persistenza e per mantenere quelle che sono le caratteristiche necessarie ai suoi sviluppi futuri. Allo stesso modo l’uomo, come parte della natura, agisce conformemente ad uno scopo mentre ogni essere si regola in dipendenza di determinate leggi. Va bene che l’uomo si educa, e quindi l’educazione svolge nel campo sociale il ruolo che l’agricoltura svolge in quello vegetale, ma per la sua stessa struttura l’uomo necessita soltanto di un’idea generale, come ad esempio quella che ogni essere è diretto a costruire la sua felicità e il suo benessere, per adeguare la propria condotta – nell’infinità degli scopi concreti che si prefigge via via nel tempo – a quella regola di ordine generale. Ammettere chiaramente questo genere di princìpi non può essere che produttivo per l’uomo in quanto solo l’errore è nocivo mai la verità. Holbach si dedica, nella sua opera, a questo lavoro di chiarificazione, esponendo via via quelle teorie, di natura generalizzante, che l’uomo acquisisce con tanta facilità e che tanto beneficio svolgono nella ricerca di quei princìpi di verità che gli tornano utili. Dietro queste parole balena l’amore che il nostro autore porta per l’uomo, per il valore dell’uomo, senza mezzi termini e senza svisamenti dettati dalla superstizione religiosa, un valore che si fortifica nella verità non potrà mai cambiare in sofferenza o sfortuna. Conseguentemente dalla ricerca condotta da Holbach si può ricavare una vera e grande lezione di tolleranza, di bontà, di libertà, di rifiuto dell’autorità della religione, di saggezza riflessiva, di razionalità. Il criminale, tanto per limitarci ad un esempio tradizionale, non viene immediatamente posto al di fuori della società e, per questo solo fatto, condannato irrimediabilmente, Holbach si chiede il motivo sociologico della criminalità, il fondamento sociale della molla alla criminalità, e la risposta è ancora una volta dubitativa nei confronti dei mezzi consueti di repressione e di distruzione della personalità umana. Dal suo amore per gli uomini e dalla contemporanea fede nel determinismo scientifico, scaturisce la teoria politica di Holbach che cade nella stessa illusione di prospettiva in cui era caduta la sua interpretazione del materialismo: lo Stato viene considerato come suscettibile dell’insegnamento nuovo, proveniente dalla scomparsa delle superstizioni e quindi in grado di produrre leggi giuste tali da rendere felici i cittadini. Oggi noi sappiamo che questa è una delle utopie non solo tra le più straordinarie ma anche tra le più pericolose, ma la posizione teorica di Holbach non poteva liberarsi dalla premessa raggelante del determinismo e quindi era necessariamente portata a non vedere quello che noi oggi, dietro l’insegnamento ricevuto dalla dottrina scientifica della indeterminazione e dietro gli anni che ci separano dalla fioritura delle dottrine socialiste in genere, vediamo con grande chiarezza. Le parole guida del lavoro di Holbach sono “virtù” e “felicità”, parole che ben si attagliano alla figura umana del barone e alla sua opera di studioso e di animatore di una corrente di pensatori antireligiosi in un’epoca in cui non era poi tanto facile levare la testa contro la peste religiosa. Sono le stesse parole che alimentano oggi la dottrina atea migliore, quella che dalla lievitazione politica del libertarismo riceve l’insegnamento più ampio e duraturo. La rettitudine dell’uomo può misurarsi soltanto attraverso la sue opere e tra le sue opere un posto di particolare preminenza occupa l’attività politica, ecco perché l’uomo fin dall’inizio della riflessione filosofica è stato giustamente definito come animale politico. Ora se l’insegnamento libertario, libero da etiche e da dogmi, da appartenenze a vincoli di partiti o di gruppi, sconfinante al di là delle ideologie come al di là della stessa autorità di questo o di quello studioso, è davvero la fonte migliore per alimentare una linea di condotta politica “giusta” e priva di compromessi degradanti, allora le parole guida sono ancora quelle: “virtù” e “felicità”; la prima quale metodo di lotta e di vita, la seconda quale fine e prospettiva da raggiungere. *** IV Nel 1760 Gabriel Bonnot de Mably scriveva: «Si chiamano comunemente atei quei filosofi, così comuni oggi, che, negando l’esistenza di un Essere supremo o provvidenza, credono che tutto è materia. Dicono che una certa proprietà di quella materia, che chiamano anima del mondo e che diffondono liberamente in ogni dove, fa pensare l’uomo, muovere la massa dei corpi celesti sulle nostre teste e vegetare 1e piante sotto i nostri piedi». (Della Legislazione, in Scritti Politici, vol. II, tr. it., Torino 1965, p. 403). Il filosofo francese scriveva quando non erano state ancora pubblicati i lavori di Holbach e si riferiva ad un clima particolare di ricerca e di lotta, quello stesso clima in cui ebbero origine le opere del nostro autore. Nel 1765 Voltaire non accettava le conclusioni dell’esperienza di John Needham (passaggio dalla materia inanimata alla materia vivente dimostrato con il fenomeno della farina che bagnata con l’acqua dà origine a microrganismi), esperienza che Holbach raccoglieva e inseriva nelle sue dimostrazioni dell’unicità della natura e della non differenziazione tra mondo organico e mondo inorganico, donde derivava necessariamente l’inutilità dell’azione di un creatore e l’impossibilità della persistenza della particolare posizione dell’uomo nel mondo. Era lo stesso Voltaire, sempre nel 1765, a manifestare una grande diffidenza in merito alle tesi esposte dal Holbach nel lavoro Le christianisme dévoilé, manifestando così l’espressione corrente di un contrasto all’opera dissacratrice del barone presente anche all’interno dello stesso gruppo di “filosofi nuovi”; a questo proposito basterà citare i nomi di d’Alembert e dell’amico personale di Holbach, Diderot, per avere una idea dell’estensione e della portata di questi dubbi e delle forze contrarie che l’opera del barone ebbe a superare. Quando nel 1770 esce il Sistema della natura Voltaire rompe definitivamente con Holbach. La sua reazione è quella di un allarmato deista che vede la giustizia mistificata dalla religione, ma non intende mettere in dubbio la sua credenza in un Ente superiore per quanto remoto e impotente a regolare i destini del mondo. In una sua lettera a Guy de Chabanon datata 28 settembre dello stesso anno si legge: «non solo questo libro farà un irreparabile torto alla letteratura e renderà odiosa la filosofia, ma la renderà ridicola». (Cfr. F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Torino 1963, pag. 518), ingenerosa valutazione del lavoro di Holbach, perfettamente nello stile di Voltaire, ma in contrasto con quelli che sono i valori indiscutibili della ricerca ateista condotta nel libro. Come si vede la lotta di Holbach avveniva su due fronti: il primo rappresentato dalla pubblicistica in difesa della religione, stomacante e ingiusta, colpita a ragione dalla stessa implacabile penna di Voltaire (in una lettera a Étienne Noël Damilaville, del 1° dicembre 1767, egli scriveva: «Il furore di questi miserabili è sempre coperto dalla maschera della religione; sono come dei tagliatori di borse, che pregano Dio ad alta voce e rubano in chiesa». Cfr. Voltaire, L’uomo dai quaranta scudi, in Scritti Politici, tr. it., Torino 1964, p. 735), di cui notevole per la bassezza delle argomentazioni e l’inconcludenza delle deduzioni fu quel Dictionnaire anti-philosophique, pubblicato ad Avignone nel 1767 e dovuto alla penna del gesuita Louis Maïeul de Chaudon; il secondo dai deisti francesi, capeggiati da Voltaire, e da alcuni filosofi antireligiosi che nell’estremismo delle posizioni del barone vedevano tutti i pericoli immediati senza vedervi l’esattezza di una interpretazione critica precisa. Eppure Holbach, un uomo, come abbiamo visto, di una rettitudine morale veramente unica e di una grande apertura all’amicizia e al rapporto umano, accetta la lotta e la conduce fino in fondo, senza retrocedere e senza lasciarsi lusingare dal successo dei suoi lavori. Schivo, modesto, preciso, continua a lavorare per il futuro, incurante dell’astio interessato dei primi e dell’incomprensione a volte solo parziale dei secondi. Anche oggi si è voluto vedere nella lotta religiosa condotta dal barone una espressione dei suoi tempi, valida soltanto per quel momento e del tutto fuor di posto nel mondo moderno. Certo molti problemi sollevati sono immediatamente ispirati alle condizioni di vita della Francia di Luigi XV, con quella caratteristica noncuranza in merito all’influenza dei fattori economici e sociali sulla religione, per cui bisogna analizzare con accuratezza le conclusioni di quella pubblicistica; ma ciò non può togliere del tutto validità a quegli sforzi o renderli inutilizzabili oggi. Se non sono più di moda le dispute teologiche sulle prove dell’esistenza di Dio ciò non significa che in effetti quella illusione metafisica sia stata accantonata del tutto, accantonato lo strumento resta l’idea come ipotesi limite, resta la illusione superstiziosa dell’esistenza di qualche cosa al di là del mondo naturale che può essere conosciuta, sia pure approssimativamente, o che può stabilire con l’uomo un “contatto” quando che sia e come che sia. Ciò non ha quasi nulla a che fare con la questione tecnica delle prove ontologiche o gnoseologiche, ma resta pure sempre un problema di metodo di notevole importanza, ed è in questo senso che le argomentazioni di quei lontani pensatori non sono state inutili e non sono inutili neanche per noi, oggi, con tutte le nostre brave tecniche di ragionamento e di logica, per noi, oggi, che ci lasciamo tanto facilmente ingannare dalle false aperture del vecchio mito religioso. Il richiamo costante all’esperienza, alla “dura realtà” come diremmo adesso, non è un richiamo da trascurare. È nella realtà che va ritenuto il fondamento del pensiero e della struttura umana, fuori di questa dimensione tutto scade nel vacuo e nel gratuito, si dispone in una prospettiva assolutamente inutilizzabile e dannosa. Che questo tipo di materialismo sia diverso dal vecchio materialismo di Holbach è questione di dettaglio che può contribuire caso mai a sollevare la tesi del barone da certe curiose aporie in cui era andata a cacciarsi a causa dell’errata premessa determinista, ma non può pensarsi che una formulazione nuova quale quella che proponiamo, nuova perché più aderente alle nuove scoperte fisiche di stretta natura indeterminista, possa davvero causare un capovolgimento definitivo delle conclusioni del nostro autore fino al punto di rendere non valide le conclusioni di fondo. Con questo vogliamo dichiaratamente contraddire l’affermazione, a nostro avviso errata, della Belaval che riportiamo: «Certe incertezze mostrano che la filosofia non si deduce dalla scienza. Ognuno ha il suo ordine. Dalla scienza non deriva che la scienza. Il filosofo non cerca di diventare un scienziato, egli sceglie, interpreta, vuole giustificare una risposta di cui ha avuto l’intuizione filosofica. In ogni caso non pensa nel vuoto, invece di ispirarsi alla scienza egli può rivolgersi ai soli filosofi».(Yvon Belaval, Introduzione all’edizione del 1966 del Système de la nature edita da Georg Olms di Hildesheim riproducente l’edizione di Parigi del 1821, pag. XXVI). Affermazione sorprendente se si tiene conto che viene fatta oggi e non da un contemporaneo del barone al quale potremmo, ancora, concederla. Ma quando mai oggi si potrebbe giurare su di una formulazione metodologica simile? A questo proposito voglio ricordare che il XIX Congresso nazionale di filosofia, organizzato dalla Società Filosofica Italiana, tenutosi a Bari nel 1962, ha avuto per tema “La filosofia di fronte alle scienze”, e ciò per avere un’idea di come la posizione della Belaval sia del tutto errata e senza senso. In merito al problema che ci occupa, dalle inesatte premesse di cui sopra si ricava che Holbach formula una determinata tesi in quanto la sua relazione filosofia-scienza era da considerarsi del tutto casuale, dipendente al più dal fatto che il povero barone aveva dedicato tanta parte della sua vita agli studi di chimica e aveva tradotto tanti testi scientifici. È ovvio che questa conclusione è assurda. La relazione scienza-filosofia presente nell’opera di Holbach è necessaria e consequenziale perché non si tratta di una relazione tra due esperienze contrastanti o comunque separate, ma soltanto di due aspetti di una personalità di ricercatore che si fondono insieme, forse più o meno unitariamente (ma questo è problema di dettaglio e di intrinseco valore d’uomo che non sposta il problema di principio), comunque sempre in forma univoca. A riprova di quanto abbiamo detto resta il fatto che oggi la cosiddetta parte scientifica dell’opera di Holbach è caduta, essendo caduto quel tipo particolare di materialismo a fondamento determinista, ma le conclusioni generali della sua opera sono sempre valide in quanto non si fondarono solo sulla filosofia che, nel caso specifico sarebbe quanto dire sulla retorica, ma utilizzarono quelle premesse scientifiche in una simbiosi produttiva di un’unità nuova. Oggi modificatosi in senso di maggiore apertura all’indeterminismo la posizione metodologica della scienza si può attuare, sempre dentro certi limiti superati i quali si cade nell’assurdo e nel ridicolo, una rivalutazione delle conclusioni ateiste di Holbach alla luce dei nuovi concetti, in una parola del nuovo materialismo, e questo è possibile perché il lavoro del nostro autore non fu soltanto un lavoro di retorica ma un saggio di scienza sociale. Holbach non fu, evidentemente, un profondo pensatore, errerebbe chiunque cercasse di approfondire su questa pista l’opera del barone, non fu, dentro certi limiti, nemmeno un vero e proprio ricercatore scientifico di problemi sociali – ancora la scienza umana della sociologia non era venuta alla luce – ma fu qualcosa di tutto ciò, fu filosofo, pensatore, scienziato, sociologo e, principalmente, fu un libero pensatore, dote che non tutti quelli che professano uno spirito caustico, una irriverenza contro le mode e le correnti, un rivoluzionario atteggiamento verso i valori, in definitiva posseggono.
[Pubblicato su “Studi e ricerche”, 1970, pp. 895-905. In opuscolo: Edizioni la Fiaccola, Ragusa 1971, pagine 16]. ** Il vero senso del Sistema della natura [1] «Nota iniziale. «L’uomo desidera, sfortunatamente, uscire dai limiti del suo essere, e per questo tenta di slanciarsi al di là del mondo visibile. In questo modo dimentica l’esperienza per affidarsi alle congetture, evita di coltivare la ragione facendo di tutto per impedirne lo sviluppo, pretende conoscere la sua sorte in un’altra via, prima di apprendere a vivere bene in questa. «Lo scopo dell’autore è di ricondurre l’uomo alla natura, di fargli comprendere il valore della ragione, di dissipare le ombre che gli nascondono la sola via che conduce alla felicità desiderata... di presentare utili riflessioni alla calma e al benessere degli uomini, favorevoli ai progressi dello spirito. «Lungi dal volere fargli infrangere i sacri vincoli della morale, l’autore pretende rafforzarli di più, piazzando sugli altari la virtù, la sola cosa che meriti l’omaggio di tutti gli uomini». [1] Paul-Henry Thity d’Holbach [Claude-Audrien Helvétius?], edizione fototipica Georg Olms Verlagsbuchhandlung, Hildesheim 1966, vol. II, pp. 24-496. *** Capitolo primo: Della natura «L’uomo è opera della natura, è sottomesso alle sue leggi, non può liberarsene e non può uscirne nemmeno col pensiero... Per un essere formato dalla natura non esiste nulla al di fuori del gran tutto di cui fa parte... Gli esseri che si suppongono al di sopra della natura, o da questa distinti, sono chimere sulle quali non potremo mai formarci delle idee fondate. «L’uomo è un essere puramente fisico. L’uomo morale non è che l’uomo fisico considerato sotto un certo punto di vista: il suo organismo è opera della natura. Le sue azioni visibili, i suoi movimenti invisibili sono effetti naturali, conseguenze del suo meccanismo. Tutto ciò che egli ha inventato non è che una conseguenza naturale dell’essenza che gli è propria. Tutte le nostre idee sono prodotte nello stesso modo. L’arte non è altro che la natura agente a favore degli strumenti fatti da essa stessa... Nella natura tutto si riduce all’impulso. «È alla fisica e all’esperienza che l’uomo deve ricondurre tutte le sue ricerche... La natura agisce con leggi semplici. Abbandoniamo l’esperienza e la nostra immaginazione ci condurrà in errore. È in mancanza dell’esperienza che si sono costituite idee imprecise sulla materia... La pigrizia trova utile farsi guidare dall’esempio, dalla routine, dall’autorità, piuttosto che dall’esperienza, che richiede azione, e dalla ragione, che richiede riflessione. Da ciò questa avversione per tutto ciò che sfugge alle regole normali, questo rispetto per tutte le istituzioni antiche. È l’inesperienza che produce l’incredulità. Consultiamo l’esperienza, contempliamo l’universo: non abbiamo davanti che materia e movimento». La concezione dell’uomo come organizzazione di diversi elementi, è fatto di grande importanza nel pensiero illuminista e in particolare di Holbach per quanto non trovi la possibilità di uno sviluppo analitico. L’uomo è un prodotto della natura, questo vuole dire che la materia è eterna, la creazione dell’uomo può essere indipendentemente nata nel tempo o praticamente esistente da sempre in funzione dell’esistenza di una determinata coordinazione di fatti naturali, finita la quale, finisce anche l’esistenza dell’uomo. Conseguentemente, diventa superfluo il concetto metafisico di qualcosa esistente fuori della natura. La paritetica condizione dell’uomo con le altre espressioni naturali è una intuizione di Holbach. Non c’è una posizione privilegiata dell’uomo, questo elemento rende possibile la negazione di una divinità che crea l’uomo a sua immagine e somiglianza o che crea l’uomo come re del creato, cioè come elemento privilegiato di una creazione preesistente. La composizione fisiologica dell’uomo, la sua struttura dei movimenti, è presente alla base dell’analisi sviluppata da Holbach e quindi dell’analisi che si dirige alla negazione dell’anima come qualcosa di spirituale. Egli nega la possibilità di qualcosa che non è conosciuto o che non può essere conosciuto attraverso i nostri sensi. Questa posizione per alcuni versi si richiama al sensismo, che è ovviamente presente in buona parte dei materialisti deterministi del Settecento, per un altro aspetto è specificamente meccanicista. Ogni concezione della natura di questo tipo tiene conto soltanto delle cause che sono rinvenibili attraverso un’analisi diretta, cioè l’analisi che si realizza con l’uso dei sensi o con l’uso di strumenti che sono prolungamento dei sensi stessi. Ogni considerazione più ampia che tiene conto di cause non percepibili attraverso i sensi, e che sono comunque elementi di modificazione delle condizioni dell’esistenza, è messa da parte, eliminata. Sotto un certo aspetto si pone qui una contraddizione, il concetto di movimento è un concetto che ha caratteristiche metafisiche, è inerente alla materia in quanto la caratterizza. Una materia priva di movimento non esiste, dice Holbach, e nello stesso tempo afferma, basandosi sulle ricerche scientifiche del suo tempo, che anche la materia cosiddetta inanimata è in movimento continuo. Ma questo movimento dà per scontata una serie di problemi filosofici o, per usare l’espressione di Holbach, metafisici. Il concetto di movimento implica il concetto di spostamento nello spazio e il concetto di spazio ha problematiche filosofiche non risolte, le quali non possono essere considerate risolte nemmeno oggi. Rinviando il concetto di anima al concetto di movimento, si fonda la materialità dell’anima, ma nello stesso tempo non si chiude ermeticamente la porta alle preoccupazioni metafisiche e quindi alle conseguenze che queste ultime producono all’interno del determinismo stesso. È qui una delle occasioni per vedere in atto i limiti del determinismo. «L’uomo è un essere che sente, che riflette, che pensa, che si muove liberamente sulla faccia della terra, che sembra il signore di tutti gli altri animali, sui quali domina, che vive in società, che ha inventato scienze e arti, che ha una bontà e una cattiveria sue proprie, che si è dato dei padroni, che si è fatto delle leggi, ecc.». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Uomo). Un articolo breve ma estremamente significativo. La fisicità dell’uomo è indicata come fondamento del suo vivere in società. La mediocrità non fa l’imbecille ma l’uomo perbene, attento agli altri, cortese e preoccupato dei propri interessi e di quelli degli altri. L’imbecille fa semplicemente della propria ovvia mediocrità un’aureola. L’arguzia nemmeno lo sfiora, sprecarla per raddrizzargli le gambe è opera vana. Di fronte alla forza coercitiva e comprensiva dei protocolli e delle corrispondenze mi chiedo a volte, con il cuore avvolto nella sofferenza, come posso evitare di consegnare questi prospetti di vita diversa a una speranza futura e non invece cercando di farli vivere oggi, qui, ora? Questa domanda parte dalla frantumazione e indica la ricerca della totalità, non grazie a una metodologia esasperata, ma grazie a un aggiramento articolato e complesso del controllo volontario. Scendo negli abissi di questo controllo, sciolgo a poco a poco tutti i legami e tutti i lacci che tengono eretti gli ostacoli, è sempre di una logica progressiva che sono in possesso, ottengo solo un rifiuto critico ferito, bisognoso di sostegno, ma sono improvvisamente fuori della strada diritta di formazione imperiale. Sono l’uomo degli acciacchi e dei dubbi, del dialogo inaccettabile e inaccettato, l’uomo della indifferenza ghiacciata, dell’atteggiamento aggressivo, sono l’uomo che svanisce e si ricostituisce a ogni palpito del cuore. La fulminea definizione di Diderot riconduce al materialismo di Holbach ma anche a quello di Lamettrie. «Materia, movimento, sensazione. Tutti i filosofi che hanno studiato con attenzione la natura della materia, considerata in se stessa, indipendentemente da tutte le forme che costituiscono i corpi, hanno scoperto in tale sostanza diverse proprietà, derivanti da una natura assolutamente ignota. Esse sono: 1°) la capacità di assumere forme diverse, che si producono nella materia stessa, e mediante le quali essa può acquisire la forza motrice e la facoltà di sentire; 2°) l’estensione attuale, che essi hanno bensì riconosciuto come un attributo, ma non come l’essenza della materia». (Julien Offroy de Lamettrie, Histoire naturelle de l’âme, Discours Préliminaire, in Œuvres Phil., La Haye 1774, vol. I, cap. II). Accostarsi a questi documenti dell’estremo materialismo meccanicista deve essere fatto con intelligenza, non pretendendo di leggere oltre la lettera, né di intuire contenuti che non si possono trovare in quello che essi affermano. Non vedo perché i battiti del mio cuore di fronte all’azione, il vento gelido del deserto che mi colpisce in viso nella solitudine della qualità, la stessa voce indistinta dell’uno che è che mi arriva da lontano, non possano essere materia e le mie parole che ne parlano, parole di un materialista. La vasta impresa della rammemorazione parla di concretezze poste bene, non fuori luogo. Sconfino dalla realtà proprio quando metto i piedi per terra e do concretezze inesistenti alle intenzioni di garanzia poste in atto dal mio stesso fare. Creo il mondo ed è atto materiale il dare al mondo la sua vita, le sue regole e le sue corrispondenze, ma anche la mia insaziabile necessità di fare a meno di questo mondo, che alla fine mi imprigiona, è un bisogno materiale a cui faccio fronte con l’oltrepassamento. Andare dietro lo specchio è l’unica possibilità concretamente materiale di guardarsi allo specchio. Se mi limito a rispecchiarmi, l’immagine che mi viene rimandata è una creazione illusoria o, se preferisco, una immagine irreale. La tensione che mi fa battere il cuore, la traccia dell’azione che trova collocazione nel mio cuore, l’orologio della mia mente che non riesce più a seguire le regole da esso stesso programmate e accettate, sono eventi materiali come un pugno in un occhio. L’ottusità assiste l’intervento conoscitivo, non lo assolve. L’itinerario dell’incertezza è sempre lo sradicarsi della vecchia casa veritiera e canonica, dove accanto al fuoco uomini di altre epoche altre storie raccontavano farneticando di paradisi terrestri e angeli di carne e ossa. Il declino della felice comunità non c’è perché non c’è mai stata una felice comunità. L’operazione allegorica diffonde un progetto paradossale che al proprio interno garantisce solo l’esistenza di piccole isole in cui posso avvertire tracce e presenze, residui di un passaggio, non solide concatenazioni e libere autonomie. Solo l’azione può fare piazza pulita, ma dove trovare il distacco decisivo? Come posso agire nel senso della mia azione? Giudice più arcigno non mi è dato conoscere. *** Capitolo secondo: Del movimento e della sua origine «È solo con il movimento che si possono stabilire rapporti tra i nostri organi e gli esseri che sono al di dentro e al di fuori di noi. «Una causa è un essere che ne mette un altro in movimento o che produce determinati cambiamenti in quest’ultimo. L’effetto è il cambiamento che un corpo produce in un altro a seguito del movimento. «In qualunque modo un corpo agisce su di noi, noi ne abbiamo conoscenza solo da un qualche cambiamento che esso produce su di noi. «Solo dalle azioni possiamo giudicare movimenti interni, pensieri, atti, e altri sentimenti. Quando un uomo fugge, ne deduciamo che ha paura. «Il movimento dei corpi è sempre la conseguenza necessaria della loro essenza. Ogni essere ha leggi del movimento che gli sono proprie. «Nell’universo tutto è movimento. L’essenza della natura è quella di agire. Tutti gli esseri nascono, crescono, sfioriscono e si decompongono. Le pietre, il ferro, ecc., tutto si muove. La pietra che pesa sulla terra, col suo peso agisce su di questa. È a causa del movimento che il nostro odorato è colpito dalle emanazioni dei corpi, anche i più compatti. «Questo movimento è stato prodotto dalla natura stessa, essendo essa il “gran tutto” al di fuori del quale non esiste nulla. esso è l’essenza della materia, la quale si muove di una propria energia, ha sue proprie regole e agisce conformemente a queste. «Supponendo una causa motrice della materia, bisogna supporre un inizio della propria esistenza, la qual cosa non è possibile. Infatti se la materia non può totalmente annientarsi o cessare d’esistere come si può pensare che abbia avuto un inizio? «E allora da dove è venuta la materia? Essa è sempre esistita. Da dove ha trovato origine il movimento della materia? Esso è sempre stato una caratteristica della materia, una conseguenza della sua esistenza, della sua essenza. L’esistenza suppone delle proprietà nella qualità che esiste. Da queste sue proprietà, dai suoi modi di agire deriva necessariamente il suo modo di essere. Dal fatto che un corpo è pesante deriva che deve cadere». Analisi illuminista degli strumenti che l’uomo possiede per raggiungere la felicità. Alcuni di questi strumenti sono molto conosciuti e su di essi la filosofia si è esercitata a lungo, in modo particolare la precettistica politica e morale ha condannato arbitrariamente una serie di strumenti perché sono moralmente dannosi. Holbach da materialista completo si rende conto che le declamazioni di un filosofo sono di secondaria importanza davanti alla realtà oggettiva del meccanismo che spinge all’utilizzo di determinati mezzi. Egli ragiona in questo modo: dalla realtà proviene all’individuo lo stimolo collettivo del raggiungimento della felicità. Ma nell’individuo questo stimolo assume la caratteristica della motivazione individuale. Dalla realtà insieme a questo stimolo provengono anche i mezzi, gli strumenti per il raggiungimento della felicità. Ora, se era contraddittorio lo stimolo perché proveniente da una realtà contraddittoria, allo stesso modo devono essere contraddittori gli strumenti, cioè alcuni di questi strumenti garantiscono indiscussamente il raggiungimento di una posizione di potere, di una posizione di vantaggio, la ricchezza, la cultura, la forza, altri strumenti invece garantiscono un approfondimento delle condizioni oggettive che impediscono la crescita collettiva del raggiungimento della felicità. L’autorità è uno di questi strumenti. La ricchezza, la scienza, la cultura in generale, sono tutti strumenti che procurano vantaggi a chi li usa. I ricchi, i potenti li usano, però li possono usare dentro determinati limiti. È un po’ il ragionamento che qualche decennio dopo farà Augustin Cournot a proposito dell’analisi del monopolista. Il detentore del potere può muoversi a suo agio nel tentativo di raggiungere i propri scopi, la felicità, il benessere, può muoversi liberamente, ma dentro certi limiti. Può reprimere, ma non può ottenere il consenso reprimendo in modo assoluto. La repressione è sempre un fatto relativo. La gestione del potere, per come si comincia a capire proprio nel momento in cui Holbach svolge queste riflessioni, è anche reperimento del consenso e quindi utilizzo di due strumenti che all’occhio del filosofo settecentesco sembrano contraddittori, o comunque aventi caratteristiche diverse, e che all’occhio odierno, molto più esercitato e critico, fanno vedere la loro complementare capacità, repressione e consenso. Uno degli strumenti che consente il raggiungimento dei propri interessi, la soddisfazione dei propri bisogni a scapito della felicità collettiva, è quello che esalta, anziché diminuire, la differenza che esiste all’interno della collettività tra coloro che hanno la possibilità di raggiungere la felicità e coloro che non ce l’hanno. Lo strumento che esalta questa differenza fornisce alla collettività opinioni illusorie riguardo il raggiungimento della felicità. Queste opinioni, in primo luogo la religione, consentono di dare a quella parte della collettività che non è in condizione di raggiungere la felicità l’illusione di un raggiungimento, per cui l’obiettivo diventa qualcosa di extraterreno, fondato sulla delega, sul mito, sul sogno, sulla immaginazione, sul concetto irrazionale di sacrificio immediato per il raggiungimento di una felicità futura. Queste opinioni religiose snaturano la morale naturale che è alla base del principio della felicità collettiva e spingono verso l’obbedienza ai princìpi astratti sotto la minaccia della punizione. L’impossibilità di raggiungere la felicità non si modifica, perché chi sopporta ha paura di una condanna peggiore e preferisce la sofferenza attuale sperando di raggiungere come che sia la felicità in una realtà ultraterrena. The amen corner. Malgrado la presenza di queste opinioni, mosse da intento mistificatorio, allo scopo di fare restare al proprio posto quella parte della collettività che non è in grado di soddisfare i propri bisogni, malgrado la circolazione di queste opinioni, esiste nella collettività una forza ottimista capace di modificare la realtà. Questa forza ottimistica si vede secondo Holbach nel valore positivo che viene dato alla vita. Anche in quella parte della collettività impossibilitata al raggiungimento della felicità, c’è la speranza di riuscire a modificare la propria situazione e di potere un giorno possedere gli strumenti per raggiungere la felicità. Nel caso contrario, qualora la speranza venisse a mancare, la vita non varrebbe più la pena di essere vissuta. «Modificazione, modificare, modificativo, modificabile. Nell’uso comune della società, si dice delle cose e delle persone. Per quanto riguarda le cose, si dice per esempio di una promessa, di una proposta, quando si restringono limiti sui quali ci si mette d’accordo. L’uomo, libero o no, è un essere che si modifica. Modificativa è la cosa che si modifica; modificabile, quella che si può modificare. Un uomo riflessivo e lucido, che sa quanto poche proposizioni siano realmente vere in morale, le enuncia sempre con qualche modificativo che le restringe alla loro giusta portata e le rende incontestabili nella conversazione e negli scritti. Non v’è causa che non abbia un effetto; non v’è effetto che non modifichi l’oggetto su cui agisce la causa. Non vi è atomo nella natura che non sia esposto all’azione di una infinità di cause diverse; non v’è una sola di queste cause che si eserciti nello stesso modo in due diversi punti dello spazio; non vi sono dunque nella natura due atomi rigorosamente eguali. Meno libero è un essere e più si è sicuri di modificarlo e più la modificazione altera indelebilmente la sua natura». (Denis Diderot, Enciclopedia, voci Modificazione, modificare, modificativo, modificabile). L’estrema eterogeneità della modificazione è la caratteristica del movimento, ed è anche quella del mio modo di creare il mondo. Un desiderio mi travolge, quello di assoggettare la realtà, di comprenderla dentro di me, di farla mia. Non è che follia. Fare e meno del desiderio è il desiderio che permette di soddisfare tutti i desideri. Ma sono troppo concreto per accettare questa tesi più che fondata. C’è un desiderio che viene prima di desiderare qualcosa di preciso e che inventa tutte le giustificazioni che poi entreranno in azione nella soddisfazione seguente. Questa invenzione non posso bloccarla perché è la vita vera che monta dentro di me come malessere incoercibile se l’attacco contro natura dal suo interno stesso, dandomi il senso di vuoto senza fine, una inquietudine che mi avvolge e mi impedisce di capire dove sto indirizzandomi. Mi accontenterei di qualsiasi cosa in queste condizioni, è proprio questo che devo evitare per non scalzare d’intensità la forza che si nasconde dentro di me. «I due princìpi dei quali stiamo parlando, l’estensione e la forza motrice, non sono che potenze della sostanza dei corpi; infatti così come questa sostanza è suscettibile di movimento, senza muoversi di fatto, così ha anche sempre, anche quando non si muove, la facoltà di muoversi... In effetti, o tale sostanza si muove da sé, o quando è in movimento riceve tale moto da un’altra sostanza che glielo comunica. Ma è forse possibile scorgere in tale sostanza qualcos’altro dalla sostanza stessa in azione? E se talora sembra ricevere un movimento che non ha in sé, lo riceve forse da qualche altra causa che non sia questo stesso genere di sostanza, le cui parti agiscono le une sulle altre? Se dunque si presuppone un altro agente, domando che cosa sia, e che mi si forniscano le prove della sua esistenza; ma dal momento che non se ne ha la minima idea, non può trattarsi di qualcosa di razionale». (Julien Offroy de Lamettrie, Histoire naturelle de l’âme, op. cit., vol. I, cap. II). Tutto è movimento nell’universo. Ecco la conclusione. Il salto è considerato come quel movimento repentino che attraverso l’apertura porta la coscienza immediata nel territorio della qualità. Se non fosse possibile un movimento del genere si avrebbe un acquietamento nel grembo mortale della modificazione produttiva, e la condizione subirebbe una spiegazione non soddisfacente, comunque accomodante, da parte della logica dell’a poco a poco. Il fare che vive non esiste, tutto circola in una simbologia da cimitero. La relazione che il fare propone è un simulacro di relazione. Mano a mano che faccio in maniera coatta l’oggettualità fattiva si rafforza e il prodotto si svuota intenzionalmente, non c’è più una intensità vivente ma solo una corrispondenza mummificata, un guscio vuoto, un silenzio assordante di pulegge in movimento, un naufragio senza superstiti e senza tracce residue sulla superficie del mare silenziosa e liscia come olio. Quello che propongo all’oltrepassamento è la mia forza di coinvolgimento, tutte le mie capacità aperte verso la soglia dove la qualità è in agguato. Posso in questo modo diventare un poco quello che sono, non ancora del tutto ma le mie resistenze magmatiche si incrinano, il controllo della volontà si allenta, frana il cerchio delle corrispondenze combattendo contro l’ottusità del controllo per il controllo. Il quadro delle trasformazioni attive è così profondo e inarrestabile da non accettare descrizioni, mi carica di incisioni profonde, accettate dalla mia nuova condizione attiva di solitudine come una inarrestabile ed emozionante intensificazione intuizionale. Di colpo non sono più in grado di percepire. L’immane peso della conoscenza si è condensato in un punto soltanto, in quel punto si sta improvvisamente solidificando il mio agire. Poiché il mondo da me creato produce per primo una sorta di rigetto che mi impedisce di rilassarmi completamente in esso, ne deduco, e me ne faccio coscienza inquieta, che esso non mi si attaglia come pensavo, che i mezzi percettivi da me posseduti nel momento della sua creazione, mezzi in base ai quali appunto ho dato vita a questa creazione, non erano adeguati. Non c’è niente di simile nelle strutture che mi circondano, le quali sono quello che sono per se stesse, ma non reggono a questa necessità non appena vengono prese in considerazione da me, inserite nella mia creazione, fornite da me di vita propria, condotte a emergere in un contesto che è il mio contesto, nel quale loro diventano quello che sono in conseguenza della mia volontà fattiva. Questo processo è un lento modificarsi e un progresso che si può anche realizzare con salti quantitativi insignificanti, cioè non in grado di rimettere in discussione le regole di fondo. Posso affermare che le strutture che mi circondano hanno una doppia vita, quella loro e quella che io loro conferisco, queste vite si sovrappongono con sfasature a volte consistenti, margini di ignoranza sono sempre possibili, a volte con duplicazioni più o meno forzate. Passo il mio tempo a controllare queste corrispondenze e questi rispecchiamenti, e mi illudo che sia questa la verità del mondo che mi circonda. Ma chi sonderà la mia idiozia? Fino a quando questo mio furore conoscitivo riuscirà a cullare il sonno inquieto del desiderio di libertà? Non posso riverniciare periodicamente il mio sepolcro, a un certo punto l’assalto di questi bucanieri alla mia coerenza avrà la meglio e la fortezza costruita sulla sabbia finirà per cedere. La fantasia che il cuore mi detta illustra i progressi di questo assalto alla mia torre di guardia, non passa molto tempo ed ecco che ricevo notizia della distruzione delle ultime difese, è il momento dell’assalto finale. Bruscamente sono diventate vane tutte le conoscenze e tutte le giustificazioni che le irrobustiscono, si è profilata così l’anticamera del salto. È il momento della potenza spaventosa che dilaga e che non ha pietà per le mie povere convinzioni tremanti di paura. Eccomi in grado, finalmente, di mettere a prova di che materia sono fatto, se i fulmini mi irrobustiscono o mi sradicano come alberello in preda all’uragano vendicativo. Non è una questione muscolare, è evidente, ma si tratta di un problema enormemente più grande, si tratta della vita, della mia vita. La qualità mi aspetta, l’azione sarà il mio rifugio. Ma l’azione non accetta paurosi fuggiaschi in cerca di un riparo, non ama gli inceneriti e i folgorati che si dibattono in preda agli ultimi spasimi. La forza e il coraggio sono le condizioni di accesso nella qualità, le enormi porte da dove transita la diversità. Bruscamente sono altro da me stesso e pertanto, finalmente, sono quello che sono. Non si può guardare quello che non si è mai visto, l’inveduto è invisibile per cui c’è memoria solo di quello che vedrò nel momento dell’accadere, lavoro sciagurato andare indietro e ricordare. La rammemorazione è altro, possiede una sua grandezza perché assolutamente inutile. Gli ammassi di sapienza non esigono condizioni diverse e, per un altro verso, non penetrano la stupidità. Quest’ultima sguazza nel mondo che è casa sua, fabbrica il bene e il male come medesimo oggetto, pianta alberi da frutto e ne ricava navi da battaglia. Fiorire richiede comprensione, la natura fa presto a nausearsi della stupidità ammucchiata ai suoi piedi, e i cantori melanconici della sua salvezza non sono altro che prefiche a pagamento. I miei occhi desiderano la qualità ed è per questo che il mio desiderio eccede il pensabile rendendo l’impensabile possibile nel destino che avvicino al mio cuore senza paura. *** Capitolo terzo: Della materia e dei suoi movimenti «Soltanto al movimento sono dovute le modificazioni, le forme, i cambiamenti della materia. Soltanto col movimenta tutto ciò che esiste si produce, si altera, s’accresce, si distrugge. «Si fa, grazie al movimento, una trasmigrazione uno scambio, una circolazione continua delle molecole della materia. Queste molecole si dissolvono per lasciare il posto ad esseri nuovi. Un corpo serve da nutrimento ad un altro corpo. In capo ad un certo tempo ogni cosa restituisce alla massa generale degli elementi ciò che ha avuto in prestito. «La natura attraverso le sue combinazioni produce nuovi soli. Il movimento distribuirà probabilmente un giorno le parti che costituiscono queste masse meravigliose, che l’uomo nel breve spazio della sua esistenza non vede che di sfuggita». Per il sensismo materialista ogni sensibilizzazione degli organi determina una modificazione nell’organo stesso e quindi l’azione. Qualsiasi possibilità di intervenire sull’individuo, sull’animale, sull’oggetto inanimato, è legata a un’azione che dall’esterno si muove e colpisce gli organi sensori dell’individuo, dell’animale, dell’oggetto. Le modificazioni che da questa azione vengono causate producono a loro volta altre azioni. Questo concetto sensista poteva essere ovviamente sviluppato allo stato delle conoscenze dell’epoca di Holbach con più accorto relazionismo, cioè con una indagine sui rapporti sociali e individuali e sulle relazioni che anche a quell’epoca erano abbastanza visibili nella struttura della realtà. Ciò non è fatto da Holbach non tanto per una difficoltà di reperimento del materiale concreto, derivato dalle esperienze della vita, quanto a causa della sua particolare propensione a ridurre l’analisi soltanto agli aspetti meccanicisti e fisicalisti. Nel rifiuto del fare come inconcludenza certa, rivive sotto molti aspetti l’intuizione di una improblematicità puntuale colta nella realtà, di slancio come se fosse un punto che si muove in uno spazio reso immateriale, invulnerabile. In questo nuovo elemento la repressione accumulativa si capovolge in una pienezza mai provata, immaginata solo come incorporea, come una fantasia. L’assolutizzazione del punto, vissuta dall’interno della realtà, è estensione assoluta, non assenza e limitazione, al contrario eccesso e dismisura. Cognizione del fare, vera cognizione e non mero produrre, è rendersi conto dell’infinita moltiplicazione del fatto. Non è una condizione di essere perfettamente corrispondente al suo opposto, sono intere sequenze di opposizioni che convivono identificandosi ognuna in molti contrari che la rimettono in sesto nel suo fare e rifare produttivo. L’attenzione produttiva seleziona e sceglie le concordanze economicamente più efficaci, ma il resto rimane aperto e continua a dare i suoi frutti modificativi, ripresentando quelle sfumature di possibilità che ormai non possono che essere tenute presenti per altri orientamenti. È un movimento complessivo dove sono immerso e da cui ricavo continue suggestioni. Mi sento trascinato via da questa forza produttiva, ma è solo un movimento di modificazione, cambio per restare sempre lo stesso. Posseggo e stringo con forza ma nemmeno di questo scenario ridotto alla sola fattività sono realmente padrone, per andare avanti, per dare corpo alla mie intuizioni qualitative, devo abbandonare l’idea stessa di impadronimento che mi stringe a sé e mi costringe a non vedere, smettere di lasciare dominare la mia attenzione e andare verso il vortice dell’immemorabile. «Nascere. Venire al mondo. Se si volesse dare una definizione rigorosa di queste due parole, nascere e morire, si incontrerebbe forse una certa difficoltà. Ciò che stiamo per dire è puramente sistematico. Propriamente parlando, non si nasce né si muore; eravamo fin dal principio delle cose, saremo fino alla loro consumazione. Un punto vivente è cresciuto, s’è sviluppato, fino a un certo termine, per la giustapposizione successiva di una infinità di molecole. Passato quel termine, decresce e si dissolve in molecole separate che vanno a confondersi con la massa generale e comune. La vita non può essere il risultato dell’organizzazione. Immaginate le tre molecole A, B, C: se sono senza vita nella combinazione A, B, C, perché dovrebbero cominciare a vivere nella combinazione B, C, A, o C, A, B? Davvero non esiste spiegazione possibile. La vita non è la stessa cosa che il movimento, ciò che ha vita ha movimento, ma ciò che si muove non per questo è vivo. Se l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco si combinano, passano dall’inerzia di prima ad una mobilità incontenibile; ma non produrranno la vita. La vita è una qualità essenziale e originaria nell’essere vivente; esso non l’acquista e non la perde. Bisogna distinguere una vita inerte e una attiva; stanno l’una all’altra come la forza viva e la forza morta». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Nascere). Se non metto in regola le mie carte c’è tutta una prospettiva che mi ingombra la possibilità di capire perché sono qui a lottare per il prossimo respiro. Non posso basarmi su quello che mi fornisce la percezione o sulla rielaborazione dell’accumulo, devo andare oltre. Nella sperimentazione personale all’interno del territorio della desolazione trovo l’assolutamente altro e quella comunanza spirituale che ho chiamato affinità. Questo oltrepassamento non vuole essere succedaneo di nulla, è quello che è, l’agire che mi sono procurato, quello che ho realizzato nel fare con l’aggiunta del mio coinvolgimento totale. Non attingo una conoscenza diversa, sono io una coscienza diversa che poi potrebbe dire diversamente la conoscenza e la stessa esperienza nel territorio della qualità. Ma la rammemorazione è un altro problema. Le emozioni che alimentano la coscienza diversa, le sue intuizioni, forniscono una tensione folgorante che si abbatte su di me e mi fa sentire finalmente conchiuso all’interno dell’azione che realizzo. Il desiderio viene così ricompensato senza che insista nel chiedere qualcosa, tornerà a rinascere ma solo dopo la rinuncia di fronte alla domanda fondamentale, tutto qui? Di fronte a questa analisi il successo è una buona cartina di tornasole, non appena lo vedo all’orizzonte, quando è ancora in fasce, quindi insignificante, prendo un’altra strada. I baciati in fronte dal successo mi danno il voltastomaco senza per questo essere disposto ad abbracciare i traditi dalla sorte. Innumeri anche fra questi gli imbecilli e i fastidiosi. Posso parlare con una persona in buona fede, che dice le sue fesserie con la faccia pulita dell’incosciente, ma taccio di fronte al saccente che vuole solo parlare di sé, bianco come un lenzuolo mi sembra un fantasma. Non è agevole parlare con i fantasmi. Potendo chiedere sempre di più alla modificazione produttiva, posso correre il rischio di un accumulo finalizzato a se stesso, un avvitarsi senza capo né coda, dove la gratificazione del possesso sostituisce l’incompletezza e mi fornisce il convincimento infondato di appagarmi e concludermi. Una cultura idolizzata massicciamente mi fornisce surrogati motivi per alimentare il mio ingiustificabile narcisismo di conquista. Mi appiattisco per non scomparire come fattore produttivo e riduco al minimo l’individuazione del prodotto, in modo da sperdere me e il mio fare nella massificazione della richiesta collettiva. La dinamica della insoddisfazione tarda ad uniformarsi e a smussare le sue superiorità più impervie. I piani di frizione scivolano adesso più agevolmente uno sull’altro. Eppure, anche quando tutto sembra rientrato al suo posto nell’uniforme e mefitico sottobosco, improvvisamente scorgo nel pieno della convergenza e della piattezza plasmate a misura dell’ordine, scorgo la dissonanza. L’annegamento è un rischio concreto del fare, il trovarsi senza speranze e senza respiro, un annaspare continuo e senza prospettive, piccoli sintomi superficiali, come l’eterogenea noia e l’improbabile pubblicità, che sono una distesa immane di sabbie mobili. «Ma come è concepibile che la materia possa sentire e pensare? Confesso che non riesco affatto a concepirlo; ma, a parte il fatto che è cosa empia limitare l’onnipotenza del creatore, sostenendo che non abbia potuto attribuire il pensiero alla materia, lui che con una parola ha creato la luce, dovrei forse privare un essere delle qualità che colpiscono i miei sensi, solo perché mi è ignota la sua natura? Nel cervello non scorgo altro che materia; nella sua parte sensitiva, come è stato provato, altro che estensione: quest’organo vivo, sano, bene organizzato, contiene all’origine dei nervi un principio attivo diffuso nella sostanza midollare; vedo questo principio che sente e pensa, essere alterato, addormentarsi, spegnersi con il corpo. Che dico! L’anima s’addormenta per prima, e il suo fuoco si spegne mano a mano che le fibre, delle quali essa pare costituita, si indeboliscono e cadono le une sulle altre». (Julien Offroy de Lamettrie, Histoire naturelle de l’âme, op. cit., vol. I, cap. III). Indirizzarsi verso l’unità di interpretazione del mondo? Non sempre è possibile. Un vero e proprio materialismo oggi deve cercare vie diverse, più frastagliate, che consentano un’apertura verso l’uno che è. Aspettare il momento più adatto a cogliere l’apertura è però una pia illusione. Questo momento non si presenta mai con le caratteristiche dell’eccezionalità. Il più delle volte è una intollerabile inquietudine che cresce a poco a poco e che esplode senza avere i segni dell’illuminazione o dello sconvolgimento. Altre volte è un guardare avanti, diritto, senza più attendere, lasciando che l’intuizione si faccia strada nella corazza logica, che l’amore dica una parola che non si vuole capire, che l’odio trascini la mano armata, che il mondo crolli addosso, o che semplicemente una nuvola leggera disegni nel cielo di Londra una sagoma simile a quella della Scandinavia. Darsi è un negarsi a questi momenti che sono esattamente uguali a tanti altri, ma che qualche volta arrivano inattesi come un simulacro della qualità, anche se lontani come sempre dal polo negato dell’orientamento. *** Capitolo quarto: Delle leggi del movimento comuni a tutti gli esseri. Dell’attrazione e della repulsione, della forza d’inerzia, della necessità «Quando vediamo la causa in atto, consideriamo i suoi effetti come naturali. Credendo di vedere un effetto senza poterne stabilire la causa, non facciamo altro che ricorrere alla nostra immaginazione. Questa ci crea delle chimere. «Nella natura non possono esistere pertanto che cause ed effetti naturali. Tutti i movimenti seguono leggi costanti e necessarie. Dal fatto che non li percepiamo possiamo mai concludere che la causa in atto sia soprannaturale? «Lo scopo visibile di tutti i movimenti dei corpi è quello di conservare la loro esistenza presente, d’attirare ciò che è utile e di respingere ciò che nuoce. Da ciò che esiste si ricavano i movimenti propri a una determinata essenza. «Ogni causa produce un effetto, e non possono esserci effetti privi di cause. Ora se tutti i movimenti sono dovuti a una causa, essi saranno determinati nella loro natura, essenza e proprietà, per cui bisogna concludere che tutto è necessario e che ogni essere della natura, in date circostanze, e con date proprietà, non può agisce diversamente da come fa. La necessità è il legame infallibile e costante delle cause con i propri effetti. Questa forza irresistibile, questa necessità universale non è altro che una conseguenza della natura delle cose, in forza della quale tutto si muove retto da leggi immutabili». Nel corso del pensiero illuminista Holbach supera questo aspetto problematico facendo riferimento alla prevalente invenzione collettiva degli uomini, la quale finisce per assegnare un posto preminente al mito dell’essere superiore che produce gli aspetti positivi e considera invece l’essere che produce gli aspetti distruttivi come un ribelle. Da qui una lotta impari condotta tra elementi positivi ed elementi negativi. Holbach tiene conto principalmente dell’elemento religioso e mitologico che confluirà poi nel cristianesimo, e nel cattolicesimo in particolare, in quanto, per esempio, se avesse studiato le realtà mitologiche che confluirono nel manicheismo, avrebbe potuto sviluppare una interpretazione un po’ diversa dell’analisi delle due potenze, quella positiva e quella negativa. La componente principale del ragionamento di Holbach è che il modello su cui venne costruito il mito dell’essere superiore fu il modello della peggiore tirannia. A un certo punto, questo essere superiore finisce per assorbire dentro di sé quell’altro essere che gli si era ribellato con lo scopo di diventare esso stesso gestore, in una fase più evoluta della mitologia primitiva, dell’aspetto positivo e dell’aspetto negativo. The hurning of the leaves. La distruzione è così considerata come punizione nei confronti non più dei colpevoli, ma della collettività. Sono attaccati e distrutti dall’ira di questo essere superiore, dispensatore non più dei soli aspetti costruttivi della natura, ma anche degli aspetti distruttivi, indiscriminatamente tutti quanti, perché la sua azione distruttiva non è commisurata alla colpa di coloro che hanno trasgredito la regola, ma è commisurata alla entità dell’offesa, caratteristica tipica dell’azione repressiva condotta dai tiranni assoluti. La preoccupazione di fissare una possibilità che sia aperta soltanto verso il futuro è un residuo della vecchia mentalità filosofica, è un ultimo colpo di coda dell’antica filosofia dell’identità. Scrive Schelling: «Da questa lotta tra un principio che cerca di affermare la sua spiritualità ed una potenza che lo pone come non spirituale, da questo conflitto di un principio che dovrebbe essere materiale ma si oppone alla materializzazione e tuttavia è ancora sempre spirituale – possiamo dire: da questo conflitto di un principio centrale, vale a dire che vuole essere nonostante tutti gli altri, esclusivamente, e che tuttavia è costantemente espulso fuori dal centro dal potere silenzioso di una potenza superiore, da questo conflitto deve sorgere una lacerazione, in cui per la coscienza quell’uno che essa vuole affermare come l’assolutamente o esclusivamente uno, come centro, inevitabilmente si frantuma in una molteplicità, si stravolge in una molteplicità che essa non vuole, ed in cui continua a tentare di porre l’unità; e poiché è il dio che domina la coscienza, che per essa si lacera e viene stravolto in una molteplicità, allora il primo prodotto di questo conflitto nella coscienza è una molteplicità di dèi, o meglio, una molteplicità divina, il primo politeismo simultaneo. Ho già rilevato che il politeismo meramente simultaneo è sempre in un certo modo monoteismo, qui tuttavia è proprio questo il caso. Come già notato, la molteplicità che sorge non è voluta dalla coscienza, è una molteplicità involontaria, che anzi nasce contro il suo volere ed è proprio per questo motivo che essa tenta sempre di riaffermare l’unità». (Filosofia della mitologia, tr. it., Milano 1990, pp. 34-35). La possibilità di sempre differenti implicazioni relazionali, e anche la singola relazione fino all’estremo della sua realtà ipoteticamente puntuale contiene la totalità del reale, questa possibilità dicevo è implicita nella singola relazione, nel singolo movimento, per quanto difficile o approssimativa possa essere la sua identificazione, non ha bisogno di essere garantita da un processo che diventi progresso verso qualcosa di esterno e di lontano. Sono molteplici gli errori commessi nel tentativo di spiegare il mistero contraddittorio della natura, la sua non visibile univocità benefica. Nel collocare altrove la fonte dei mali che apparivano attraverso l’azione distruttiva esercitata dalla natura parallelamente alla sua azione benefica, nel collocare altrove la fonte di questi mali, si finì per individuare qualcosa con caratteristiche diverse dalla natura stessa. Questo miscuglio contraddittorio di bene e di male, di costruttività e distruttività era considerato diverso dall’uomo, dall’esperienza individuale dell’essere singolo, privo di caratteristiche antropomorfiche. «Il principio che si è fatto positivo – continua Schelling – deve restare positivo, tuttavia in quanto in sé positivo deve farsi potenziale, potenza, non in sé – il che sarebbe contraddittorio – ma relativamente, ossia appunto rispetto a quella potenza superiore. Qui sorge dunque per noi il concetto di una potenzialità puramente relativa, o il concetto di un ente “potenziale actu”, vale a dire di un ente, che in sé è attuale e tuttavia verso l’esterno o rispetto ad un altro principio è parimenti potenziale, che è che non è. Ma il concetto di un tale ente “potenziale actu” è proprio appunto il concetto della materia, in quanto sia concepita già come reale, sebbene non corporea. (Così: B deve farsi materia della potenza superiore: espresso così in generale ciò potrebbe anche accadere, se rientrasse totalmente nella potenzialità. Ma in questo senso non rientra nella potenzialità; rientra invece nella potenzialità relativa, che è uguale alla materia reale, che tuttavia deve sempre essere distinta dalla materia corporea). Viceversa potremmo dire: la soluzione di quell’apparente contraddizione, per cui una stessa e medesima cosa deve essere contemporaneamente attuale in sé e relativamente potenziale rispetto ad un altro, la soluzione di questa contraddizione è intuita appunto nel concetto della materia pura, ossia incorporea. Tento di rendere chiaro questo passaggio altrimenti difficile ancora in un altro modo, ovvero con un’altra formulazione. Finché il principio fattosi positivo nella coscienza contro la sua destinazione originaria rimase in questo stato di elevazione, di sollevamento, era cieco per la potenza superiore. Tuttavia, contrastato continuamente da questo potere superiore sebbene sconosciuto, ed incapace di affermarsi contro di esso, non può e non vuole rientrare nella potenzialità (il che sarebbe infatti un processo di regressione completa). Spinto da questa sua necessità, dunque, poiché non può tornare ad essere assolutamente potenziale e d’altra parte tuttavia non può assolutamente (ossia esclusivamente) rimanere attuale, spinto da tale necessità trova un chiarimento o una via d’uscita (non uso arbitrariamente questo termine, ma come tale è fondato nella stessa mitologia), trova, dico, il chiarimento o la via d’uscita rispetto a questa potenza superiore, con l’essere ciò che è ed insieme non è in sé. Potremmo dire che diventa un terzo in quanto non è non ente (non è puro potere) e tuttavia non è neppure in opposizione o in esclusione rispetto alla potenza superiore. Ma appunto in quanto cessa di essere l’essere esclusivo, e in quanto non rientra nella potenzialità, ma si fa potenziale almeno esteriormente, si apre parimenti alla potenza superiore, e viene condotto a riconoscere, ad ammettere la potenza relativamente spirituale dapprima esclusa. Vogliamo così chiamare: potenza relativamente spirituale, l’A che ora subentra. Infatti rispetto al principio che ora si fa materia, rispetto a B in quanto si offre come materia la potenza superiore è relativamente spirituale. Quello ha abbandonato il centro, perciò è ora questa (A’) al centro. Infatti, nel rinunciare alla sua esclusione la potenza uguale B, fattasi positiva contro la sua originaria destinazione, non può rientrare nella latenza del soggetto, al di fuori di cui si era appunto elevata, altrimenti sarebbe tutto di nuovo come prima, sarebbe un processo di regressione e non progrediente; può però rinunciare all’essere soggetto, decidersi ad essere oggetto, per porre al suo posto ciò che prima era escluso e perciò era oggetto, porre questo al posto di quello; può farsi periferica e cedere il centro a ciò che prima era escluso, cioè periferico; oppure, infatti queste espressioni hanno tutte lo stesso significato, può materializzarsi, despiritualizzarsi, per porre ciò che prima era escluso come sé, come potenza relativamente spirituale. Ed essa fa ciò solo in quanto non può fare altrimenti. Infatti la forza superiore che è presente vuole costantemente respingere nella potenzialità B, rispetto a cui vuole restare invece reale (escludente, quindi non materiale), per cui alla fine B è posto come oggettivo, periferico, A come soggettivo. Quando ciò accade allora la potenza che si è fatta non soggetto appare come ciò che pone il dio relativamente spirituale». (Ibidem, pp. 48-49). La traduzione in termini antropomorfici delle paure iniziali dell’individuo, avvenne quando si collocò in un punto lontano la fonte delle capacità distruttive della natura, arrivando alla conclusione che la presenza di questo aspetto distruttivo fosse da attribuirsi alle decisioni di un essere particolare, provvisto di grandi capacità, il quale decideva autonomamente di mettere in atto gli aspetti distruttivi. Da questa invenzione mitologica negativa dell’allargamento all’aspetto positivo della natura il passo fu breve. Si identificarono così diversi elementi mitologici aventi caratteristiche antropomorfe che spiegavano sia gli aspetti positivi come gli aspetti negativi della natura. Restava da spiegare come un essere talmente potente potesse soggiacere, sia pure temporaneamente, all’azione di un essere meno potente che metteva in azione gli effetti distruttivi. I ragionamenti mitologici che portarono alla soluzione di questo problema sono molto complessi. «Vi sono due sole vere ricchezze: l’uomo e la terra. L’uomo non vale niente senza la terra, la terra non vale niente senza l’uomo. Il valore dell’uomo sta nel numero: più una società è numerosa, più è potente in pace, più è temibile in tempo di guerra. Un sovrano porrà dunque la più grande sollecitudine nel moltiplicare i suoi sudditi. Più ne avrà, più avrà commercianti, operai, soldati. I suoi Stati saranno in una situazione deplorevole se fra gli uomini che governa ve ne sarà uno che abbia paura a mettere al mondo dei figli, e che lasci la vita senza rimpianto. Ma non basta avere degli uomini: bisogna averli industriosi e robusti. Si avranno uomini robusti se avranno buoni costumi e se sarà loro facile conquistare e conservare il benessere. Si avranno uomini industriosi se saranno liberi». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Uomo [Politica]). Nell’azione guardo avanti, verso la libertà, la verità, la bellezza, la giustizia, non mi fermo alla mia preparazione personale, che pure è stata costruita nella modificazione e da questa condizione originaria porta con sé pregi e limitazioni. In questo guardare avanti sta la conchiusione dell’azione stessa e il mio discorso con il destino. Se queste qualità, che guardo negli occhi, dovessero per una ipotesi infelice travalicare nel mondo da me creato, verrebbero considerate dei mostri e seminerebbero il terrore fra la brava gente intenta a contare i propri denari o a custodire la propria sicurezza fisica. Spregiare la conoscenza è segno di debolezza. L’uva lontana è sempre acerba. Occorrono grandi macchine per assediarla e libere intelligenze, cuore forte e coraggio di fronte ai possibili errori. I vagiti possono sembrare ridicoli, emessi dai primi tentativi, ma sopravvanzano le urla dei fanatici e, alla lunga, rompono il silenzio. «Ora, come definiremo la legge naturale? È un sentimento che ci insegna ciò che non dobbiamo fare, perché non vorremmo fosse fatto a noi. Oserei aggiungere a quest’idea comune che un tal sentimento non è, mi pare, se non una specie di timore, o di terrore, altrettanto salutare alla specie quanto all’individuo; è probabile infatti che non rispettiamo il denaro e la vita degli altri se non per conservare i nostri beni, il nostro onore e noi stessi. Vedete dunque che la legge naturale non è che un sentimento intimo, appartenente ancora all’immaginazione, come tutti gli altri fra i quali è compreso il pensiero. Per conseguenza essa non presuppone evidentemente né educazione, né rivelazione, né legislatori, a meno che non la si voglia confondere con le leggi civili, al modo ridicolo dei teologi. Le armi del fanatismo possono distruggere coloro che sostengono queste verità, ma non distruggeranno mai queste verità stesse». (Julien Offroy de Lamettrie, Histoire naturelle de l’âme, op. cit., vol. I, cap. III). Il meccanicismo non può vedere la libertà se non nella prospettiva di una legge naturale, insita nella struttura medesima del reale. Il pessimismo connaturato al fare, derivato senza dubbio dalle delusioni della mancata completezza, blocca molti accessi all’oltrepassamento. Ma si tratta, tranne straordinarie eccezioni, di un relativismo dozzinale. Il fare ha un avvitamento perverso e poliforme che rifiuta i rischi di una vera e propria trasformazione, il che blocca molte spinte verso l’assolutamente altro che non possono evolversi sotto un controllo repressivo esteso a tutti gli interessi della volontà. L’intreccio tra accettazione del fare e sua messa in discussione critica non è corrispondente a una separazione lineare. Le tante forze messe in moto dall’intuizione e dall’inquietudine non sono equivalenti per forza all’oltrepassamento, c’è a volte un contrasto che riconduce queste sollecitazioni nell’alveo protocollare, mentre altre volte accade il contrario. Molte energie produttive sono così provviste di una carica emozionale che non può essere azzerata nell’accumulo e che produce, indirettamente, un rifiuto della domesticità, sia pure leggibile in maniera labirintica e confusa. Posso affermare che la conoscenza che impiego nella creazione del mondo è fatta all’interno di questo stesso mondo, anche se non tutta è compresa in esso. Nel lavoro interno e ininterrotto per circumnavigare la volontà, la frammentazione mina il progetto unitario fattuale molto al di là del suo intrinseco fondarsi sulla propria incompletezza. Il luogo del fare, lo spazio e il tempo protocollari, diventano così deterritorializzati e suddivisi in reticoli indeterminati e mutevoli. Il fare è attaccato nella sua monoliticità che in questo modo si rivela falsa e inconsistente. Ogni significativa disgiunzione di senso è rivista criticamente nel corso dello sviluppo della interpretazione negata. L’emergere della prospettiva altra, assolutamente altra, procede pertanto anche per immagini di disgregamento e grazie a un affievolirsi della fede protocollare, della certezza delle corrispondenze scientifiche. Le vie dell’opinione si moltiplicano. Per superare questo limite è con me stesso che faccio continuamente una prova di forza. Scrivo libri che pochi leggono e che forse pochissimi leggeranno fra un secolo, se non nessuno. Ma ognuno di questi libri è una parte di me stesso che viene messa in questione, una posizione falsa o inverosimile che è presa d’assalto e sconfitta, messa sottosopra, in altre parole, espressione di libertà. Ogni libro è un gradino di una ipotetica scala che salgo, e questo è il motivo per cui non amo rileggere i miei libri, sarebbe come ridiscendere quei gradini. La faccenda più importante è che ne penso io di quello che scrivo, di come nei decenni ho cesellato nei minimi particolari un pensiero che cerca di sfuggire alla tirannia delle parole per dire a parole quello che sta oltre le parole, la azioni libere, realmente libere che abitano la realtà, che animano l’uno, che vivono nella qualità della vita. Non so ancora decidermi a offrire una opinione agli altri sui miei libri, il fatto è che l’opinione, qualsiasi opinione, mi fa profondamente schifo. Il mondo si regge e produce le sue ineffabili mostruosità basandosi sulle opinioni. Che contenuto abbiano veramente i miei libri, un contenuto scevro da una qualsiasi opinione, questo nessuno può dirlo, meno di tutti io. L’esperienza diversa è un’attività sconvolgente. Per amore di specificazione, del tutto fuori luogo, continuo a parlarne come l’assolutamente altro che mi confronta nella coscienza immediata, ma questo assolvere l’agire non è che una questione di parole, qui e ora, mentre sono in carcere, seduto a scrivere a mano queste righe confortanti [2008]. C’è da dire che lo sconvolgimento del passaggio attraverso l’apertura, se l’immagine del passaggio può essere contrabbandata, non è adeguata. Il fare, guardato nella puntualità dell’agire è niente, regredisce in un campo trincerato dietro il filo spinato dei protocolli. L’occhio attivo non coglie quello che pure è stato un percorso, un oltrepassamento costruito nel tempo e nella inquietudine, va avanti nella propria assolutezza puntuale e le improbabili sfumature recriminatorie non lo sfiorano nemmeno. L’assenza dello spazio nell’azione rende non intelligibile lo spazio che fonda il fatto come prodotto del fare. Il fare costruisce per fronteggiare la paura dell’ignoto, ogni vittoria su quest’ultimo è vittoria della conoscenza, allarga orizzonti e illumina zone d’ombra. Molta parte di questa paura è inquietudine della incompletezza, per un’altra parte si tratta di ciò che mi sta alle spalle, di apprensioni primordiali che un pudore altrettanto arcaico cerca di non fare venire a galla. Fare vuole dire, in molti casi, semplicemente esistere, e qui si costruisce un alibi difficile da controllare. Andare oltre, verso la desolazione, è visto qualche volta, a causa di una mancanza di coraggio, come un tradimento dei valori consolidati, per lo più residui inconsapevoli, se non come un rifiuto di natura morale, visto che l’azione non soddisfa mai né le ipotesi né i sogni degli abitanti della caverna, fruitori attoniti della rammemorazione. La prudenza non è una qualità dell’agire ma solo un protocollo del fare che invita all’utilizzo certo dei valori, non tenendo nemmeno conto che si tratta di semplici residui, cascami della separazione operata dalla percezione. *** Capitolo quinto: Dell’ordine e del disordine, dell’intelligenza, del caso «La vista dei perfetti movimenti dell’universo fece nascere nello spirito degli uomini l’idea di ordine. Questa parola esprime qualcosa di relativo a noi. L’idea di ordine e di disordine non è una prova che questi esistano in natura, in quanto tutto è necessario. Il disordine, per un essere, non è altro che il passaggio ad un ordine nuovo, ad un nuovo modo d’esistere. Se questo passaggio è rapido il disordine è per noi ancora più grande. In questo modo la morte diventa ai nostri occhi il più sensibile disordine. Essa non fa che cambiare la nostra essenza, in quanto noi non siamo per questo meno sottomessi all’ordine del movimento. «Si chiama intelligenza il potere d’agire secondo uno scopo che si identifica nell’essere che l’intelligenza stessa si attribuisce. Gli esseri che non agiscono conformemente a questo principio si dicono privi di intelligenza. «Al caso si attribuiscono tutti gli effetti nei quali non è possibile individuare i legami con le rispettive cause. Viceversa, quando vediamo o crediamo di vedere un ordine, lo attribuiamo ad una intelligenza, qualità tratta da noi stessi e dal nostro modo d’essere affetti. «Un essere intelligente è un essere che pensa, che vuole, che agisce per giungere ad un fine. Egli bisogna per questo di organi e di uno scopo simile ai nostri. Se la natura è governata da un’intelligenza, questa non le gioverà gran che, in quanto priva di organi non può avere né percezioni né idee né intuizioni né pensieri né volontà né piani né azioni. La materia prende azione, intelligenza, vita, quando è combinata in determinati modi». L’Illuminismo sviluppa la dimostrazione della infondatezza delle idee teologiche in modo estremamente pericoloso. Da un lato, penetrando all’interno delle ciance teologiche annette a queste stesse fantasie il diritto a una confutazione, dall’altro fornisce agli elaboratori di queste fantasie ulteriori strumenti logici e analitici per continuare nell’approfondimento delle fantasie stesse. Sono due riflessioni che dovrebbero fare tutti i critici della teologia. Questa premessa critica è possibile soltanto oggi, nella dimensione in cui lavora Holbach la realtà è profondamente diversa. Le sue preoccupazioni sono quelle di inseguire all’interno dello stesso territorio ideologico la mistificazione, cercando di colpirla e smascherarla con gli strumenti della filosofia. Uno dei primi problemi che egli affronta è quello della bontà di Dio. Essendosi condensata in una sola fonte, antropomorficamente delineata, l’iniziale ambivalenza in cui era vissuta l’esperienza naturale da parte dell’uomo, il male, l’aspetto distruttivo della natura, viene automaticamente riportato alla stessa fonte del bene e dell’aspetto costruttivo. Ma una fonte da cui viene fuori l’aspetto distruttivo non può essere considerata buona in senso assoluto. Qui Holbach manca nell’impiego delle sue stesse capacità analitiche, in quanto considera questa entità esterna, antropomorfica, sotto un aspetto critico perché vi vede giustamente la compresenza del bene e del male e quindi arriva alla conclusione che non può essere una entità buona, mentre avrebbe dovuto applicare in questa fase lo strumento analitico che considerava la virtù naturale, quella e soltanto quella, capace di realizzare un’azione in grado di garantire la felicità collettiva. È chiaro che l’azione di questa entità antropomorfica è diretta a raggiungere scopi che non possono essere conosciuti, che probabilmente non possono essere nemmeno quelli della propria felicità stessa, per cui nel proprio realizzarsi questa azione colpisce indiscriminatamente. Questo aspetto non è sottolineato da Holbach ed è importante farlo notare in quanto fa vedere la pericolosità del terreno teologico in cui si muove la critica della teologia. Non mi basta più dare forma logica alle mie rammemorazioni, devo fare emergere l’atto trasformativo, l’agire nella qualità e l’agire della qualità. Non intendo sprofondare nel plausibile, qualsiasi intuizione lo è, voglio articolare il volto dell’assenza, senza con questo ripercorrere i tratti cognitivi della presenza, magari semplicemente rovesciandoli. Guardo finalmente negli occhi la catastrofe che ne consegue, senza avere paura della certezza che mi sono lasciata alle spalle. Se l’avessi adesso con me, quella certezza dei miei anni verdi, essa divorerebbe tutto, mi restituirebbe il mondo scheletrico che continua a ospitarmi e a opprimermi, senza lasciarmi il fuoco inesausto che mi spinge a sconvolgerlo. Mi alimento quindi di questa catastrofe finalmente vivida ai miei occhi, e con essa non posso essere raggiunto da nessuna potenza, non posso che andare avanti, rappresentare quella unità che continua a sfuggirmi, la creazione che non vuole, che non ha bisogno di volere. Se l’orientamento non fosse, e la qualità risultasse accumulabile come qualsiasi conoscenza, resterei un ebete acculturato, interpretabile solo nella logica sacrificale che mi fa aspirare alla sicurezza modificativa. È per questo paradosso che in effetti non so quello che dico, almeno non lo so fino in fondo, quando parlo di inutilità, di qualità che vivo e perdo per banale cupidigia. «L’uso di quest’espressione è tanto familiare che non v’è quasi nessuno che non sia convinto, dentro di sé, di sapere benissimo di che cosa si tratti. Questa convinzione interiore è comune al filosofo e all’uomo che non ha riflettuto, con la sola differenza che alla domanda che cos’è il diritto? il secondo, trovandosi subito a mancare di termini e d’idee, vi rimanda al tribunale della coscienza e resta muto, mentre il primo è ridotto al silenzio, e a riflessioni più profonde, solo dopo aver percorso un circolo vizioso che lo riconduce allo stesso punto da cui è partito. I. È evidente che se l’uomo non è libero, o le sue decisioni improvvise, o persino le sue indecisioni sono determinate da qualcosa di materiale ed esterno alla sua anima, la sua scelta non è l’atto puro d’una sostanza incorporea, e d’una facoltà semplice di tale sostanza; non vi saranno allora né bontà né malvagità ragionate, benché vi possano essere bontà e malvagità animalesche, non vi saranno né bene né male morale, né giusto né ingiusto, né dovere né diritto. Dal che sì vede, sia detto per inciso, quanto sia importante stabilire la realtà, non dico della volontà, ma della libertà, che con la prima viene confusa sin troppo comunemente. II. Viviamo un’esistenza misera, precaria, inquieta. Abbiamo passioni e bisogni. Vogliamo essere felici, e ad ogni momento l’uomo ingiusto e appassionato si sente portato a fare ad altri ciò che non vorrebbe fosse fatto a lui. In fondo all’anima egli pronuncia un giudizio, e non può sottrarvisi. Vede la propria malvagità, e deve o confessarsela, o accordare a ciascuno la stessa autorità che arroga a se stesso. III. Ma quali rimproveri potremo muovere all’uomo tormentato da passioni tanto violente che la vita stessa gli diventa un peso se non le soddisfa, all’uomo che, per avere il diritto di disporre dell’esistenza altrui, mette la propria nelle altrui mani? Che cosa gli risponderemo, se dirà intrepidamente: “Sento che getto spavento e disordine nella specie umana; ma è necessario che sia infelice, o che faccia l’infelicità degli altri, e nessuno mi è più caro di quanto io lo sia a me stesso. Non mi si rimproveri quest’abominevole predilezione: non è libera. È la voce della natura, che in me non si manifesta mai con maggior forza di quando mi parla in mio favore. Ma proprio si fa sentire con tanta violenza solo nel mio cuore? O uomini, a voi lo chiedo! Chi fra voi, in punto di morte, non riscatterebbe la sua vita pagandola con quella della maggior parte del genere umano, sicuro dell’impunità e del segreto?”». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Diritto naturale). L’analisi è serrata e impietosa. Non c’è libertà, e adesso, dopo tanto tempo passato a ucciderci a vicenda, sappiamo perché non c’è, nemmeno con tutte le illusioni, in massima parte concretizzatesi, forse al di là delle aspettative della scienza settecentesca. Stretta fra le mani non posso tenere a lungo l’intenzione di qualcosa che vuole fuggire via, una profonda religiosità pagana mi tira indietro, ogni oggetto si ribella, vuole essere preso in considerazione, conquistarsi il suo spazio e il suo diritto a esistere. L’uno mi porta un dono che sono subito spinto a misurare, a classificare nelle sue conseguenze, ecco perché sono così spesso deluso, perché anelo alla vittoria, una Nike benefattrice per le mie debolezze. Dovrei procedere danzando, ed essendo piuttosto pesante non mi sarebbe facile, ma non è di quel peso che parlo, è una questione di leggiadria, di passi di danza, di modo di incedere. Quel dono è una mania che mi spinge avanti, che mi ospita sospendendo a tratti i legami che mi tengono in salvo dal delirio. «Si discute da sempre intorno a ciò che si debba intendere per intelligenza: ognuno ha la sua opinione; nessuno collega a questa cosa la stessa idea; e tutti così parlano senza comprendersi. Per poter dare un’idea esatta e rigorosa di questa parola e delle diverse accezioni nelle quali la si assume, occorre innanzitutto considerare l’intelligenza in se stessa. O la si considera come l’effetto della facoltà di pensare (e l’intelligenza non è in questo senso che l’insieme dei pensieri dell’uomo); o la si considera come la facoltà stessa di pensare. Per sapere che cosa essa sia, in quest’ultimo senso, occorre conoscere quali siano le cause produttrici delle nostre idee. Abbiamo in noi due facoltà, o, se posso dire così, due potenze passive, l’esistenza delle quali è generalmente e distintamente riconosciuta. L’una è la facoltà di registrare le diverse impressioni che producono su di noi gli oggetti esterni; la si chiama sensibilità fisica. L’altra è la facoltà di conservare l’impressione che tali oggetti hanno prodotto su di noi e la si chiama memoria; la memoria non è altro che una sensazione continuata, ma indebolita». (Claude-Audrien Helvétius, De l’esprit, I discorso, cap. I). L’intelligenza non è la caratteristica dell’uomo, ne costituisce la presenza più specifica e particolare, anche se in dosi che si accompagnano alla più assoluta stupidità è facile riscontrarla in molti che si inquietano della propria vita non ritenendola sufficientemente al sicuro. Mi difendo da questi imbecilli come posso, mi sfibrano, mi piagano, mi riempiono di ferite e di rimpianti. Pure sembrando così duro nei loro confronti mi muovono a pietà mentre si insinuano nelle mie faccende personali senza averne l’aria, come sorveglianti speciali del mio benessere. Nei periodi in cui sono in carcere il loro numero si ingrossa e devo fare finta di non ricevere le loro lettere, ma a spizzico qualche pensiero lo fanno arrivare lo stesso. Non bisogna dimenticare che gli imbecilli, anche i più anemici, sono censori terribili, non tollerano e in ogni caso non amano essere tollerati. *** Capitolo sesto: Dell’uomo, della sua distinzione in uomo morale e in uomo fisico, della sua origine «L’uomo è sempre sottomesso alla necessità. Il suo temperamento non dipende da lui ed influisce su tutte le sue passioni. Il suo sangue più o meno abbondante e riscaldato, i suoi nervi più o meno rilassati, gli alimenti che lo nutrono, l’aria differente che respira, tutto agisce su di lui. «L’uomo è un insieme organizzato, composto di diverse materie, che agisce in ragione di proprietà specifiche. La difficoltà di conoscere ciò che causa i suoi movimenti, le sue idee, ha fatto dividere il suo essere in due nature. Si sono inventate delle parole non potendo conoscere le cose. «L’uomo è un prodotto della natura, come tutti gli altri. Ma da dove è venuto? Purtroppo manchiamo di esperienze in proposito per potere risolvere questo problema. «Esiste fin dall’eternità? È un prodotto istantaneo della natura? L’una soluzione e l’altra sono ugualmente possibili. La materia è eterna, ma le sue combinazioni e le sue forme sono passeggere. È probabile che l’uomo sia una produzione fatta nel tempo, specifica del nostro globo, sul quale le altre produzioni, gli uomini stessi, variano in ragione della differenza del clima. Egli nacque indubbiamente maschio e femmina, ed esisterà fin quando la coordinazione del globo sussisterà con lui. Venendo a cessare questo tipo di coordinazione la specie umana farà posto ad esseri nuovi con le qualità che avranno in quel momento. «Parlare di divinità e di creazione, significa dire che si ignora l’energia della natura, che non si sa come essa ha potuto da se stessa produrre gli uomini. «L’uomo non ha motivi per credersi un essere privilegiato nella natura. Egli è soggetto alle stesse vicissitudini delle altre produzioni naturali. L’idea della sua superiorità è fondata sulla predilezione che l’uomo ha per se stesso». La struttura complessiva dell’uomo, quella che alcuni chiamano spirito e corpo e altri dividono di conseguenza in due parti, viene ricondotta dalla riflessione dell’Illuminismo sotto un aspetto unitario. L’individuo riceve da un lato, attraverso la linea generazionale, le caratteristiche del suo temperamento e, dall’altro lato, dalle condizioni oggettive in cui si trova a vivere, dai rapporti sociali, dalla circolazione delle idee, dal particolare nutrimento, dal clima, ecc., riceve le caratteristiche specifiche del gruppo a cui appartiene. Ambedue questi elementi concorrono a formare l’individuo non separatamente, nel senso che una parte di questi elementi comporta la formazione del corpo, una parte la formazione dello spirito, ma l’insieme di questi elementi forma un insieme deterministicamente individuato che si chiama uomo. Attraverso questo tipo di ragionamento l’Illuminismo e in particolare Holbach arrivano alla conclusione che è possibile una modificazione sia del temperamento come delle condizioni oggettive che contribuiscono a determinare la specie. Questa modificazione può anche essere in senso migliorativo. Ed è qui il concetto illuministico di progresso che indirizza Holbach verso la riflessione migliorativa. Lo scopo dell’individuo è quello di progredire, di rendere sempre più felice la propria esistenza e di abbattere gli ostacoli che si oppongono a questo sviluppo. Tale scopo da raggiungere fa considerare in senso positivo alcune azioni, in senso negativo altre. È su questa differenziazione che si basano i concetti di giustizia, moralità, dovere, ecc. Diventa così possibile migliorare l’individuo e quindi elaborare una scienza dell’ortopedia sociale, capace di trovare le condizioni per modificare la realtà della specie umana. Ciò può avvenire spiegando agli uomini in che modo l’uso di tecniche che consentono il raggiungimento della felicità, sia da preferirsi all’uso di azioni che invece la negano. L’immediatezza non parla mai della diversità, quando le parole circolano in essa come rammemorazione queste sono una conseguenza dell’azione. Se c’è un monologo che la coscienza immediata mette in atto nei riguardi dell’assolutamente altro è quello basato su di un progressivo distacco dagli oggetti prodotti oppure quello che si indirizza ai protocolli per chiedere una più efficace opera di controllo. È l’intenzione che mette in subbuglio l’opera della immediatezza e che la porta a proporre monologhi del tutto nuovi spesso capaci solo di rasentare la follia. L’elenco delle critiche agli assetti della ragione sarebbe troppo lungo, ed è di già stato fatto da me tante volte. Decidere di fermarsi a questa critica interpretativa è una forma di medicalizzazione autoimposta e autogestita. Se rompo il cerchio scompare la diagnosi, più esattamente antodiagnosi, di follia e mi si apre una serie di possibilità verso l’apertura. L’interpretazione critica negativa cerca di spezzare le catene forgiate dalla produzione che servono come obiettivo fittizio incompletabile e come materiale per alimentare e garantire le procedure produttive stesse. Ogni progetto di circumnavigazione della volontà è attentamente interpretato, anche se non può essere seguito fino in fondo perché prima o poi finisce per perdersi in prospettive labirintiche non codificabili. L’intuizione coglie questo processo in atto e spesso non è in grado né di evitarlo né di contrastarlo. In questo caso deve sottostare a una valutazione critica che quasi sempre spegne l’ambivalenza del cogliere, cioè l’essere colto dall’intuizione e intuire cogliendo. L’intuizione ha una sua deriva che l’immediatezza conosce e circoscrive fino a un certo punto. L’estrema frammentazione e la divaricazione irreversibile tra significante e significato fa il resto. Questa deriva sfiora continenti consolidati come i protocolli, ma anche isole vulcaniche in ebollizione come i residui. Ora, a fondamento del pensiero illuminista, esiste il parallelo tra perseguimento dei propri interessi e virtù generale, complessiva. Perseguendo il proprio vantaggio si agisce in modo virtuoso. Il sistema complessivo del materialismo impedisce la concezione di ogni tipo di innatismo e conseguentemente nega le idee innate. Ogni idea ha un’origine precisa, attraverso la sensibilizzazione che determinate azioni provenienti dall’esterno hanno esercitato sui miei sensi. In questo modo viene assolutamente rifiutata la prova dell’esistenza di Dio, fondata sulla nozione di innatismo. Possiedo il concetto di Dio perché ne ho sentito parlare, perché è un’idea che prima o poi mi risulta familiare, è un’idea che ho acquisita in quanto su di me è stata esercitata un’azione proveniente dall’esterno che ha imposto il concetto in un modo o nell’altro. I concetti astratti, come per esempio il concetto di bellezza, secondo Holbach non potrebbero avere un significato preciso se non esistesse una contemporanea azione proveniente dall’esterno, e agente sui miei sensi, in grado di farmi vedere un oggetto più gradevole e un oggetto meno gradevole, un oggetto che mi richiama una sensazione più piacevole, più tranquillizzante, e un oggetto che invece mi richiama un disagio, una sensazione sgradevole. È da questa comparazione che viene fuori il concetto di bellezza che si contrappone alla bruttezza, di intelligenza che si contrappone alla stupidità, di ordine che si contrappone al disordine, ecc. Insistendo sul fare, l’assenza si riduce a un tenere presente, a un segno e a un promemoria di ciò che potrebbe accadere, evento probabile, che di fatto non accade. Una semplice espressione di possibilità non è una possibilità fermamente concreta. L’assenza è così mangiata dal fine produttivo da raggiungere, non si commisura più all’imprendibile qualità, si sconta nel modulo accumulativo che tutto quantifica. Il cerchio si chiude, tutto sembra perfettamente equilibrato, ma il segno dell’assenza nasconde l’assenza vera e propria, la perfetta reintegrazione che mai accadrà, ma di cui potrò rammemorare l’avventura, non guarigione né rimedio, ma illusione che produce effetti propulsivi sulla modificazione. Se quell’abisso è là per qualcosa, allora mi pone di fronte a una indistinguibile separazione, alla separazione che annulla ogni distinzione. Ma io distinguo e faccio anche sulla base di quell’assenza, la cui assenza, la cui inesistenza mi farebbe distinguere e fare altrimenti. L’uno non è un estraneo di cui mi è stata narrata la favola della sua vita, è me stesso, l’incompletezza che mi attanaglia e mi strazia. È in me che torno di nuovo alla medietà del fare, che cerco una causa senza riuscire a trovarla, che sono solidale con l’assenza perché sono stato io stesso a vedere allontanarsi la qualità delle mie produzioni di morte. Pianto qui le mie nuove tende e distinguo i volti dell’assenza, aspettando le possibilità che trasformerò in attività e, alla fine, in nuova forza modificativa. Qui sta il cerchio che mi lega all’uno e da cui traggo la mia inverosimile avventura. «Che cos’è l’animale? Ecco una di quelle domande alle quali si trova tanto più difficile rispondere quanto più si è filosofi e quanto meglio si conosce la storia naturale. Se si passano in rassegna tutte le proprietà note dell’animale, non se ne troverà una che non manchi a qualche essere al quale si è tuttavia costretti a dare il nome di animale, o che non appartenga a uno al quale invece non si può dare questo nome. Del resto, è vero – e come ne potremmo dubitare? – che l’universo è la sola ed unica macchina in cui ogni cosa è legata all’altra, e gli esseri s’innalzano al di sopra o scendono al di sotto gli uni degli altri per gradi impercettibili, di modo che non rimane un vuoto nella catena, e se il nastro colorato del celebre padre gesuita Castel, in cui di sfumatura in sfumatura si passa dal bianco al nero senza avvedersene, è un’immagine veritiera dei progressi della natura, se tutto questo è vero, dico, ci sarà ben difficile fissare i due limiti entro i quali l’animalità, se così posso esprimermi, comincia e finisce. Una definizione dell’animale sarà troppo generale, o non sarà abbastanza ampia, abbraccerà esseri che bisognerebbe forse escludere, ed escluderà altri che dovrebbe abbracciare. Più si esamina la natura, più ci si convince che per esprimersi esattamente occorrerebbero quasi tante denominazioni differenti quanti sono gli individui, e che il bisogno solo ha inventato i nomi generali; infatti questi nomi generali abbracciano un campo più o meno ampio, hanno un senso o sono vuoti di senso, a seconda che si compiono più o meno progressi nello studio della natura». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Animale). Pure accennando alla fede in una concezione unitaria del mondo, Diderot avverte la necessità di segnare i limiti di ogni riflessione scientifica che pretenda dare risposte definitive su tutto. Apparentemente solo la volontà mi fornisce un impulso coerente, ma si tratta di una sollecitazione generica, volere, niente altro che volere, nessuna paura di sbagliare in quanto il fare copre l’errore con un ulteriore fare. La riorganizzazione della cultura e della conoscenza con lo scopo di penetrare la parola nei suoi molteplici livelli, è del tutto consona alla realtà del campo in cui vivo e alle regole che la dominano. Proprio per questo motivo l’esistenza inevitabile di uno scopo, la parola, può consentire la presenza di controllo della volontà e dare solo l’impressione di stare agendo sulla parola mentre, in realtà, lo si sta solo volendo fare. In altri termini, non sempre l’impegno di una considerevole conoscenza verso uno scopo raggiunge questo scopo senza lasciarsi fuorviare. Il terreno della coscienza immediata è pieno di queste distorsioni determinate dalla smania di controllo della volontà. Altro problema è accumulare la conoscenza, altro impiegarla. Conosco molti idioti saccenti e perfino sapienti idioti, e pochi che sanno usare la loro scienza per raggiungere uno scopo senza lasciarsi fuorviare dalla volontà. Quest’ultima capacità più che una conoscenza è un’arte e si acquisisce mettendosi a rischio, coinvolgendosi liberamente, quindi lontano dalla volontà di controllo. La soddisfazione del desiderio comporta una stanchezza senza fine, la cognizione di non potere afferrare il perché si desidera. Come sarebbe grandiosa una vita senza desideri, un’appetizione dico, in altri termini, per partenogenesi, un continuo ritornare a me stesso. Di fronte all’assenza la mia parola è desolata perché l’altro lato è desolazione. Eppure là dentro potrei trovare l’assoluta completezza, ma non c’è accesso, la via da percorrere è lontana e mi sembra inaccessibile, ed è ad essa che devo indirizzare i miei sforzi, il mio anelito costante. Al destino non mi piego, è il destino che mi viene incontro e mi mostra le sue possibilità, vorrebbe impormeli, ma trova la mia esperienza diversa, il mio coraggio e la rammemorazione della mia avventura nella qualità. Di fronte a tutto ciò ammetto io per primo la mia sconfitta, metto ai suoi piedi i miei possessi, li annullo, ed è allora che divento io stesso il mio destino. «La morale della natura o della filosofia, è dunque tanto diversa da quella della religione e della politica, madre di entrambe, quanto la natura lo è dell’arte. Dal fatto che sono diametralmente opposte, fino ad ignorarsi a vicenda, che altro si potrebbe concludere se non che la filosofia è assolutamente inconciliabile con la morale, la religione e la politica? Queste sue rivali, trionfanti nella società, sono vergognosamente sconfitte nel silenzio dello studio e alla luce della ragione: sconfitte e umiliate soprattutto per i vani sforzi che uomini anche valorosi hanno fatto per tentare di accordarle con la filosofia. Ma scrivere da filosofo, significherà allora insegnare il materialismo! Ebbene, qual gran male! Se il materialismo è fondato, se è il risultato evidente di tutte le osservazioni ed esperienze dei più grandi filosofi e medici, se tal sistema non è stato enunciato se non dopo aver attentamente studiato la natura, seguendola passo passo in tutta l’estensione del regno animale, e dopo aver profondamente studiato l’uomo in tutte le sue età e in tutti i suoi stati? Di fronte alla verità stessa, non vorremmo fare lo sforzo, per così dire, di chinarci a raccoglierla?». (Julien Offroy de Lamettrie, Histoire naturelle de l’âme, op. cit., vol. I, cap. III). Qui il filosofo materialista alla vecchia maniera, e Lamettrie è forse il più estremista in questo senso, cerca di mettere d’accordo la propria coscienza con i risultati di una scienza che strillava, all’epoca, tanto forte da sembrare, ma solo sembrare, troppo sicura dei propri risultati e del proprio patrimonio acquisito. Ma oggi non è più possibile cercare questo tipo di conforto. Difatti io non cerco la pace, solo nei cimiteri c’è la pace. La vita non è pace, la pace si trova solo nella morte. Ma tutte queste sono ovvietà e non bisogna mai lasciarsi sommergere dalle ovvietà. C’è il rischio che alla lunga ci si può convincere di quello che si dice e non essere in grado di distinguere tra stupidità e ferocia. Il destino mi parla attraverso la voce contorta e allusiva, metaforicamente incerta, della rammemorazione. Nel fare questa comunicazione è inviolabile e inconoscibile. La coscienza immediata vede il futuro ma non lo coglie, lo banalizza in una semplice continuazione del presente in vista della morte, la morte degli altri di cui ho esperienza. La stella cadente di un messaggio concreto è muta per l’immediatezza. Vedo orecchie sorde ascoltare la melodia che ascolto io e dirmi che è puro caos, confusione e rifiuto. Eppure quella melodia, rivissuta attraverso la rammemorazione, è vita che sto vivendo, anche mentre scrivo in carcere queste ostiche pagine di quaderno [2008]. Il vero problema è il tempo, per consunzione molti si aggrappano all’ultima ovvietà che resta a portata di mano, la vita per esempio. *** Capitolo settimo: Dell’anima e della sua spiritualità «Ciò che chiamiamo anima muore con noi. Ora tenendo presente che il movimento è una proprietà della materia ne consegue che l’anima si dimostra come materiale negli ostacoli invincibili che incontra da parte del corpo. Se essa fa muovere il mio braccio quando nulla si oppone, non lo potrà più far muovere se lo carico di un peso troppo grande. Ecco quindi una massa di materia che annienta l’impulso dato da una causa spirituale, la quale non avendo per niente analogia con la materia dovrebbe non trovare ostacolo nella materia stessa. «Il movimento suppone l’estensione, la solidità, nella sostanza che si muove, per cui attribuendo la possibilità di un’azione ad una causa la si deve considerare per forza come materiale. «Quando il mio corpo si muove in avanti la mia anima non resta indietro. Questa ha dunque una qualità comune con il mio corpo, caratteristica della materia. Essa fa parte del corpo e ne prova tutti i rivolgimenti. Essa passa attraverso lo stato della fanciullezza, della debolezza, ne condivide i piaceri, le pene, dà segni d’intorpidimento, di decrepitezza e di morte. L’anima non è altro che lo stesso corpo considerato relativamente a qualcuna delle sue funzioni. «Che cos’è mai una sostanza che differisce da tutto quello che i nostri sensi ci permettono di conoscere? un essere che, non essendo per niente materia, agisce sulla materia? Come potrebbe questa sostanza essere racchiusa nel corpo essendo un essere fuggitivo che non è percepibile con i sensi?». Il determinismo finisce per portare, nelle sue estreme conclusioni, alla negazione della libertà umana. Ogni azione è considerata obbligata dalle forze che intervengono nell’uomo dall’esterno. Questa è una conseguenza della teoria che considera la realtà come una serie di azioni e di reazioni. Per quanto riguarda l’individuo, esso viene considerato come una organizzazione che riceve stimoli dall’esterno, registra attraverso i propri sensi questi stimoli e agisce di conseguenza. Il determinismo meccanicista che considera la struttura individuale porta con sé necessariamente l’obbligo della negazione della libertà individuale. Occorre dire però che la posizione di Holbach è ortodossa per quanto riguarda l’aspetto meccanicista, ma si apre da un punto di vista metafisico in quella che è l’ideologia dominante in tutto l’Illuminismo, la possibilità progressiva di modificare l’individuo migliorandolo. Ora, se esiste questa possibilità è ovvio che si possono modificare le condizioni oggettive esterne che influiscono sulla formazione delle scelte individuali. Questa modificazione operata dall’esterno corrisponde a un programma, il programma ha caratteristiche dichiaratamente volontariste. L’obiezione meccanicistica, che poi troverà ulteriore perfezionamento e sviluppo nelle concezioni dell’utilitarismo inglese, afferma che non è tanto nel programma di miglioramento che si individuano le basi del progetto ortopedico sociale, quanto nella libera possibilità di realizzare il proprio interesse e di raggiungere la propria felicità che si ottiene indirettamente, la felicità soddisfacendo gli interessi del maggiore numero possibile di persone. Questa vecchia illusione dovrà dare vita alle formazioni più esasperate ed estreme del liberalismo ottocentesco e troverà il proprio fondamento nelle condizioni della rivoluzione industriale e negli sviluppi successivi, in modo particolare nelle condizioni ideali realizzate a spese delle colonie dall’imperialismo inglese del periodo vittoriano. La concezione meccanicista porta Holbach necessariamente alla conclusione che delle indicazioni particolarmente precise e restrittive devono essere date all’individuo, delle necessità istituzionali le quali possono fare agire l’individuo nel proprio stesso interesse in quanto in assenza di una costrizione esterna, di una necessità, egli resterebbe in balia di un altro genere di necessità, visto che non può vivere libero cioè in una situazione in cui su di lui non agiscono necessità. Per Goethe “Il tessuto del mondo è un intreccio di necessità e casualità. Tra questi due estremi sta la ragione dell’uomo”. Affermazione poetica, per giunta di pessimo gusto. La necessità genetica non produce che il sottofondo, il resto è la realtà del mondo che creo continuamente e con il quale devo fare i conti accettandolo così come è e come lo vado modificando o trasformando oltrepassando la mia condizione nella qualità. La puntualità attiva non può cogliere con il suo sguardo l’armonia assoluta dell’uno che è e non può non essere. Per quanto acuto, questo sguardo non ha la prospettiva cosmica totale dell’uno, resta sempre diretto a una mia avventura, al mio nemico, alla mia vicenda trasformativa, anche se molte implicazioni nell’agire si fanno strada verso l’uno senza mai raggiungerlo. Anche il salto si indirizza verso orizzonti di sopraffazioni arbitrarie, dove tutto è messo a forza in tutto senza che ci sia la possibilità di essere e basta, semplicemente. C’è in tutto questo una profonda confusione fra possibilità dell’uomo, le sue aperture alla creatività, e azioni che provengono dall’esterno, influssi, condizionamenti, situazioni oggettive, i quali vengono accomunati sotto l’etichetta, molto generica e contraddittoria, di necessità. «Ecco dunque l’anima installata nel corpo calloso, finché sopravviene qualche esperienza che la caccia di là e riduce i fisiologi a non saper più dove metterla. Nel frattempo, consideriamo da quanto poca cosa dipendano le sue funzioni: una fibra fuori posto, il travaso d’una goccia di sangue, una leggera infiammazione, una caduta, una contusione, e addio capacità di giudizio, ragione, e tutto quell’acume di cui gli uomini son tanto vani: tutta questa vanità pende da un filo bene o mal situato, sano o non sano. Dopo aver dedicato tanto spazio a dimostrare la spiritualità ed immortalità dell’anima, due qualità che possono ispirare all’uomo un grande orgoglio riguardo alla sua condizione futura, ci sia permesso di dedicare qualche riga a umiliarlo per quanto riguarda la sua condizione presente mostrandogli da quali futili cose dipendano le qualità a cui attribuisce maggior importanza. Ha un bel fare, l’esperienza non gli lascia alcun dubbio sulla connessione delle funzioni dell’anima con lo stato e l’organizzazione del corpo; deve convenire che la pressione incauta del dito della levatrice sarebbe bastata per fare uno sciocco di Corneille, quando la scatola ossea che racchiude il cervello e il cervelletto era ancora molle come pasta. La natura degli alimenti influisce in tanta misura sulla costituzione del corpo, e la costituzione del corpo sulle funzioni dell’anima, che questa sola riflessione dovrebbe essere sufficiente e spaventare le madri che affidano i loro bambini a donne sconosciute perché li nutrano. Le impressioni ricevute dagli organi ancora teneri dei bambini possono avere conseguenze così terribili sulle funzioni dell’anima, che i genitori devono vegliare con ogni cura affinché nessuno provochi in loro uno spavento troppo forte, di qualunque natura esso sia». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Anima [Sede dell’anima]). Stupenda pagina per la forza del ragionamento ma, ancora di più, per la grazia e lo stile delle argomentazioni. Sui bambini sono parole che, specialmente oggi, dovrebbero fare riflettere. La qualità mi attira e mi respinge, la mia stessa azione mi inorgoglisce e mi fa orrore, il topos qualitativo è complesso e totale, ma non riesce a catturarmi, mi sono chiamato fuori, sono uomo del disagio e della inquietudine, perfino del luogo comune. Il mio cuore piange per la lontananza della qualità. Essa soltanto suggella l’estrema diversità del vento nero che sfiora le mie guance di notte e l’immediatezza del controllo e della sicurezza. Apro me stesso, il mio petto, squarcio la mia anima tutto quello che ho di più segreto. Sono il nemico della vetustà e il vetusto sostenitore della tradizione. Niente è quello che appare, niente è un punto fermo. Nell’approssimarsi al tutto come luogo dell’assurdo, a martellanti riprese piene di contraddizioni, con pena e con la prospettiva di perdere ogni speranza, mi aggrappo a tutti i brandelli dell’esperienza modificativa. Il guardiano dell’apertura è proprio questa esperienza, l’ottusità che la irrigidisce e la divora, il bisogno di continuare a produrre se stessa in uno sconfinato ammasso di rovine. Il solo tentativo di pensare oltre questo accumulo è luminosa affermazione di sé, sconvolgente inutilità. L’uniformità di pensiero, spacciata per coerenza, è una virtù da usurai. La coerenza è una relazione complessa, e spesso contraddittoria, tra pensiero e azione, mai tra pensiero e fare, in caso contrario dovrei lavarmi i piedi in base a una certa teoria, non saprei quale. Il che sarebbe imbarazzante. La libertà dovrebbe cominciare con il fare, una misera libertà da zitella ma pure qualcosa da cui cominciare. Ed è nel fare, nella mania che alla fine lo sconvolge mettendolo in difficoltà, che si intuiscono molti aspetti della quantità. Andare a fondo è conoscere meglio, ma anche sprofondare, perdere contatto, restare sconfitto. «Né Aristotele né Platone né Cartesio né Malebranche potranno insegnarvi che cos’è l’anima. Invano vi tormenterete per riconoscerne la natura; ad onta della vostra vanità e della vostra insofferenza, dovrete sottomettervi all’ignoranza e alla fede. La natura dell’anima, dell’uomo e degli animali, è e sarà sempre altrettanto ignota quanto la natura della materia e dei corpi. Dirò di più: l’anima separata dal corpo per astrazione, somiglia alla materia considerata a prescindere da ogni forma; non la si può concepire. L’anima e il corpo sono stati fatti insieme, nello stesso istante e come con un sol colpo di pennello. Chi vorrà conoscere le proprietà dell’anima, dovrà dunque innanzitutto studiare quelle che si manifestano chiaramente nei corpi, dei quali l’anima è il principio attivo». (Julien Offroy de Lamettrie, Histoire naturelle de l’âme, op. cit., vol. I, cap. III). Rompere le catene delle conseguenze e delle premesse, afferrare il fenomeno per i capelli, non limitarsi a subirlo. Prima o poi si finisce col riflettere sul fatto che si potrebbe restare prigionieri delle proprie ipotesi. Più queste stentano a realizzarsi e più ci si arrocca nella testardaggine e quindi nella paura. Non c’è attacco possibile che non parta da un attacco interno, contro i punti essenziali e le certezze che mi si agitano dentro. Se lascio questa mia prima dimora intatta, non mi sarà lecita nessuna vera interpretazione critica negativa, ma tutti i miei sforzi diretti all’oltrepassamento saranno rallentati o resi vani dalla zavorra che mi appesantisce. Non posso pensare al territorio desolato della realtà come a una variante parziale del di già noto territorio delle corrispondenze e dei protocolli, quando affronterò l’azione non devo più avere in me luoghi di appartenenza. L’indispensabile aggressività che indirizzo nell’attacco contro il nemico è compromessa spesso da un richiamo all’ordine che l’immediatezza riceve da parte della volontà. Una resistenza interna, cioè basata soltanto su tentativi di modificare il rapporto di forza con i protocolli, produce un disagio e un aumento della inquietudine. Non c’è un punto netto di crisi, o di crollo, dei movimenti immediati, in cui si vedono con maggiore evidenza le sollecitazioni verso l’oltrepassamento. Nel fare c’è tutto un paesaggio differenziato e modulato in maniera protocollare che per il suo stesso insostituibile incoraggiamento al recupero, alla fine risulta capovolgibile nel suo contrario. Una nuova comprensione dell’indirizzo verso l’apertura può essere ravvivata aggirando la volontà e non baloccandosi con illusori rafforzamenti. Agli inizi una tesi è sempre affascinante perché è incerta, una vera sfida, poi arriva il convincimento radicato, e con questo il pericolo della certezza. Con tutte le conseguenze da difendere a spada tratta. Una semplice incertezza nelle regole rigidamente osservate, nella coerenza a cui si è tutto sacrificato, e si è un impostore. *** Capitolo ottavo: Delle facoltà intellettuali. Tutte sono derivate dalla facoltà di sentire «Il sentire è la facoltà di essere sensibilizzati, propria di alcuni organi dei corpi animati, dalla presenza di un oggetto materiale. La sensibilità è il risultato di un adattamento proprio dell’animale, gli organi si comunicano reciprocamente le impressioni. «Ogni sensazione è una scossa data ai nostri organi, ogni percezione una scossa propagata fino al cervello, ogni idea, l’immagine dell’oggetto a cui la sensazione e la percezione sono dovute. Pertanto se i nostri sensi non sono colpiti non possiamo avere né sensazione, né percezione, né idee. «La memoria produce l’immaginazione. Si costruisce uno schema di ciò che ha visto, e lo trasferisce, con l’immaginazione, a ciò che non ha visto. «Le passioni sono movimenti della volontà determinati dagli oggetti che la colpiscono in rapporto al nostro modo d’essere. «Tutte la facoltà intellettuali che si attribuiscono all’anima sono modificazioni dovute agli oggetti che colpiscono i sensi. Da ciò il tremore degli arti quando il cervello è colpito dal movimento che si definisce terrore». Ora, una proposta democratica per gestire il sapere in generale cozza con l’attuale condizione di gestione autoritaria e gerarchizzata che non può scalzarsi semplicemente con un desiderio o con un postulato teorico fondato sul verbo dovere. In effetti nel sistema illuminista e in modo particolare nelle formulazioni dell’estremismo meccanicista, come è appunto quello di Holbach, manca una netta individuazione delle cosiddette azioni necessarie, vi si instaurano riferimenti, analogie con quelle che sono le condizioni della scienza del tempo. L’esame delle esperienze scientifiche individuava nella realtà una serie di leggi precise e principalmente le leggi della meccanica che erano state così splendidamente verificate per quanto riguardava la meccanica celeste. Questo comportava un fascino notevole e conseguentemente la spinta, la sollecitazione a individuare necessità e analogie dello stesso genere anche nel mondo sociale. Ma in pratica nella precisazione di singoli elementi che costituiscono queste necessità gravanti sulla libertà dell’uomo non si arriva mai a delle indicazioni precise. La libertà viene negata perché su di essa agiscono condizioni vincolanti. Qualora l’individuo prenda delle decisioni od operi una scelta, questa scelta viene considerata una conseguenza del modificarsi delle condizioni esterne che gravano sull’individuo, quindi non si tratta di una scelta individuale, di una espressione di libertà, quanto di una modificazione delle condizioni esterne e quindi di una necessità. Modificando la necessità si modifica la scelta individuale e non modificando la capacità di scelta dell’individuo si ha una conseguente cristallizzazione delle scelte. Come si vede, è più o meno un gioco metafisico quello che si trova alla base della giustificazione del meccanicismo determinista trasportato nel mondo sociale. Occorre avere una considerevole testardaggine per esprimere la totalità, per debolezza preferisco marginalizzarmi parlando dell’amore, della sofferenza, della seduzione, dell’orrore, ecc., ma nulla di ciò che si proietta davanti ai miei occhi impauriti di fronte al territorio dell’assoluta desolazione. È sconcertante rendersi conto di come non posso fare a meno di girare attorno al problema, alla parabola della vita, alla pietà che ispira ogni sofferenza e ogni delusione. Collaboro al trionfo della meschinità quasi senza volerlo, maneggio un sogno che potrei perfino definire mistico se non fossi materialista convinto fino in fondo, se non fossi attaccato alle mie antiche convinzioni di ragazzo ateo e anticlericale. Ad attirarmi nella scommessa, a sedurmi con il suo fascino ignoto, è l’insofferenza per i legami che mi soffocano, che continuano a soffocarmi, e questo senza ombra di isterismo onnicomprensivo o integralista, senza lacerazioni più o meno profonde che pretendano di aprire chirurgicamente le piaghe sanguinose della mia assoluta incompletezza. «Non diremo, come alcuni filosofi, che la materia, sotto qualunque forma, conosce la propria esistenza e le proprie facoltà relative: questa opinione è in rapporto con una questione metafisica, che si può vedere trattata all’articolo Anima. Ci basterà dire che, non avendo noi stessi la conoscenza di tutti i rapporti possibili fra noi e tutti gli oggetti esterni, possiamo essere certi che tale conoscenza è di gran lunga inferiore nella materia inanimata; e che d’altra parte le nostre sensazioni non somigliando in alcun modo agli oggetti da cui sono causate, dobbiamo concludere per analogia che la materia inanimata non ha sentimento né sensazioni né coscienza di esistere; e che attribuirle alcune dì queste facoltà significherebbe concederle quella di pensare, di agire e di sentire, più o meno nello stesso ordine e nello stesso modo in cui noi pensiamo, agiamo e sentiamo, il che ripugna tanto alla ragione quanto alla religione. Ma una considerazione che si accorda con l’una e con l’altra, e ci è suggerita dallo spettacolo della natura negli individui, è che questa facoltà di pensare, d’agire e sentire esiste in alcuni uomini in grado eminente, in altri in grado meno eminente, si va indebolendo quanto più si scende la catena degli esseri, e a quanto pare si estingue in qualche punto molto lontano di essa, un punto situato fra il regno animale e il regno vegetale, un punto al quale ci potremo accostare sempre più grazie all’osservazione, ma che sempre ci sfuggirà. Le esperienze resteranno sempre al di qua, i sistemi andranno sempre al di là, giacché l’esperienza procede sempre un passo dopo l’altro, mentre lo spirito di sistema procede per balzi e salti». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Animale). Incertezza, salti e balzi, non un filo continuo, una matematica spiegazione determinista. Diderot va avanti a fatica, ed è per questo che ancora oggi è filosofo e non semplice espositore delle dottrine scientifiche del suo tempo. L’impronta dell’azione, e propriamente il suo svolgersi essenziale, è rimasto nella parte che considero più intima e segreta della mia carne, quella che è simboleggiata dal cuore. La mia disperata puntualità attiva oscilla vertiginosamente, mi illumina con riflessi vari e non sempre chiari la prospettiva dell’uno, che sta dietro il mio progetto attivo. Questa luce riflessa penetra nell’insieme della mia puntualità e mi permette di frenare il mio coinvolgimento che altrimenti brucerebbe subito di fronte all’atto primo e unico. In questo modo acquisisco una paziente capacità di attesa che non si dilunga nello spazio o nel tempo, ma permane puntuale e inattaccabile a eventuali dettagli o divisioni. Le dissonanze di una realtà assolutamente e desolatamente altra sono tutte nel mio cuore, sono emerse tutte nella mia capacità intuitiva, adesso non si pongono vergini dolenti a rammentarmi il passo dell’agire. Da questo lato tutto tace, è l’altro lato che gorgheggia, quello della rammemorazione, è qui che la parola si colloca emozionalmente espressiva di fronte alla mia capacità fattiva, lontana ormai da quella remota solitudine. So che questo simbolismo è tardo e rivestito da scorie poco raccomandabili, ma qui è preso in considerazione nella sua accezione più pura, il cuore non solo come desiderio, ma come purezza di sentire, come eccesso di questa stessa purezza che tiene lontano compromessi e calcoli. È qui, nella mia carne, che si è incisa questa indelebile impronta che la rammemorazione cerca di dire senza riuscire ad attingervi direttamente. Il sogno della completezza è proprio nella mia carne, la quale per questo ha sofferto tutte le deficienze possibili dell’utilizzabile, mettendo da parte la conoscenza necessaria, che non è né facile né poca, per poi abbandonarla e iniziare l’assurdo viaggio della inutilità. È nella carne con cui ho affrontato la solitudine della qualità che si è incisa la mia vita, momento per momento, senza distinzione tra materiale epistemologicamente accertato e materiale ontologicamente incerto. Porzione su porzione, sofferenza su sofferenza, gioia su gioia, è venuta su la condizione intuitiva ideale per oltrepassare la coscienza immediata. L’unità che mi assilla si mostra ma non ammette domande. A considerare bene ogni parola di questo tentativo essa è pena a se stessa, cioè si contraddice nel momento medesimo che viene alla luce, cacciata via dal tessuto significativo per la problematica del suo contenuto. Di che parla la parola che parla dell’unità? La necessità del rapporto semantico è contraddetta dalla indifferenza nei riguardi di ciò di cui parla quella parola, indifferenza che sigilla l’articolazione capace di esprimere la differenza nel silenzio della mancanza. «Non esistono guide più sicure dei sensi. Ecco i miei filosofi. Per quanto male se ne dica, essi soli possono illuminare la ragione nella ricerca della verità; sì, ad essi soli bisognerà sempre tornare, quando si voglia seriamente conoscerla. Vediamo dunque, con altrettanta imparzialità quanta buona fede, ciò che i nostri sensi possono scoprire nella materia, nella sostanza dei corpi, e specialmente nei corpi organici; ma non pretendiamo di vedervi più di quanto non c’è, teniamo a freno l’immaginazione. La materia è di per se stessa un principio passivo, essa non ha che una forza d’inerzia; perciò ogni volta che la si vedrà muovere, si potrà legittimamente concluderne che il suo movimento deriva da un altro principio, che uno spirito avveduto non confonderà mai con quello che lo contiene, cioè con la materia o la sostanza dei corpi, perché le idee dell’uno e dell’altro costituiscono concetti intellettuali altrettanto diversi quanto quelli di attività e di passività. Se dunque esiste nei corpi un principio motore, e se fosse dimostrato che questo stesso principio che fa battere il cuore, faccia anche sentire i nervi e pensare il cervello, non seguirà evidentemente che a un tal principio si deve il nome di anima?». (Julien Offroy de Lamettrie, Histoire naturelle de l’âme, op. cit., vol. I, cap. III). Occorreva un grandissimo coraggio per professare queste dichiarazioni di fede scientifica, coraggio la cui intensità non possiamo nemmeno immaginare oggi, in tempi del tutto diversi. Eppure anche oggi, più spesso di quanto non si creda possibile, questo coraggio manca. Con ciò non voglio dire che bisogna acconsentire alle tesi di Lamettrie, tutt’altro, ma considerarle come una dichiarazione di guerra, un atto di apertura di un conflitto che ancora non si è chiuso nei riguardi delle forze repressive capitanate dalla religione in primo luogo. La vigliaccheria del pensiero è un riflesso naturale, una sorta di salvaguardia di me stesso che ho ricevuto in eredità. Il coraggio me lo devo conquistare a poco a poco, o mettendo da parte radicalmente la nozione stessa di paura, nel suo aspetto fisico, che rasenta e forse è l’avventatezza, oppure riflettendo sui possibili sviluppi di una situazione di pericolo, il modo in cui affrontarli a mio vantaggio, selezionando i mezzi di difesa che posseggo, ecc. La vigliaccheria o la paura che fanno muovere la molla interna costituiscono un riflesso spontaneo, quando si presenta questo riflesso è difficile metterlo da parte. Manzoni ha perfettamente tratteggiato un simile sentimento. Non è vero che il vigliacco, dopo la manifestazione concreta, e fisica, della sua paura ne ha vergogna, al contrario, si sente più leggero e trova mille espedienti per giustificarla. So bene che se ne dovrebbe vergognare, ma la traslazione delle cause è uno degli elementi essenziali della vigliaccheria stessa. Il vigliacco non ha mai pietà di sé, sentimento che lo solleverebbe nella mia considerazione, se non altro al di sopra del calcolatore. *** Capitolo nono: Della diversità delle facoltà intellettuali. Esse dipendono da cause fisiche, come le qualità morali. Princìpi naturali di socialità, di morale e di politica «Il temperamento determina le qualità intellettuali. Dalla natura e dai nostri progenitori ci provengono queste qualità. Il nutrimento, la qualità dell’aria, il clima, l’educazione, le idee che ci vengono suggerite, determinano la specie. «Facendo spirituale l’anima, al temperamento necessitano rimedi impropri. Invece è proprio di quest’ultimo che bisogna occuparsi, lo si può correggere, alterare, modificare. «Lo spirito è una conseguenza della sensibilità fisica. In questo modo alcuni esseri hanno la possibilità di intendere prontamente l’insieme dei rapporti degli oggetti. «È con l’aiuto dell’esperienza che si possono prevedere degli effetti non ancora accaduti. Da ciò la prudenza e la previdenza. «La ragione è la natura modificata dall’esperienza. «Lo scopo dell’uomo è quello di sopravvivere e di rendere la sua esistenza felice. L’esperienza gli fa comprendere come gli altri gli siano necessari e gli indica il modo di come farli partecipare ai propri piani. In questo modo egli si accorge di ciò che viene approvato e di ciò che viene respinto, le esperienze gli danno l’idea della giustizia. La virtù come il vizio non sono fondati su delle convenzioni, ma su dei rapporti che sono in atto tra gli esseri della specie umana. «I doveri reciproci degli uomini derivano dalla necessità di applicare gli strumenti che permettono di raggiungere lo scopo preposto dalla matura. È concorrendo alla felicità degli altri che noi possiamo impegnare gli altri a contribuire alla nostra. «L’uomo, per trovare la felicità, dovrà operare una scelta tra i propri piaceri e rifiutare tutti quelli che potranno cambiarsi in pene. «La politica dovrà essere l’arte di dirigere le passioni degli uomini verso il bene della società. La legge non dovrà avere altro oggetto che dirigere le loro azioni al bene della società. «Le passioni hanno sempre la felicità come oggetto, esse sono legittime e naturali, e non possono essere definite buone o malvagie che dopo aver verificato la loro influenza sugli esseri della specie umana. Per indirizzarli alla virtù, bisognerebbe indicare agli uomini i vantaggi della pratica dalla virtù». Holbach non arriva a concepire come si possa essere coerentemente contrari agli interessi imposti da una realtà oggettiva che è quella sociale. Le differenze di reazione nei confronti di pressioni che colpiscono l’individuo sono dettate dalla cultura e principalmente dal temperamento. Ognuno reagisce in modo diverso. Ma il soggiacere a un comportamento antisociale è la prova di una mancanza di conoscenza della realtà. Nel caso in cui l’individuo ha la disponibilità dei dati relativi alla propria situazione, non può non agire in senso favorevole alla collettività e quindi a se stesso. Il fatto che dappertutto si vedano realtà contraddittorie, il fatto che l’individuo inganni dappertutto, imponga la schiavitù, sia dissimulatore, eserciti l’oppressione, eviti il sacrificio di se stesso, cerchi la gioia soltanto a facile prezzo e a qualsiasi condizione, è appunto una mancanza di istruzione, una mancanza di educazione. Di fronte a questa mancanza, solo il dilagare di esempi negativi. La gran parte di coloro che hanno responsabilità sociali dissimulano, sono pieni di vizi, sono stupidi pachidermi e, conseguentemente, danno l’esempio della dissimulazione, della stupidaggine, dell’ottusa pesantezza. Occorre arrivare a educare il popolo, occorre fare conoscere la realtà delle cose e anche in questo senso non bisogna avere paura delle conseguenze. E qui Holbach si pone sulla linea più avanzata del pensiero determinista in quanto sostenitore del massimo liberismo possibile, perché dalla circolazione delle idee viene una modificazione nel comportamento dell’individuo, modificazione sempre in senso positivo. Dalla coartazione delle idee, dalla limitazione, dalla censura, dal controllo deriva invece un dilagare del comportamento criminale, del comportamento deviante. Nel dare la massima libertà possibile nello sviluppo delle idee non bisogna avere paura dei comportamenti negativi per il potere, cioè di possibili insurrezioni, di attacchi contro il potere stesso determinati prima di tutto dalla coscienza dei torti subiti. Holbach non dà la spiegazione del perché il potere, che è cosciente di esercitare una parte notevole di questi torti sull’individuo, non debba avere paura del fatto che questo individuo una volta venuto a conoscenza di questi torti e dell’enorme peso sulle sue oggettive possibilità di raggiungere la felicità e la virtù, non reagisca in senso negativo. In fondo qui sta uno dei limiti del pensiero liberista che, aprendosi alla libertà possibile di circolazione delle idee tiene conto solo di una realtà attingibile da parte di una minoranza molto piccola di privilegiati, in quanto, parlando di educare il popolo, questo viene visto come una possibilità e un compito da collocarsi in estrema prospettiva. Evidentemente quando Holbach parla, e con lui tutti i teorici del liberismo successivo, di lasciare fare, lasciare passare, parla nel senso particolare della massima libertà possibile di idee e di circolazione economica, per una ristretta cerchia di persone, nell’ipotesi e quindi nella supposizione utopistica che da questa ristretta cerchia si possa poi, con un processo educativo sempre più ampio, arrivare anche agli strati inferiori del popolo. Da tutto questo ragionamento consegue la non possibilità di considerare la morte, o l’aldilà, o la punizione nell’aldilà come un possibile elemento di pressione nei confronti del comportamento antisociale. Anzi, in coerenza con il sistema complessivo che Holbach va costruendo, basato appunto sul determinismo meccanicista, egli afferma che la morte può essere anche volutamente cercata dall’individuo quando egli si accorge di non essere assolutamente in grado di raggiungere obiettivi di felicità e di virtù, a seguito del fatto che le forze che agiscono contro di lui sono esorbitanti e bene indirizzate. In questo caso il ricorso all’espediente della morte consiste non tanto in una punizione verso se stessi o nella negazione di un preteso e mai realizzato individuabile contratto con la società, quanto in un mettersi fuori della società stessa e conseguentemente anche dalla propria individuale organizzazione di vita. «Libertà di coscienza. Fra parecchie questioni relative alla coscienza errante, ve ne sono quattro molto importanti sulle quali non si può fare a meno di dire qualcosa: le altre si potranno risolvere sulla base degli stessi princìpi. I. Colui ch’è in errore ha l’obbligo di obbedire ai moti della sua coscienza? La risposta è si, vincibile o invincibile che sia l’errore; quando infatti si è fermamente persuasi – come supponiamo che sia il caso – che una cosa è prescritta o proibita dalla legge, si manca direttamente al rispetto dovuto al legislatore se s’agisce contro tale persuasione, per quanto mal fondata. II. Ma di qui segue che si è sempre scusabili quando si obbedisce ai moti d’una coscienza erronea? No; solo quando l’errore è invincibile. III. Un uomo può giudicare del principio degli errori d’un altro uomo in materia di coscienza? È questa la terza questione, alla quale risponderemo, per cominciare, che non è sempre assolutamente impossibile all’uomo sapere se qualcuno è in errore in buona o in malafede; ma per formulare un tale giudizio, occorrono prove irrefutabili; e capita raramente di averne. Non so se si potrebbe spiegare con la malafede l’errore, un tempo così comune fra i Greci e i Romani, di quanti credevano che a un padre o a una madre fosse permesso esporre i figlioletti. Ma sembra almeno che questa sia la spiegazione di un errore quasi altrettanto grossolano degli Ebrei del tempo di Gesú Cristo, che lo rimprovera loro severamente (Matteo, 15, 4-5)». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Coscienza). L’avere considerato il passato come un forte determinante e il futuro come ampia possibilità di scelta, ha condotto inevitabilmente alla creazione del mito del progresso, fatto che ha divaricato in modo sempre più inquietante la forbice tra realtà e umanità. Quest’ultima e stata collocata all’interno di procedure opportunamente immaginate e realizzate allo scopo di dare vita a un modello ipotetico di sviluppo, fondato su determinati valori che di volta in volta si sono rivelati inadatti e immediatamente sostituiti con altri. Una masnada di profittatori sostiene gli assediati, questi ultimi, a loro volta, assediano i più poveri trasferendo sofferenza per sofferenza, morte per morte. La lotta politica si traduce comunque in sfruttamento e oppressione, non si può assistere come dall’alto alla sua gestione per bande rivali, non ci sono scacchieri incontaminati. Ogni epopea ha i suoi pozzi neri a cielo aperto, dove profonda la pietà e ogni generoso istinto verso chi soffre. Martellando guerrescamente i tamburi si chiamano a raccolta i sacrificatori, a loro volta subito sacrificati. Questa è la sorte di ogni trasvalutazione eroica della politica. Ricominciare sempre daccapo. La borghesia è un insieme di individui scontenti di ciò che hanno e soddisfatti di ciò che sono, nota Cioran. Tutto il progetto ha comportato sofferenze e snaturamenti al di là di quella naturale disposizione della coscienza immediata alla fabbricazione di oggetti e al ragionamento in base a oggetti. Devo ingegnarmi a usare una maschera sociale per sfuggire all’orrore, per dimenticare, ma non ci riesco. Mi sono sentito spesso più o meno uno spaventapasseri mentre agitavo le mani in uno dei tanti comizi che mi hanno visto interprete di un copione che nessuno aveva scritto. Il risultato è che l’umanità, con tutti i suoi limiti, anziché migliorare realmente, cioè ridurre questi limiti oggettuali, anziché coltivare la sua coscienza verso una sempre più potente diversità, avvicinandosi così alle condizioni della realtà, si è allontanata sempre di più verso progetti fantastici e strutture accumulative. Josef K. non conosce le accuse che gli sono mosse, trova assurdo il processo che gli è stato intentato, ma non si dichiara innocente. Secondo Ferdinand de Saussure, si direbbe che è il punto di vista che crea l’oggetto. La sofferenza produce il convincimento dell’assolutezza del proprio dolore, questo convincimento produce a sua volta la sfiducia nella propria innocenza. L’incontro con la realtà non è mai fortunato, è sempre un interesse etico di fondo che impedisce gli accomodamenti e le illazioni giustificative e che quindi propone l’assolutamente altro come soluzione che non promette pace ma guerra. Questa lotta è però fondata sul coinvolgimento e quindi non può essere un breve e spasmodico dibattersi, ma si fonda sulla calma, sull’abbandono, sulla pienezza della coscienza che scopre un territorio diverso dove inoltrarsi. Il silenzio che prende il posto della parola e la parola che rammemora quel silenzio. «Intendo per ipocrita colui che, non essendo minimamente sorretto nello studio della morale dal desiderio dell’umana felicità, si occupa pressoché esclusivamente di se stesso. Esistono molti uomini di questa specie: li si riconosce, da un lato, per l’indifferenza con cui considerano i vizi capaci di distruggere gli imperi, e dall’altra per la passione con la quale si scatenano contro i vizi privati. Inutilmente uomini simili si proclamano ispirati dallo zelo per il pubblico bene. Se foste realmente animati da questa passione, si risponderà loro, il vostro odio per il vizio sarebbe sempre proporzionato al male che esso può fare alla società». (Claude-Audrien Helvétius, De l’esprit, I discorso, cap. I). Ipocrita è colui che viene a patti con la propria coscienza, mentendo per primo a se stesso. Detestare qualcuno è una esauriente manifestazione di ansia, lascia vedere in altre parole uno stato di insofferenza e, alla lunga, di paura. Odiare è un’altra questione. Non detesto chi mi ha fatto male deliberatamente, a freddo, lo odio. Se non sentissi con chiarezza questo sentimento così differenziato, o sarei un dio o un imbecille. Non potrei essere nemmeno uno scettico fino in fondo, visto che indicherei costantemente davanti a me un ideale di gentilezza e umanità che non voglio dividere con chi odio. L’antitesi al fare può assumere la forma della paralisi, rifiuto e svalutazione della conoscenza, o rifiuto della ragione che sottopone il possesso alla razionalizzazione dei risultati in base ai protocolli. La burocratizzazione e il conformismo, regolano in un certo modo l’archivio, le pulsioni irrazionali, le intenzioni mitiche e le tensioni verso l’oltrepassamento sono tutti movimenti del fare che cercano di circumnavigare la volontà. La lotta contro il dominio, la ricerca stessa del nemico, sottolinea perimetri interni alla immediatezza, campi privilegiati in cui il possesso entra in conflitto con le programmazioni di tutela confortate dai protocolli. L’oltrepassamento non è necessariamente legato con filo diretto a queste eterogeneità, può attraverso di esse alimentare i movimenti di interpretazione critica negativa, ma alla fine esaurisce il legame se non trova una strada verso l’apertura. Pure non essendo strettamente necessario il movimento dell’immediatezza si convoglia verso una sempre maggiore rigidità dovuta alla riduzione o alla istituzionalizzazione degli stessi conati critici negativi. Una immediatezza non è mai una massa inerte e priva di stimoli, eppure alla lunga può subire condizionati tali da farla apparire chiusa in maniera rigida. La mediocrità culturale accetta volentieri canoni che l’aiutano a pensare in modo chiuso e standardizzato, il kitsch non è peculiare a una spesa sociale, ma è l’addormentamento di ogni innovazione culturale. La disumanizzazione è prodotta da fenomeni generalizzanti di questo tipo. L’iperamministrazione della vita è una delle tante tombe del cimitero sociale, allo stesso modo dello sterminio di massa. L’annegamento del fare ha una controbattuta nella perdita del tempo. La ritmicità delle corrispondenze annega a sua volta le corrispondenze e le scansioni per cui la produzione è risucchiata in una modificazione astratta senza fondo, priva di articolazioni conosciute. Mi sento io stesso la macchina del fare e mi sento incapace di fare il tempo, tumultuosamente mi si ripresenta sempre l’immagine della mancanza di respiro, la sensazione angosciosa che tutto sembra confluire nell’istante produttivo, e questo a sua volta morire nel nulla. La realtà che creo è divorata dalla mia stessa capacità creativa, una patina circonda il prodotto e lo oggettualizza. Rifiutare non è possibile, non ho i mezzi per farlo, sono pietrificato, ho l’atteggiamento della frammentazione ritmica, fino a quando io stesso mi immedesimo in una specie di frenetica ripetizione dissolvente. Il qui e ora non è un modo di porsi coerente verso l’apertura, non permette una critica negativa, non ha nulla da interpretare. Aspetta soltanto, aspetta un segno, ma l’aspetta in una condizione che si potrebbe dire autistica. Non c’è scontro reale né maturazione, non c’è il segno che perviene dall’esterno né una qualche ridondanza remota, c’è solo il rumore della macchina che produce qualcosa che si svuota e svuota il progetto del fare da qualsiasi possibile completamento, le mura alla fine hanno la meglio. *** Capitolo decimo: L’anima ricava le idee da se stessa. Essa non può avere idee innate «Se non è possibile avere idee che delle sostanze materiali, come supporre che la causa delle idee possa essere immateriale? «Ci si oppongono i sogni, ma durante il sonno il nostro cervello è pieno di una folla di idee fornite dalla veglia. È sempre la memoria che produce l’immaginazione. La causa dei sogni è di matura fisica, infatti essi sono spesso prodotti dagli alimenti, dagli umori, dalle fermentazioni, poco adatti allo stato salubre dell’uomo. «Le idee credute innate sono quelle che ci sono familiari e che si sono come identificate con noi, ma ciò non toglie che esse provengano come le altre dai sensi. Esse sono prodotte dall’educazione, dall’esempio, dall’abitudine. Tali le idee di Dio, visibilmente dovute ai disegni da noi fatti. «Allo stesso modo le idee morali sono frutto dell’esperienza. I sentimenti d’amore dei padri, delle madri, dei figli sono effetti della riflessione e dell’abitudine. «Tutte le idee e le nozioni degli uomini sono acquisiti. Le parole, beltà, intelligenza, ordine, virtù, dolore, piacere, sono per me vuote di senso, se non le rapporto agli altri oggetti. Bisogna aver sentito prima di giudicare, infatti il giudizio è frutto della comparazione». Nell’Illuminismo, l’elemento che sospinge l’uomo all’azione e quindi l’insieme di forze che agiscono sulla sua sensibilità, hanno natura oggettiva. Da questo punto di vista, tale elemento è l’effetto di una causa precisa che, anche se a un certo momento non è identificabile nella sua varia composizione, si può considerare identificabile in futuro. Oltre a questo elemento si ha anche una componente soggettiva nell’individuo che è il temperamento stesso, cioè la diversa composizione delle varie sensibilità che costituiscono il suo spirito, la sua anima, o quello che dal determinismo meccanicista è definito come sensibilità in generale. La diversa composizione di questo temperamento consente differenti reazioni nei confronti delle pressioni provenienti dall’esterno che colpiscono il soggetto stesso. Queste reazioni sono sostanzialmente molto sfumate e tutte insieme costituiscono una scala non facilmente graduabile che produce caratteristiche diverse da un individuo a un altro individuo. Quindi anche se un gruppo di individui subisce un’azione proveniente dall’esterno abbastanza uniforme, come potrebbe essere per esempio un processo di educazione sociale, i singoli componenti del gruppo la recepiscono in forme diverse perché in forme diverse quel processo esterno viene a mescolarsi con la loro diversa sensibilità. Ma c’è un elemento comune che unifica queste sfumature di sensibilità ed è la prospettiva del proprio interesse. Ora, il proprio interesse, in quanto situazione individuale, risulta abbastanza circoscritto. L’individuo nella sua azione cerca sempre la felicità propria e il proprio interesse. Però quest’ultimo, una volta inserito negli interessi di una collettività, diventa molto più significativo. Quindi cercando il proprio stesso interesse, ed è qui la tesi dell’utilitarismo che verrà poi sviluppata in una forma molto più ampia nel secolo successivo, mi accorgo che una volta inserito in una collettività, in una comunità, questo raggiungimento è senza paragoni più carico e intenso. Facendo gli interessi della collettività, faccio indirettamente i miei interessi e viceversa. Questa concezione elimina tutto il corredo religioso precedente, considerato elemento di pressione assolutamente superfluo, ed è già concezione che lavora all’interno di una realtà sociale e statale che in prospettiva può definirsi sufficientemente moderna. L’oggetto sociale tenuto presente da Holbach è sempre una minoranza di privilegiati e, in un certo senso, sembra che egli stia per parlare di una società di filosofi, talmente eletta da riuscire a sopportare la stoltezza o il non riconoscimento della virtù. È chiaro che al di sotto di questo concetto c’è tutta la tradizione stoica, in particolar modo greca e romana. Ma, a parte questo, l’elemento che viene fuori dalla distruzione razionale della vecchia impalcatura religiosa è la necessità di una nuova impalcatura, di una nuova struttura capace di incanalare i comportamenti individuali e di dare un senso univoco a quelle influenze che provenienti dall’esterno obbligano, condizionano e determinano il comportamento individuale. Non c’è dubbio che se da un lato l’individuo è determinato a fare il proprio interesse, una battaglia di pupi, dall’altro può, a causa della dilagante ignoranza, non agire nella prospettiva del proprio interesse. In effetti egli non è personalmente responsabile della situazione in cui si viene a trovare e l’accento è posto da Holbach sulla responsabilità della società. È evidente che questa devianza rende oggettivamente poco probabile il progetto laico di costruire una società ottimale. Da ciò la necessità di una struttura rigida che serva da punto di riferimento per le influenze esterne. Ancora una volta la distruzione determinista dell’irrazionalismo religioso conduce alla costruzione di uno Stato chiuso, di una struttura organizzativa centralizzata, con una fonte produttrice delle idee e con il riferimento privilegiato di una minoranza capace di comprendere queste idee, di metterle in atto in una ipotetica prospettiva di sviluppo progressivo. «Per impressione si può intendere in generale l’effetto che gli esseri dentro di noi o al di fuori di noi esercitano sulla nostra anima. Ma per impressione si intende più comunemente quel sentimento vivo di piacere o di disgusto che gli oggetti, quali che siano, provocano in noi; di un quadro rappresentante oggetti che in natura offendono i sensi, diciamo che ne siamo impressionati sgradevolmente. Di un’azione eroica, o piuttosto del racconto di essa, diciamo che ne siamo impressionati piacevolmente. Siamo fatti in modo tale che quando l’anima prova amore o odio, simpatia o avversione, avvengono nel corpo movimenti muscolari dai quali, secondo tutte le apparenze, dipendono l’intensità o la fiacchezza di questi sentimenti. La gioia non va mai disgiunta da una grande dilatazione del cuore, il polso diventa più rapido, il cuore palpita, sino a farsi sentire; la traspirazione è così intensa che può essere seguita dallo svenimento e persino dalla morte. La collera sospende o aumenta tutti i movimenti, soprattutto la circolazione del sangue, il che rende il corpo caldo, rosso, tremante, ecc. È evidente che tutti questi movimenti saranno più o meno violenti secondo la disposizione delle parti e il meccanismo del corpo. Il meccanismo è raramente tale che la libertà dell’anima dipenda completamente da impressioni momentanee. Ma è indubbio che ciò accade talvolta: in questo meccanismo del corpo bisogna cercare la causa delle differenze di sensibilità di uomini diversi nei confronti di uno stesso oggetto. Somigliamo in questo a strumenti musicali le cui corde siano diversamente tese: gli oggetti esteriori hanno la funzione di archi su queste corde, e tutti noi diamo suoni più o meno acuti. Una puntura di spillo fa gettare alte grida a una donna educata con troppa indulgenza; un colpo di bastone rompe la gamba a Epitteto senza fargli quasi nessun effetto. La nostra costituzione, la nostra educazione, i nostri princìpi, sistemi, pregiudizi, tutto concorre a modificare le nostre pressioni e i movimenti che ne sono la conseguenza. Il principio dell’impressione può essere così vivo, che la legge che lo qualifica primo movimento, ne tratta gli effetti come azioni libere. Ma da quanto precede è evidente che la durata del primo movimento varia secondo le costituzioni ed un’infinità di altre circostanze. Siamo dunque cauti nel giudicare le azioni provocate da passioni violente. Meglio essere troppo indulgenti che troppo severi, meglio supporre negli uomini debolezza piuttosto che cattiveria, e poter spiegare la propria cautela col primo di questi sentimenti piuttosto che col secondo; dei deboli si ha pietà, i malvagi si detestano, e mi sembra che la commiserazione sia preferibile all’odio». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Impressione). I livelli di ottusità si compensano con i livelli di disperazione, bilanciandosi si rinviano l’un l’altro e mi danno spazi sufficientemente larghi di impiego. Non sono capace di comprendere quali sono i veri processi vitali, per cui mi circondo di qualcosa che gira loro attorno, sono così apparentemente libero di fare e di produrre modelli di comportamenti oggettuali spacciandoli per oggetti. Il carcere è pieno di gente che ha una opinione di sé molto elevata, eppure sono quasi tutti poveri disgraziati maciullati da meccanismi sociali più forti di loro. Privilegiati, come i giudici che li mandano qui dentro, dove latrano come cani alla catena, non sono migliori, solo che il meccanismo sociale è stato più benevolo nei loro confronti. Miserabili gli uni e gli altri, la mia simpatia va per i condannati, anche se so benissimo che molti la sprecano perché in alcun modo ne capiscono il senso. La mia molteplicità, la mia vastità, mi rende sufficientemente estraneo a questo ambiente, ma visto che ci vivo dentro per anni, è una lontananza fittizia, che mantengo con ogni mezzo per non lasciarmi travolgere, per non impazzire. I miei tesori sono conservati bene, il mio cuore ne custodisce la mappa dei vari depositi e non la cederebbe mai, eppure spesso mi sento perduto se considero il tempo, nei confronti del quale posso pormi in molte guise, conoscendolo bene nei suoi vari modi di sgusciare via fra i meandri della coscienza, se considero la quantità di ciò che ho programmato e i piccoli risultati conoscitivi che ho raggiunto. Io sono questa stessa consistenza, così piccola e trascurabile, e sono l’agire che ho portato avanti, la molteplicità delle azioni. Ma ciò non può essere detto, la rammemorazione ci prova. I risultati sono modesti, come si può immaginare. Il tutto esprime, prima ancora di manifestare se stesso come pienezza, la varietà del niente. La serpe attenta e insistente della interpretazione si avvinghia a questa verità ripensandola, ricreandola, vagliandola. Non c’è un completamento di tutto ciò, ma solo una insistente persistenza. Lo scardinamento, sempre possibile, è rinviato esercitando per questo un continuo riprendersi e ripresentarsi. La cognizione della vanità è complessa e appartiene alla voce, urlo e parola, mai solo l’uno o l’altra. Il pianto umano soffia insieme al vento il suo messaggio di pietà. La vacuità e l’illusorietà del fare sono certo ostacoli per me spirito debole, per un imbecille poi sono comode scuse per la propria maschera di saccente pienezza. Perfino l’ironia, strumento importante per l’interpretazione, può diventare una disperata occasione di rifiuto e di garanzia. Vestiti logici laceri o non criticamente scelti sono una condizione del pensiero negativo, ma possono anche essere un foglio di carta completamente bianco. Il simbolo del nulla non è il nulla, può quindi fuorviarmi, suggerirmi una discontinuità prossima all’oltrepassamento mentre sono in pieno nella continuità immediata, nella sistematicità che odio e di cui non so liberarmi. Ho paura dell’acribia perché mi renderebbe ridicolo e non mi accorgo che la vera paura viene a galla quando mi sento tranquillo e al sicuro, quando ogni dubbio gnoseologico è stato fugato. Io vedo il mondo e il mondo mi vede, questo equilibrio instabile però non è eterno, lo debbo rompere continuamente per garantirmi la visione critica del mondo stesso. «Quando, in conseguenza delle mie idee o per l’eccitazione che certi suoni producono nell’organo del mio orecchio, mi ricordo l’immagine di una quercia, in quel momento i miei organi interni devono necessariamente trovarsi all’incirca nella stessa situazione i cui si trovavano alla vista di quella quercia. Ora tale situazione degli organi deve incontestabilmente produrre una sensazione: è dunque evidente che ricordarsi non è che sentire. Esaminerò ora se anche il giudicare non sia un sentire. Quando giudico la grandezza o il colore degli oggetti che mi si presentano è evidente che il giudizio espresso sulle diverse impressioni che tali oggetti hanno fatto sui miei sensi, non è propriamente che una sensazione; che posso dire ugualmente: giudico o sento che tra due oggetti l’uno, che chiamo testa, fa su di me un’impressione diversa da quello che chiamo piede; che il colore che chiamo rosso, agisce sui miei occhi diversamente da quello che chiamo giallo; e ne concludo che in tal caso giudicare non è mai altro che sentire». (Claude-Audrien Helvétius, De l’esprit, I discorso, cap. I). I miei sentimenti mi conducono dentro me stesso, le loro tracce mi tradiscono. Non agli occhi degli altri, o della polizia, che questo sarebbe un problema secondario, ma ai miei occhi. Mi commuovo per un fatto che non farebbe battere ciglio a mille persone, e questo lascia un segno dietro di me come se fossi una lumaca. Più cerco di cancellare questo segno e più mi impantano in giustificazioni non richieste che mi fanno sorridere. *** Capitolo undicesimo: Il sistema della libertà umana «L’uomo è un essere fisico, sottomesso alla natura e quindi alla necessità. Nati senza il nostro consenso, il nostro organismo non dipende da noi, le nostre idee sono involontarie, la nostra azione è una conseguenza dell’impulso d’un qualsiasi motivo. «Io ho sete, vedo una fontana, mi è impossibile non avere la volontà di bere. Apprendo che l’acqua è avvelenata, m’astengo dal bere. Si dirà che io sono libero? La sete mi determina necessariamente a bere, il secondo motivo mi sembra più forte del primo e non bevo. Ma, si dirà, un imprudente berrebbe. Allora il primo impulso risulterebbe più forte. Nell’uno o l’altro caso, siamo davanti a due azioni ugualmente necessarie. Colui che berrà è un insensato, ma le azioni degli insensati sono necessarie come quelle degli altri. «Si può arrivare, è vero, a costringere un dissoluto a cambiare condotta, ciò significa non che quest’ultimo è libero ma che è possibile rinvenire motivi più potenti capaci di impedire l’effetto di quelli che agitavano su di lui prima. «La scelta non prova per nulla la libertà dell’uomo, il suo imbarazzo finisce solo quando la sua volontà è determinata da motivi sufficienti, egli non potrà impedire questi motivi di agire sulla sua volontà. Forse è padrone di non desiderare ciò che gli appare desiderabile? No, ma, si potrebbe obiettare, egli può resistere al suo desiderio, riflettendo sulle conseguenze. Ma è padrone di rifletterci? Le azioni degli uomini non sono mai libere, sono le conseguenze necessarie del loro temperamento, delle loro idee ricevute, rafforzate dall’esempio, dall’educazione e dall’esperienza. Il motivo che determina l’uomo è sempre al di sopra delle sue possibilità. «Malgrado i loro sistemi di libertà gli uomini hanno stabilito le loro istituzioni soltanto sopra la necessità. Se non si suppongono dei motivi capaci di determinare la loro volontà, a che cosa servirebbero l’educazione, la legislazione, la morale, la stessa religione? Si sente il bisogno di dare delle istituzioni alla volontà degli uomini in quanto si è convinti che esse agiranno sulla loro volontà. Esse sono infatti la necessità mostrata agli uomini. «La necessità, che regola ogni movimento del mondo fisico, regola anche tutti i movimenti del mondo morale, in cui tutto è per conseguenza sottomesso alla morale». Il concetto di disordine che avrebbe potuto turbare il complesso meccanismo meccanicistico viene nell’Illuminismo ricondotto all’interno della dimensione dell’ordine in quanto è considerato un passaggio più o meno repentino da una certa condizione di movimento ad una successiva concezione diversa di movimento. Questo movimento comporta un cambiamento di ordine e quindi un ordine diverso che viene considerato disordine in quanto turbamento, modificazione profonda e a volte capovolgimento e sconvolgimento degli assetti dell’ordine precedente. Con questo concetto Holbach ovviamente vuole evitare che si apra una falla all’interno del meccanismo perfetto del determinismo. Nello stesso tempo per me oggi è possibile sviluppare una considerazione che mi sembra interessante, in quanto spesso sono portato anch’io a considerare il disordine un tipo particolare, altamente qualificato di ordine. Spesse volte si afferma che l’anarchia è la più elevata forma dell’ordine sociale. In questo modo si vuole evidentemente qualificare in senso positivo l’anarchia, fornendo agli sbigottiti ascoltatori elementi di tranquillità dicendo che in pratica l’anarchia non è assolutamente disordine o caos, ma è invece una forma di ordine superiore che ovviamente deve anche tenere conto di una forma transitoria di disordine, di violenza distruttiva perché modificandosi le condizioni di ordine precedente per passare a un ordine successivo diverso, migliore, e moralmente più alto, necessariamente si devono sopportare sofferenze e sacrifici. Non c’è alcun dubbio che, al di sotto di questo concetto, si trova il vecchio concetto illuminista esposto così bene da Holbach. Il disordine viene riportato all’interno del concetto di ordine. Ma in effetti la concezione che si ha di ordine significa qualcosa di preciso soltanto nel mondo così specificamente caratterizzato dalla struttura capitalistica e dal potere statale, un mondo stratificato in classi. In questo mondo il concetto di ordine significa rispetto delle tradizioni, staticità dei ruoli, capacità di potere bene identificare la divisione in classi, differenza nelle retribuzioni, obbligatorietà del lavoro, ecc. Il concetto di disordine sta ovviamente a significare la negazione improvvisa e repentina di tutto questo. In un mondo diverso, sia il concetto di ordine che il concetto di disordine assumono dimensioni differenti. La improvvisa e repentina creatività comporta una struttura fortemente disordinata in tutte le sue componenti. Questo tipo di disordine caratterizza la nascita di uomini nuovi, diversi, i quali possono affrontare la loro vita in modo diverso, altamente creativo, fortemente disorganizzato e disordinato, ma nello stesso tempo costituente un modo particolare di rapporti, un modo di organizzarsi nella struttura sociale diverso, il quale trova nella sua stessa diversità elemento di costanza che potrebbe anche essere visto come elemento di ordine nell’ottica attuale, ma che sostanzialmente in futuro potrebbe continuare a essere considerato elemento di disordine, una volta che verrebbe a mancare la valenza negativa che oggi si attribuisce a questa parola. Anche la considerazione della intelligenza in termini di azione programmata per il raggiungimento di uno scopo è un modo differente di affrontare lo stesso problema per arrivare a dire lo stesso concetto. Sostanzialmente intelligenza e ordine per Holbach sono lo stesso movimento, il caso e il disordine sono lo stesso flusso. Tutte le azioni che vengono fatte senza uno scopo sono fatte a caso, quindi sono disordinate, rientrano evidentemente all’interno del progetto complessivo di movimento che caratterizza la natura, però non possono essere considerate azioni intelligenti, quindi sono azioni irragionevoli. Il più delle volte queste azioni possono essere dettate da chimere metafisiche. Resterebbe da svolgere e approfondire la seguente domanda: ma anche le chimere metafisiche determinano delle azioni, anche queste azioni fanno parte del movimento complessivo dei corpi ed entrano nella relazione? Quindi indiscussamente diventano naturali e se sono naturali non sono più metafisiche o, una volta che, pure restando chimere metafisiche, entrano all’interno della dimensione dei rapporti naturali, bisogna tenerle presenti nella valutazione della realtà. E ciò perché anche le azioni ragionevoli e, come successivamente la ricerca scoprirà, ancora meglio, molto di più le azioni irragionevoli, hanno più conseguenze nei rapporti sociali di quanto non avvenga per le azioni ragionevoli e intelligenti. L’uomo non è per nulla un animale esclusivamente ragionevole, nella stragrande maggioranza dei casi è irragionevole. È proprio questo tipo di considerazioni che viene a mancare al determinismo illuminista. «È la libertà naturale spogliata di quella parte da cui derivavano l’indipendenza degli individui e la comunità dei beni, per consentire agli uomini di vivere sotto il governo di leggi che garantiscono sicurezza e proprietà. La libertà civile consiste anche nel non poter essere costretti a fare qualcosa che la legge non ordina; e ci si trova in questa condizione solo perché si è governati da leggi civili; anzi, quanto migliori sono le leggi, tanto più sicura è la libertà. Non esistono parole, come ben dice il signor di Montesquieu, a cui gli uomini abbiano attribuito tanti significati diversi come a questa. Gli uni l’hanno intesa come facoltà di deporre colui cui avevano conferito un potere tirannico; gli altri, come facoltà di eleggere l’uomo a cui dovevano obbedire; taluni hanno indicato con questa parola il diritto di armarsi e di esercitare la violenza; altri, il privilegio di essere governati solo da un uomo della loro stessa nazionalità, o dalle loro proprie leggi. Parecchi hanno insignito di questo nome una data forma di governo, escludendone le altre. Quelli che trovavano di loro gusto il governo repubblicano, ne hanno fatto un attributo di questo tipo di governo; e altrettanto hanno fatto per il governo monarchico quelli che si erano trovati bene sotto di esso. Insomma, ciascuno ha visto la libertà nel regime di governo più conforme ai suoi gusti e alle sue inclinazioni. Ma la libertà è il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono; e se un cittadino potesse fare ciò che esse proibiscono, non ci sarebbe più libertà, perché gli altri avrebbero a loro volta lo stesso diritto. È vero che questa libertà si trova solo nei regimi moderati, cioè in quelli la cui natura è tale che nessuno è costretto a fare le cose a cui la legge non lo obbliga o a non fare quelle che la legge gli consente. La libertà civile si fonda dunque sulle migliori leggi possibili; e in uno Stato che le possedesse un uomo processato secondo la legge e condannato all’impiccagione sarebbe più libero di quanto lo sia un pascià in Turchia. Ne segue che non esiste libertà negli Stati in cui il potere legislativo e l’esecutivo sono riuniti nelle stesse mani, né, a più forte ragione, in quelli dove il potere giudiziario è unito al legislativo e all’esecutivo». (Louis de Jaucourt, Enciclopedia, voce Libertà civile). Per quanto queste considerazioni oggi possano fare sorridere, bisogna collocarle nell’epoca in cui furono scritte, e in essa costituirono una forte presa di posizione contro i tiranni. Il loro redattore fu uno dei più importanti collaboratori dell’Enciclopedia, di cui scrisse circa 17.000 voci. Poco noto, l’oblio è caduto su di lui perché nobile e, di certo, nel corso della rivoluzione francese non era che un nome ingombrante fra i tanti che dettero vita alla benemerita iniziativa enciclopedica. «Benché la virtù propriamente detta, o assoluta, non esista affatto, non essendo questa parola come tante altre che un vano suono, esistono per altro virtù relative alla società, della quale sono insieme l’ornamento e il fondamento. Chi le possiede in grado più alto è l’uomo più felice, di quella specie di felicità che appartiene alla virtù. Coloro che la trascurano e non conoscono affatto il piacere di rendersi utili, restano privi di questa specie di felicità». (Julien Offroy de Lamettrie, Discours sur le bonheur, op. cit., vol. II, p. 121). Qui la libertà è sottintesa all’esercizio della virtù e alla conseguente retribuzione in termini di felicità. Per quanto il ragionamento risulti datato, o più specificatamente provvisto di senso all’interno del determinismo meccanicista, è importante notare che non c’è che un avvicinamento al significato moderno del termine libertà. L’amore per la libertà, questa misera sequela di accadimenti accidentali che mi fanno apparire indaffarato, lo giustifico perché sotto questa montagna di spazzatura posso trovare la brillante bellezza di una stella, ma devo capire questa bellezza, devo capire la libertà, che pure è parte dell’orrore che circonda e riduce la vita alla semplice sopravvivenza. La cognizione intuitiva contribuisce potentemente a svalutare la cultura onnicomprensiva del possesso. La conoscenza codificata e quella codificabile. Ciò nega la speranza, spalanca le porte della illibertà, deprime gli spiriti e le pulsioni vitali, dispera e radicalizza la disperazione, rende inesprimibile l’angoscia e l’inquietudine, eppure apre un nuovo registro, estraneo ai confortanti protocolli, e lo apre su abissi individuali che non possono essere scandagliati fino in fondo da nessuno sforzo ermeneutico. Più la porta si fa stretta e più aumenta la voglia di oltrepassamento. Se non fossi capace di capire non avrei libertà, non sarei libero, nemmeno nei limiti dell’accadimento eccezionale che mi rende tale, sia pure per un attimo, mentre mi guardo attorno e considero l’estensione non misurabile di questo orrore, mentre punto i piedi per andare oltre. Adesso dire che amo la liberà sarebbe un’ovvietà atroce. *** Capitolo dodicesimo: Esame delle opinioni che definiscono dannoso il sistema del fatalismo «Se tutte le azioni degli uomini sono necessarie, con qual diritto, si obietterà, si possono punire le azioni malvagie. E non si puniscono invece quelle in cui la volontà non vi ha preso parte. «La società è un assemblaggio d’esseri sensibili, raziocinanti, che desiderano il benessere e sfuggono il male. Non bisogna sollecitarli per concorrere al benessere generale, si tratta di una necessità di natura impressa su tutti gli uomini. I malvagi sono degli insensati contro i quali gli altri sono in diritto di garantirsi. La follia è uno stato involontario e necessario. Per questo si privano i folli della loro libertà. Del resto la società ha il compito di non fare nascere le tendenze che in seguito è costretta a punire. I ladri sono quelli che essa ha spesso privato dei mezzi di sussistenza. «Sottomettere tutto alla necessità significa, si dice, distruggere le nozioni del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male. Non è così, necessariamente l’uomo compie azioni giuste e buone, relativamente alla società, soltanto quando queste tendono al bene della predetta società. Tutti gli uomini sentono che esiste un modo d’agire che li costringe ad amare i loro simili. È sulla propria essenza che sono fondate le idee del piacere e del dolore, del vizio e della virtù. «In questo modo il fatalismo non tende a spingere al crimine e rintuzzare i rimorsi. Gli scellerati ne provano sempre. Se essi sfuggono per molto tempo al biasimo e ai castighi, non significa che siano più felici o più contenti di se stessi. Angoscia, combattimenti, agitazioni continue, nessun riposo né benessere per loro, ogni crimine ha loro procurato inquietudini, crudeli insonnie, ecc. Il sistema della fatalità si stabilisce sulla morale, ne mostra la necessità. «Il fatalismo, si dice, scoraggia l’uomo, raffredda il suo animo, scioglie i nodi che devono legare la società. Ma dipende o no dal mio modo di essere sensibile? I miei sentimenti sono necessari e dipendono dalla mia natura. Quando dovessi credere che la morte sia il termine fatale di tutti gli esseri, sarei per questo meno colpito dalla perdita di una sposa, di un figlio, di un amico? «Il fatalismo deve ispirare all’uomo una sottomissione utile, una rassegnazione ragionata ai decreti della sorte. Egli sarà più tollerante a seguito dell’opinione che tutto è necessario. Compiangerà i suoi simili, li perdonerà. Sarà umile e modesto in quanto riconoscerà che non possiede nulla che non abbia ricevuto. «La fatalità, si dice, degrada l’uomo facendone una semplice macchina, ma questo è un linguaggio inventato dall’ignoranza di ciò che costituisce la vera dignità dell’uomo. Ogni macchina è preziosa, quando adempie perfettamente alle funzioni alle quali è destinata. La stessa natura non è altro che una vera e propria macchina, in cui la nostra specie non è altro che un debole ingranaggio... Che l’anima sia mortale o immortale, si ammirerebbe per questo di più l’anima nobile, grande e sublime di Socrate?, ecc. «L’idea del fatalismo è vantaggiosa per l’uomo. Il suo spirito non verrà turbato da inquietudini inutili. Gioirà con misura, in quanto il dolore è compagno necessario di tutti gli eccessi. Seguirà il sentiero della virtù, in quanto tutto prova che in questo mondo la virtù è necessaria per essere stimato dagli altri e contento di se stesso». Nella critica al concetto illuminista di giustizia divina Holbach fa notare come manca un rapporto fra colpe commesse e provvedimenti distruttivi a carico di coloro che hanno commesso le colpe. Trattandosi del modello della tirannia assoluta, questa attività distruttiva viene esercitata sulla collettività nel suo insieme e non sugli individui che hanno commesso particolari colpe. Alcuni di questi individui anzi prosperano, stanno benissimo. Possono avere la preoccupazione di una punizione da subire in una vita futura, però hanno elementi vari per potere contrattare questa punizione futura, per altro anche poco probabile. Viceversa nella sua realtà concreta, tra la collettività che subisce le tirannie distruttive e l’essere dominante distruttore, non c’è legame alcuno. Ora, in base a un concetto elementare, fra entità prive di rapporto non può esserci nemmeno quel rapporto particolare che si basa sulla giustizia. Un altro elemento di critica alla giustizia divina che viene dedotto dal fatto che l’attività distruttiva non è esercitata sul colpevole ma sulla collettività, è quello che si deduce dalla non esistenza di un debito di Dio nei confronti dell’uomo, un debito da regolare, così la giustizia divina può restare integra nella sua visione complessiva, anche aumentando l’elemento distruttivo fino al punto di annientare l’intera collettività. In questo modo non è più possibile, insiste Holbach, parlare di giustizia in quanto verrebbe a mancare la controparte. «Si chiama filosofia sperimentale quella che si serve dell’esperienza per scoprire le leggi della natura. Gli antichi, ai quali ci crediamo molto superiori nelle scienze perché troviamo più spiccio e più gradevole preferirci a loro che leggerli, non trascurarono affatto la fisica sperimentale, al contrario di quello che noi solitamente pensiamo: compresero invece di buonora che l’osservazione e l’esperienza sono i soli mezzi per conoscere la natura. Le opere del solo Ippocrate basterebbero a mostrarci quale spirito guidasse allora i filosofi. In luogo dei sistemi, se non micidiali per lo meno ridicoli, che ha partorito la medicina moderna per proscriverli più tardi, vi si trovano fatti interpretati nel modo esatto e accostati con giudizio; vi si trova un sistema d’osservazioni che ancor oggi serve e secondo tutte le apparenze servirà sempre di base all’arte di guarire. Credo di poter giudicare dallo stato in cui era la medicina presso gli antichi, lo stato in cui era presso di loro la fisica, e questo per due ragioni: primo, perché le opere di Ippocrate sono i più importanti monumenti che ci rimangono della fisica antica; secondo, perché la medicina essendo la parte più essenziale e più importante della fisica, si può sempre giudicare con certezza del modo in cui è coltivata questa, dal modo in cui è trattata quella. Tale la fisica, tale la medicina; e viceversa, tale la medicina, tale la fisica. È una verità che l’esperienza conferma; difatti, anche solo nel tempo successivo al rinnovamento delle lettere – benché possiamo risalire più addietro – abbiamo sempre visto l’una di queste scienze subire gli stessi cambiamenti che hanno modificato o snaturato l’altra. Sappiamo del resto che nel tempo stesso d’Ippocrate parecchi grandi uomini, alla testa dei quali va messo Democrito, si applicarono con successo all’osservazione della natura». (Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, Enciclopedia, voce Sperimentale). La parola non è un grado perfettamente né di distinguere l’azione, quindi la mia attività sganciata dalla volontà, non ancora prigioniera di quest’ultima, ché allora sarebbe semplice fatto, né di dirla nella rammemorazione. L’insieme dei possessi scientifici con i quali mi pongo di fronte alla parola non devo, come di solito avviene, sparpagliarli ed esporli in vetrina in modo da ricavare da loro il maggiore utile per la mia causa di godimento. Devo riassumerli in un unico punto, con uno sforzo incredibile di concentrazione, evitando che si disperdano, e indirizzarli sulla parola. Questa concentrazione è un coinvolgimento, un tipo particolare di coscienza immediata che non si allarga alla modificazione, ma da questa rifugge per raccogliere insieme tutte le proprie forze intellettuali, per dare loro solidità e intrepidezza, resistenza nel lungo lavoro di penetrazione sulla parola. Questo coinvolgimento immediato non è abbandono intuitivo come quello che precede l’oltrepassamento, ma è purezza di isolamento, quasi fosse una forma di anacoresi, non un rifiuto del mondo, ma un riassunto del mondo in un unico punto focale, la parola. Io resto nel mondo, non mi abbandono a un flusso che mi porta oltre qualcosa di assolutamente altro, ma ci resto distaccandomi dall’utilizzo corrente di mezzi di cui dispongo e indirizzando questi mezzi verso la parola con un movimento di distorsione che resterà per loro controverso. Sono di fronte alla parola e, nello stesso tempo, sono assente, in viaggio nel mio reame conoscitivo, intento a fare una sorta di inventario di quello di cui dispongo per riassumerlo in un unico punto, l’impatto con la parola. «Non siamo stati originariamente costruiti per essere degli scienziati; lo siamo diventati, forse per una specie di abuso delle nostre facoltà organiche; e ciò a spese dello Stato, che nutre una quantità di fannulloni ai quali la vanità attribuisce il nome di filosofi. La natura ci ha creati tutti unicamente per essere felici; sì, tutti: dal verme strisciante fino all’aquila che si perde tra le nuvole. Perciò essa ha dato a tutti gli animali una qualche parte della legge naturale, parte più o meno nobile a seconda delle possibilità intrinseche degli organi ben condizionati di ciascun animale». (Julien Offroy de Lamettrie, Histoire naturelle de l’âme, op. cit., vol. I, cap. II). La polemica contro i “fannulloni” filosofi è radicale e denuncia il senso di superiorità degli scienziati, abituati a misurare e a calcolare, nei riguardi del pensiero puro e semplice, come di regola quello dei filosofi dovrebbe essere, cosa che peraltro non sempre è. Avvicinarsi alla filosofia richiede difatti un certo obnubilamento, per carità niente di mistico, ma una disponibilità all’abbandono. Se si tengono strette le maniglie della logica non si scende, si resta sempre in superficie, dove tutto finisce per sfumare e combaciare con tutto. Ciò non vuol dire acquisire nuove illusioni e sovrapporle a quelle quantitative della logica. Significa solo guardare oltre, arrivare più lontano. L’intuizione mi emoziona sempre di più, ha una sua relazione sconosciuta con la saggezza. La semplice conoscenza e perfino l’immenso armamentario critico negativo dell’interpretazione la irrigidisce e non consente di sentirne le svariate sfumature, di cogliere i tanti aspetti dolorosi e contraddittori. Ogni abbandono è un poco una piccola morte pagata a rate. Ho assistito all’apertura della bara di mia nonna paterna, dopo quarant’anni esatti dalla morte, poche ossa, un teschio con i capelli, una collanina d’argento e un buonissimo odore di terra smossa di fresco. Niente di macabro. *** Capitolo tredicesimo: Dell’immortalità dell’anima, del dogma dalla vita futura e della paura della morte «L’anima segue via via tutti i diversi periodi del corpo. Nasce col nascere del corpo, è debole nell’infanzia, condivide col corpo le sue pene i suoi piaceri, è sana o malata come quest’ultimo..., attiva o languente, sveglia o addormentata. Eppure la si suppone immortale. «La natura avendo ispirato agli uomini il desiderio della loro esistenza, il desiderio di perseverarvi, li spinge a credere facilmente nell’immortalità della anima. Essendo questo desiderio naturale si può considerare una prova dalla realtà della vita futura? Noi desideriamo la vita del corpo e questo desiderio è frustrato, per qual motivo il desiderio della vita dell’anima non dovrebbe essere frustrato ugualmente? «L’anima non è altro che il principio della sensibilità. Il pensare, il gioire, il soffrire, appartengono al sentire... In questo modo, quando il corpo cessa di vivere, la sensibilità, non può più esercitarsi, non ha più idee in quanto viene a mancare dei sensi. L’anima non può sentire che attraverso gli organi, come potrebbe avvertire qualcosa dopo la distruzione di questi? «E allora la potenza divina? Essa non può fare in modo che una cosa esista e non esista nello stesso tempo, non può far pensare l’anima senza gli intermediari necessari per avere dei pensieri. «Malgrado l’opinione dell’esistenza eterna si è sempre allarmati dalla distruzione del corpo, la qual cosa prova che il reale, il presente tocca più profondamente della speranza dell’avvenire. «La sola idea della morte sconvolge ogni uomo e nessuno cerca di farla più spaventevole. Si tratta di un momento in cui veniamo consegnati senza difesa ai rigori di un despota spietato. Ecco, si direbbe, la più forte diga che si potrebbe pensare contro gli sviamenti degli uomini... Ma quali sono gli effetti che queste nozioni producono su coloro che se ne dicono o se ne credono persuasi? La maggior parte li sogna raramente e mai al momento in cui li trascina la passione, il piacere, l’esempio. Se questi terrori agissero non si avrebbe bisogno di essi per evitare il male e fare il bene. Essi fanno tremare i cuori onesti lasciano indifferenti i cuori induriti. «Quanto agli increduli, vi possono essere degli stolti tra loro, ma l’incredulità non presuppone la cattiveria. Al contrario, l’uomo che pensa, che medita, conosce i motivi d’essere buono molto meglio di colui che si lascia condurre ciecamente dai motivi degli altri. L’uomo che non attende un’altra vita è interessato soltanto a prolungare la sua esistenza e rendersi caro ai suoi simili nella sola vita che conosce. Il dogma della vita futura ci impedisce d’essere felici in questa, languiamo nelle avversità, marciano nell’errore, in quanto operiamo sperando in un avvenire migliore. «L’avvenire s’immagina in funzione del presente. Abbiamo piaceri e pene, da ciò un paradiso e un inferno. Si ha bisogno di un corpo per gustare questi piaceri, da ciò la resurrezione. «Ma perché gli uomini si sono lasciati convincere a credere all’inferno? Perché, come un malato tiene alla sua vita, per quanto sfortunata essa sia, così l’uomo preferisce l’idea di una esistenza infelice a quella della non esistenza, che considera come il peggiore dei mali. Per altro questa nozione fu controbilanciata dall’idea della misericordia di Dio. «I terrori causati dall’altra vita sono tanto forti che se per una felice conseguenza le nazioni non omettessero di improntare la loro condotta a queste idee insolenti, esse cadrebbero nell’abbrutimento, il mondo intero diventerebbe un deserto. «Quantunque questo dogma sia un freno per reprimere le passioni, si vedono forse meno stolti presso i popoli che ne sono persuasi? Quelli che si credono trattenuti da queste paure attribuiscono erroneamente a esse ciò che dovrebbero attribuire a motivi più reali: il loro temperamento, la loro timidezza, la paura delle conseguenze d’una malvagia azione. Potrà mai lo stolto essere trattenuto dalle paure di un lontano avvenire quando non viene trattenuto dalle paure di un castigo presente? «La stessa religione distrugge gli effetti di queste paure. La remissione dei peccati rassicura gli stolti fino all’ultimo momento della loro vita, e questo è un dogma contrario al precedente. «L’effetto di queste paure è insufficiente, la qual cosa è ammessa da coloro stessi che ispirano queste paure. Infatti, essi si lagnano che, malgrado tutto, gli uomini non sono meno trascinati verso lo loro tendenze viziose. Contro un timido, trattenuto da queste paure, esistono milioni di uomini che queste paure rendono insensati, crudeli, inutili e stolti, stornandoli dai loro doveri verso la società che affliggono, turbano, ecc.». Perché Dio ha creato il mondo, si chiede l’Illuminismo? La risposta della teologia in base alla quale lo ha creato per la sua gloria, evidentemente non regge. La gloria nei confronti di chi? Nei confronti dei suoi simili, ma i suoi simili non esistono, egli è unico, è un essere superiore. La gloria nei confronti del mondo stesso, come ciò che è stato creato, ma allora perché creare un mondo imperfetto capace di attaccare, criticare, offendere il suo creatore? Un mondo che ha bisogno di essere abbagliato dalla gloria del suo creatore? In un certo senso il progetto di creare qualcosa assume caratteristiche contraddittorie che rendono necessaria la giustificazione del ricorso all’azione repressiva, di controllo e distruttiva. Qui Holbach tocca uno dei problemi relativi alla nascita, alla costituzione del mito e al perfezionamento successivo realizzato attraverso la riflessione teologica. L’ente superiore e la sua relativa antropomorfizzazione avevano bisogno dell’innesto di un processo di contraddittorietà. Nello stesso tempo, avevano anche bisogno di giustificare il perché della nascita del mondo. Il perché può essere soltanto quello di realizzare qualcosa per se stesso, cioè fare la propria felicità, la felicità di Dio. Questa felicità sarebbe stata così aumentata o comunque modulata qualitativamente con la nascita del mondo. Ma questo mondo, se fosse stato perfetto, e la gloria di Dio anch’essa perfetta, avrebbe reso incomprensibile la presenza dell’elemento distruttivo. C’è da dire però che l’elemento negativo e quello distruttivo non possono essere messi in atto solo nel momento in cui si realizza la creazione del mondo, perché l’esperienza umana li vede in atto nei momenti successivi a questa creazione e come conseguenza di un comportamento dello stesso ente creato. Da ciò il concetto di punizione. L’uomo viene punito per avere offeso l’ente superiore, il quale essendo onnipotente ha consentito questa offesa per potere successivamente dare giustificazione e fondamento alla propria attività distruttiva. In un certo senso l’elemento che rende possibile la giustificazione teologica della distruttività dell’ente supremo è la libertà data alla collettività degli uomini, la libertà di potere commettere un errore e di essere successivamente sottoposta a punizione. Ma perché si è fatto ricorso a questo procedimento? Perché in effetti, dal punto di vista della creatività del mito, non era possibile agire diversamente. Si doveva trasferire l’elemento negativo nella stessa fonte dell’elemento positivo, si doveva trovare però una giustificazione all’esercizio di questa negatività, giustificazione trovata nel comportamento delittuoso di una parte della collettività, anche se poi fra comportamento delittuoso, fra colpa e castigo, finisce per non esserci più commisurazione, applicando il principio della tirannia assoluta. Il rapporto possibile fra uomo e Dio, esaminato da Holbach alla luce della filosofia della natura, non può esistere in quanto non può esserci rapporto fra due entità che hanno qualità diverse. Se le entità hanno qualità che sono reciprocamente sconosciute, come possono entrare in rapporto fra di loro? Non può esserci proporzione, non può esserci rapporto. In questo modo gli uomini non devono nulla a Dio e Dio non deve nulla agli uomini. La critica sviluppata su questo problema riprende ancora una volta il concetto di virtù naturale. Se gli uomini non possono contribuire a realizzare la felicità dell’ente supremo e questo ente supremo di fatto non realizza le felicità degli uomini, fra loro e l’ente supremo non sono possibili rapporti. In effetti esiste un abisso determinato dalla loro non proporzione. Non esistendo rapporti non esistono doveri reciproci, gli uomini non sono tenuti a garantire un rispetto delle regole imposte da Dio, come di fatto non lo garantiscono. «Ecco due fatti che dimostrano molto chiaramente gli effetti dell’anima sul corpo, e reciprocamente del corpo sull’anima. Una fanciulla che le sue disposizioni naturali, o la severità, avevano portata a un’eccessiva devozione, cadde in una specie di melanconia religiosa. Il mal fondato timore che le avevano insegnato a nutrire nei confronti dell’Essere supremo aveva riempito il suo spirito d’idee nere; e la scomparsa delle sue “regole” fu una conseguenza del terrore e degli spaventi in cui viveva. Si ricorse inutilmente, contro questo malanno, agli emmenagoghi più efficaci e meglio scelti: non sortirono nessun effetto, e il disturbo di cui soffriva la giovane malata ebbe effetti così gravi da renderle ben presto insopportabile la vita. Era in questo stato, quando ebbe la fortuna di fare la conoscenza con un ecclesiastico dal carattere dolce e conciliante, dallo spirito ragionevole, che in parte con la dolcezza della conversazione, in parte grazie alla forza dei suoi argomenti, riuscì a liberarla dalle paure che l’ossessionavano, a riconciliarla con la vita, a darle un’idea più sana della divinità; non appena lo spirito fu guarito, il disturbo di cui s’è detto scomparve, l’aspetto della fanciulla ridiventò fiorente, ed essa prese a godere di ottima salute, benché l suo modo di vivere fosse lo stesso nei due stati opposti. Ma, come lo spirito è soggetto a ricadute non meno del corpo, la fanciulla essendo stata di nuovo assalita dalle paure superstiziose d’un tempo, il suo corpo ricadde nello stesso disordine, la malattia fu accompagnata dagli stessi sintomi della prima volta. L’ecclesiastico seguì, per guarirla, il metodo già sperimento; ebbe successo, le regole ricomparvero, tornò la salute. Per qualche anno, la vita di quella giovane fu un succedersi di superstizione e malattia, di religione e salute. Quando dominava la superstizione le regole cessavano, la salute scompariva; quando la religione e il buon senso riprendevano il sopravvento, gli umori seguivano il loro corso ordinario, e la salute tornava». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Anima). Le superstizioni, e i timori della morte condizionano la vita, e Diderot porta un esempio di come in modo preciso si alternano questi timori imprigionando ogni possibilità di sbocco verso una esistenza indirizzata se non alla felicità, almeno a un certo equilibrio. Certo, il problema è più vasto della soluzione trovata da questo ecclesiastico di buona volontà capace di fare tornare le mestruazioni alla sventurata fanciulla, ma qui l’intenzione dell’autore è quella di fare vedere la connessione tra mali dell’anima e mali del corpo, connessione è ovvio deterministicamente considerata. In realtà le cose stanno in maniera diversa. La madre delle iniquità è la compromissione, il progetto dell’equilibrio. La giustizia è foriera di malattia e danno se non supera l’accesso alla distribuzione esatta. Non c’è nulla di più errato del fulmineo giudizio che vuole dividere bene il capello. Dove trovare la forza per andare oltre la giustizia distributiva? L’ideale di non danneggiare nessuno danneggia tutti, poco miele sulla punta della lancia che ferisce e uccide. Tagliare di netto significa morire, ma restare nell’ambito del prestabilito è una forma di morte che sperimento ogni giorno. Molte pagine che ho scritto sull’uno non mi convincono, ma perché dovrebbero convincermi? Non le ho scritte con lo scopo di convincere qualcuno, molto di quello che penso non lo reputo accettabile nemmeno da me, e ciononostante va detto perché, per me, non c’è altro modo di avvicinarmi a questo problema dell’uno se non distruggendo ogni possibile scappatoia, anche quelle che si fondano sulla cosiddetta logica inflessibile. «L’uomo è una macchina così complessa, che è impossibile farsene di primo acchito un’idea chiara, e conseguentemente poterla definire. Perciò tutte le ricerche condotte dai più grandi filosofi a priori, cioè cercando di servirsi per così dire delle ali dell’ingegno, sono state vane. Così, soltanto a posteriori, cioè cercando di districare e scoprire l’anima attraverso gli organi del corpo, è possibile, non dico già scoprire all’evidenza la natura stessa dell’uomo, ma raggiungere il maggior grado di probabilità possibile sull’argomento. Armiamoci dunque del bastone dell’esperienza, e lasciamo cadere tutte le vane chiacchiere dei filosofi. Esser cieco, e credere di poter fare a meno di appoggiarsi a un tal bastone, è il colmo dell’accecamento. Certo si possono, anzi si devono, ammirare le ricerche perfettamente inutili, di tanti grandi geni: i Cartesio, i Malebranche, i Leibniz, i Wolff, ecc.; ma qual frutto, ditemi, si è ricavato dalle loro profonde meditazioni e da tutto il complesso delle loro opere? Cominciamo dunque e vediamo, non già che cosa è stato pensato, ma che cosa bisogna pensare, per raggiungere l’equilibrio nella nostra vita». (Julien Offroy de Lamettrie, L’homme machine, Leida 1748, vol. III, p. 3). La macchina è utile, anzi è il simbolo dell’estrema utilità. Macchina è anche la ghigliottina che tra pochi decenni avrebbe tagliato la testa a migliaia di persone. Solo oggi sappiamo in che modo questa utilità si para davanti agli occhi impedendoci di vedere l’orizzonte. L’uno che cerco di nominare è prima della parola, per cui è compito vago e inutile il mio, appunto inutile. C’è in questo tentativo una specie di nostalgia di un sentire remoto, di un cogliere qualcosa prima del mondo che creo nel fare, un movimento puro privo di modificazioni. Osservo invece l’abisso dell’assenza e mi smarrisco nel cercare riferimenti che possano garantirmi contro la perdita. Invece è proprio la perdita il mio scopo, ma sono restio ad accettare questa conclusione. *** Capitolo quattordicesimo: L’educazione, la morale e le leggi sono sufficienti per contenere gli uomini. Del desiderio d’immortalità. Del suicidio «Non bisogna cercare in un mondo ideale i motivi per agire in questo mondo. È nella natura, nell’esperienza, nella verità che bisogna individuare i rimedi ai mali della nostra specie e i moventi per dare al cuore dell’uomo le tendenze utili al benessere della società. «Soprattutto è l’educazione che deve fecondare i nostri cuori, fare prendere alle nostre anime abitudini vantaggiose per l’individuo e per la società. In questo modo gli uomini non avranno bisogno né di ricompense né di punizioni celesti. «Il governo degli uomini non ha bisogno di favole. I castighi presenti, le ricompense attuali sono più importanti delle pene e dei piaceri d’un avvenire lontano: sono soltanto questi che vanno impiegati. Ma dappertutto l’uomo è schiavo per cui è necessario che sia basso, interessato, dissimulatore, privo di onore: questo è il vizio del governo. Dappertutto lo si inganna, gli si impedisce di coltivare la ragione, ne deriva che non può fare a meno di essere stupido e irragionevole. Dappertutto egli vede il crimine e il vizio onorati, ne conclude che îl vizio è un bene e la virtù un sacrificio di se stesso. Dappertutto egli è sfortunato, dappertutto nuoce ai suoi simili per salvarsi dalle pene. Gli si mostra il cielo, ma i suoi sguardi ricadono sulla terra, egli vuole essere felice a qualsiasi prezzo. Più il popolo è istruito e più è felice, non bisogna affatto ingannarlo per tenerlo a bada. «Facciamogli considerare il suo stato presente come il solo in cui possa sperare di essere felice. Invece di parlargli di un altro mondo, limitiamo tutte le sue speranze a questo. Mostriamogli come le sue azioni possono influire sui suoi simili, ricompensiamo i suoi talenti, rendiamolo attivo, laborioso, benefico, virtuoso, facciamogli conoscere il valore della comunità e le conseguenze dell’odio di quest’ultima. «Quale che sia la parola della morte, i dispiaceri, le pene dello spirito, le disgrazie ce la fanno qualche volta considerare come un porto contro l’ingiustizia dei nostri simili. «Diversamente si è parlato del suicidio. Qualcuno ha creduto che all’uomo non fosse permesso rompere il patto stabilito con la società. Ma, se noi esaminiamo i rapporti dell’uomo con la natura, vedremo che il loro impegno non fu né volontario dal lato di quest’ultimo, né reciproco dal lato della natura. La volontà dell’uomo non ha parte alcuna nella nascita, ed è contro la sua volontà che egli muore. Tutte le sue azioni sono forzate. Non può amare il suo essere che a condizione di essere felice. «Se consideriamo il patto che unisce l’uomo alla società vedremo che questo è condizionato e reciproco in quanto suppone vantaggi tra le parti contraenti. Il legame è il benessere: una volta che questo è tagliato l’uomo è libero. Si può biasimare un uomo che trovandosi senza risorse in una città, si lasci andare nella solitudine? L’uomo che muore non fa che isolarsi. «La differenza di opinioni su questo argomento è necessaria. Il suicida vi dirà che voi al suo posto avreste fatto altrettanto; ma per essere esattamente al posto di un altro bisogna avere la sua organizzazione, il suo temperamento, le sue passioni, bisogna cioè essere quell’altro, porsi nelle stesse circostanze, essere spinti dalle stesse cause. Si potranno considerare queste riflessioni come pericolose ma non sono esse che determinano gli uomini a prendere una risoluzione così violenta come il suicidio. È un temperamento esacerbato dalle sventure, un vizio d’organizzazione, un guasto nella macchina, è la necessità. La morte è una risorsa che non può essere tolta alla virtù oppressa». Nella sua critica dell’autorità l’Illuminismo riserva un posto particolarmente importante a una critica articolata del mito cristiano. L’Illuminismo rifiuta il concetto della corruzione della natura umana legato necessariamente all’ipotesi di partenza del mito cristiano. Il punto di partenza è l’eguaglianza fra natura e ragione. La natura lasciata a se stessa non degenera ma si sviluppa verso un grado sempre più elevato di bontà. Si ha come conseguenza che il concetto di progresso è intrinseco a questo tipo particolare di posizione filosofica. E la conseguenza più immediata è l’ipotesi del liberalismo nel dominio etico, pedagogico ed economico. È importante tenere conto a partire dal principio, nell’esaminare qualsiasi posizione di critica alla religione facente parte del periodo illuministico, tenere conto di un punto di partenza essenziale, la critica è sempre un tentativo di ricondurre il mito nelle dimensioni della ragione, quindi nella sua naturalità, in quanto si parte sempre dall’eguaglianza di natura e ragione. Conseguentemente, dalla necessità di lasciare l’uomo libero a se stesso perché si presuppone che esista nell’uomo questa tendenza verso la bontà. Ogni ulteriore considerazione fra i processi intrinseci alla società che conducono l’uomo invece verso un altro tipo di mistificazione, di manipolazione, ogni altra considerazione riguardante la critica del sistema liberista, la critica del concetto stesso di progresso, nei limiti economici, etici, pedagogici, è assolutamente da escludersi per quanto riguarda l’analisi del pensiero illuminista. Il problema principale dell’Illuminismo è il tentativo di costruire una morale diversa dalla morale religiosa, una morale che sia naturale. La strada per questa costruzione passa attraverso un superamento dell’astratto razionalismo cartesiano con l’uso degli strumenti dell’Illuminismo inglese, in particolar modo del pensiero di Locke. Il concetto di natura assume una sua specifica visione una volta che viene inquadrato nella prospettiva del rapporto tra natura e ragione. La natura diventa esclusiva bontà, assenza del peccato originale e sviluppo in varie forme del mito del selvaggio buono. L’uomo naturale è buono, non occorre fare altro per costruire il futuro della società che lasciare il massimo sviluppo possibile delle sue naturali doti di bontà. Uno dei punti principali del pensiero di Holbach è l’analisi della materia. Per prima cosa egli intende superare la distinzione cartesiana, e in questo si colloca nella corrente polemica del pensiero illuminista, tra res extensa e res cogitans. Per lui la materia è qualcosa di unitario, il concetto di materia non può essere diviso in due parti. E infatti non per caso tutta l’insipida tradizione cattolica e spiritualista si basa su questa divisione della materia in due parti. L’unità della materia comprende ovviamente un movimento all’interno della materia, un passaggio della materia da bruta a una situazione di animalizzazione per come specificamente dice nel Système de la nature, ou, des lois du monde physique et du monde morale. Questo meccanismo però non è legato a un concetto strettamente meccanicista, ma nella riflessione di Holbach si inseriscono alcune tendenze antimeccaniciste e particolarmente organiciste che gli provenivano dalla sua preparazione nel campo della chimica. In particolare dalle concezioni animistiche del chimismo precedente alle ricerche di Lavoisier. I movimenti interni alla materia e i fenomeni della vita organica, quindi il passaggio dalla materia inerte, dalla materia bruta al suo stato di animalizzazione, non possono essere spiegati con un semplice meccanicismo, ma occorrono criteri di tipo più complesso, quelli che anche la scienza chimica dell’epoca di Holbach poteva fornire. Per lui la materia è sempre esistita ed è sempre stata in movimento fino dall’eternità. Fa cadere così il problema della creazione e rigetta automaticamente le prove newtoniane dell’esistenza di Dio. Questa concezione della materia non è, come ho detto, esclusivamente meccanica, non è ridotta a un monismo sostanziale che vede nella materia un insieme di atomi sostanzialmente uguali tra di loro. Ha invece una caratteristica qualitativa, che viene alla concezione di Holbach dalla chimica. Questa concezione avverte nella materia la presenza di qualità diverse, di elementi diversi, di caratteristiche diverse, mobilità, divisibilità, forza d’inerzia, gravità, estensione, impenetrabilità, pesantezza, ecc. Tutti questi elementi costituiscono delle combinazioni differenti, nel senso chimico, anche se della chimica dei tempi di Holbach. Il movimento, quindi, non è una caratteristica della materia in quanto elemento essenziale o elemento caratteristico di singole uniformità che si trovano all’interno della materia stessa, ma è una caratteristica della materia in quanto essa è estesa nello spazio. Esso è una caratteristica dell’estensione della materia in quanto, essendo estesa nello spazio, non può restare quieta, ferma in assoluto. Il movimento costituisce per Holbach l’azione della materia. La materia ha la caratteristica di dovere agire e di non potere stare ferma, anche quando si ha l’impressione esterna che ci si trovi davanti a una quiete assoluta si tratta soltanto di movimenti non percepibili a occhio nudo. Ma se l’estensione è la caratteristica della materia non è attraverso la categoria della estensione soltanto che Holbach spiega la materia stessa come aveva fatto a suo tempo Cartesio, ma principalmente attraverso la caratteristica della particolare vitalità che è all’interno della materia che consente il formarsi di qualità diverse attraverso una serie di combinazioni. «È dunque auspicabile che si cambi il sistema degli studi; che invece di esigere severamente dai bambini composizioni difficili, che li scoraggiano e nelle quali quasi nessuno riesce, si domandino loro soltanto operazioni facili, e quindi raramente seguite da castighi e dal disgusto. E poi la giovinezza passa in fretta, e molte sono le cose ch’è necessario sapere per entrare nel mondo. Perciò bisogna cogliere il più rapidamente possibile il buono e l’utile d’ogni cosa, e sorvolare sul resto; così, gli anni della prima gioventù devono essere dedicati di preferenza ad acquistare le cognizioni più necessarie. Che cos’è infatti l’educazione, se non l’apprendimento di ciò che bisogna sapere e praticare nella vita? E si può raggiungere questo grande obiettivo insegnando ai giovani soltanto a comporre e a scrivere versi? È risaputo che in seguito tutto ciò non serve a nulla, e che il frutto di tanti anni di studio si riduce appena alla comprensione del latino: dico appena, e non dico abbastanza. Non v’è infatti latinista il quale non confessi in buona fede che la capacità da lui acquistata in collegio di comporre in prosa e in versi non lo metteva in grado di capire a prima vista i libri non ancora studiati. Tutti, dico, confessano che, dopo le loro brillanti composizioni, Orazio, Virgilio, Ovidio, Tito Livio e Tacito, Cicerone e Triboniano hanno sovente messo a dura prova la loro pretesa bravura. Bisognava dunque dedicare meno tempo a fare versi inutili che a comprendere a fondo questi autori attraverso la lettura e la traduzione, grazie alle quali si possono raggiungere contemporaneamente questi due risultati necessari e sufficienti: facile comprensione del latino, eloquenza e abilità nella composizione francese. In ogni caso coloro che, educati come proponiamo qui, abbandonassero gli studi a quattordici anni, non sarebbero così paurosamente sprovvisti come oggi di tutte le cognizioni che possono formare cittadini utili; saprebbero scrivere e far di conto, conoscerebbero la geografia, la storia, ecc.». (Joachim Faiguet de Villeneuve, Enciclopedia, voce Studi). Le parole di questo economista, collaboratore indefesso dell’Enciclopedia, sono dirette a combattere un nozionismo imperante nella vecchia formazione scolastica, continuato imperterrito fino a cinquant’anni fa. Lo scopo è certo quello di suggerire la formazione corretta dei futuri cittadini, perché ci sia uno Stato ordinato e un buon equilibrio sociale, ma il meccanismo messo a nudo è sempre quello: il processo sociale come riflesso di quello scientifico. Mettere da parte l’errore e centellinare la vita in un apatico a poco a poco oggi sappiamo che è mania da collezionisti. Invece di bersi tutto il bicchiere colmo, fino in fondo, metterlo da parte, e studiare, contenuto e contenente, scoprendo così l’inconsistenza di tutte le esperienze se non prima si sia vuotato quel bicchiere. Il dio dell’eccesso è perentorio su questo punto, non ammette deroghe. La conoscenza scava sempre nel posto sbagliato, nei pressi della mia intimità, sento il raspare del suo scavo che si avvicina, ma è uno scavo cieco come quello dell’animale sconosciuto, non può trovarmi se non per caso e ricorrendo a un’astrazione, al lavoro irto di chiodi dell’intelligenza. Quanto sia raro questo lavoro è un altro problema, quanto sia minima l’efficacia vitale dell’intelletto, è il mio problema. Ho inseguito tutta la vita un sogno binario, costruito su due piani, un discorso perentorio e uno possibile, ambedue illusori e affascinanti, ma il mio cuore continua a restare arido se penso a quelle notti passate a studiare, alle botte di mio padre che mi trovava ancora sui libri quando la mattina presto, come di consueto, si svegliava alle cinque. La realtà di cui parlo è diversa dalla realtà di cui non posso parlare. Questa partecipa di quella e la compenetra senza essere risolta nell’assoluto niente. La parola colloca la qualità nel mondo e la tratta come oggetto, ma può anche riviverla nella rammemorazione. «Vennero poi le parole, le lingue, le leggi, le scienze, le arti e grazie ad esse infine il diamante grezzo del nostro ingegno è stato polito. L’uomo è stato ammaestrato come un animale. Un geometra ha appreso a fare le dimostrazioni e i calcoli anche più difficili come una scimmia impara a mettersi o a togliersi il cappellino e cavalcare un docile cane. Tutto ciò è stato possibile mediante segni; ogni specie ha compreso quanto le sue possibilità le consentivano di comprendere: in tal modo gli uomini hanno acquisito la conoscenza simbolica, come ancor oggi la chiamano i nostri filosofi tedeschi. Nulla di più semplice, come si vede, del meccanismo della nostra educazione! Tutto si riduce a suoni o a parole, che dalla bocca dell’uno passano attraverso l’orecchio nel cervello dell’altro, che registra nello stesso tempo attraverso gli occhi la figura dei corpi, dei quali tali parole sono i segni convenzionali. Ma chi ha parlato per primo? Chi è stato il primo precettore del genere umano? Chi ha inventato gli strumenti per mettere a profitto la docilità della nostra organizzazione? L’organizzazione è il pregio fondamentale dell’uomo; ed è perfettamente inutile che tutti i trattatisti di morale escludano dal novero delle qualità stimabili quelle che riceviamo dalla natura, per collocarvi soltanto i talenti che si acquistano a forza di riflessione e di abilità». (Julien Offroy de Lamettrie, Histoire naturelle de l’âme, op. cit., vol. I, cap. III). La sapienza, a differenza della conoscenza fattiva, non è mai delusa di quello che riesce a cogliere, ma alla fine anche lei vuole afferrare qualcosa ingrandirsi, possedere, altrimenti correrebbe il rischio di non riconoscere se stessa e di non farsi riconoscere. Il problema è sempre quello. *** Capitolo quindicesimo: Degli interessi degli uomini, ovvero della loro idea della felicità. L’uomo non può essere felice senza la virtù «Dopo il temperamento l’interesse è la spinta dell’uomo al benessere. Una stessa felicità non può convenire a tutti. La felicità di ciascuno è in relazione alla sua organizzazione. Per degli esseri così vari, è facilissimo che ciò che costituisce oggetto dei desideri dell’uno sia indifferente oppure dispiaccia all’altro. Nessuno può giudicare ciò che costituisce la felicità dei suoi simili. «Tuttavia, obbligati a giudicare le azioni degli uomini dagli effetti che causano su di noi, ne approviamo l’interesse che le anima a seguito del vantaggio che ne risulta per la specie umana. In questo modo ammiriamo il valore, la generosità, i talenti, la virtù, ecc. «È nell’essenza dell’uomo la necessità di volersi bene, di cercare la propria conservazione, di rendere la sua esistenza felice. Spinto da questo interesse l’uomo vede ben presto, con l’aiuto dell’esperienza e della ragione, che da solo non può procurarsi ciò che assicura la felicità della sua esistenza. Egli vive con esseri occupati al pari di lui a fare la propria felicità, ma capaci di aiutarlo ad ottenere gli oggetti che desidera per se stesso. Si accorge così che questi gli saranno favorevoli soltanto dopo che il loro benessere si troverà cointeressato. Da ciò ne deduce che per ottenere la propria felicità bisogna conciliare prima l’approvazione, l’attaccamento e l’assistenza dei suoi simili, facendo loro trovare dei vantaggi nell’assecondare i propri progetti. Procurare questi vantaggi agli esseri umani significa essere virtuoso. L’uomo ragionevole avverte quindi che è nel proprio interesse essere virtuoso, la virtù diventa quindi l’arte di essere felici nella stessa felicità degli altri. Questo è il vero fondamento di ogni morale. Il merito e la virtù sono fondati sulla natura dell’uomo e sulla varietà dei suoi tanti bisogni. «L’uomo virtuoso gioisce sempre, egli legge sui visi degli altri i diritti che ha saputo acquistarsi sui loro cuori. Il vizio è costretto così a cedere alla virtù di cui, arrossendo, riconosce la superiorità. Se l’uomo onesto langue qualche volta disprezzato e senza alcuna ricompensa, può consolarsi con la fiducia che ha nella giustizia e nella fondatezza della causa che egli sostiene. Questi appoggi non sono fatti per gli stolti che troveranno nei loro cuori affanni, rincrescimenti, rimorsi». Denis Diderot aveva, nella sua interpretazione della natura, rifiutato la distinzione cartesiana fra materia e coscienza e aveva affermato la necessità di una qualità generale ed essenziale della materia e quindi di una continuità tra la materia, la vita e la coscienza, arrivando pertanto alla conclusione di una unità totale della realtà. In questo senso Diderot e Holbach sono molto più avanti di Jean Le Ronde D’Alembert, perché i primi due arrivano a una formulazione complessiva della realtà, mentre lo spirito più specificamente scientifico e nello stesso tempo più cauto, più kantianamente cauto, di D’Alembert, si ferma alla proposta oggettiva, all’affermazione oggettiva. L’ateismo di Holbach ha una posizione estremizzante. Supera i limiti, a volte modesti, a volte ridicoli, del deismo. Ma è, e non può non essere, essenzialmente un naturalismo e quindi un umanismo, specialmente con i limiti ideologici di queste due posizioni, i quali si ritrovano nella pretesa di una critica assoluta alle posizioni teologiche da farsi esclusivamente attraverso lo strumento della costruzione di un sapere fisico, scientifico che possa arrivare a eliminare l’imbroglio teologico, senza supporre contemporaneamente la necessità di una trasformazione della realtà, cadendo nell’illusione tipica dell’entusiasmo illuministico di pensare sufficiente la semplice spiegazione. Per Holbach l’ateo è un pensatore che attraverso l’analisi distrugge delle illusioni nocive per l’uomo. La sua principale preoccupazione diventa quella di fare vedere come l’ateo sia più aderente ai princìpi naturali che non il teologo, il quale combatte la natura, la contraddice ed è quindi il suo vero nemico. Però la stessa eguaglianza stabilita fra natura e verità, fra natura e ragione, comporta la fede in un progresso, in un miglioramento progressivo. Ma la fede in un miglioramento progressivo comporta una valutazione positiva dello stato attuale delle cose. Infatti nel pensiero di Holbach c’è un aspetto conservatore ed è nella valutazione positiva della società. Certamente Holbach non chiude gli occhi davanti alla realtà delle cose, la divisione in classi, per esempio, o se non proprio la divisone in classi, almeno la divisione fra ricchi e poveri, questi due grandi mali della società. Ma egli considera questa divisione come elemento di perturbamento, quindi come elemento negativo che potrebbe impedire un ragionevole e armonico sviluppo della società e in modo particolare potrebbe danneggiare il conservarsi della società stessa. «La felicità indica uno stato, una situazione di cui si desidererebbe la durata senza mutamento; in questo la felicità è diversa dal piacere, che è un sentimento gradevole, ma breve e passeggero, e non può mai essere uno stato. Il privilegio di essere tale spetterebbe piuttosto, semmai, al dolore. Tutti gli uomini si trovano d’accordo nel desiderio di essere felici. La natura ha fatto a noi tutti una legge della nostra felicità. Tutto ciò che non è felicità ci è estraneo; essa sola ha un immenso potere sul nostro cuore; vi siamo tutti trascinati, come lungo una ripida china, da un incanto possente, da un’attrazione cui non sappiamo resistere; è un’impressione incancellabile della natura, che l’ha profondamente incisa nei nostri cuori; ne è l’incanto e la perfezione». (Yvon Pestré, Enciclopedia, voce Felicità). Nella mia affermazione fattiva, e quindi creativa, posso incontrare resistenze più o meno forti, contenuti più o meno consistenti, conoscenze più o meno capaci di opporre resistenza alla mia mania di possesso. Questo movimento è sempre un dire sì, un elemento certamente superficiale e forse sofistico. Euridice mi guarda da lontano, ma il suo sguardo è vuoto, ha l’occhio fisso al dramma che l’ha colpita, mentre sono io con i miei vent’anni appena compiuti che guardo la sua bellezza e la distruggo in un breve volgere delle mie palpebre acerbe. La felicità è un caso o una ricetta realizzata a puntino? E l’infelicità? A che punto sta la mia mediocrità? Ogni tanto è bene che io misuri i battiti del suo polso, potrei ingannarmi sul mio futuro. Adesso che questo futuro non è poi molto articolato, almeno in termini secchi, devo fare maggiore attenzione. Do per fermo che l’ordine e la coercizione mi dilaniano, ho sempre pensato che l’eccesso sia l’unico sistema possibile per dare alla qualità la chance di venirmi incontro, di porgermi una mano. Ne sono più che mai convinto ora, dopo che è arrivatoil segno del mio destino. Una rarità straordinaria. La qualità si propone come accessibile a pochi, vertiginosa e sviante, ma non è vero. La tensione è di ognuno, alberga nel cuore come un animale selvaggio, senza cautele o timori. Sono io il pauroso, il quieto profanatore di intenti, quello per cui l’agire è male in quanto destinato a dissolversi nel fallimento. Non destinato al pericolo, che di coraggiosi da barricata è pieno il mondo, ma alla sconfitta, ecco ciò che mi fa paura. La nube che circonda il futuro dei miei tanti anni mi pare portatrice di tempesta, ed è per questo che mi traggo indietro. Il cielo stellato non lo vedo più da tempo, ma il suo ricordo mi dà sollievo. So la dolcezza di una sera d’estate e tengo questo tesoro dentro di me. In immagini incorruttibili rammemoro a me stesso i momenti della rottura, la danza della morte, la consunzione nell’amore, l’eccesso, il delirio. Singolarmente presi sono momenti di tutti, ma non tutti sanno riconoscere gli odori alchemici dei piccoli vicoli vicino al mare, le carezze imprudenti e il ringhio delle difese forzate a cedere nei crocicchi. Molti si arrendono alle oppressioni, si fanno essi stessi partecipi e promotori di tribunali e forche, animati dal sacro tormento dell’uguaglianza strisciano sul selciato. Il mio più grande orgoglio è di rompere ancora una volta gli indugi e di gettare uno sguardo nella profondità dell’abisso, ingrato e riottoso ai benefici che qualcuno, maldestramente, vorrebbe elargirmi. «I filosofi sono d’accordo sulla felicità, come su tutto il resto. Alcuni la fanno consistere nei godimenti più rozzi, altri nel piacere, considerato in sensi diversi; ora si tratta del piacere raffinato dell’amore, ora dello stesso piacere, ma più moderato, razionalizzato, sottoposto non già ai lussuriosi capricci di una immaginazione sregolata, ma ai soli bisogni della natura; per questi è il piacere dello spirito in quanto si dedica alla ricerca o si bea nel possesso della verità; per quelli il motivo e lo scopo di tutte le nostre azioni è l’appagamento dello spirito, al quale Epicuro ha dato ancora il nome di piacere, nome pericolosamente equivoco, il quale ha fatto sì che i suoi discepoli cavassero dalla sua scuola un frutto ben diverso da quello che il grande filosofo avrebbe potuto attendersi. Qualcuno ha posto il sommo bene nella massima perfezione dello spirito e del corpo. Zenone lo ha identificato con l’onore e la virtù. Seneca, il più illustre degli stoici, gli ha aggiunto la conoscenza della verità, senza dire espressamente quale verità. Come ci sentiamo anti-stoici! Quanto costoro sono rigoristi, tristi, duri, tanto vogliamo essere lieti, dolci e compiacenti. Tutti anima, essi fanno astrazione dai corpi; tutti corpo, noi faremo astrazione dall’anima. Essi pretendono di mostrarsi inaccessibili al piacere e al dolore; noi ci faremo una gloria di sentire e l’uno e l’altro. Votati al sublime, tendono a sollevarsi al di sopra di tutti gli eventi, e non si credono veramente uomini se non nella misura in cui cessano di esserlo. Noi non pretenderemo di disporre di ciò che ci governa; né di comandare alle nostre sensazioni; confessando il loro dominio e la nostra schiavitù, cercheremo di rendercele gradevoli, persuasi che in ciò stia la felicità della vita: ci crederemo insomma tanto più felici, quanto più saremo uomini, o più degni di esserlo quanto più sentiremo la natura, l’umanità e tutte le virtù sociali; del resto non ne ammettiamo affatto altre, né ammettiamo altra vita da questa». (Julien Offroy de Lamettrie, Discours sue le bonheur, op. cit., p. 20). Circoscrivo e delimito la volontà, questo è vero, ma non ho la pretesa di curare o migliorare una condizione patologica. Volontà e fare sono legati a doppia mandata, ma se da un lato mi danno la forza della conoscenza e radicalizzano non solo la ragione ma perfino l’interpretazione critica negativa, alla lunga solidificano il muro di cinta che mi circonda e che potrei vedere in questo momento [2008] dalla finestra se salissi sul tavolo che mi serve da scrittoio. Eppure mi sembra errato descrivere i miei sforzi di oltrepassamento come una questione meramente spaziale, che si risolve nel trasferirmi in un territorio diverso da quello in cui mi trovo ospitato. La forza non accede alla felicità, nemmeno la debolezza, tra i due poli c’è l’abbandono, cioè l’attiva e intraprendente critica negativa del fare. Fare e nello stesso tempo lasciare che l’abbandono mi invada, per cui comincio a coltivarlo, mi ci crogiolo dentro, lo amo, mi faccio sommergere, senza che apparentemente la mia capacità di fare ne risenta. *** Capitolo sedicesimo: Gli errori degli uomini su ciò che costituisce la felicità sono la vera origine dei loro mali. Degli inutili rimedi che si sono escogitati «Niente è più stupido delle declamazioni di un oscuro filosofo contro il desiderio del potere, della grandezza, delle ricchezze, dei piaceri. E naturale desiderare ciò che promette vantaggi. «Su questi vantaggi è fondata l’autorità di un padre sulla sua famiglia. Allo stesso modo le classi, le ricchezze, il genio, i talenti, le scienze non hanno dei diritti su di noi che in relazione ai vantaggi che procurano. I re, i ricchi, i grandi potranno imporci la loro autorità, abbagliarci, ma potranno agire su di noi solo in ragione delle loro buone azioni. «L’esperienza ci fa apprendere come le opinioni sacre siano state la fonte più certa dei mali del genere umano. In questo modo l’ignoranza delle cause naturali ha creato gli dèi. L’impostura li ha resi terribili. Queste idee hanno impedito il progresso della ragione, convincendo lo sventurato a vivere nella sventura perché quello era il volere degli dèi. Egli non pensava per nulla a rompere le proprie catene, perché gli si era fatto intendere che la stupidità, la rinuncia alla ragione, il torpore dello spirito e l’abiezione dell’anima erano i mezzi per ottenere l’eterna felicità. I sovrani, trasformati da lui in dèi, divennero in questo modo eredi per volontà divina del diritto di comandare. La sua politica divenne l’arte fatale di sacrificare la felicità di tutti al capriccio di uno. «La stessa cecità nella scienza della morale. La religione fondò la morale non sulla natura dell’uomo, suoi rapporti con gli altri, sui doveri che ne derivano necessariamente, ma sui rapporti immaginari tra l’uomo e le potenze invisibili. Questi dèi, sempre dipinti come tiranni, divennero modello alla condotta degli uomini. Quando l’uomo fa male ai suoi simili crede di avere offeso il suo dio. Egli crede di essere perdonato umiliandosi davanti a lui e facendogli dei regali. La religione corrompe la morale mentre le sue azioni finiscono di rovinarla: volendo combattere le passioni propone rimedi disgustanti, facendoli passare per divini in quanto non fatti per gli uomini. In questo modo la virtù sembra odiosa in quanto la si presenta come nemica dei piaceri degli uomini. Nell’osservazione dei loro doveri non si pone in evidenza che il sacrificio. Il presente prevale sull’avvenire, il visibile sull’invisibile, per cui l’uomo diventa stolto in quanto tutto gli dice che così deve essere se vuole la felicità. «Individui superstiziosi e atrabiliari, vedendo che gli oggetti che desideriamo non sono capaci di riempire il nostro cuore, li hanno descritti come nocivi, odiosi, abominevoli. In questo modo costoro hanno fatto sì che l’uomo rinunci a ogni piacere, in una parola, si snaturi. Medici ciechi hanno scambiato per malattia lo stato naturale dell’uomo! Impedirgli di amare e desiderare significa volergli togliere il suo essere. Dirci di odiarci e disprezzarci da noi stessi, significa toglierci il mezzo più efficace per elevarci alla virtù. «Malgrado le nostre lamentele contro la fortuna, vi sono uomini felici sulla terra. Vi troviamo sovrani che hanno l’ambizione di rendere prospere le nazioni, anime elevate che incoraggiano il merito e soccorrono l’indigenza, geni occupati dal desiderio di suscitare l’ammirazione. «Lo stesso povero non è escluso del tutto dalla felicità, egli gioisce per la soddisfazione dei suoi piccoli desideri più del ricco che non sa più cosa bramare. Abituato al lavoro conosce le dolcezze del riposo, riceve poche idee, conosce pochi oggetti, ha pochi desideri, ecc. «L’insieme dei beni sorpassa quello dei mali. Nessuno è felice in tutto, ma solo in alcuni dettagli. Vi sono pochi giorni interamente sfortunati nella nostra vita. L’abitudine rende le nostre pene più leggere. Il dolore interrotto è una gioia. Ogni bisogno è un piacere al momento in cui viene soddisfatto. L’assenza delle disgrazie o delle malattie è uno stato felice, per cui gioiamo inconsciamente e senza che esteriormente si veda. L’esperienza ci aiuta a sopportare i mali. Infine, l’uomo che si definisce più sfortunato non può vedere arrivare la morte senza soffrire per l’abbandono della vita, salvo che la disperazione non abbia interamente trasformato la natura ai suoi occhi. Nello stesso momento in cui la natura ci nega la felicità ci offre una porta per uscire dalla vita; rifiutando di passare attraverso questa porta dichiariamo di trovare piacere nella vita». La catena determinista, qua e là, lascia intravedere le condizioni più o meno ristrette o allargate della causalità di fondo. La scelta caratterizzante finisce così per cadere su elementi che per la loro sinteticità riescono, meglio di altri, a rappresentare in piccolo il modello iniziale, anche se poi i raccordi possono essere criticati o scoperti inesistenti, il meccanismo dialettico continua a funzionare lo stesso. Nell’Illuminismo la negazione critica dell’esistenza di Dio, che Holbach prende in esame attraverso la riesposizione del deismo, è preceduta da una indagine sull’innatismo. Oggi questo problema è praticamente inesistente. Resta però sul tappeto l’aspetto moderno del problema dell’innatismo, il quale si formula così: in che modo e in quale proporzione le condizioni oggettive provenienti dalla realtà, nelle quali l’uomo si trova a operare, hanno influenza sulla formulazione delle idee, sulla circolazione di queste idee e anche sulla capacità di perfezionarle separandole da aspetti meno probabili in modo da selezionare una prospettiva di maggiore certezza? Anche oggi, come si vede, in questa prospettiva rimangono residui che sono caratteristici del modo precedente di pensare, il quale risente ancora della concezione illuminista, del perfezionismo illuminista. Una parte della scienza è legata a questo procedere logico fondato su un accertamento progressivo delle condizioni di certezza della realtà e di una eliminazione degli errori, procedere che viene definito per prove successive, per accertamenti, per progressiva approssimazione. C’è da dire che la premessa da cui si parte per iniziare questa indagine che dovrebbe pervenire a contenuti di certezza reperiti nella realtà e messi in risalto dal metodo impiegato, non può non tenere conto di alcune condizioni preesistenti alla ricerca stessa, le quali condizionano la ricerca e costituiscono la caratteristica essenziale di tutto quanto proviene dalla realtà stessa. Sono cioè la presenza condizionante della possibilità di pervenire a un approfondimento dell’indagine. In questo senso, l’idea di Dio può essere considerata acquisita attraverso un portato che proviene dalla realtà stessa. Ed è in fondo un modo di dare un nuovo fondamento alla tesi sostenuta da Holbach e dai materialisti del Settecento, che volevano la costruzione mitologica di questo essere superiore come risposta alla paura proveniente dall’aspetto distruttivo della natura. È l’insieme di questa realtà che condiziona l’idea di Dio. Oggi si conosce con maggiori dettagli qual è la strada percorsa dall’uomo per acquisire la nozione di Dio. A confortare la tesi dell’innatismo, e conseguentemente la tesi che giustifica l’esistenza di Dio dal fatto che questa idea esiste nell’animo dell’uomo, è una serie di idee di tipo ministeriale delle quali Holbach fa una critica inserita nell’ottica del progressivismo materialista. Egli afferma che il fatto che l’idea di Dio sia diffusa nel mondo, in situazioni molto diverse, non prova per nulla la necessità dell’idea stessa, al contrario prova l’esistenza di molte differenze fra le diverse idee di Dio, differenze dovute a un diverso influsso delle diverse realtà sull’uomo, e quindi prova la produzione di molte idee di Dio. Il fatto stesso poi che un gran numero di persone creda all’idea di Dio non è una prova della fondatezza di questa idea, perché dappertutto, nei tempi passati come anche oggi esistono idee assolutamente infondate o fantastiche che però sono ritenute reali. È il caso delle ideologie, le quali svolgono una funzione simile nella realtà, hanno influssi profondamente modificativi eppure sono produzioni fantastiche che trovano comunque il proprio fondamento nella realtà e nelle contraddizioni della realtà stessa. Così l’idea di Dio ha il proprio fondamento non in ciò che è suggerito dall’innatismo ma nelle contraddizioni della realtà stessa, contraddizioni che sono esistite da sempre e quindi hanno da sempre alimentato l’idea di Dio. Ora, l’idea di Dio così come la subisco oggi, come la posso constatare oggi, non è soltanto il prodotto delle contraddizioni sociali odierne, concetto importante che emerge dalle analisi di Holbach, ma è anche una conseguenza dell’idea di Dio che si è andata sviluppando nella storia. In altre parole, a costituire oggi il problema della religione non è soltanto una istanza presentata dalle contraddizioni della natura, ma anche una interazione di queste contraddizioni con il concetto tradizionale di Dio, come si è andato sviluppando nei secoli passati. Le risposte critiche che Holbach fornisce alle prove dell’esistenza di Dio di Samuel Clarke sono essenzialmente quelle del materialismo meccanicista del Settecento. La materia esiste fin dall’eternità, la materia esiste in quanto indipendente. Anche il concetto di mutabilità è ricondotto alla mutabilità compresa in un progetto che si sviluppa rimanendo sempre uguale a se stesso. La materia assume sempre forme diverse, ma resta sempre materia. L’altra tesi sarebbe quella della indistruttibilità della materia, ammettendo solo la possibilità di cambiamento, di formazione. Ancora una ulteriore tesi è quella della non spiegabilità dell’esistenza della materia stessa partendo dal concetto di causa e cioè dall’ipotesi che la materia esiste necessariamente in quanto, nell’eventuale caso della sua non esistenza non esisterebbe nemmeno il problema dell’esistenza in generale, il concetto stesso di esistenza. Infine un altro elemento del ragionamento è che esistendo da sempre e andando avanti all’infinito nel futuro, la materia è essa stessa infinita, la materia è intelligenza, ma nei termini in cui corrisponde al pensiero e ai sensi. Questi sono anch’essi materiali e pertanto non possono essere considerati come qualcosa di diverso, o attribuiti a un essere diverso, se non nell’ipotesi mitologica. Un altro punto preso in considerazione da Holbach è la presupposta libertà assoluta dell’essere particolare chiamato Dio. È possibile che questi non incontri nella sua azione degli ostacoli? In effetti, è praticamente impossibile. Perfino l’essere mitologico, inteso come assolutamente libero nel senso della sovrabbondante possibilità di azione è impossibile. Anche gli attributi del tiranno assoluto sono impossibili. I calcoli nell’uso di strumenti benefici o distruttivi sono sempre calcoli ciechi e non tengono conto di eventuali colpe o individuazioni di responsabilità. La possibilità stessa della libertà è legata nel pensiero di Holbach all’azione di determinate condizioni che provengono dalla realtà. Un ente non è libero se non realizza i propri bisogni, se non porta a completamento la propria felicità. Ma, sia il concetto di bisogno che quello di libertà sono limitativi, non possono quindi essere attribuiti all’ente particolare chiamato Dio. Non si può parlare della libertà di Dio negli stessi termini con cui si parla della libertà dell’uomo, in quanto l’azione di Dio nel mondo non può essere considerata modificativa della propria realtà, non può essere considerata un fare che subisce l’influsso delle condizioni della realtà stessa, non può essere considerata nel senso naturale del termine. Si tratta di un fare particolare che ha tutte le caratteristiche della dimensione mitologica. Questo tipo di dimostrazione è fondato sul fatto che è la materia a dettare le condizioni dell’esistenza e che l’esistenza stessa è di tipo relazionale, cioè determinata da possibili modificazioni e non da una staticità assoluta e onnicomprensiva. L’altro elemento critico sviluppato da Holbach è quello relativo all’idea di perfezione. Non c’è dubbio che questa idea è considerata impossibile in funzione del concetto di progresso. La perfezione è un’idea limite che viene collocata dal pensiero materialista del Settecento alla fine di un processo di sviluppo che corrisponde sia all’evoluzione della natura sia al processo storico, considerato quest’ultimo come elemento infinitesimale dell’evoluzione della natura nel suo insieme. Il concetto di perfezione assume in questo modo un aspetto quantitativo che ingloba tutti gli elementi che vengono a conclusione nell’arco del processo dell’evoluzione naturale. Oggi so che questa concezione non può considerarsi reale perché la realtà, in quanto potenziale totalità degli eventi e delle relazioni possibili è sempre tutta compresente. Considerando questo insieme come una totalità organica, naturale, materiale, ho un concetto di perfezione possibile all’interno del finito stesso, senza ricorrere a un processo lineare sviluppato all’infinito né a un ente mitologico a posteriori e da cui si dipartono le volontà modificative della realtà. «Gli uomini si trovano d’accordo anche sulla natura della felicità. Tutti convengono nell’identificarla con il piacere, o quanto meno nel ritenere che deve a quest’ultimo ciò che ha di più vivace e di più delizioso. Una felicità che il piacere non ravvivi ad intervalli, sulla quale il piacere non versi i suoi favori, non è tanto vera felicità quanto uno stato tranquillo: ed è, quella, una ben povera felicità. Se siamo lasciati in una neghittosa indolenza, nella quale nulla si offre alla nostra attività, non possiamo essere felici. Perché i nostri desideri siano esauditi, dobbiamo scuoterci dall’assopimento in cui languiamo: dobbiamo far colare la gioia fin nel più intimo del nostro cuore, animarlo con sentimenti gradevoli, agitarlo con dolci scosse, imprimergli movimenti deliziosi, inebriarlo dei trasporti d’una voluttà pura, che niente possa alterare. Ma la condizione umana non comporta un simile stato: non tutti i momenti della nostra vita possono essere pervasi di piacere, e anche lo stato più delizioso conosce molti intervalli di stanchezza. Quando un sentimento ha perso la sua prima vivacità, il meglio che possa accadergli è di diventare uno stato tranquillo. La nostra felicità, anche la più perfetta che ci sia consentita sulla terra, non è dunque – come abbiamo detto dapprincipio – altro se non uno stato tranquillo, disseminato qua e là di piaceri che ne ravvivano il fondo». (Yvon Pestré, Enciclopedia, voce Felicità). La felicità è la vera vita vissuta in modo scintillante, un istante di felicità è fisiologicamente un’avventura che il corpo non può vivere senza trasformarsi radicalmente, malgrado tutte le cautele di una coscienza diversa che vive l’esperienza dell’assolutamente altro come una grande incognita. Con calma, il canto di Nietzsche si alza alla tragicità dell’azione, drappeggia il proprio vessillo, essenza della vita, esatto contrario del pessimismo, eppure derivante da una costola di quest’ultimo, intenso come critica negativa di tutto quello che l’abiezione del fare può produrre. La felicità è sovrabbondante e dispendiosa, ha lo sguardo pazzo, non calcola, non pensa al futuro, non accumula o accantona, non ha preoccupazioni di sicurezza. L’eccesso è la spinta all’allontanamento dalla cautela, desiderio di prendere dentro tutti i rischi possibili, quindi si presenta sempre come conflitto con tutto quello che di ritardatario c’è nel fare, nessuna consolazione o patteggiamento col nemico, nessuna resa, mai. So bene che questo pensiero conduce alla soglia della domanda fondamentale, tutto qui? e so bene che la mia struttura fisica ha i suoi limiti, quindi che risponderò negativamente, tornando indietro, so bene che dentro il mio coraggio, resta il nero grumo della vigliaccheria, ma non sono io l’assoluta libertà, sono un passaggio, una danza dell’assenza, un ponte lanciato nel futuro. Mi basta la rinuncia a qualsiasi tipo di condivisione, non testimone dell’oscenità del potere, ma suo irriducibile nemico, non termine di paragone, ma contrasto e distruzione. Quello che posso fare è solo una preparazione all’agire, quello che posso realizzare nell’agire come trasformazione, è una preparazione alla futura rammemorazione, quello che con la rammemorazione suggerisco è portare alla luce ciò che sta nascosto nella parola, che l’azione può avere semplicemente sfiorato oppure anche sconvolto, questo non lo so, e nella rammemorazione aspettare la proposta del destino, la nuova possibilità. Gli uccelli propagano la mia avventura dappertutto. Lievi fruscii di ali ripetono le mie parole nascondendo la loro povertà, a che i poeti in tempo di povertà? Mangio un pane che non è mio e che non ho rubato. Mi è stato dato attraverso le sbarre della cella. Odio quel pane che mangio, la scodella dove mangio mi disgusta. Aspetto le nubi della pioggia per scaricarlo via, un pezzo di legno che andrà verso il Nord, dove il sole tarda ad arrivare. «Per spiegare il meccanismo della felicità, non consulteremo che la natura e la ragione; i soli astri capaci di illuminarci e di condurci, se sappiamo aprire gli occhi dell’anima ai loro raggi, tenendoli invece ben chiusi di fronte a quei miasmi avvelenati, che costituiscono come l’atmosfera del fanatismo e del pregiudizio. Veniamo al punto. I nostri organi sono suscettibili alle sensazioni e alle modificazioni che ci fanno amare la vita. Se l’impressione di tali sentimenti è breve, si ha il piacere; se più lunga, la voluttà, se permanente, la felicità; si tratta sempre della stessa sensazione, che non differisce se non per durata e vivacità. Più un sentimento è durevole, piacevole, delizioso, non interrotto o turbato, più si è felici. Tanto più esso è breve e vivace, tanto più è vicino alla natura e ha il carattere del piacere. Tanto più è lungo e calmo, tanto più se ne allontana, avvicinandosi alla felicità». (Julien Offroy de Lamettrie, L’homme machine, op., cit., p. 58). La felicità, o come si preferisce definirla oggi, la coscienza di me stesso, mi sfugge per paura. La paura è certo effetto dell’immaginazione davanti a quello che sono abituato a considerare un pericolo: un uomo armato che mi assale, mi spaventa. Ma questa reazione è molto complessa ed è costituita da due forze che si contrastano dentro di me, una di difesa che fa appello a tutte le mie risorse, anche di natura ormonale, prima fra tutte l’attenzione, e l’altra, contraria, che mi suggerisce di fuggire o sottomettermi. Ecco perché il coraggio non è che una paura controllata e ridotta a termini patologicamente accettabili. Personalmente ho notato che l’uomo che attacca, avendo paura anche lui, si carica di aggressività, quindi mette in moto funzioni ormonali che lo fanno puzzare. Ho un naso troppo ricettivo per non sentire questa puzza, ed è puzza di paura. Il disgusto per l’uomo che ha paura non è certamente esente da questa puzza, che sento nell’altro, anche nell’attaccante, questo spaventoso odore non può che provocare disprezzo. Alla lunga la dilagante indifferenza alle trasformazioni porta a una sorta di adattamento apatico, il fare è routine e questa rinfocola la disperazione che si vede circondata da sentenze di rifiuto della lotta e di non belligeranza. Ogni barlume di diversità che qua e là si può individuare nei residui, alla fine resta confinato nella propria assurda indecifrabilità e smette di fornire materiale di interpretazione o di critica negativa. La chiacchiera e la fretta obnubilano il mondo da me creato, lo cullano nella noncuranza, nel destino chiuso e definito una volte per tutte, l’insensatezza circonda e carica di significato il senso. Tutte le mie risposte intenzionali non sono più dirette a intuire la possibile differenza, ma a risuonare all’interno del fare nella notte, sfigurate dall’inquietudine e dall’incompletezza. Lo scontro fisico ha qualcosa di animalesco dove gli odori giocano un ruolo quasi altrettanto importante che nell’atto sessuale. *** Capitolo diciassettesimo: Origine delle idee sulla Divinità «Il male è necessario all’uomo, senza di esso egli non conoscerebbe il bene, non valuterebbe nulla, non avrebbe possibilità di scelta, di volontà, di passione, di desiderio, nessun motivo di amare o di temere, egli sarebbe un automa non un uomo. «La visione del male nel mondo ha fatto sorgere la Divinità. Una grande quantità di mali, di accidenti, di malattie, di disastri, di terremoti, di alterazioni della superficie terrestre, di inondazioni, di conflagrazioni causate da fratture nel terreno. Quali idee ha mai potuto farsi della causa irresistibile capace di produrre effetti di tale portata? Certo non poteva supporre la natura come autrice di quello stesso disordine che la turbava, per cui non vedendo nella realtà agenti di tale potenza da causare simili conseguenze, l’uomo si rivolse al cielo, supponendo che in un luogo lontano potessero esistere agenti sconosciuti la cui inimicizia distruggeva quaggiù la sua felicità. «L’idea di questi agenti tanto potenti venne sempre associata a quella del terrore. «In pratica noi giudichiamo gli oggetti che ignoriamo servendoci di quelli che conosciamo. L’uomo presta quindi la sua volontà, la sua intelligenza, i suoi piani, i suoi progetti, le sue passioni, ecc., a ogni causa sconosciuta che sente agire su di lui. Sensibile alle lodi e ai regali, li impiega per propiziarsi la Divinità. «La cura delle offerte fu devoluta ai vecchi, si costruì una messa in scena per queste offerte. Dopo, la messa in scena divenne costume. In questo modo si formarono il culto e il sacerdote. «Questi sistemi sono stati modificati dallo spirito umano che lavora sempre senza tregua sugli oggetti sconosciuti, a questi comincia con l’attribuire una grandissima importanza che poi non sa quasi mai approfondire a sangue freddo. «A seguito di queste idee la natura è risultata impoverita del suo potere. Infatti l’nono non può immaginare che questa natura lo faccia soffrire se non mossa da una potenza nemica della sua felicità avente dei buoni motivi per affliggerlo e per punirlo». L’Illuminismo approfondisce il determinismo impiegato dalla teologia come una delle prove dell’esistenza astratta di Dio. Sostiene questa prova che una necessità fisica assoluta, sempre uguale dappertutto e che si estrinsechi in una molteplicità di effetti è praticamente impossibile se non la si attribuisce a un motore capace di produrre appunto questa necessità fisica in forma costante e sufficientemente potente. Holbach si limita a ricondurre questa diversità fisica all’interno della teoria del movimento, vista in modo strettamente meccanicistico. Ma il concetto di movimento in questo filosofo è molto ristretto, esiste all’interno della natura un principio vitale che garantisce il movimento stesso, ma sulla causa di questo principio egli è abbastanza incerto. Oggi posso riflettere meglio sulle condizioni stesse del pensiero del materialismo del Settecento, arrivando alla conclusione che in effetti Holbach poteva sviluppare il pensiero parlando del movimento come relazione fra le diverse parti che costituiscono la natura, compreso l’uomo. A questa conclusione egli è arrivato solo in certi casi, come quando ha parlato dell’azione positiva o negativa della natura e dell’influsso che un certo modo di agire della collettività esercita sulla possibilità del singolo di arrivare al raggiungimento della felicità. Il concetto di movimento di cui parla non si mantiene solo nella ristrettezza della definizione determinista, ma ha qualcosa di più, sviluppa cioè tutte quelle intuizioni che egli riesce ad avere, sebbene non in maniera coerente e in un sistema ordinato. Il concetto di movimento che contribuisce a negare la presunta prova dell’esistenza di Dio di cui sto discutendo qui è il concetto di relazione. In merito all’evoluzione, cioè allo sviluppo e alla differenziazione dei diversi animali e dell’uomo stesso, Holbach ribatte alla credenza religiosa affermando che questa certamente non perfetta realtà non può essere considerata come uno degli elementi che provano la perfezione divina. Però, ancora una volta egli incappa in una variante del concetto di perfezione che non è quella che è possibile ricavare dalle sue stesse tesi, quando parla di perfezione nel senso di raggiungimento dei propri interessi e dei propri bisogni in funzione della soddisfazione dei bisogni e degli interessi dell’intera collettività, o del più gran numero di persone. Ne consegue che l’esperienza ricavata dall’uomo nella realtà è un’esperienza di imperfezione che contrasta profondamente con il concetto di perfezione che viene attribuito al Dio creatore. Da ciò Holbach arriva alla conclusione che la malvagità e l’incapacità sono alla base della realtà ed è esattamente questo aspetto che viene veicolato nel mito dell’ente superiore, convogliato poi nella dimensione unica dell’ente dispensatore nello stesso tempo di distruttività e costruttività. «Adorare, onorare, riverire; questi tre verbi sono usati sia per il culto religioso sia per quello civile. Nel culto religioso, si adora Dio, si onorano i Santi, si riveriscono le reliquie e le immagini. Nel culto civile, si adora un’amante, si onorano le persone oneste, si riveriscono le persone illustri e quelle che hanno meriti particolari. Nella sfera religiosa, adorare è rendere all’essere supremo un culto di dipendenza e d’obbedienza; onorare è rendere ad esseri di grado inferiore, ma sempre spirituali, un culto d’invocazione; riverire è rendere un culto esteriore di rispetto e di cure a cose materiali, in ricordo degli esseri spirituali ai quali esse hanno appartenuto. Nella sfera profana, si adora dedicandosi interamente al servizio della persona amata, ammirandone persino i difetti; si onora con le attenzioni, i riguardi, le gentilezze; si riverisce dimostrando alta stima e una considerazione non comune. Il modo di adorare il vero Dio non deve mai discostarsi da ciò che è ragionevole, poiché Dio è l’autore della ragione, e ha voluto che gli uomini se ne servissero anche nei giudizi relativi a ciò che conviene fare o non fare nei suoi riguardi. Forse non si onoravano i Santi, né si veneravano le loro immagini e reliquie, nei primi secoli della Chiesa – diversamente da quanto si è fatto poi – per l’avversione che si portava all’idolatria e per la cautela nei confronti di un culto i cui precetti non erano abbastanza formali». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Adorare). La sottile ironia di Diderot si manifesta qui in maniera egregia mettendo sullo stesso piano il rapporto di adorazione nei confronti della divinità con quello che riguarda la donna amata. Modo delizioso per abbassare l’albagia della prima e riscattare la materialità dell’amore profano. Le parole che parlano dell’immediatezza o della diversità, quindi del fare o dell’agire, sono sempre parole, esse concernono il fare ma non l’agire, quando le indirizzo verso l’agire è della rammemorazione che sto mettendo in piedi il meccanismo incredibile e affascinante. In questi due ambiti, differenti tra loro come la notte e il giorno, ma ambedue appartenenti alla modificazione e all’interpretazione critica, la parola assume una importanza fondamentale, e le vecchie discussioni metafisiche, scrostando loro di dosso la polvere dei secoli, tornano a una certa importanza, mi stanno vicine, le sento con piacere, come se fossero in grado di insufflare nelle mie vene un infinito istantaneo, perché capaci di uno sfogo intrinseco, come l’urlo di terrore davanti alla mostruosità, o il conforto che viene dalla persuasione, la carezza dell’amore, l’ultimo respiro del morente. Queste parole possono tornare in vita, la metafisica no, almeno no nelle sue pretese totalizzanti, tornare in vita per divorare lo spazio che resta prima dell’oltrepassamento, lo stesso spazio dove una volta si erigevano i roghi e si godeva della morte del povero Giulio Cesare Vanini. Lo scavo continuo non garantisce un risultato qualsiasi. Approfondisco per il piacere di farlo, tallono le parole una a una, ma sono solo parole, le flagello ma non cavo da loro una goccia di sangue. Garantirsi un risultato è un modo come un altro per poggiare i piedi su qualcosa che si ritiene solido, ma che tale non è. Solo i profeti hanno certezze, solo loro sanno sgrovigliare le anguille del futuro, io possiedo una certa riluttanza ad accettare sorveglianze speciali. Riguardo la qualità non c’è una piccola chiave nascosta da qualche parte, non c’è una conclusione placida e rassicurante, non appena mi avvicino la qualità mi mette in subbuglio e mi chiede se possiedo una guida occulta. E siccome la mia risposta è negativa la qualità si rinchiude nella sua prigione assoluta da cui è stupido attendere passivamente messaggi. «Non perdiamoci nell’infinito, non siamo fatti per averne la benché minima idea; ci è assolutamente impossibile risalire all’origine delle cose. È perfettamente lo stesso, per la nostra tranquillità, che la materia sia eterna o che sia stata creata; che ci sia un dio o che non ci sia. Quale follia tormentarsi tanto per qualcosa che è impossibile conoscere, e che non ci renderebbe affatto più felici quand’anche ne venissimo a capo. Un mio amico, pirroniano schietto quanto me e uomo di molto merito, mi diceva: è bensì vero che il pro e il contro non devono turbare l’anima di un filosofo, il quale si rende conto che nessuno dei due è dimostrato con sufficiente chiarezza da costringerlo all’assenso; tuttavia l’universo non sarà mai felice finché non diverrà ateo. Se l’ateismo fosse generalmente diffuso, tutte le confessioni religiose sarebbero distrutte e troncate alla radice. Più nessuna guerra teologica, più nessun combattente per la religione; terribile combattente! La natura liberata da un tremendo veleno riprenderebbe i suoi diritti e la sua purezza. Sordi a ogni altra voce, i mortali si limiterebbero a seguire tranquillamente i consigli spontanei della loro natura, i soli che non si possono impunemente disprezzare e che possono condurci alla felicità per i fioriti sentieri della virtù». (Julien Offroy de Lamettrie, L’homme machine, op. cit., p. 60). Questo grido di sofferenza deriva da una condizione oggi inimmaginabile. Le odierne guerre di religione sono non paragonabili a quelle del XVIII secolo o dei secoli precedenti. Allo stesso modo, il potere delle Chiese cattolica e riformata è stato di molto circoscritto e non potrà mai più assumere i connotati di una volta. Questa riduzione, importantissima per la libertà dell’uomo, è in parte dovuta a questi uomini che affrontavano rischi gravissimi spinti solo dal bisogno di affermare la loro tesi. Come sempre accade, in questi casi, si cade dall’altro lato dell’asino. C’è un momento in cui sento di potere cogliere nel fondo della mia coscienza immediata, una intenzione sia pure vaga, una intenzione che non ha bisogno di parole, tanto meno di parole di pretesa verità. Bisogna lasciarla fluire, andare via come l’olio, eppure la paura di cogliere l’incomprensibile a volte è tanta che parlo senza volerlo, un nugolo di giustificazioni emerge dal profondo di me stesso e mi pone là come una segnaletica stradale a dirmi che fare. Il sadismo è mostruosamente umano, perfettamente umano, tutti ne sono dotati. Alle sante succhiatrici delle piaghe dei lebbrosi non è mai balzato in mente l’offesa sadicamente spietata che infliggevano a quei poveretti in attesa della prossima secrezione purulenta. La tirannia della giustificazione nasce sempre dalla paura e vorrebbe mettere a posto le cose, non vi riesce mai, questo è ovvio, ma puntualmente ritenta senza interruzioni. *** Capitolo diciottesimo: Della mitologia e della teologia «La prima cosa che gli uomini adorarono fu la natura, svilupparono le allegorie, personificarono ogni parte della natura. Ecco sorgere Saturno, Giove, Apollo, ecc. Il popolo non può comprendere che furono proprio le parti della natura ad essere sopraffatte dalle allegorie. Ben presto non fu più possibile riconoscere l’origine che aveva fatto concretizzare gli dèi. Dell’energia della natura si fece un essere incomprensibile e lo si chiamò motore della natura stessa. Lo si distinse da tutti gli altri esseri e in questo modo si arrivò a considerare la natura come qualcosa di incapace ad agire. «Si commise così l’errore di rivestire questa forza immaginaria di qualità, se ne fece un essere, cioè uno spirito, una intelligenza, un ente incorporeo, in definitiva una sostanza del tutto differente da quella che conosciamo. Gli uomini non potevano attribuire a questo essere che le idee di cui erano in possesso, infatti tutto ciò che essi chiamano perfezione costituì il modello, in piccolo, delle perfezioni divine. «Per cui a questo essere si attribuì una bontà, una saggezza, un potere senza limiti, secondo l’ordine che credettero vedere regnare nella natura, secondo gli effetti meravigliosi che vi videro operare. «Ma, d’altro canto, come non attribuire a questo essere la malizia, l’imprudenza, il capriccio, vedendo i disordini e i mali di cui il mondo è tanto spesso teatro? Si è voluto eliminare la difficoltà creandogli dei nemici. Sorsero gli angeli ribelli, che non possono essere ridotti all’impotenza malgrado la grande forza che si attribuisce all’essere di cui si discute. Lo stesso si suppose in merito agli uomini che lo offendono. «Tuttavia, credendo di scoprire in questo modo la causa delle miserie umane, non si poté ignorare che spesso uomini giusti erano stati colpiti da ciò che veniva indicato come un castigo di Dio. «Si pretese pertanto che avendo l’uomo peccato, Dio si potesse vendicare sugli innocenti, allo stesso modo degli iniqui tiranni presso cui i castighi si proporzionavano più alla grandezza e alla potenza dell’offeso che alla grandezza e alla realtà dell’offesa. I peggiori degli uomini sono serviti quindi da modello a Dio e le più ingiuste tirannie sono servite da modello alla sua amministrazione divina». L’analisi della causalità è sviluppata nei termini classici dal determinismo dalla filosofia materialista del Settecento. Ogni cosa è stata prodotta dalla natura. Anche i processi che non riesco a spiegare o perlomeno che non riesco ancora a spiegare, potranno successivamente essere spiegati, allo stesso modo in cui un selvaggio, che non capisce come possa costruirsi un orologio e vedendolo diverso da tutto quello che uomini come lui sono capaci di fare, finisce per concludere che non si tratta di una produzione umana e conseguentemente nemmeno naturale. Questo tipo di ragionamento riporta alla conclusione determinista, non esistono fatti che non abbiano una loro causa. Non esistono cause fuori della natura. Quando non conosco le cause, queste potranno essere conosciute in futuro. Tutto quello che definisco caso è solo una cattiva conoscenza delle cause. Si elimina così dall’orizzonte della realtà il significato del caso il quale resta appunto, come dice Holbach, una parola priva di senso. Oggi la scienza ammette come da determinate cause vengano fuori effetti che hanno caratteristiche abbastanza costanti anche al variare delle cause stesse. Da questa conoscenza sono arrivato a dovere ammettere che la legge di causalità così come è stata formulata dal materialismo determinista non ha ragione di essere. In effetti, fra causa ed effetto è possibile soltanto un riferimento indicativo, una indicazione di comportamento per chi deve agire che può ridursi alla ristrettezza intellettuale di un modello. La negazione dell’esistenza di Dio non può realizzarsi attraverso un meccanismo determinista. L’elemento teleologico che resta intrinseco al ragionamento del determinismo materialista traduce, in termini consequenziali, finalistici, di perfettibilità, tutte le condizioni di parzialità e approssimazione che ricavo da una indagine concreta. Il problema effettivo non è quello proposto da Holbach, se affidandosi al caso, mettendo insieme le lettere dell’alfabeto, si possa arrivare alla composizione dell’Iliade, così come non è corretta l’ipotesi che cerca di affidare al caso la nascita di un uomo come Omero deducendola da una serie di eventi naturali non meglio identificati. Non è la natura, o per lo meno non è un caso della natura a produrre il cervello di Omero, il suo temperamento, la sua immaginazione, ma una serie di relazioni naturali e sociali che producono circostanze che risultano praticamente irripetibili. Ora, considerare finalizzata la natura alla realizzazione di queste determinate circostanze è ovviamente una pretesa insostenibile da parte del materialismo. Un’affermazione poderosamente inconclusa. Il caso riemerge non come eventualità impossibile a prevedere, ma come una delle possibili linee di sviluppo di un insieme di relazioni che continuano a interagire tra di loro, e che mantengono questa capacità anche diffondendosi all’infinito. «Agnus scythicus. Kircher è il primo che abbia parlato di questa pianta. Riferirò innanzi tutto ciò che ha detto lo Scaligero, per far conoscere che cos’è l’agnus scythicus; poi Kempfer e il dotto Hans Sloane ci diranno che cosa dobbiamo pensarne. Nulla, dice Giulio Cesare Scaligero, è paragonabile al mirabile arboscello di Scizia. Esso cresce principalmente nello Zaccolham, celebre tanto per l’antichità quanto per il valore dei suoi abitanti. In questo Paese si semina un seme somigliante a quello del melone, tranne che è meno oblungo. Da questo seme nasce una pianta alta circa tre piedi, cui si dà il nome di boramets, cioè agnello, perché somiglia esattamente a quest’animale per i piedi, le unghie, le orecchie e la testa; le mancano solo le corna, al posto delle quali ha un ciuffo di pelo. È coperta d’una pelle leggera, di cui gli abitanti fanno berretti. Si dice che la sua polpa somiglia a quella del gambero di mare, che ne sgorga sangue quando vi si fa un’incisione, e che ha un sapore dolcissimo. La radice della pianta si spinge molto lontano nel terreno; ciò che la fa apparire più prodigiosa, è il fatto ch’essa trae nutrimento dagli arboscelli circostanti, e muore quando questi muoiono o qualcuno viene a strapparli. Il caso non ha alcuna parte in questo: la pianta è morta ogniqualvolta è stata privata del nutrimento che trae da quelle vicine. Altra meraviglia, i lupi sono gli unici animali carnivori che ne siano avidi. (Né poteva essere diversamente). Dal seguito, si vede che lo Scaligero ignorava, su questa pianta, solo il modo in cui i piedi si formano ed escono dal tronco. Ecco la storia dell’agnus scythicus, o della pianta meravigliosa dello Scaligero, di Kircher, di Sigismondo di Herbestain, di Rayton Armeno, di Surio, del cancelliere Bacone (del cancelliere Bacone, notate bene questa testimonianza), di Fortunio Liceti, di Andrea Libavio, di Eusebio di Nieremberg, di Adamo Olearius, d’Olaus Vormius e di un’infinità d’altri botanici. Possibile che quando tante autorità ce ne attestano l’esistenza, quando lo Scaligero – al quale restava da sapere solo come si formassero i piedi – ci fornisce tanti particolari, possibile che l’agnello di Scizia sia solo una favola? Che cosa credere, in istoria naturale, se di favola si tratta? Hans Sloane dice che l’agnus scythicus è una radice lunga più d’un piede, con protuberanze dall’estremità delle quali escono alcuni steli lunghi all’incirca da tre a quattro pollici, e abbastanza simili a quelli della felce; dice che gran parte della sua superficie è coperta d’una peluria nero-giallastra, lucente come seta, lunga un quarto di pollice, usata come rimedio contro gli sputi di sangue. Aggiunge che in Giamaica si trovano parecchie piante di felce che diventano grosse come alberi e che sono coperte d’una specie di peluria simile a quella che si vede sulle nostre piante capillari; e che del resto sembra che si sia usata dell’arte per dar loro la figura d’agnello; infatti le radici somigliano al corpo, e gli steli alle zampe di questo animale. Ecco dunque tutto il prodigioso dell’agnello di Scizia ridotto a nulla, o quanto meno a ben poca cosa: a una radice villosa a cui si dà la figura – o pressappoco – d’un agnello ritoccandone i contorni». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Agnus scythicus). La smania di fondatezza ha sempre un effetto perverso che si ribalta nella incapacità di capire che il fare è solo la mitologizzazione del presente, la modificazione l’illusione produttiva che il mondo da me creato rielabora senza sosta. Non c’è un itinerario visibile nel mito che non indichi un vettore privilegiato di salvezza. Il destino incombe come una nube nera gravida di cattivi presagi su ogni possesso e lo illumina di una luce sinistra. Non guarda me, non mi sorride, mi accusa di avere approfittato del mondo e delle sue regole, di essermi ricavato un piccolo bene dove nascondermi. La mia capacità di agire, se è nel possesso che è andata a concludersi, tristemente accovacciata, mi è solo utile a fare di me un possessore. Il destino ha in odio i possessori. «Dovrebbe ora risultare evidente, almeno mi pare, che se c’è il principio attivo, deve esserci nell’ignota natura della materia qualcos’altro che non la semplice estensione; il che ci conferma nell’opinione che essa non è sufficiente a darci un’idea completa dell’intera natura o forma metafisica della sostanza dei corpi, per il fatto solo che esclude ogni idea di attività nella materia. Pertanto, se dimostreremo tale principio motore, se faremo vedere come la materia lungi dall’essere così indifferente come la si crede al movimento e alla quiete, deve invece essere considerata come una sostanza tanto attiva quanto passiva, quali argomenti rimarranno a chi fa consistere la sua essenza al mito dell’estensione?». (Julien Offroy de Lamettrie, Histoire naturelle de l’âme, op. cit., cap. II, par. 9). La pazzia peggiore, e più diffusa, è quella di volere essere diversi da quello che si è. Per questo motivo interrogo gli altri ansiosamente, leggo e aspetto risposte, mai la verità. Alle fantasie sull’agnus scythicus Diderot non risponde con la “verità”, semplicemente dimostra l’incongruenza di una fede nella mitologia, non nelle conseguenze che la fantasia mitologica ha nella realtà. Questo secondo tipo di indagine nemmeno la sapiente ironia dell’enciclopedista poteva affrontare. Se qualcuno, o qualcosa, dicesse la verità mi ribellerei rifiutandola. Ecco perché tutti rispondono in modo vago, ed è questa la moda del giorno, dei giorni nostri, vago e generalmente accettabile, ecco perché i libri danno risposte che più o meno vanno bene per tutti. Così il mondo è più tranquillo e continua a rimestare lo stesso fango. *** Capitolo diciannovesimo: Idee confuse e straordinarie della teologia «Si dice che Dio è buono, ma Dio è l’autore di tutte le cose, bisogna quindi attribuirgli tutti i mali che colpiscono la specie umana. Il bene e il male suppongono due princìpi, per cui bisogna convenire che se Dio è il principio unico, egli è alternativamente buono e cattivo, senza soluzione di continuità. «Si afferma che Dio è giusto e che i nostri mali sono il castigo delle ingiurie che egli ha ricevuto dagli uomini. In questo modo l’uomo avrebbe il potere di fare soffrire un Dio. Ma per offendere qualcuno bisogna avere dei rapporti con lui, in quanto offendere significa fare provare un sentimento di dolore; e come mai una debole creatura, che ha ricevuto da Dio il suo essere, potrebbe agire contro la volontà d’una forza irresistibile, che non indulge mai al disordine e al peccato. «La giustizia suppone una disposizione a rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto; ma ci dicono che Dio non deve nulla agli uomini, che può, se crede, senza disturbare la sua giustizia interna, gettare l’opera delle sue mani nell’abisso della miseria. I mali, ci dicono, sono passeggeri, esistendo solo nel tempo. È per il bene che Dio castiga le sue creature; ma, se è buono, può vederle soffrire anche per un tempo più o meno breve? Avendo egli fatto tutto che bisogno ha di provare i suoi favoriti, non avendo nulla da temere? Essendo onnipotente perché s’inquieta dei vani complotti tentati contro di lui? «Può esistere un uomo dabbene che non desideri la felicità dei suoi simili? Perché Dio non fa la felicità degli uomini? Per contro non c’è nessuno che sia soddisfatto della sua sorte. Come risolvere il problema? I giudizi di Dio sono impenetrabili. Ma allora di quale diritto stiamo ragionando, come attribuire a Dio una virtù di cui non sappiano nulla perché non la possiamo penetrare? Quale idea possiamo avere di una giustizia che non rassomiglia per nulla a quella dell’uomo? «La sua giustizia è bilanciata dalla sua clemenza, la sua misericordia, le sue bontà; ma la sua clemenza non è altro che una deroga alla sua giustizia. Ora essendo egli immutabile può derogare sia pure per un istante? «Si dice che Dio ha creato il mondo a sua propria gloria. Ma, essendo superiore a tutto, che cosa può fare per la sua gloria? L’amore della gloria non è altro che il desiderio di dare qualcosa ai propri simili. Ma se è suscettibile dell’amore della gloria perché permette l’offesa? Per punirci di avere abusato delle sue grazie. Ma perché permette che si abusi delle sue grazie? Oppure perché queste grazie non sono sufficienti per farmi agire secondo le sue prospettive? Ciò avviene perché egli mi ha fatto libero, ma perché mi ha accordato una libertà di cui doveva sapere che avrei abusato? «È in conseguenza di questa libertà che la maggior parte degli uomini saranno puniti eternamente degli errori commessi in questo mondo. Ma perché mai applicare supplizi eterni per un crimine passeggero? Che cosa diremmo di un re che punisce senza fine un suddito che in stato di ubriachezza ha lievemente colpito la sua vanità, senza però arrecargli alcun danno vero e proprio, soprattutto quando sia stato proprio lui stesso a prendersi cura di ubriacarlo? Considereremo onnipotente un monarca che ad eccezione di qualche fedele suddito, subisca tutti i giorni il disprezzo delle sue leggi, l’insulto, la mancata esecuzione delle sue volontà? «A queste obiezioni si risponde che le qualità di Dio sono così eminenti, così diverse dalle nostre, che esse non si possono porre in rapporto con le qualità che si trovano negli uomini. Ma in questo caso come è possibile farsene un’idea? Perché la teologia pretende enunciarle? «Ma Dio ha parlato ed è stato lui stesso che si è fatto conoscere dagli uomini. Quando e a chi? Dove sono questi divini oracoli? In raccolte assurde e discordanti. Io trovo che il dio della saggezza ha parlato un linguaggio oscuro, insidioso, irragionevole; che il dio della bontà è stato crudele e sanguinario; che il dio della giustizia è stato ingiusto e parziale, ha ordinato l’iniquità; che il dio della misericordia destina i peggiori castighi alle vittime della sua collera. «I rapporti tra gli uomini e Dio non si possono fondare che sulle qualità morali. Se queste qualità sono sconosciute agli uomini esse non potranno loro servire da modello. Infatti come si potranno imitare? «Nessuna proporzione tra Dio e gli uomini, senza proporzione, nessun rapporto. Se Dio è incorporeo come agisce sui corpi, come dei corpi possono agire su di lui, offenderlo, turbare il suo riposo, scatenare la sua collera? Se il vasaio si irrita contro il vaso che ha costruito perché l’ha fatto deforme, deve prendersela soltanto con se stesso che così l’ha fatto. «Se Dio non deve nulla agli uomini, questi non devono nulla a lui, i doveri sono fondati sui bisogni reciproci. Se Dio non ha bisogno degli uomini, non ha doveri verso di questi e non può essere da questi offeso. La sua autorità non è fondata che sul bene che ha fatto agli uomini, mentre i doveri di questi sul bene che essi si attendono da lui. Se egli non deve per nulla questa felicità, tutti i rapporti sono annientati. «Supponendo in Dio tutte le virtù umane in un grado infinito di perfezione, possiamo abbinarle con i suoi attributi metafisici? Essendo puro spirito come può agire in modo simile all’uomo che è un essere corporale? Un puro spirito non vede, non sente né le nostre preghiere né le nostre grida, non può fermarsi sulle nostre miserie, essendo privo degli organi attraverso i quali il sentimento della pietà può, essere esercitato. Immutabile, le sue disposizioni non possono cambiare. Egli non è per nulla infinito se la natura intera, senza essere lui, può esistere congiuntamente con lui. Non è onnipotente in quanto permette e non previene il male e il disordine nel mondo. Non è onnipresente in quanto non è nell’uomo che pecca o egli si ritira nel momento in cui l’uomo commette peccato. «La rivelazione proverebbe la malizia. Ogni rivelazione suppone che Dio ha potuto lasciare il genere umano privo, per parecchio tempo, delle conoscenze necessarie alla sua felicità; fatta ad un piccolo numero di prescelti la rivelazione diventa una predilezione incompatibile con la sua bontà. La rivelazione distruggerebbe quindi la sua immutabilità, poiché suppone che egli ha fatto in un dato momento ciò che poi in un altro non ha più fatto o ha fatto in un modo diverso. D’altronde una rivelazione è misteriosa proprio per non essere intesa da tutti. Quando anche un solo uomo non fosse messo in grado di intenderla essa potrebbe di certo considerarsi un punto di appoggio per stabilire l’ingiustizia di Dio». Il deismo è affrontato criticamente dal materialismo meccanicista del Settecento. In effetti tra Dio così come l’immagina la mentalità mitologica popolare e la realtà, esiste un negletto abisso incolmabile. Tutto quello che può essere attribuito a Dio, un fare che pure avendo origine fantastica ha conseguenze concrete nella realtà perché influenza la vita, è in contrasto con il ritmo del cuore e dei singhiozzi del mondo reale. La presenza del concetto di Dio nella realtà rende ancora più acuta la contraddizione che esiste fra momento costruttivo e momento distruttivo nella natura. Considerare come lontana ed estranea l’esistenza di Dio, a prescindere dalle conseguenze che questa idea ha in modo diretto e concreto nella realtà di tutti i giorni, è una delle illusioni del deismo contro cui si sviluppa la critica di Holbach. Nell’ateismo attivo esiste quindi un rifiuto della sospensione del giudizio, della posizione agnostica specifica del deismo. Non è possibile non prendere partito nei confronti di un’idea che contribuisce a rendere più grave la situazione dell’uomo, ad acuire i mali della realtà e fornisce uno strumento di maggiore potere per coloro che gestiscono le sorti politiche della società. Se il detentore del potere riconosce nello strumento della religione un utile mezzo per mantenere il suo stesso potere è ovvio che questo mezzo va combattuto, in quanto il modello estremo del suo dominio è sempre il tiranno assoluto. Holbach intravede in questo la possibilità di mitigare lo scettro del governante attraverso l’idea razionalista tipica del Settecento che riteneva possibile attraverso lo sviluppo della ragione di creare uno Stato illuminato. Questa illusione è specifica dei filosofi del tempo di Holbach, ma egli con le sue tesi vuole colpire in primo luogo le illusioni di chi crede che la religione possa costituire un elemento di sollievo dei tanti mali, specialmente per lo sfruttato, per il sofferente, per il misero. La religione al contrario di trovare sollievo alle sofferenze, è uno strumento di addormentamento che impedisce allo sfruttato di potersi ribellare e quindi riconferma il dominio dello sfruttatore. Il corollario immediatamente conseguente alla dottrina del deismo è l’ottimismo, abbastanza diffuso nel pensiero del Settecento, dovuto alla diffusione della filosofia di Leibniz criticata in modo magistrale da Voltaire nel Candide. Una filosofia che considera la realtà come il migliore dei mondi possibili è criticata da Voltaire partendo dalla innegabile realtà del male. La natura è una realtà contraddittoria, non può essere definita bene in assoluto. In essa esistono le condizioni della creatività, della costruttività, ma anche, spesso in un modo lacerante e contraddittorio, le condizioni della distruttività, della malvagità. Non vale il ragionamento in base al quale l’idea di Dio è da considerarsi imperscrutabile e quindi la distruttività di molte situazioni reali presenti nella natura non sarebbe sottoponibile al comune giudizio umano. Ciò che importa all’individuo singolo, secondo Holbach, è di avere i mezzi per soddisfare i propri bisogni e costruire la propria felicità, scopi che possono essere seriamente impediti dallo sviluppo delle contraddizioni interne alla realtà. Ciò che l’individuo può estrinsecare non è quindi l’attesa di un beneficio da parte della natura o da parte di un qualche essere mitologico chiamato Dio, ma un fare che colga gli elementi interni alla natura stessa i quali sono in grado di fargli costruire il proprio bene e la propria felicità. L’individuo deve essere capace di considerare la natura per quello che è, cioè un insieme di mezzi che possono essere utilmente impiegati per raggiungere la felicità, ma nello stesso tempo deve anche considerare le conseguenze negative della presenza dell’idea di Dio nella realtà, conseguenze che si riassumono nell’acutizzarsi delle contraddizioni e nel costituire ostacoli al raggiungimento della felicità stessa. L’ostacolo principale in questo senso è il ritardo che l’idea di Dio causa nello sviluppo e nella diffusione della ragione. È difatti la ragione lo strumento principale che permette di approfondire in tutti i dettagli le contraddizioni della natura, di considerare gli elementi naturali come essi sono, cioè un miscuglio contraddittorio. «In qualunque modo s’immagini la formazione del mondo, non si devono mai perdere di vista due grandi princìpi: 1° quello della creazione; è chiaro infatti che, non potendo la materia darsi l’esistenza da sola, deve averla ricevuta; 2° quello di una intelligenza suprema che ha presieduto non soltanto alla creazione, ma anche alla disposizione delle parti della materia, disposizione in virtù della quale questo mondo si è formato. Una volta posti questi due princìpi, si può dar libera via alle congetture filosofiche, badando tuttavia a non staccarsi, nel sistema che si seguirà, da quello che il Genesi ci dice che Dio ha seguito nella formazione delle varie parti del mondo. Così, un cristiano deve respingere ogni sistema cosmogonico secondo il quale, ad esempio, i pesci siano esistiti prima del sole. Mosè ci insegna infatti che il sole fu creato il quarto giorno, e i pesci il quinto. Ma si avrebbe torto di tacciare d’empietà un fisico il quale pensasse che i pesci hanno abitato il globo prima dell’uomo, poiché è scritto che l’uomo fu creato l’ultimo giorno. Così, l’autore di una gazzetta periodica ha accusato scioccamente l’illustre segretario dell’Accademia delle Scienze di aver detto che i pesci furono i primi abitanti della terra; questo è infatti perfettamente conforme al racconto di Mosè. Ancora una cosa è consentito sostenere in base al racconto stesso di Mosè: che, prima della separazione operata da Dio delle diverse parti, esisteva il caos». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Cosmogonia). Il povero Diderot avvertiva ancora sulla propria pelle i segni della carcerazione a Vincennes, e non essendo un cuor di leone, cercava di trovare tutti i baluardi possibili per non incappare nei rigori della legge, visto anche il controllo continuo a cui era soggetto da parte della polizia. Il dire è un’ottima preparazione al rammemorare, mi insegna come perfezionarmi nella tortura di me stesso, come riconoscere questi sforzi, viverli fino in fondo, conoscerli, e poi necessariamente presentarli nella rammemorazione, farli intendere al destino, contrapporli al dire che non ammette confronti, quello dell’uno che è e non può non essere. L’abitudine a Dio è come tutte le altre, e anche peggio delle altre, spegne la passione che ha creato l’oggetto del desiderio, l’esistenza continua e si supporta con qualsiasi surrogato o simulacro. L’abitudine domina, non c’è modo di fuggire al suo dominio. Böhme è l’antitesi dell’abitudine, una scoperta vitale in tutte le direzioni, mancanza di legittimità, di coerenza, di significato, ma anche di meccanicità e pudore. La spudoratezza è l’anticamera dell’eccesso. Pentirsi è sempre una viltà, nel bene come nel male. Avrei potuto certo fare meglio tante cose ma non mi pento di come le ho fatte, senza per questo non avere la lucidità per distinguere gli errori, le vanità, le stupidaggini, le vigliaccherie e tutto il resto che gli spiriti deboli considerano positivo. «Credo sia risultato evidente che non mi sono permesso il ragionamento anche più solido e più immediatamente dedotto, se non dopo tutta una serie di osservazioni fisiche che nessuno studioso potrà contestarmi, del resto riconosco essi soli come giudici delle conseguenze che ne ho dedotto, rifiutando l’ingerenza di tutti coloro che sono schiavi dei pregiudizi, o che non sono anatomisti, o segueci della sola filosofia qui ammissibile, quella del corpo umano. Che potranno contro una quercia così robusta e solida, quelle deboli canne della teologia, della metafisica e delle scuole? Armi puerili, simili ai fioretti delle nostre sale di scherma, che possono sì divertirci, ma non possono colpire l’avversario». (Julien Offroy de Lamettrie, Histoire naturelle de l’âme, op. cit., p. 91). La parola elabora gli imbrogli più articolati per consentire di nascondere proprio quello che voglio dire. Avviene tutto in modo involontario. Non dico di essere necessariamente un imbroglione, anche se a volte lo sono, dico di imbrogliare con le parole per primo me stesso. Colto il carattere essenziale di questo raggiro della volontà, sono al centro della mia tesi più importante, come dire in modo da aggirare l’imbroglio senza accettare la volontà come controllo? Il rigore logico di questa possibilità è minimo, bisogna lasciare sulla soglia di questa avventura ogni sorta di certezza. Più osservo e studio la parola rammemorata e più mi rendo conto di avere sopravvalutato le sue capacità contenutistiche in termini di senso. Il fatto dipende dall’essere stato risucchiato nell’ambito modificativo, nei quartieri rigidamente controllati dalla volontà. Mi basterebbe una valutazione puntuale di riferimento, ma questa scorciatoia non è nel mondo da me creato, cioè nel fare coatto. Narcisisticamente mi ritengo in grado di riflettere questa straordinaria parola nello specchio di me stesso, ma si tratta di un riflesso opaco, non accettabile e non riportabile. Le sensazioni, per quanto ossessive, non costituiscono un canovaccio significativo di riferimento. L’aggressività nei riguardi della parola rammemorata non funziona, non consente cioè una penetrazione se non parziale, umbratile e spezzettata. Il dire dominante è governato dall’aggressività della volontà, ma riguarda solo l’apparenza delle immagini, non la vita vera e propria dell’uno che è e che non può non essere. E quella parola è di ciò che dovrebbe parlare, ma non può. La vita ha questo di incredibile, che è una tragedia recitata da un comico. *** Capitolo ventesimo: Esame delle prove dell’esistenza di Dio date da Clarke «Si dice che tutti gli uomini sono d’accordo sull’esistenza di un dio, il solo grido della natura è sufficiente a convincere che si tratta di un’idea innata. «Ciò che prova che l’idea di un dio è una nozione acquisita e non innata è dato dalla natura stessa di questa nozione, infatti essa varia da un secolo all’altro, da una contrada all’altra, da un uomo all’altro. La prova che si tratta, di un errore, è data dal fatto che gli uomini hanno potuto perfezionare tutte le scienze che avevano un oggetto reale e che la scienza di Dio è restata da sempre allo stesso punto. Non c’è nulla su cui gli uomini siano più divisi. «Se è vero che ogni nazione ha un culto ciò non prova per nulla la realtà di Dio. L’universalità di una opinione non è una prova della sua verità. Forse che tutto il mondo non ha creduto alla magia, agli spiriti? Prima di Copernico non credevano tutti che la terra era immobile e che il sole girava attorno ad essa? «L’idea di Dio e delle sue qualità non ha altro fondamento che l’opinione dei nostri padri, infusa in noi dall’educazione e da un’abitudine contratta fin dalla infanzia, fortificata dall’esempio e dall’autorità. In questo modo noi consideriamo innata nell’uomo l’idea della Divinità. «Abbiamo queste idee ma non ci siamo mai presi la preoccupazione di rifletterci sopra. «Il dottor Clarke è considerato come lo studioso che ha dimostrato nella maniera più convincente l’esistenza di Dio. Le sue proposizioni si riducono a queste: «1) Qualcosa esiste dall’eternità. «Sì, che è? di che si tratta? Perché non è la materia invece che un puro spirito? Ciò che esiste suppone che la categoria dell’esistenza gli sia essenziale, per cui ciò che non può annientarsi esiste necessariamente. La materia ha questa proprietà, per cui è essa che esiste da sempre. «2) Un essere indipendente e immutabile è sempre esistito dall’eternità. «Per prima cosa chi è questo essere? È indipendente della propria essenza? No, in quanto non può fare che gli esseri che produce, o che muove, agiscano diversamente di quanto devono fare a seguito delle proprietà che lui ha a loro donato. Pertanto un corpo è dipendente da un altro corpo sin quando gli deve la sua esistenza e il suo modo di agire: soltanto a questo titolo, la materia può essere dipendente dal primo fattore. Ora, se essa esiste dall’eternità, non deve la propria esistenza ad un altro essere; e, se è eterna o esistente da per se stessa, è evidente che in questa qualità racchiude tutto ciò che è necessario per agire: in altre parole la natura essendo eterna non ha bisogno di un motore. «È immutabile? No, in quanto un essere immutabile non potrà mai avere volontà o produrre delle azioni successive. Ora, se questo essere ha creato la materia o fatto nascere l’universo, vi fu un tempo in cui egli volle che questa materia questo universo venissero alla luce, e un altro in cui egli aveva voluto il contrario: in altre parole egli non è per nulla immutabile. «3) Questo essere eterno, immutabile e indipendente, esiste da per se stesso. «Ma per quale ragione la materia, che è anche indistruttibile, non esisterebbe anch’essa da per se stessa? «4) L’essenza dell’essere che esiste da per se stesso è incomprensibile. «Sì, ma è così anche l’essenza della materia. La Divinità, che non possiamo afferrare da nessun lato ci è più ignota e non possiamo in alcun modo concepirla. «5) L’essere che esiste necessariamente da se stesso è necessariamente eterno. «Ma la materia avrebbe questo in comune con un essere simile, perché volere distinguere questo essere dall’universo? «6) L’essere che esiste da per se stesso deve essere infinito e onnipresente. «Infinito, va bene, ma nulla ci dice che la materia non sia infinita. Onnipresente no. La materia occupa almeno una porzione dello spazio dalla quale la divinità resta esclusa. «7) L’essere esistente necessariamente è necessariamente unico. Se non vi fosse nulla al di là dell’apparenza sarebbe per forza unico, ma possiamo negare l’esistenza dell’universo? «8) L’essere esistente da per se stesso è necessariamente intelligente. «Ma l’intelligenza è una qualità umana, per avere intelligenza bisogna pensare, avere dei sensi. Possedendo dei sensi si è materiali, ed essendo materiali non si è puro spirito. Ma questo essere, questo gran tutto, ha un’intelligenza particolare che lo muove? Perché non si può assegnare questa intelligenza alla natura, dato che questa contiene degli esseri intelligenti? «9) L’essere esistente da per se stesso è un agente libero. «Ma non troverà degli ostacoli nell’esecuzione dei suoi progetti? Potrà volere che il male si attui senza poter intervenire? In questo caso, o esso non è libero o consente al peccato. Quindi non può agire che in conseguenza delle leggi della sua esistenza. La sua volontà è necessitata dalla saggezza e dalle intuizioni che in lui si suppongono: quindi non è libero. «10) La causa suprema di tutte le cose possiede una potenza infinita. «Ma se l’uomo è libero di peccare che cosa diventa la potenza infinita di Dio? «11) L’autore di tutte le cose deve essere necessariamente saggio. «Ma se egli è l’autore di tutto è anche autore di molte azioni che giudichiamo assai irragionevoli. «12) La causa suprema deve necessariamente possedere tutte le perfezioni morali. «L’idea della perfezione è un’idea astratta, è soltanto relativamente al nostro modo di vedere che una cosa ci pare perfetta. Una cosa ci pare buona quando siamo colpiti dalle sue opere e forzate a piangere dei mali che ci affliggono: è relativamente a queste opere che vediamo a fianco dell’ordine il disordine più completo. «Se si pretende che Dio non è nulla di ciò che può essere conosciuto dall’uomo, se nulla di positivo si può dire in merito, almeno deve essere permesso di dubitare della sua esistenza. Se è incomprensibile, potremmo mai essere condannati per non averlo compreso. «Ci dicono che il buon senso e la ragione sono sufficienti per convincerci della sua esistenza, ma contemporaneamente ci avvertono che la ragione è una guida infedele in queste materie. Pertanto la convinzione non sarà mai l’effetto dell’evidenza e della dimostrazione». Il sogno della conoscenza senza la scienza, perseguito ferocemente dall’Illuminismo in poi, torna ad aprirsi una strada cominciando a fare raccolta, fra i deboli e gli attendisti, massa di individui che non ha per niente l’intenzione di coinvolgersi uscendo dal proprio cerchio di garanzia. Un problema sorto con tutti i crismi della serietà e della buona fede per orientare la scelta e l’attività, trova così il massimo sviluppo proprio fra coloro che meno di tutti intendono allontanarsi dalla passività del semplice fare coatto. È la scomparsa dell’evidenza, che può essere sfruttata in tanti modi come panacea per un’accettazione senza rischi, e come stimolo per l’avventura, secondo l’uomo, più che secondo i suoi gusti. Appare chiaro che nel richiamarsi degli illuministi esclusivamente all’esperienza è da considerare negativo il bisogno di superare i limiti circoscritti dell’esperienza stessa per sviluppare ipotesi diverse, congetture che tengono conto di elementi differenti non derivabili dall’uso del ragionamento applicato ai dati della realtà. In questo modo si vuole ricondurre l’uomo al di dentro dei confini naturali, che gli vengono riconosciuti come suoi specifici confini. Perché si parte dal presupposto dell’identità tra ragione e natura e conseguentemente, ogni considerazione, riflessione, pensiero che esca fuori dai limiti dell’esperienza, diventa irragionevole e innaturale. Questa è la strada, la sola strada, tenuta presente da Holbach, la strada per fare diventare ragionevole l’uomo e quindi per farlo vivere felice, in armonia con la natura che, in questo modo, comincia a somigliare esclusivamente alla realtà data. Così la società finisce per confondersi con la natura senza tenere conto degli elementi estranei, innaturali che esistono nella società, quali sono appunto gli elementi delle strutture organizzate nella società stessa. L’accettazione di questi elementi allo scopo di garantire il benessere al singolo individuo significa rifiuto di ogni considerazione critica delle strutture di potere e ammissione del parallelo tra natura e progresso, fra sviluppo della società e ragionevolezza. «Empio è chi sparla d’un Dio che in fondo al cuore adora. Non va confuso con l’incredulo. L’incredulo è un uomo da compiangere; l’empio, un malvagio da disprezzare. I cristiani, che sanno come la fede sia il più grande dei doni, devono essere più circospetti degli altri uomini nell’applicazione di questo epiteto ingiurioso. Non ignorano che diventa una sorta di denuncia, e che si compromettono la fortuna, la pace, la libertà e addirittura la vita di colui che ci si compiace di definire un empio. Vi sono molti libri eterodossi, ci sono pochissimi libri empi. Vanno considerate empie solo le opere in cui l’autore, incoerente ed eretico, bestemmia la religione che professa. Un uomo ha certi dubbi: li propone al pubblico. Mi sembra che, invece di bruciare il suo libro, meglio sarebbe mandarlo alla Sorbona affinché venisse apprestata un’edizione in cui si vedessero, da una parte le obiezioni dell’autore, dall’altra le risposte dei dottori. Che cosa c’insegnano una censura che proscrive, una sentenza che condanna al fuoco? Proprio nulla. Non sarebbe il colmo della temerarietà dubitare che i nostri abili teologi sappiano disperdere come polvere tutte le miserevoli sottigliezze del miscredente? Questi sarebbe ricondotto nel seno della Chiesa, e tutti i fedeli edificati si riconfermerebbero nella loro fede. Un uomo di gusto aveva proposto all’Accademia un’occupazione in tutto degna di essa: pubblicare dei nostri migliori autori edizioni in cui si mettessero in rilievo tutti gli errori di lingua loro sfuggiti. Oserei proporre alla Sorbona un progetto altrettanto degno, e di ben altro momento: darci edizioni dei nostri più celebri eterodossi, con una confutazione pagina per pagina». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Empio). Si vede qui la calma e l’obiettività di Diderot e anche la preoccupazione per la propria sorte. Quali tempi duri dovevano essere quelli in cui ci si doveva nascondere alle proprie stesse idee. La rottura, quando che sia, è data quasi per certa, prima o poi questa corsa al completamento deve finire e non certo con il raggiungimento dello scopo. La volontà vigila e impedisce di lasciarmi andare al sospetto, da qui la meraviglia per una continuazione che sa di essere senza possibilità di riuscita. La vita inganna se stessa e trova modo di continuare a provare il miscuglio osceno della sopravvivenza anche nelle peggiori condizioni possibili, e io ne sto sperimentando, come in tanti altri momenti della mia vita, una delle peggiori. L’ala delle grandi trasvolate nell’azione l’ho ripiegata sotto il cuscino e le sbarre alla finestra bloccano il mio sogno erratico fino all’estremo della soffocazione. Sono davanti a me stesso e alla parola che cerca di rammemorare il mio sforzo. L’insistenza retorica della parola si estende senza limiti e potrebbe sottovalutare la necessità che si deponga nell’intreccio non solo l’ornamento o la digressione, ma anche la consistenza stessa del frammento qualitativo, con le sue esigenze di qualità. La trama e l’ordito hanno pari necessità di fronte al destino. La possibilità di ascoltare i cambi di ritmo della parola è importante quanto quella di assistere ai ritorni, alle reiterazioni, ai camminamenti ciechi, ecc. Non domina l’ascoltare, nella rammemorazione ogni prevalere è destinato a rovesciarsi nel suo contrario, ma anche l’intendere in modo indiretto, il dare a intendere più che l’ascoltare vero e proprio. L’avanzamento non è mai dato da un nuovo argomento, non ci sono argomenti nuovi veri e propri, tutto l’effetto rammemorante, la sua portata complessiva, è una peripezia accidentale che non ha vera partenza, vero salpare e vero approdare, che non siano inutili illusioni. Una pietra preziosa dal fulgore insostenibile. Il vecchio si rallegra del pensiero che il futuro ripresenti il passato, qui difatti si sente a casa propria. La novità assoluta gli mette paura. È per questo che il mondo è potuto invecchiare, e la storia e l’uomo. Avvicinandomi all’uno non solo mi rendo conto delle mie limitatezze, ma anche delle loro caratteristiche. Prima fra tutte la straordinaria inconcludenza della vita, l’inevitabilità del cadere trafitto nella necessità di continuare senza certezza. L’uno al contrario è pieno e ne colgo la pienezza incommensurabile anche nell’estrema miseria di vita in cui mi trovo. Ma l’uno non mi convince solo di questa evidenza di per sé palese, mi pone davanti al suo essere drasticamente l’inseparato, l’inallontanabile, l’altro che opposto a me mi fa conoscere la sua assenza, e la rivela solo a me, non la manifesta a tutto il mondo che vado producendo. Quell’uno che colgo mi è estraneo ma come altro, e come nemico, mi comprende in una subitanea e straordinaria commistione che mi sconvolge fino alla più piccola fibra di me stesso, facendomi cogliere una prepotenza barbarica di fronte alla quale la mia non coinvolta volontà bivacca costernata. Il processo vitale, che mi contiene, è estraneo a questa virulenza, si sente profanato con una risoluzione totale mentre tutta la forza che impotente ascoltava il veloce fluire del produrre si sveglia immanente a qualcosa di estraneo. Alla fine mi apro all’ignoto, non accolgo più di quello che posso rammemorare, faccio segno a me stesso di rimanere nascosto perché possibilità improponibili altrimenti adesso avanzano verso di me dal profondo del mio destino, e devo dare fondo a tutto il mio coraggio per affrontarle. «Non è ch’io metta in dubbio l’esistenza di un essere supremo, credo al contrario che ci sia in suo favore un alto grado di probabilità. Ma siccome tale esistenza non dimostra la necessità di un determinato culto a preferenza di un altro, si tratta di una verità teorica che non trova in pratica molto uso». (Julien Offroy de Lamettrie, L’homme machine, op. cit., vol. III, p. 52). L’unico compito che posso immaginare è quello di vivere, ma a volte la vita è così racchiusa nel bozzolo del mondo che io stesso creo modificandolo, da non essere degna di attenzione. Più in là non ci possono essere compiti o doveri se non travestiti dai panni sgargianti delle illusioni. Bisogna essere stupidi per non capire che solo i desideri sono veri compiti, ma non sono io il padrone dei miei desideri, solo la mia miserabile condizione di ignoranza li conosce. Sono in balia di queste condizioni, così contraddittorie che tutto in loro sembra caricaturale. La parola inganna anche perché soddisfa in modo fittizio bisogni reali che nessuno riesce a portare alla luce. Chi parla meno a volte è più ridondante di un chiacchierone. Tutti i laconici rimuginano e portano a conoscenza gli astanti e i distanti. *** Capitolo ventunesimo: Esame di alcune altre prove dell’esistenza di Dio «Si obietta che una necessità fisica cieca non sarebbe dappertutto e sempre la stessa, non potrebbe produrre alcuna varietà tra gli esseri; per cui la diversità che vediamo non può venire che dalle idee e dalla volontà di un essere che esiste necessariamente. «Perché questa diversità non dovrebbe derivare da cause naturali, da una materia agente da se stessa e il cui movimento avvicina e combina elementi vari e analoghi? Non c’è alcun dubbio che il pane è prodotto dalla combinazione della farina, del lievito e dell’acqua? In quanto alla necessità cieca, essa è quella di cui ignoriamo l’energia che riesce a scatenare. «Ma, ci dicono, questi movimenti regolati, questo ordine ammirevole che si vede regnare nell’universo, questi benefici di cui gli uomini sono colmati, denunciano una saggezza, un’intelligenza, ecc. Questi movimenti sono conseguenze delle leggi della natura, regolate ottimamente, secondo noi, quando sono utili, in modo errato quando cessano di essere tali. «Si pretende che gli animali siano una prova dell’esistenza di una causa prima: e per far questo si ricorre all’accordo ammirevole di tutte le loro parti, ecc., in base al quale non si può dubitare della potenza della natura. Ma ciò non significa che per questo siano il prodotto di un dio immutabile. Essi si alterano ininterrottamente e finiscono per scomparire. Se questo dio non può fare altrettanto non è libero e nemmeno potente; se cambia di volontà non è immutabile; se permette che delle macchine che ha reso sensibili provino dolore manca di bontà; se non ha potuto fare più solide queste sue opere egli manca di abilità. «L’uomo, reputato il capolavoro della natura, prova l’incapacità o la malvagità del suo preteso autore. La sua macchina è soggetta al deterioramento in modo maggiore di quella degli altri esseri più grossolani. Chi al momento della perdita di un essere amato non vorrebbe essere piuttosto una pietra che un animale, cioè chi non vorrebbe essere meglio una massa inanimata invece di un superstizioso tremante sotto il gioco del suo dio, distrutto dai tormenti eterni di una vita futura? «Ci si chiede, è possibile concepire l’universo privo di un fattore che l’ha formato e che veglia sulla sua opera? Se portassimo un orologio o una statua ad un selvaggio che non ha mai visto oggetti simili ciò non significherebbe che il selvaggio non riesca lo stesso a riconoscere l’opera di un abile artefice. «1) La natura è potentissima e industriosissima; ma non possiamo capire come abbia potuto produrre una pietra o un metallo oppure una testa organizzata come quella di Newton. La natura può tutto. Il fatto stesso che una cosa esiste significa che la natura l’ha potuta fare. Non bisogna quindi concludere che le opere della natura che più ci colpiscono non appartengono alla natura stessa. «Il selvaggio che ha ricevuto l’orologio o la statua potrà o non potrà avere delle idee sull’industria dell’uomo. Se possiede queste idee egli giudicherà che gli oggetti possono essere prodotti da un essere della sua specie; se egli non ha idea alcuna sull’industria dell’uomo egli crederà che quegli oggetti non possono essere opera di un uomo. Per cui attribuirà quegli strani effetti ad un genio, ad uno spirito, cioè ad una forza sconosciuta alla quale attribuirà un potere non posseduto dagli esseri della sua specie. In questo modo il selvaggio non prova nulla se non che non conosce quello che un uomo è capace di produrre. «Il selvaggio aprendo l’orologio, esaminandolo si accorgerà che non può essere che opera di un uomo. Infatti vedrà che quell’oggetto differisce dalle produzioni immediate della natura, alla quale egli non ha mai visto produrre delle ruote lucide fatte di metallo. Egli eviterà di pensare che un’opera materiale sia l’effetto di una causa immateriale. Osservando il mondo vi individuiamo una causa materiale dei fenomeni che vi si verificano, e questa causa è la natura, la cui forza produttiva si mostra a coloro che la studiano. «Si afferma che in questo modo si attribuisce tutto ad una causa cieca, al concorso fortuito degli atomi, al caso. Noi definiamo cause cieche solo quelle che non conosciamo; fortuiti gli effetti di cui non conosciamo le cause. Attribuiamo al caso gli effetti di cui non vediamo il legame necessario con le rispettive cause. La natura non è per nulla una causa cieca, non agisce a caso. Tutto quello che produce è necessario non essendo altro che una conseguenza delle sue leggi immutabili. Vi può essere da parte nostra ignoranza, ma le parole spirito, dio, intelligenza non rimedieranno certo a questa ignoranza non facendo altro che riconfermarla. «Ciò serve da risposta all’eterna obiezione fatta ai partigiani della natura consistente nell’attribuire tutto al caso. Il caso è una parola priva di senso, con la quale si indica l’ignoranza di chi l’impiega. Un’opera regolare non può essere dovuta alle combinazioni del caso, infatti mai si potrebbe pervenire alla composizione di un poema come l’Iliade con delle lettere gettate e combinate a caso. No, senza dubbio è la natura che combina, a seguito di leggi certe, una testa organizzata in modo da pensare e comporre un poema. È la natura che dà un cervello, un temperamento, un’immaginazione tali che una testa come quella di Omero, posta nelle stesse circostanze, produca necessariamente, e non per caso, il poema dell’Iliade, a meno che non si voglia negare che cause simili in tutto possano produrre effetti perfettamente identici. «Tutto è effetto delle combinazioni della natura, ciò che vediamo di più ammirevole nelle sue produzioni non è che un effetto naturale delle sue parti diversamente distribuite». Per gli illuministi la natura è un gran tutto, al suo interno si trova l’uomo come elemento pensante. Questo materialismo complessivo, o pan-naturalismo, ha caratteristiche evidentemente molto interessanti in quanto elimina qualsiasi essere di tipo sovrannaturale e considera chimera qualsiasi idea o concezione non fondata su un esame della realtà. L’uomo viene ricondotto nel dominio fisico della natura. Allo stesso modo la concezione morale viene riportata a elementi esclusivamente naturalistici. L’uomo morale è considerato un’astrazione o, se non è considerato proprio un’astrazione, è considerato uno degli elementi sotto i quali può essere analizzata la natura. Tutte le caratteristiche dell’uomo, le sue azioni, i suoi sentimenti, le sue idee, i suoi progetti, ecc., sono movimenti di questo meccanismo naturale che è l’insieme di tutte le cose e di cui l’uomo appunto fa parte. La causa dell’accettazione delle idee precostituite, dice Holbach, è quindi il rifiuto del lavoro, dell’attività, della riflessione, dell’impegno. Questa pigrizia, come egli la chiama, significa accettazione dell’autorità e mancanza di capacità, di impegno nell’osservazione dell’esperienza. Quest’ultima attività evidentemente richiede un lavoro, una riflessione perturbatrice e l’uomo preferisce di più adeguarsi invece all’abitudine. «Nulla, niente o negazione (Metafisica). Secondo i filosofi scolastici, tale è una cosa che non ha essere reale, che si può pensare e nominare solo mediante una negazione. Si sentono taluni lamentarsi di aver fatto tutti gli sforzi immaginabili per concepire il nulla e di non esservi riusciti. Che cosa precedette la creazione del mondo? che cosa ne teneva il posto? Nulla. Ma in che modo rappresentarsi questo nulla? È più facile rappresentarsi una materia eterna. Queste persone fanno degli sforzi là dove bisognerebbe non farne nessuno, ed appunto qui sta la loro difficoltà; vogliono formarsi qualche idea che rappresenti loro il nulla, ma siccome ogni idea è reale, ciò che essa rappresenta loro è altrettanto reale. Quando parliamo del nulla, affinché i nostri pensieri si dispongano conformemente al nostro linguaggio, e vi rispondano, bisogna astenersi dal rappresentare checchessia. Prima della creazione esisteva Dio; ma che cosa esisteva, che cosa teneva il luogo del mondo? Nulla. Non c’era un luogo, perché non c’era lo spazio. Lo spazio è stato creato insieme con l’universo, che è il suo luogo, perché esiste in sé e non fuori di sé. Non v’era dunque nulla. Ma come concepirlo? Bisogna non concepire nulla. Chi pronuncia questa parola dichiara con ciò stesso di respingere ogni realtà; bisogna dunque che il pensiero, per corrispondere al linguaggio, respinga ogni idea, non pensi nulla di rappresentativo. In realtà non è possibile astenersi da ogni pensiero, si pensa sempre, ma in questo caso pensare è sentire semplicemente se stessi, sentire che ci si astiene dal formare rappresentazioni». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Nulla, niente o negazione). Il rasoio di Kant non è ancora in funzione, ma è proprio in queste parole che trova la sua origine. Di poi – come ho peccato io da ragazzo – parlare di prove dell’esistenza o della non esistenza di Dio, è banale esercitazione letteraria. Si tratta di movimenti tutti interni alle condizioni del campo e della situazione dell’individuo, che qui trovano collocazione e significato ma che non possono trasferirsi come fondamenti per giustificare il nulla, cioè una mancanza della realtà. Un rinnegamento del principio di ragione non porta lontano, basta guardarsi indietro ed è fatta. Se non si resta di sale, in genere manca poco. Ancora una volta agisce qui l’idea di assenza che io ricavo dall’esperienza di tutti i giorni e dalla manipolazione degli oggetti. Mi lascio connettere con l’uno solo quando sospendo la maledizione del fare, quando non mi concedo più alla presenza dell’accumulo. Rinuncio all’equilibrio e vengo visitato dalla disarmonia, non ho più differenze, che siano tali fino in fondo, sono attirato in tranelli che svaniscono presto, essenzialmente vuoti di significato in base ai quali vengo indirizzato verso la qualità, ma devo evitare di accettare volonterosamente questo indirizzo. Ogni separatezza così viene a cadere, non costituisce più il presupposto inflessibile per la mia vita. Vedo attraverso l’ombra senza sugo del fare, questa procedura non mi ottenebra più, ora sono più libero di guardare oltre, c’è in atto un fendere che non ho mai sperimentato, un bucare la coltre di comprensioni e giustificazioni che classicamente mi ha sempre circondato. L’orizzonte è adesso in grado di non darmi quelle ristrette indicazioni che mi hanno attanagliato da sempre. Gli antichi luoghi sicuri si sono rivelati troppo protettivi, troppo controllori, la vita è pericolo e apertura, rischio della sconfitta, non tutela ineliminabile e sopravvento dell’accumulo che controlla. «Tutte le varie proprietà che si riscontrano in questo principio ignoto, rivelano un essere nel quale esistono queste stesse proprietà, un essere che per conseguenza deve esistere per se stesso. Ora è inconcepibile, o piuttosto pare impossibile, che un essere esistente di per se stesso possa crearsi o annientarsi. Non possono esserci evidentemente che le forme, delle quali le sue proprietà essenziali lo rendono suscettibile, che possano volta a volta distruggersi e riprodursi. Così l’esperienza ci costringe ad ammettere che nulla si dà dal nulla». (Julien Offroy de Lamettrie, Histoire naturelle de l’âme, op. cit., vol. I, cap. III). Il distruttore è un ribelle che vuole azzerare il mondo, anche se spesso non ne ha né le capacità né i progetti necessari, privo com’è di occhi aguzzi. Per lui si tratta di bruciare tutto, senza distinzioni, abbandonare tutto nelle mani del caos livellatore, non chiedersi divinamente né quel che è giusto né quel che è sbagliato. Non che io supponga possibile una risposta a questo dilemma, solo che porsi questa domanda è importante per partire verso l’oltrepassamento senza caricarsi di troppa zavorra. Il distruttore ha una sorta di intuizione angelica, non appartiene più alla mediazione modificativa, non si cura né di sé né degli altri, va avanti per la sua strada e, se si tratta di un vero distruttore, il suo stesso corpo è la sua idea, non guarda avanti, non considera il mondo, non compie valutazioni, vuole prima di tutto la propria morte, perire nella sua stessa opera distruttiva che diventa in questo modo la propria pantomima. Questo nichilismo assoluto può affascinare, ma taglia senza falce, perciò non mi appartiene, non vivo nel mio corpo attraverso la distruzione, ma attraverso l’azione. Nessuna azione può essere soltanto ed esclusivamente distruttiva, e siccome ogni azione è conchiusa in se stessa, deve anche contenere gli aspetti trasformativi, quelli che apriranno, se non oltrepasso il punto di non ritorno, la strada alla rammemorazione. Ho visto i giganti di sabbia muoversi nel deserto. Non è una considerazione utilitaria, è un progetto attivo e basta, l’azione è questo progetto che si realizza nelle condizioni della qualità e può essere spiegato, in fase di approssimazione, dalla critica negativa col ricorso alla logica del tutto e subito. La distruzione non ha bisogno di logica alcuna, la sua logica è il nulla, l’assenza è la sua presenza, non la sua presenza futura nel territorio della qualità, ma ora, nello stesso mondo modificativo. Non c’è neanche bisogno di oltrepassare questa condizione quantitativa, la distruzione può cominciare qui e subito, la struttura è sempre responsabile di qualcosa, non c’è bisogno di nessuna giustificazione né pratica né teorica, l’albagia morale si ferisce sempre da sé rinunciando alle armi dell’attacco per racchiudersi in una difesa da paurosi. Spesso molti non colgono queste sfumature, e fanno della propria coerenza una religione, una religione ricca di mille superstizioni, creano così linguaggi da conventicola e si esaltano al suono di parole caricate di significati eterogenei. È terribile essere certi, in modo così pregnante, di non essere niente. Non c’è nemmeno bisogno di diventarlo. Camminando vengono le idee, l’ipotesi niciana non teneva presente i cortili delle carceri. «Gli antichi, persuasi che non esistesse alcun corpo senza forza motrice, consideravano la sostanza dei corpi come un composto di due attributi originari; in forza dell’uno la sostanza aveva la potenza di muoversi, in forza dell’altro quella di essere mossa. In effetti, in ogni corpo che si muove non è possibile non scorgere due attributi, cioè la cosa che si muove e la cosa stessa che è mossa. Si dava allora il nome di materia alla sostanza dei corpi, in quanto suscettibile di movimento; questa stessa materia, in quanto divenuta capace di muoversi, era designata con il nome di principio attivo, che veniva attribuito alla stessa sostanza. Ma i due attributi paiono dipendere così essenzialmente l’uno dall’altro, che Cicerone per meglio esprimere questa unione essenziale e originaria della materia e del suo principio motore, dice che ambedue si ritrovano nell’altro; il che esprime assai bene il concetto degli antichi. Dal che risulta evidente che i moderni ci hanno dato un’idea assai inesatta della materia, quando hanno preteso, per una deplorevole confusione, di attribuire tal nome alla sostanza dei corpi: in quanto la materia, o il principio passivo della sostanza dei corpi non costituisce che una parte di tale sostanza. Non stupisce pertanto che non abbiano scoperto in essa la forza motrice e la facoltà di sentire». (Julien Offroy de Lamettrie, ibidem). La disperazione è crudele perché non ammette compromessi. Non so bene di che sto parlando, essendo stato poche volte veramente disperato, e sempre per poco tempo. Elogio della chimica. Chi sta attorno ha la sua importanza, ma conta poco, in fondo a me stesso il caos comincia a salire e nessuna attenzione o calcolo potranno fermarlo. Tutta l’esperienza della vita e degli uomini non vale niente in questi casi. Considerando le prospettive con calma, ancora la chimica, e la respirazione, le mancanze non sono niente, torneranno a sostituirsi con le presenze. Tutti i coerenti pregano con fermezza di non trovarsi mai con le spalle al muro. Come educarsi a beffare la propria disperazione? La vita è uno scherzo, un cattivo scherzo. E poi, la disperazione che ho inflitto? Nella prospettiva della trasformazione fare bilanci è un’assurdità. Ogni elemento si delinea diversamente, nel caso specifico la qualità rende ancora più reale il senso di mancanza disperata. Il mondo degli accomodamenti è una forza. *** Capitolo ventiduesimo: Del deismo, del sistema dell’ottimismo e delle cause finali «Quando anche Dio esistesse, quali potrebbero essere le conseguenze per la specie umana, anche supponendo in lui l’intelligenza e degli scopi? Quale rapporto potrebbe avere con noi? I buoni o malvagi effetti che immaginiamo si dipartiscono dalla sua onnipotenza e dalla sua provvidenza sarebbero effetti della sua saggezza, giustizia, dei suoi decreti eterni? Possiamo davvero supporre che egli cambierebbe i suoi piani per noi? Vinto dalle nostre preghiere potrebbe mai fare in modo che il fuoco cessi di bruciare, che la febbre, ecc., che un edificio che cade in rovina non ci schiacci con la sua caduta quando ci troviamo a passare vicino? Se egli è forzato a dare un libero corso agli avvenimenti che la sua saggezza ha preparato, che cosa possiamo domandargli? Saremmo degli insensati ad opporci alla sua volontà. «L’entusiasta felice mi dirà: perché mi vuoi togliere un dio che io vedo sotto i tratti di un sovrano pieno di bontà, di cui sono il favorito, che si occupa del mio benessere? Lasciami ringraziarlo delle sue benevolenze. Perché, mi dirà l’infelice, mi vuoi togliere un dio la cui idea consolante addolcisce le mie pene? «Si potrebbe obiettare su che cosa viene fondata la bontà che si attribuisce a questo dio. È forse un benefattore di tutti gli uomini? Per un fortunato, quanti infelici! Quante calamità durante le quali egli è sordo alle nostre preghiere. Ne consegue che ogni uomo giudicherà in funzione di quanto sarà colpito o in relazione alle circostanze. «Gli entusiasti dell’ottimismo sembra che abbiano rinunciato alla testimonianza dei loro sensi, per trovare che nella natura, dove tutto è un miscuglio di bene e male, alberga soltanto il bene. Il bene, dicono, è il fine di tutto. Ma il tutto non può avere alcuno scopo in quanto se lo avesse non sarebbe più il tutto ma una semplice parte. «Dio, continuano, è in grado di ricavare dei vantaggi per noi dai mali che ci lascia provare in questo mondo. Ma che cosa ne sappiamo? Come credere che Dio, il quale ci ha così maltrattati quaggiù, ci tratterà meglio lassù? Quale bene reale potrà mai derivare dalla sterilità, dalla carestia che rende desolata la terra? «Ci si vede allora costretti a trovare una strada nuova per discolpare la divinità dei mali che ci fa provare su questa terra. «Gli uni suppongono che Dio, dopo aver fatto sorgere la materia dal niente, l’ha abbandonata per sempre al movimento che gli ha impresso. Costoro hanno bisogno di un Dio soltanto per far nascere la natura: fatto ciò questo Dio vive in una perfetta indifferenza per le sue creature. Ma questo Dio è un essere inutile agli uomini. «Altri suppongono dei doveri che l’uomo ha verso il suo creatore. Alcuni immaginano che essendo giusto egli deve ricompensare e punire: in altre parole fanno un uomo del loro Dio. Ma questi attributi morali si contraddicono continuamente in conseguenza del fatto che essendo Dio l’autore di tutte le cose è anche autore del bene e del male. A questo conduce la cieca fede. «Preferireste, ci diranno, dipendere da una natura cieca o da un essere buono, saggio e intelligente? «Ma: 1) il nostro interesse non decide della realtà; 2) questo essere così buono e saggio ci è presentato come un tiranno irragionevole per cui sarebbe più vantaggio per l’uomo dipendere da una natura cieca; 3) una volta approfondita bene la natura ci indica quello che dobbiamo fare per essere felici visto che la nostra essenza lo comporta. Essa ci fornisce i mezzi propri alla nostra felicità». La concezione dello stato di felicità nel pensiero illuminista corrisponde all’ideale dell’assenza dei mali, dell’atarassia, così come era stato sviluppato in varie occasioni dal pensiero greco. In fondo, in Holbach persiste la possibilità di riportare a una dimensione materialistica questo concetto che ha sue caratteristiche di astrattezza, però non bisogna dimenticare che il concetto resta praticamente all’interno di una sua dimensione quasi esclusivamente filosofica. Nel giudicare le mie azioni, e questo costituisce il secondo problema, cioè nel giudicare le strategie, le scelte e l’impiego degli strumenti che ho per raggiungere quello che credo sia la mia felicità, possiedo un metro obbligato di giudizio. Posso pervenire alla valutazione di queste scelte, all’impiego di questi strumenti, attraverso una considerazione degli interessi che questi strumenti intendono realizzare e del modo in cui pervengono a questo realizzo. Però nella valutazione e nella collocazione all’interno di una scala generale di valori di questi fatti che voglio portare a completamento, di questi scopi che voglio più o meno raggiungere, c’è da considerare in che modo questo insieme di fatti si inserisce all’interno di una prospettiva generale per l’umanità nel suo insieme, in che modo cioè ogni singolo che sviluppa determinati fatti riesce a collocare questi fatti, che per lui costituiscono lo strumento per il raggiungimento dei suoi interessi e quindi della sua felicità, del suo benessere, all’interno di una prospettiva quanto più ampia possibile di un fare comune, di un interesse collettivo. In effetti, nel pensiero di Holbach, come in una grande parte del pensiero materialista del Settecento esiste questa concezione generale della capacità di raggiungere il benessere attraverso un fare collettivo, in modo che gli interessi degli individui riescano a raggiungere la loro effettiva intensità e significatività solo all’interno di una dimensione collettiva. L’attitudine di un individuo a essere particolarmente capace di raggiungere i propri interessi e di soddisfare le proprie necessità e i propri bisogni, anche di esaltare le proprie qualità, può essere valutata in senso positivo soltanto nei termini in cui questo suo fare si inserisce all’interno di interessi collettivi. Nel momento in cui invece questo fare diventa megalomania dell’individuo, che si viene a scontrare con gli interessi della collettività, questa stessa condizione di capacità iperfattiva nel singolo deve essere condannata come una realtà negativa. In fondo il singolo ha cognizione di quelli che sono i suoi stessi interessi, non tanto attraverso un’operazione introspettiva, cioè una ricerca di se stesso, quanto attraverso l’esperienza estensiva, cioè attraverso la ricerca degli altri. Sono gli altri secondo il pensiero materialista del Settecento a determinare le condizioni che possono caratterizzare il singolo individuo. Tutti gli sforzi che questo individuo metterà in campo per raggiungere la propria felicità, per soddisfare i propri bisogni sono sforzi che sono stati preventivamente coordinati con quella serie di azioni che provengono dall’esterno che colpiscono il singolo individuo portandogli delle cognizioni, delle conoscenze che gli fanno apprendere come non sia isolato, ma viva in un mondo costituito da un insieme variegato di individui che interagiscono fra di loro. Più egli approfondisce questo fatto, più prende cioè coscienza delle singole motivazioni che lo spingono al fare, dell’origine profondamente collettiva di queste motivazioni, più egli è portato nella stessa realizzazione del proprio fare, a individuare la fonte della motivazione stessa, cioè a individuare la fonte della spinta che egli sente provenire da se stesso. Più approfondisce questa ricerca, più si rende conto che la fonte è da ricercarsi all’esterno. Ma l’esterno non può essere individuato in questo o in quell’individuo singolo, ma deve essere cercato in un bisogno collettivo, in una necessità, in un interesse collettivo. Bisogni necessità e interessi che producono quello stimolo che l’individuo avverte come proprio, come nascente all’interno di se stesso. Ne consegue che la ricerca della propria felicità, quindi della realizzazione di quelli che sono i propri scopi e della soddisfazione dei propri bisogni, non può essere fatta senza tenere conto della ricerca della felicità collettiva. Finché all’esterno esisteranno individui i quali si troveranno in una situazione di sofferenza, in una situazione di repressione e non saranno messi in condizione di potere autonomamente e liberamente sviluppare i mezzi per raggiungere la felicità, ogni tentativo individuale che cerchi di raggiungere esclusivamente il proprio benessere e la propria felicità resterà meramente parziale. Holbach è amaramente colpito dalla differenza che esiste all’esterno del proprio mondo privilegiato. Cioè nel suo pensiero emerge, sia pure nebulosamente, la pesante condizione che grava sul meccanismo stesso del raggiungimento della felicità. Gli stimoli che mi portano a fare provengono dall’esterno, provengono quindi da una situazione in cui non tutti sono nella stessa condizione per potere raggiungere la felicità. Ne deriva che lo stimolo che mi spinge al raggiungimento della felicità è prodotto in un ambiente collettivo in cui soltanto una parte può pensare legittimamente di soddisfare lo stimolo stesso. La sollecitazione mi perviene di già divisa in due parti, una parte astratta che mi spinge verso una dimensione chimerica della felicità, valida per tutti, e una parte concreta che porta con sé le condizioni essenziali dove il sentimento stesso è nato, cioè le condizioni collettive. Ma queste condizioni collettive sono caratterizzate dalla essenziale realtà che solo una parte degli individui può raggiungere la felicità, o può avvicinarsi al raggiungimento della felicità, mentre l’altra parte è tagliata completamente fuori. Da tutto ciò si deduce che la considerazione collettiva del mio bisogno di raggiungere la felicità mi porta ad ammettere che questa realtà collettiva è tagliata in due parti, è contraddittoria. La ricerca della felicità potrà essere fatta soltanto facendo raggiungere la felicità al maggiore numero possibile di individui che partecipano della collettività, facendo cioè trovare a loro il maggiore numero di vantaggi nella realizzazione dei loro progetti, facendo vedere quale parte nella realizzazione di questi progetti è da condannarsi perché causa una diminuzione della felicità collettiva e quale parte è invece da sostenersi perché si indirizza verso una realizzazione di felicità collettiva. Il concetto di virtù secondo questo tipo di ragionamento non può essere soltanto legato alla dimensione di procurare alla collettività più vantaggi, perché questa sarebbe l’analisi più semplicistica del pensiero materialistico. Lo stimolo lo avverto, mi spinge al raggiungimento della felicità. Nel momento stesso in cui mi muovo per raggiungere la felicità contribuisco al raggiungimento della felicità collettiva. «Si dà il nome di naturalisti anche a coloro che non ammettono l’esistenza di un Dio ma credono che esista solo una sostanza materiale, rivestita di qualità diverse che le sono così essenziali come la lunghezza, la larghezza, la profondità, ecc., e in virtù delle quali tutto avviene necessariamente in natura così come lo vediamo; in questo senso naturalista è sinonimo di creativista, spinozista, materialista, ecc.». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Naturalista). La vecchiaia ha questo privilegio, può governare una memoria considerevole, se ne ha la forza. Ma si tratta di un privilegio discutibile. Quando un uomo afferma di avere esaurito la vita, significa che la vita lo ha esaurito. La rammemorazione è altro, distaccatamente altro. Canetti dice che chi è veramente intelligente nasconde di avere ragione. Tutti hanno ragione, nessuno ha la ragione. Lo stesso per la mia vita che penso di tenere stretta fra le mie mani sempre più vecchie mentre lentamente sono obbligato a constatare che qualcosa in me lavora alla sua distruzione. Ma il possesso non può essere distrutto parallelamente, si alimenta nel sogno dell’eterna giovinezza, si appallottola e scatta all’improvviso disonorando ogni tentativo di pudica ritrosia. Chiedere ragguagli alla logica è un discorso per sordi. Per Emil Michel Cioran, quali che siano i suoi meriti una persona sana delude sempre. Impossibile dare il minimo credito alle sue parole, cogliere in esse altro che pretesti o virtuosismi. Non possiede l’esperienza del terribile, che sola conferisce un certo spessore ai nostri discorsi. Non avendo nulla da trasmettere, neutra fino alla rinuncia, si accascia nella salute, stato di perfezione insignificante, d’impermeabilità alla morte, come a tutto il resto, di disattenzione a sé e al mondo. Quando il figlio di Febo offerse agli immortali il liquido appena stillato dai suoi alveari, non ottenne vittoria dolce come miele, giacché agli dèi, gustato il succo denso dell’ape amica dei teneri rami, rapida venne sazietà della rugiada senza piacere, alla terza coppa furono sazi i beati e non gustarono il calice servito di nuovo per la quarta volta, pure essendo molto assetati. Nel suo dispiegarsi la relazione incontra ostacoli causati dalla diversa intensità di movimento delle relazioni. Un movimento più intenso produce un più intenso dispiegamento che non può estendersi alla totalità relazionale per il semplice motivo che se questo fosse possibile si avrebbe una distribuzione uniforme del movimento stesso. Prima o poi questo dispiegarsi si affievolisce, cioè riduce la propria intensità per poi magari riprendere a crescere, ecc. L’affievolimento o l’aumento di intensità non sono veri limiti come non sono confini netti di separazione, ma costituiscono la base su cui si sviluppano i flussi relazionali. La classica distinzione tra mondo naturale e mondo soggettivo, per altro da sempre contraddittoria, fino dall’esposizione cartesiana, non ha ragione di esistere se non nella testa di coloro che hanno paura di coinvolgersi nella realtà e cercano di mantenere la rivincita di una loro autonomia da torre d’avorio. «I deisti moderni sono una setta o specie di pretesi spiriti forti, noti in Inghilterra col nome di free thinkers, cioè liberi pensatori, uomini la cui caratteristica è di non professare una particolare fede religiosa, ma di limitarsi a riconoscere l’esistenza di un dio senza rendergli alcun culto né omaggio esteriore. Affermano che, considerati la molteplicità delle religioni e il gran numero di rivelazioni, di cui si danno soltanto – dicono loro – prove generali e senza fondamento, il partito migliore e più sicuro è di cercare nella sola semplicità della natura il fondamento della fede nell’esistenza di un dio, che è una verità riconosciuta da tutti i popoli del mondo. Lamentano che la libertà di pensare e di ragionare sia oppressa sotto il giogo della religione rivelata; che gli spiriti soffrano e siano tiranneggiati dalla necessità, da essa imposta, di credere a misteri assurdi, e sostengono che si deve ammettere o credere solo quel che la ragione può spiegarsi chiaramente. Il nome di deisti viene dato soprattutto a quelle persone che non sono né atee né cristiane, non sono del tutto senza religione (intendendo questa parola nel senso più generale), ma respingono ogni rivelazione come pura fantasia, e credono soltanto a ciò che riconoscono vero attraverso i lumi naturali e in ciò che si crede in ogni religione: in un dio, in una provvidenza, in una vita futura, in ricompense e castighi per i buoni e per malvagi; credono che si debba onorare dio e rispettare la sua volontà – così come la si conosce grazie ai lumi della ragione e alla voce della coscienza – il più perfettamente possibile, ma che a parte questo ciascuno sia libero di vivere come vuole, secondo quel che gli detta la coscienza». (Edme-François Mallet, Emciclopedia, voce Deisti). Nessuna razionalizzazione è completa, ognuna rinvia a qualcosa di completabile lasciando aperta una fessura dove si infila l’inquietudine e, con passi furtivi, la forza della profondità. Nella mia avventura e nell’agire della coscienza diversa nella qualità non c’è una sospensione della immediatezza, della carnalità. Anzi, al contrario, l’intuizione, che mi consente di accedere al coinvolgimento, non è un prodotto essenzialmente razionale, contiene la mia carne, il mio cuore, ed è qui che si imprime l’esperienza diversa, si radica l’impronta, non certamente nell’organizzazione razionale che governa la memoria. La vita è nella qualità, ma è anche come residuo e come orientamento percettivo nella quantità. Due poli diversamente intensificati si contrappongono, non è da tutti percorrere totalmente l’essere obliquo di questi poli, anch’io mi fermo a un certo punto cercando di salvare il salvabile, guardando in faccia la morte ma non lasciandomi affascinare fino in fondo. Il distacco logico tra questi due estremi mi porta a individuare due complesse contraddizioni razionali, e la logica del tutto e subito, con cui cerco di dare vita alla rammemorazione, è razionale anch’essa. Molte modulazioni gravitano attorno alla parola che rammemora e costruiscono la mia condizione attuale, dove mi immergo per capire quello che me stesso mi vuole dire dell’avventura nella qualità. La distanza è salvaguardia e potrebbero tornare i tempi tranquilli della paciosa sicurezza, avvolti nella patina della paura di una perdita repentina. Al contrario, potrei non ammettere fronzoli e incidere di più la mia carne attorno alla quale ruotano adesso, come farfalle impazzite, le parole della rammemorazione, e lasciare che le categorie incartapecoriscano nei loro scranni centenari, lasciare che la rammemorazione mi scuota e mi sconvolga, senza paura. La somma tira via la perplessità. C’è nel risultato qualcosa che mi aspettavo e di cui andavo in cerca, oppure non c’è. La sterilità è già una traccia che non è facile tirare in lungo. Mi impedisco di farlo con violenza. Il risultato mi attira, la solitudine mi fa paura. Sono anch’io un povero diavolo. «Cap. XXII. Morale naturale. Se stesso come riflesso della natura. Paura. Contraddizioni naturali. Esorcismo dell’aspetto distruttivo. Moderazione delle passioni come ideale; meno vizi, più utilità per gli altri. Ortopedia della natura. Dio non modello perché contiene elementi negativi. La religione divide perché non ha saputo correggere il distruttivo. Delitti in nome della religione. Il culto come delitto permesso, quindi come regola non trasgressione. L’idea di Dio non può correggere il vizio del singolo e nemmeno delle nazioni. I tiranni sono religiosi. Religione strumento del potere. Assurdità, eresie. Educazione religiosa come avvelenamento. Non forma cittadini. Ideale dello Stato ateo. Sistemi di controllo imperfetti a causa della religione. Il governo secondo ragione. Negatività della tirannia. Tirannia e modello religioso: o idiota o fanatico». (Appunti manoscritti di Donatien Alphonse François de Sade sul Vero senso del sistema della natura). *** Capitolo ventitreesimo: Esame dei vantaggi che agli uomini derivano dalla nozione di Divinità o della sua influenza sulla morale, la politica, le scienze, la felicità delle nazioni e degli individui «A tutta prima la morale, che ha per oggetto lo studio dell’uomo desideroso di preservarsi e mantenere la propria vita in società, non ha niente in comune con questi sistemi. L’uomo trova da se stesso motivi per moderare le sue passioni, per resistere alle tentazioni dei vizi, rendersi utile e amato dagli altri esseri di cui ha continuo bisogno. «D’altro canto, questi sistemi, che ci presentano Dio come un tiranno, non possono presentarcelo come modello della nostra condotta. Egli è geloso, vendicativo, interessato, ecc.; così la religione divide gli uomini. Essi si combattono, si perseguitano, ecc., senza battere ciglio davanti ai crimini che commettono per la causa di Dio. «Lo stesso spirito frastornatore nei culti. Non si parla che di vittime, e il puro spirito dei cristiani vuole che, per calmare il suo furore, si uccida il proprio figlio. «Agli uomini necessita una morale umana, fondata sulla natura dell’uomo, sull’esperienza, sulla ragione. «È per caso fra i preti che noi troviamo virtù reali? Uomini persuasi dell’esistenza di Dio non sono per questo meno amici della crapula e dell’intemperanza. A vedere la loro condotta si direbbe che costoro sono perfettamente lontani dalla fede in Dio. «L’idea di un dio vendicatore e remuneratore è mantenuta da quei prìncipi che fondano il loro potere sulla divinità stessa? Sono forse degli atei, questi monarchi ingiusti e senza rimorsi, che portano la desolazione tra gli uomini? Essi affermano il nome di Dio, pronti a violare ogni giuramento una volta che il loro interesse lo esiga. «Forse che i costumi dei popoli sono diventati migliori con la religione? Questa prende il posto di ogni cosa. I suoi ministri contenti di mantenere i dogmi e gli usi utili ai propri interessi, non fanno altro che moltiplicare le regole scomode, al fine di mettere a profitto le trasgressioni stesse dei loro schiavi. Monopolio d’espiazione, traffico di grazie, ecc., ecco che cos’è la religione. Furono inventate parole prive di senso e considerate empie, sacrileghe, blasfeme, eretiche. Pronunciarle divenne un crimine, e questi crimini furono colpiti con la più grande atrocità. «Che cosa può diventare la gioventù sotto tali istitutori? Si avvelena l’uomo dall’infanzia con nozioni incomprensibili; si turba il suo spirito con dei fantasmi; si avvilisce il genio con devozioni meccaniche; lo si interrompe nel suo contatto con le ragione e la verità. «Forse che l’educazione religiosa forma cittadini, padri di famiglia, spose? La religione si è messa al di sopra di tutto; ai fanatici viene detto che è meglio obbedire a Dio che agli uomini. Di conseguenza questi credono potersi ribellare contro il principe, abbandonare la propria donna, ecc., reputando, ogni volta, di agire negli interessi del cielo. «Quali vantaggi avrebbero potuto ricavare le nazioni se avessero avuto la possibilità di essere dirette verso soggetti utili! Quali preziose conoscenze! ecc. «Nonostante l’educazione religiosa, quanti viziosi, incatenati ad abitudini criminali! Malgrado l’inferno, la cui sola idea fa tremare, le città sono piene di uomini dissoluti e senza morale. Indietreggerebbero inorriditi se si avanzasse il minimo dubbio sull’esistenza di Dio. All’uscita del tempio, dove si è assistito al sacrificio, agli oracoli divini, a spaventosi crimini in nome del cielo, ciascuno fa ritorno ai suoi vizi. «E questi assassini, questi ladri, ai quali le leggi accorciano la vita, sono forse atei? Questi sciagurati credono in Dio. Si è sempre parlato di lui, dei castighi che dà ai crimini. Ma un dio nascosto e i suoi castighi lontani non impediscono gli eccessi che supplizi presenti e sicuri sono incapaci di prevenire. «Lo stesso uomo, che avrebbe paura a commettere il minimo delitto in presenza di un altro uomo, si permette tutto quando crede di non essere visto che dal suo dio, tanto l’idea di Dio è insufficiente contro le passioni degli uomini. «Il padre più religioso, nei consigli che dà ai figli, non parla sempre di un dio vendicatore. La salute distrutta dal vizio, la fortuna dal gioco, i castighi della società, ecco i motivi che impiega. «L’arte di governare gli uomini non è per nulla l’arte di ingannarli, di tirannizzarli; consultiamo la ragione e dimostriamo all’uomo che per essere felice egli non deve cercare che di conservare il suo benessere e quello degli altri: ecco la virtù. «Le idee di Divinità sono quindi inutili e contrarie alla sana morale. Esse non procurano vantaggi né alla società né agli individui. Chi si occupa di questi fantasmi vive continuamente in trance, dimentica gli oggetti veramente degni d’interesse, passa i giorni tristemente a gemere, a pregare, a espiare. In questo modo crede di placare un dio in collera, causandosi tutti i mali che si possono inventare. Quale utilità la società ricava dalle lugubri nozioni di questi insensati pietisti? Essi sono misantropi inutili al mondo e nocivi a se stessi o fanatici che turbano le nazioni. Se qualche tranquillo entusiasta trova delle consolazioni nelle idee religiose, ce ne sono milioni, più conseguenti ai propri princìpi, che restano degli sciagurati per tutta la vita. Sotto un dio dubbio, un tranquillo devoto è un uomo irragionevole». L’analisi delle obiezioni che sono state avanzate nel tempo contro il determinismo conduce Holbach a perfezionare il sistema per quanto riguarda gli aspetti di un altro precedente determinismo, quello fondato sulla predestinazione. In un certo senso la dottrina religiosa del libero arbitrio aveva aperto una serie di modificazioni all’interno della struttura determinista della predestinazione, cosa che a suo tempo aveva visto molto bene in particolare Agostino. Queste aperture avevano successivamente, nel corso dello sviluppo del pensiero e dell’organizzazione religiosa, avuto un’accentuazione con la Riforma prospettandosi come apertura critica all’individuo nei confronti di una monoliticità o comunque di una oggettività data dal divino. Simile tipo di miscuglio tra soggettivismo e oggettivismo, volontarismo e determinismo, viene superato da Holbach con un rigido determinismo meccanicista. L’uomo può contribuire alla felicità di tutti, la sua azione, se è sensata, è azione razionale e in quanto tale concorre al benessere della società. Il diverso è malvagio, la sua azione è insensata, contro il diverso, contro chi assume comportamenti irrazionali in contrasto con gli interessi della collettività occorre prendere provvedimenti, occorre che la società si difenda, è qui il fondamento della società del controllo e della società repressiva. Il determinismo meccanicista, con tutta la sua pretesa laica e atea, conduce alla restaurazione di una società di controllo, con la premessa che la responsabilità del comportamento deviante, in una struttura di pensiero di tipo determinista, viene attribuita non soltanto al soggetto che si comporta in modo irrazionale e quindi contrario agli interessi della collettività, ma anche alla collettività stessa la quale deve fare in modo che questo comportamento sia bloccato. L’azione di modificazione dei comportamenti devianti, in una prospettiva laica e progressista, quale è appunto quella del determinismo meccanicista, avviene sotto due forme, la prevenzione e la repressione. «Che cos’è un caso di coscienza? È una questione relativa ai doveri dell’uomo e del cristiano, di cui spetta al teologo, chiamato casuista, pesare la natura e le circostanze, e decidere secondo il lume della ragione, le leggi della società, i canoni della Chiesa e le massime del Vangelo: quattro grandi autorità che non possono mai essere in contraddizione. Siamo cristiani per la fede nelle verità rivelate e per la pratica delle massime evangeliche. Sacrifichiamo a Dio la nostra ragione con la fede, gli sacrifichiamo le nostre inclinazioni naturali con la mortificazione: queste due espressioni dell’abnegazione sono egualmente essenziali alla salvezza dell’anima, ma la infrazione dell’uno o dell’altro di questi due ordini di norme non è forse egualmente funesta alla società; ed un’altra questione importante è se coloro che attaccano i dogmi di una religione sono tanto cattivi cittadini quanto coloro che ne corrompono la morale. È chiaro a primo colpo d’occhio che il veleno dei corruttori della morale può colpire un maggior numero di persone che quello degli empi. La depravazione dei costumi è una conseguenza diretta della depravazione della morale, mentre è soltanto una conseguenza meno immediata dell’irreligiosità; conseguenza tuttavia, è vero, quasi infallibile, come ha ben dimostrato uno dei nostri più grandi oratori, padre Bourdaloue. D’altra parte l’incredulo è talvolta un uomo che, stanco di cercare inutilmente nelle fonti comuni e nelle conversazioni ordinarie il raggio di luce che doveva rompere il velo da cui erano coperti i suoi occhi, si è rivolto al pubblico, ne ha ricevuto i chiarimenti che cercava, ha sconfessato il suo errore ed evitato la più grande di tutte le sventure, la morte nell’impenitenza: è un uomo che si è esposto al rischio di nuocere a molti altri, per guarire del male di cui soffriva. Ma chi svisa la morale tende a rendere malvagi gli altri, senza la speranza di diventare lui stesso migliore. Del resto, qualunque partito si voglia prendere in questa questione, giustizia vuole che si distinguano nettamente la persona dall’opinione, e l’autore dall’opera: proprio qui infatti si ha la prova chiarissima che costumi e scritti sono due cose diverse. Nella folla dei casuisti che Pascal ha accusati di rilassatezza nei princìpi non ne troviamo uno che si possa accusare di rilassatezza nei costumi; pare che tutti siano stati indulgenti solo con gli altri; ai piedi del Crocifisso, dove si dice che rimanesse prosternato giorni interi, uno dei più famosi fra loro risolveva in latino casi di dissolutezze così singolari che non è possibile parlarne in francese senza recare oltraggio al pudore. Ma noi non ci dilungheremo oltre sui costumi dei casuisti: ci basta aver dimostrato che non avevano nulla in comune con le loro massime. (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Caso di coscienza [Morale]). Una contorsione della mente, un covo di serpenti, niente di lineare, da un lato, e di complesso dall’altro. Tutto somiglia a tutto. L’eticità come regola riconduce alla coerenza in primo luogo, quindi trasforma la vita nell’ordine di un campo di concentramento. Non ci sono soluzioni molteplici, ma una sola soluzione, quella giusta per definizione voluta dalla morale. L’azione, al contrario, si differenzia dal fatto proprio perché richiede l’abolizione di quel distacco che rende possibile, e utile, la produzione modificativa. L’azione è eminentemente inutile. Se parlo dell’azione, rammemorandola, non per questo la rendo utile. La presenza di una limitazione interna al movimento rammemorativo è innegabile. Per quanto esteso, esso rimane parziale e non intacca il nucleo di completezza del frammento. La libertà di quest’ultimo era nella sua qualità, il miraggio rammemorativo è invece prigioniero della parola. Ciò di cui esso parla non potrà mai essere quello che esso è, questo vallo incolmabile è la mia disperazione, ma anche il mio vanto, il coraggio che ho io non può essere discusso su di un tavolo operatorio. La morte non è una chiacchiera morale sulla morte, è orrenda al di là di ogni possibile immaginazione. Per quanto sia forte, l’impegno della parola nella formazione dei movimenti architettonici, il dire punteggia le varie fasi dell’operare rammemorante con ridicoli trionfalismi retorici, ma solo io colgo il fondo di questa risibilità, il salvataggio dell’archivio rinvia tutto a qualcosa che potrebbe accadere ma che non accade, non c’è una fine del percorso, la mia attesa non coglie impreparata la rammemorazione, questa va avanti mentre io aspetto la risposta del destino. Il mio cuore tace, solo i miei occhi infossati vedono la pantomima e sorridono. Ogni anelito di felicità deve bilanciarsi con un po’ di melensa idiozia. Non c’è altro modo di pensarsi appagato, se non quello di supporsi un po’ stupido. «Cap. XXIII. Dio è un potente sostegno per gli arrivisti e gli imbroglioni». (Appunti manoscritti di Donatien Alphonse François de Sade sul Vero senso del sistema della natura). L’affermazione di sé è il fare che dilaga per il mondo, molti che si sentono messi da parte dalla vita, sgomitano per farsi avanti nel loro piccolo mondo, un triste spettacolo di brutture che non risparmia nessuna cerchia umana che sia pure sull’affinità reciproca si riconosca e si identifichi in una qualsivoglia prospettiva. Personalmente lavoro con accuratezza, senza volerlo, alla sconfitta, e in questo mi rafforzo e sono sempre pronto a ricominciare senza avvertimento, senza segnali di tromba o innalzamenti di bandiere. La rinuncia non c’entra per nulla. Niente di tutto quello che mi circonda mi è estraneo, eppure sembra così. Bisognerebbe scegliere bene i nemici, non lasciare che sia la superficiale valutazione dei loro atteggiamenti a sceglierli. Naturalmente ci sono poi i nemici che mi scelgono, ma questi sono solo degli stupidi fantasmi, non più noiosi di una mosca. Tempo fa mi sono divertito a cacciarne via qualcuno. Nemmeno un pigolio da parte loro, sono fuggiti nella nebbia da dove erano usciti per mettere in giro le solite e le insolite calunnie su di me. Ma vengo ai nemici che mi scelgo. Ecco, questi sono importanti, hanno un ruolo fondamentale nella mia vita. Aiutano a trovare la strada. Più questa scelta passa da un singolo individuo a una classe o a un gruppo intermedio, più le idee dell’attacco e del conflitto si chiariscono. *** Capitolo ventiquattresimo: Le nozioni teologiche non possono essere la base della morale. Paragone tra la morale teologica e la morale naturale. La teologia nuoce ai progressi dello spirito umano «Non sono certo le opinioni arbitrarie e inconseguenti, le nozioni contraddittorie, le speculazioni astratte e inintelligibili, che possono servire da base alla scienza dei costumi. Occorrono princìpi evidenti, dedotti dalla natura dell’uomo, fondati sull’esperienza e la ragione. La morale è fatta per essere invariabilmente la stessa, e non segue i capricci dell’immaginazione, delle passioni, degli interessi umani. Essa deve essere stabile, uguale per tutti gli individui, senza variare da un Paese e da un tempo all’altro. È quindi su dei sentimenti universali inerenti alla nostra natura che bisogna fondare la morale, la quale non è altro che la scienza dei doveri dell’uomo che vive in società. In una parola bisogna darle per base la necessità delle cose. «Ha quindi torto la teologia quando pensa che il bisogno, il desiderio della felicità, l’interesse evidente delle società e degli individui, sarebbero dei motivi non validi. Facendo derivare la morale da un dio, la sottomette alle passioni degli uomini, volendo fondarla su di una chimera, la fonda su nulla. «La morale di questo dio, a causa delle differenze che suppone, varia da uomo a uomo, da una contrada all’altra, secondo l’immaginazione differente di ciascuno. «Paragonate la morale religiosa con quella della natura, la contraddice ad ogni istante. La natura invita l’uomo ad amarsi, a conservarsi, ad aumentare incessantemente la somma della propria felicità, la religione gli ordina di amare unicamente un dio dubbio, di detestare se stesso di sacrificare al suo spaventoso idolo i piaceri più dolci del cuore. La natura dice all’uomo di consultare la ragione, la religione gli suggerisce che questa ragione è una guida infedele. La natura dice di cercare la verità, la religione di averne paura e di non esaminare nulla. La natura dice all’uomo di essere sociale, di amare i suoi simili, la religione gli dice di fuggire la società, di staccarsi dalle creature. «La natura dice allo sposo di essere tenero, la religione gli fa considerare il matrimonio come una contaminazione, un’imperfezione. La natura dice al cattivo di evitare i suoi vergognosi peccati, perché impediranno la sua felicità; la religione, difendendo il crimine, gli promette l’espiazione, una volta che si umilierà ai piedi dei suoi ministri, con sacrifici, offerte, pratiche e preghiere. «Lo spirito umano, accecato dalla teologia, non ha fatto un passo avanti. La logica è stata impiegata per provare le più evidenti contraddizioni. La teologia è servita a dare ai sovrani idee false sui loro diritti, che a loro dire vengono da Dio. Le leggi sono state sottomesse ai capricci della religione. Non è stato permesso alla fisica, alla storia naturale, all’anatomia, di liberarsi dalla superstizione. I fatti più evidenti sono stati rigettati e proscritti, quando non potevano inquadrarsi nelle ipotesi della religione. «È forse risolvere un problema di fisica, dire che un fenomeno, un vulcano, una tempesta, sono segni della collera divina? Invece di attribuire a questa collera divina le guerre, le carestie, non sarebbe stato più utile e vero mostrare agli uomini che questi mali sono dovuti alla loro follia, alla tirannia dei loro prìncipi. Si sarebbe cercato in questo modo, con miglioramenti nell’amministrazione, di evitare simili flagelli. L’esperienza non dovrebbe ormai avere aperto gli occhi ai mortali riguardo i rimedi soprannaturali, le espiazioni, le preghiere, i sacrifici, i digiuni, le processioni, che non hanno mai prodotto niente?». È straordinario notare come nell’Illuminismo Holbach, nel tentativo di criticare la posizione di coloro che affermano la pericolosità di un sistema determinista in quanto contribuisce a distruggere le nozioni e le differenze fra il giusto e l’ingiusto e fra il bene e il male, precipiti dall’altro lato, finendo per ammettere una sorta di innatismo, di idea innata all’interno dell’uomo che gli dà lo stimolo e la misura del modo giusto di agire. In caso contrario si scatenano all’interno dell’individuo una serie di contraddizioni, angosce e inquietudini che lo fanno stare male. Egli ha costantemente presente quale è il modo giusto di agire e il suo comportamento errato o deviante lo fanno entrare in contraddizione con se stesso. È qui una evidente stortura all’interno del pensiero di Holbach in quanto c’è l’ipotesi di un’idea innata del giusto e non una possibilità, che poi sarebbe stata legittima in base alle posizioni dello stesso determinismo, di contribuire a verificare la fondatezza e la giustezza dell’azione a seguito delle sue conseguenze positive nella società. Questo tipo di apertura all’interno della struttura di pensiero determinista avverrà successivamente, quando cioè si potrà, sempre partendo dalle ipotesi scientifiche più recenti, vedere come il castello fantasioso di un determinismo assoluto era appunto un’illusione metafisica. Il determinismo, che Holbach continua a chiamare fatalismo, è una posizione di pensiero che contribuisce moltissimo a creare la disposizione d’animo utile al controllo e al reperimento del consenso. Infatti, la concezione radicata nell’individuo di trovarsi davanti a una prospettiva necessitata sulla quale egli può incidere col proprio fare, lo porta a consentire che dall’esterno vengano costruite le condizioni per cui il suo fare possa avvertire meglio gli effetti delle condizioni che lo determinano. È importante comprendere come questo punto ha particolare significato nel pensiero di Holbach. Infatti se l’azione del singolo individuo, le sue decisioni e la sua volontà dipendono da forze esterne, l’organizzazione di queste forze sarà tanto più efficace quanto più riuscirà a fare avvertire la necessità della propria struttura all’interno della dimensione soggettiva e volontaristica dell’individuo stesso. Questo contribuirà a fare sentire l’individuo in una situazione di sottomissione ma nello stesso tempo lo renderà più tollerante e più disponibile al ragionamento, più disponibile al perdono, più umile, più modesto. All’obiezione che questo tipo di struttura finirà con il trasformare l’uomo in una macchina, Holbach risponde lasciando intendere che egli dà una valutazione positiva di che cosa sia una macchina. È uno dei punti in cui appare in modo più evidente come il determinismo costituisca la base razionale migliore e più efficace per trasformare la società in una organizzazione meccanicisticamente strutturata, per fare diventare alla fine l’individuo stesso una macchina. La natura, nella sua complessità, costituisce secondo le tesi dell’Illuminismo la sola realtà ed essendo questa natura una macchina, come già aveva notato La Mettrie, tutto quello che esiste è una macchina. Questa posizione, come elemento polemico di critica diretto a distruggere l’insieme di costruzioni metafisiche che portano la religione alla giustificazione dell’immortalità dell’anima, è da considerarsi in maniera positiva. Se il concetto di immortalità dell’anima determina una fuga dalla realtà e una subordinazione dei valori della realtà e della società alla ipotetica vita futura, molto più importante della modesta e miserabile vita presente, tutto si traduce in un immeschinimento della realtà sociale e in una sua trasformazione in macchina perfettamente funzionante. È da notare infine la curiosa conclusione che porta Holbach a fare vedere come la concezione meccanicistica dell’universo, della natura e conseguentemente della società, porti l’uomo a essere più moderato, ad avere meno eccessi e a gioire con una certa misura, concezione che è esattamente all’opposto di quella che sarà la concezione di Sade. Sade parte anche lui da una concezione determinista che considera la società in generale, o almeno la società che costruisce nei suoi romanzi, una macchina perfetta. «Ma, dopo aver protestato contro ogni desiderio di una libertà che si eserciti a spese della tranquillità dello Stato e della religione, mi sia permesso chiedere se l’oblio che ho appena proposto per i corruttori oscuri della morale cristiana non sia applicabile a qualsiasi altro autore pericoloso, purché abbia scritto in una lingua dotta. Mi sembra che si debba o rispondere affermativamente, o rinunciare alla difesa dei casuisti; perché infatti gli uni dovrebbero meritare più attenzione che gli altri? Casuisti privi di rigore morale sarebbero forse meno perniciosi, e più spregevoli degli increduli? Ma, si obietterà, non sarebbe meglio che non ci fossero né increduli né cattivi casuisti, e che le opere degli uni e degli altri non fossero pubblicate né in lingua dotta né in lingua volgare? Nulla di più vero, così come sarebbe a desiderarsi che non vi fossero né malattie né cattiveria fra gli uomini; ma è inevitabile che vi siano dei malati e dei cattivi, e vi sono malattie e delitti che i rimedi riescono soltanto a peggiorare. E chi vi ha detto, mi si obietterà ancora, che la presenza fra noi dei casuisti amorali e degli increduli sia tanto inevitabile quanto quella dei malvagi e dei malati? Non abbiamo forse leggi che possono difenderci dall’incredulità e dalla rilassatezza morale? Non pretendo certo di porre limiti ai poteri ecclesiastici e civili, nessuno rispetta più di me l’autorità delle leggi contro gli autori pericolosi; ma non ignoro che queste leggi esistevano molto prima dei casuisti amorali e del loro apologista, e che non hanno impedito loro di pensare e di scrivere. So anche che, grazie allo scalpore del processo, le leggi civili potrebbero strappare opere indegne d’ogni attenzione all’oscurità profonda in cui chiederebbero soltanto di rimanere; ed è appunto ciò che avrebbero in comune con le leggi ecclesiastiche nella censura di casuisti ignorati, di cui una delazione maligna diffonderebbe inopportunamente la fama. Del resto, io qui non intendo tanto imporre un’opinione quanto proporre una questione. Sta ai saggi magistrati, depositari della legge, e agli illustri prelati che vegliano a difesa della fede e della morale evangelica, decidere in quali casi sia meglio ignorare che punire, e quali siano – per usare l’espressione di un celebre scrittore – i limiti precisi della necessità, entro i quali bisogna tenere gli abusi e gli scandali». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Casuisti, [Morale]). Il lavoro ironico di Diderot penetra in profondità, credo che sia uno degli articoli meno criminalizzabili e più efficaci dell’intera Enciclopedia. Le mie attese del destino restano tali anche se mi vedo indaffarato nell’accumulo, vecchia conoscenza di decenni e decenni di frequentazioni. Non mi irrigidisco e non mi spezzo, il flusso è continuo e ascolto la parola rammemorante nello stesso momento in cui lavoro a scendere dentro la parola con tutto il mio apparato conoscitivo. Sono un animale capace di molteplici azioni e fatti, contemporaneamente, come Cunegonda convivo sempre con il nuovo e con l’antico Testamento e la mia irreligiosità non ne è turbata. Se incontro limiti, questi sono nella conoscenza e in me stesso, e in questo Kant aveva ragione. Eppure l’illimitato mi appartiene e lo posso cogliere solo partendo da questi limiti e oltrepassandoli. «Cap. XXIV. La scienza morale non deve essere contraddittoria. Deve essere tratta da esperienza e ragione. Cos’è l’esperienza? Cos’è la ragione? La morale deve essere sempre la stessa, nello spazio e nel tempo. Il fondamento sui sentimenti universali che sono nella nostra natura. La sua base è quindi deterministica (necessità delle cose). Fondando la morale su Dio la si fonda sulle nostre passioni e sulle nostre paure. Dio è il prodotto di quest’ultime, quindi è contraddittorio. Morale teologica come morale rovesciata (esaminare i vari punti). La teologia impiega la logica per nascondere le contraddizioni, a dare ai sovrani la falsa idea del loro diritto. La legge è sottomessa alla religione; anche la scienza riesce con difficoltà a liberarsi. Contro la guerra e la tirannia». (Appunti manoscritti di Donatien Alphonse François de Sade sul Vero senso del sistema della natura). L’uno e l’istante si guardano in cagnesco, sono io che li confronto entrambi e mi ritrovo a vederli come sdoppiati mentre, forse, sono la stessa realtà. Tra loro non c’è passaggio, ogni istante che svanisce ne compare un altro a sostituirlo, ma non è vera e propria sostituzione, tutto si modifica e tutto rimane uguale, la trasformazione è la qualità che crea una condizione diversa. In fondo a trasformarsi è l’uno, ma non posso registrare questo movimento come modificazione, posso soltanto rammemorarne alcuni tratti. *** Capitolo venticinquesimo: Gli uomini non possono mai concludere nulla con le idee che si danno della Divinità. Dell’inconseguenza e dell’inutilità della loro condotta a questo riguardo «Supponendo un’intelligenza così come l’annuncia la teologia, bisogna ammettere che nessuno personifica i desideri della Provvidenza. Dio vuole essere conosciuto, e gli stessi teologi non se ne possono fare un’idea; ma anche ammettendo che essi lo conoscano, che la sua esistenza, la sua essenza e i suoi attribuiti siano pienamente dimostrati da lorouna volta per tutte, il resto degli uomini utilizza lo stesso vantaggio? «Pochi uomini sono capaci di una meditazione profonda e continuata. Il popolo, obbligato a lavorare per vivere, non ha il tempo di riflettere. I grandi, i signori, le donne, i giovani, occupati nei loro affari, nelle loro passioni, nei loro piaceri, pensano tanto raramente quanto il popolo stesso. Forse due uomini su centomila si sono domandati seriamente che cosa intendevano con la parola Dio, mentre è difficilissimo trovare persone per cui l’esistenza di Dio costituisca un problema. Però la convinzione suppone l’evidenza che sola può procurare la certezza. Dove sono allora gli uomini convinti dell’esistenza di Dio? È soltanto sulla parola che popoli interi adorano il dio dei loro padri e dei loro preti. L’autorità, la confidenza e l’abitudine sostituiscono il convincimento e le prove. Tutto è fondato sull’autorità, tutto è interdetto all’esame e al ragionamento. «È quindi soltanto per i preti e per gli ispirati che è riservato il convincimento dell’esistenza di un dio, che si dice nondimeno necessario al genere umano? Non vi è quell’unanimità che ritroviamo quando si tratta della conoscenza anche delle più futili attività umane. Se Dio vuole essere conosciuto, ringraziato, adorato, non deve fare altro che mostrarsi in modo inequivocabile, in modo da convincerci, molto di più di queste rivelazioni che sembrano accusarlo di parzialità. Non ha altri mezzi delle metamorfosi? Perché i suoi nomi, i suoi attributi, le sue volontà, non sono stati scritti in caratteri ugualmente leggibili per tutti gli uomini? «La teologia, a forza di qualità contraddittorie, ha messo il suo dio nell’impossibilità di agire. Quand’anche esistesse con gli attributi discordanti che gli si danno, non potrebbe fare nulla per autorizzare il comportamento o i culti che si prescrivono come a lui dovuti. «Se è infinitamente buono, perché temere? Se è infinitamente saggio, perché inquietarci sulla nostra sorte? Se conosce tutto, perché avvertirlo dei nostri bisogni stancandolo con le nostre preghiere? Se è dappertutto, perché i templi? Se è padrone di tutto, perché sacrifici e offerte? Se è giusto, come pensare che punirà le sue creature che ha fatto tanto deboli? Se la sua grazia è onnipotente, perché ricompensare? Se è senza limiti come offenderlo, come resistergli? Se è ragionevole, come può incollerirsi contro i ciechi ai quali ha lasciato la facoltà del ragionamento. Se è immutabile, come pretendiamo di riformare, cambiare i suoi decreti? Se è inconcepibile, perché ce ne vogliamo fare un’idea? «Dall’altro lato, se è in collera, vendicativo e terribile, non siamo più autorizzati a indirizzargli i nostri desideri. Se è un tiranno, come si può amare un padrone che dà ai suoi schiavi la libertà di offenderlo, allo scopo di coglierli in fallo e punirli con la più raffinata barbarie? Se è onnipotente, come sottrarci alla sua collera? Se non può cambiare, come scampare al nostro destino? «In questo modo, quale che sia il punto di vista sotto il quale lo consideriamo non gli dobbiamo né culto né preghiere. «Se esistesse un dio, questo dio dovrebbe essere pieno d’equità, ragione e bontà, per cui che cosa dovrebbe temere da lui un ateo virtuoso che, credendo al momento della sua morte di addormentarsi per sempre, si trovasse invece davanti ad un dio che aveva trascurato durante la propria vita? «O Dio, egli direbbe, tu stesso ti sei reso invisibile, inconcepibile alle mie possibilità di scoperta, perdonami se l’intelligenza limitata che mi hai dato mi ha impedito di riconoscerti! Come potevo, a mezzo dei miei sensi, scoprire la tua essenza spirituale? Il mio spirito non si è piegato sotto l’autorità di qualche uomo, all’oscuro come me stesso, che continuamente insisteva per sacrificargli la ragione che mi hai dato. Ma, Dio mio, se tu ami le tue creature, io le amo come te. Se la virtù ti piace, il mio cuore l’ha sempre onorata. Ho consolato gli afflitti, non ho rubato al povero, sono stato giusto, buono, sensibile... «Spesso, a scapito di tutti i ragionamenti, certi momenti riportano l’uomo ai pregiudizi dell’infanzia, soprattutto nelle malattie che l’avvicinano alla morte. Si trema, perché la macchina è indebolita, il cervello è incapace di funzionare, si sragiona. Il nostro sistema prova le variazioni del nostro corpo». Nell’Illuminismo la negazione dell’immortalità dell’anima è basata ovviamente sulla naturalità dell’anima stessa e sulla riduzione di tutto l’insieme delle nozioni che si possedevano all’epoca sull’anima a semplici elementi della sensibilità. Il gioire, il soffrire, il pensare, ecc. In questo modo si ritorna alla concezione dell’anima come punto di riferimento per le azioni esterne che colpiscono l’individuo e lo obbligano a una determinata azione. Questa concezione dell’anima riporta Holbach a una valutazione positiva ancora una volta dell’elemento necessitante, tipico del determinismo. L’anima è in fondo una macchina e reagisce in modo uniforme in tutti gli individui. Cambiando le condizioni provenienti dall’esterno cambia l’azione dell’individuo, cambia la sua sensibilità, si modifica pertanto l’azione dell’individuo stesso. Anche se ritenuto importante, o comunque valido, se non proprio vero, valido ai fini della struttura sociale, del mantenimento dell’ordine sociale, il concetto di immortalità dell’anima è assolutamente privo di significato positivo in quanto non fa altro che svalutare la dimensione mondana in favore di una dimensione ultramondana che non è assolutamente pensabile. In effetti l’uomo è colpito dall’idea della morte, da questa interruzione improvvisa del flusso vitale e siccome vorrebbe continuare all’infinito questa vita, per quanto modesta o penosa essa sia, allora si immagina una vita successiva alla vita terrena. Questa sua immaginazione lo porta ad ammettere l’immortalità dell’anima. Per Holbach il concetto dell’immortalità dell’anima non è assolutamente utile ai fini del controllo sociale, in quanto non sarà certo il terrore di un castigo dopo la morte che frenerà coloro che sono decisi ad agire in senso deviante e questo per un motivo molto semplice, in quanto questa decisione è solo apparentemente frutto della loro volontà, mentre in effetti è frutto di una serie di azioni esterne che obbligano questi individui ad agire in maniera differente dagli altri. Ne consegue che la società, per modificare l’azione di questi individui devianti che disturbano l’ordine sociale e rendono difficoltoso il controllo sociale stesso, non può ricorrere a pene mitologiche successive alla vita mondana e conseguentemente anche al mito dell’immortalità dell’anima e a tutto il corredo religioso, ma deve procedere organicamente a modificare le condizioni oggettive che portano necessariemente una parte degli individui ad agire in modo stolto e negativo per gli interessi della società. Per i buoni, cioè per coloro che le condizioni oggettive sociali hanno posto davanti alla possibilità di agire in modo conforme agli interessi della collettività e quindi anche ai propri stessi interessi, per questi buoni, il mito dell’immortalità dell’anima e del premio dopo la morte non costituisce un elemento che può farli decidere a confermare la propria condotta di vita giusta e morale. Per gli stolti, i quali sono appunto, come si è detto, necessitati ad agire in questo modo cosiddetto deviante, il mito negativo di una punizione risulta anch’esso inefficace anche perché la religione ha avuto per motivi suoi, in quanto non poteva presentarsi come prospettiva troppo rigida, la necessità di proporre un condono, un modo di ovviare alle colpe, una remissione. Questo concetto della remissione dei peccati è ovviamente in contrasto con quello che è il concetto della punizione dopo la morte. In pratica, lo stolto agendo in modo non conforme agli interessi collettivi è sempre in grado di trovare nelle azioni che compie in modo deviante, gli elementi per ovviare allo spauracchio della punizione dopo la morte. È nella mentalità stessa dello stolto simile ragionamento, e la duplice moralità prospettata da molta parte del pensiero religioso favorisce secondo Holbach questa possibilità. «Che cos’è dunque il fanatismo? È l’effetto d’una falsa coscienza che abusa delle cose sacre e asservisce la religione ai capricci dell’immaginazione e ai disordini delle passioni. In generale deriva dal fatto che i legislatori hanno avuto vedute troppo ristrette, e che sono stati superati i limiti da loro prescritti. Le loro leggi erano fatte soltanto per una società scelta. Estese dallo zelo religioso a tutto un popolo, trasportate dall’ambizione da un clima all’altro, dovevano cambiare e adattarsi ai luoghi e alle persone. Ma che cos’è accaduto? È accaduto che certi individui, di carattere più simile a quello del piccolo gregge per cui tali leggi erano state fatte, le hanno accolte con lo stesso fervore e ne sono divenuti gli apostoli e persino i martiri, piuttosto che cedere di un solo iota. Gli altri invece, di temperamento meno ardente o più attaccati ai pregiudizi in cui erano stati educati, hanno lottato contro il giogo delle- nuove leggi, e le hanno accettate solo con qualche modifica: di qui lo scisma fra rigoristi e mitigati, bramosi gli uni di servitù, gli altri di libertà. Un po’ di tolleranza e di moderazione; e soprattutto non confondete mai una sventura (com’è l’incredulità) con un delitto, che è sempre volontario. Tutta l’asprezza dello zelo dovrebbe volgersi contro coloro che credono, e non agiscono; gli increduli dovrebbero essere lasciati nell’oblio che meritano, e che devono desiderare. Punite, sì, alla buonora, quei libertini che combattono la religione solo perché sono ribelli a qualsiasi specie di giogo, che attaccano la morale e le leggi in segreto e in pubblico; puniteli, perché disonorano la religione nella quale sono nati e la filosofia di cui fanno professione; perseguitateli come nemici dell’ordine e della società; ma compiangete coloro che si rattristano della propria mancanza di fede. Non è forse per loro una perdita già abbastanza grave, senza aggiungervi calunnie e tribolazioni? Non sia dunque permesso alla canaglia d’insultare la casa di un uomo onesto a colpi di pietra, perché è scomunicato; ch’egli possa ancora godere dell’acqua e del fuoco, quando gli è stato proibito di accostarsi al pane dei fedeli». (Alexandre Deleyre, Enciclopedia, voce Fanatismo). Gli enciclopedisti sono prudenti ma non svendono il loro impegno. Nel grandissimo tessuto di questa immane opera sanno bene districarsi con le parole e colpire l’avversario, che rimane sempre lo stesso, in modo da metterlo in difficoltà e guadagnare spazio alle proprie idee. Nella rammemorazione ho un mio passato da riconoscere, non da conoscere, quel passato è un’avventura nella qualità, non è un accadimento qualsiasi, non mi posso porre nei suoi confronti in maniera esattamente simmetrica, da qualche parte sta una prevalenza, un debordare, un eccesso. Per questo motivo non sono l’uomo della normalità, non ho una vocazione educativa, non mi propongo per una osservazione sotto i lampioni semiciechi di una scienza tronfia e adorna dei propri successi. Non mi attendo dalla rammemorazione spiegazioni o discolpe, mi aspetto un dissenso partecipe, un sano marmoreo spavento innamorato che faccia da tappeto a una disputa soggiacente e mai risolvibile, che non fornisca simulacri autogiustificativi. La misura nasconde nel suo grembo l’asciutta metafora della rinuncia, della sicurezza, la serietà ottusa del fanatismo. Se voglio la totalità non posso stringerla nelle mani ma posso dispormi ad afferrarla, e questo vuol dire abbandono, cigolio continuo della diversità che mi annuncia la sua vicinanza e nello stesso momento la sua indisponibilità, chiusura brutale nei riguardi del buonsenso. «Cap. XXV. Difficoltà dell’idea di Dio. Pochi sanno meditare. Pochissimi si chiedono cos’è Dio. La gran parte ne dà per scontata l’esistenza. Tutto è basato sull’autorità, nessun posto per la ragione. Solo gli specialisti dicono di conoscere Dio. Serie di contraddizioni. Ragionamento per assurdo dell’ateo. Possibile ritorno ai pregiudizi dell’infanzia». (Appunti manoscritti di Donatien Alphonse François de Sade sul Vero senso del sistema della natura). Non c’è un unico modo di dire no, di sviluppare una critica negativa. Ciò fa perdere un sacco di tempo in stupide circonlocuzioni dubitative e così non si arriva a riflettere bene su ciò che è più importante. Posso, a volte, essere pronto per dare inizio alla critica, ma qualcosa mi lega a quello che sto pensando e dicendo, io voglio credere nella coerenza di qualche tesi, e così perdo spesso l’occasione per non identificarmi in loro. Alla fine riesco a liberarmi riflettendo sul fatto che sto correndo il rischio di essere soltanto quello che sto pensando e dicendo, cioè parole, con migliore attenzione, niente. C’è da compiangere chi non si rende conto del rischio di non arrivare a capire questa evidente conclusione negativa. È proprio lì che comincia la critica. *** Capitolo ventiseiesimo: Apologia dei sentimenti contenuta in questo lavoro. Dell’empietà. Esistono gli atei? «Si freme al solo sentire nominare un ateo, ma che cos’è dunque un ateo? Un uomo che distrugge delle chimere nocive al genere umano, per ricondurre gli uomini alla natura, all’esperienza, alla ragione; che non ha bisogno di ricorrere a potenze ideali per spiegare le operazioni della natura. «Seguendo i teologi è pazzesco supporre nella natura un movimento incomprensibile. Quindi è un delirio preferire il conosciuto all’incognito, consultare l’esperienza, la testimonianza dei sensi, indirizzarsi alla ragione e preferire i suoi oracoli alle decisioni di qualche sofista, che confessa egli stesso di non comprendere il dio che annuncia? «Vedendo le fratture che causano le opinioni degli atei, non sono in diritto di diffidare della bontà della loro causa? Tiranni degli spiriti, sono loro che diffamano la Divinità, dicendo che è crudele, desiderosa del sangue degli sciagurati. Sono loro i veri empi. Insultare un dio in cui si crede significa essere empio, colui che non riconosce alcuna Divinità non può ingiuriarla e per conseguenza non può essere chiamato empio. «D’altro canto, essere pio, significa servire la patria, essere utile ai propri simili, osservare le leggi della natura. Un ateo può quindi essere pio, onesto, virtuoso, quando la sua condotta non si allontana dalle leggi che la natura e la religione gli prescrivono. «Non si vedono cadere nell’ateismo, ci dicono, uomini che hanno modo di sperare che la loro condizione futura sarà felice. Solo l’interesse delle passioni e la paura fa gli atei. Ma l’uomo che cerca di illuminarsi, che consulta la sua ragione, l’uomo cui questa ragione imprime le idee di virtù, non è colui che si deve supporre nella situazione di rinunciare più di un altro ad una vita futura e di temerne i castighi. «È vero che gli atei sono rari, perché l’entusiasmo ha reso ottusi gli spiriti e perché l’errore ha fatto tanti progressi che pochi uomini hanno il coraggio di volere correggersi. Tuttavia se per atei s’intendono gli uomini guidati dall’esperienza e dalla testimonianza dei loro sensi; che non vedono nella natura se non ciò che vi è realmente; se per atei s’intendono fisici, che senza ricorrere ad una forza chimerica, credono potere spiegare le leggi del movimento; se per atei s’intendono tutti coloro che non sanno cosa sia uno spirito, che rigettano un fantasma le cui qualità assurde non possono che turbare il genere umano, non c’è dubbio che esistono molti atei, e che ve ne sarebbero di più se la conoscenza fisica e l’uso della ragione fossero più estesi. «Un ateo è un uomo che non crede all’esistenza di un dio. Ora nessuno può essere sicuro di un essere che non può concepire, e che riunisce insieme qualità incompatibili. In questo senso, molti teologi si potrebbero considerare atei, come pure tutta questa gente credula che, sulla parola, si mette in ginocchio davanti ad un essere di cui non ha alcuna idea e che è stato indicato da qualcuno che allo stesso modo non lo comprende». Nell’Illuminismo il movimento è spiegato attraverso il rapporto fra gli esseri e gli oggetti, gli organi e gli esseri, gli oggetti fra di loro. Questa spiegazione che può sembrare rudimentale ha una caratteristica che mi sembra molto importante, la riscontro nella fondamentale relazionabilità del sistema di pensiero di Holbach. In effetti, il movimento è dato da una serie di rapporti che le cose hanno fra di loro, questi rapporti non hanno inizio e quindi non possono essere pensati come aventi una fine. In fondo, non hanno nemmeno uno scopo. In un certo senso il concetto di movimento di Holbach viene a negare anche il concetto di progresso, il concetto di una scala di movimenti. Se tutto l’universo è in movimento le relazioni fra le varie realtà si equivalgono. Ma questo aspetto ovviamente non può essere colto da Holbach in quanto il suo pensiero resta legato all’aspetto fisicalista del problema del movimento. L’Illuminismo fallisce tutte le volte che pretende realizzare un salto dalla quantità alla qualità, affidandosi alle buone intenzioni della ragione. «L’empio parla con disprezzo di ciò a cui crede in fondo al cuore. L’incredulo nega a prima vista la verità di ciò che non ha esaminato né vuol darsi la briga di esaminare seriamente, perché, colpito dall’apparente assurdità delle cose che gli si vogliono far credere, non le giudica degne di ulteriore riflessione. Colui che si rifiuta di credere perché non è convinto, ha esaminato, ha riflettuto, e dal confronto tra la cosa e le prove ha creduto di poter dedurre che la certezza risultante dalle prove che la cosa stava così come gli veniva detto, non è tale da controbilanciare la sua inclinazione a credere – in base sia alle circostanze relative alla cosa stessa, sia ad esperienze reiterate – o che quella cosa non è accaduta affatto, o che è accaduta diversamente da come gliela raccontano. Si possono avere dubbi solo su una cosa possibile; e si è tanto meno portati a credere al passaggio dal possibile all’esistente quanto più deboli sono le prove di tale passaggio, quanto più fuor dell’ordinario le circostanze, quanto maggiore il numero delle esperienze in cui l’affermazione che un tale passaggio era avvenuto si è dimostrata falsa o in casi simili, o persino anche in casi meno straordinari; di modo che, se i casi in cui una cosa del genere si è dimostrata falsa stanno ai casi in cui si è dimostrata vera nel rapporto di mille a uno, e se questo rapporto è soltanto raddoppiato dalla combinazione di circostanze relative alla cosa considerata in sé, senza tenere alcun conto dell’esperienza, bisognerà che le prove del passaggio dal possibile all’esistente siano equivalenti a 1999 almeno. Chi avrà fatto questo calcolo e constatato che il numero delle probabilità è di 1999 a 1, o inferiore a questa cifra, sarà uno che si rifiuta di credere in buona fede e a ragion veduta. Chi invece non avrà fatto il calcolo, ma avrà presunto che il risultato sia tale quale in effetti è e deve essere, grazie all’abitudine d’uno spirito abituato a discernere la verità senza entrare nell’esame scrupoloso delle prove, sarà necessariamente un incredulo; l’empio avrà in bocca i discorsi dell’incredulo, e in mente una supposizione contraria: così, il ragionato rifiuto di credere è illuminato dalla meditazione, l’incredulità dal sentimento, mentre l’empietà si stordisce da sola; colui che non crede a ragion veduta merita di essere istruito, l’incredulo di essere esortato, l’empio solo è senza scusa. L’empietà non è incompatibile con la credulità. Un idolatra che crede nel suo idolo e lo manda a pezzi quando le sue preghiere non sono esaudite, è un empio; un cattolico che si accosta all’eucaristia senza riconoscere in sé le disposizioni necessarie, è un empio; un maomettano agli occhi del quale gli articoli della sua fede sono tante assurdità indegne di impegnare la riflessione, è un incredulo; il protestante che, in base ad un esame imparziale, giunge a formarsi gravi dubbi sulla preferenza che concede alla sua setta, è un uomo che si rifiuta di credere a ragion veduta. Del resto, trattandosi di questioni morali, potrebbe benissimo capitare che, quand’anche ci fosse da scommettere duemila contro uno che una data cosa è vera, quella cosa fosse poi falsa. L’uomo senza fede può dunque ragionevolmente supporre che la verità sia dove non è; e all’incredulo è ancora più facile sbagliarsi. Ma non si tratta di ciò che è vero o non è vero, bensì di ciò che ci pare. È il nostro giudizio quello che conta; e quando saremo in buona fede, la verità non ci sfuggirà. V’è lo stesso pericolo nel negare tutto e nell’ammettere tutto indistintamente: è il caso della credulità, il vizio più favorevole alla menzogna». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Credulità). La paura della diversità, della propria coscienza diversa, impedisce di valutare nella loro profonda carica trasformativa l’avventura nel territorio della cosa. Finché resto nel fare, una illusione di possesso che alimento quasi senza accorgermene, almeno a volte, mi dà la speranza di un possibile completamento, e la paura, o l’inquietudine, si controbilanciano con la vanità e la civetteria del possesso. Non appena oltrepasso il fare e sono nel pieno dell’azione, il gusto del possesso mi si scioglie fra le mani. In prospettiva, di fronte al destino, è la sconfitta il mio vero discorso, la semplice sconfitta, ciò che corrisponde più profondamente a quello che voglio diventare, solo me stesso. Il destino non mi attribuisce nulla di più complesso, coglie solo questa linearità che inserisce nelle sue aspettative. Visibile apparirà così la sua possibilità, dove si cancellano in un colpo tutti i volti delle alternative, tutti i disaccordi delle varianti, tutte le incertezze della semplice certezza fattiva. Nessuna malattia mortale può uccidermi in queste trasformate condizioni, la morte di cui parlo qui mi riconduce al fare e la nascita, movimento dell’oltrepassare netto, mi riconduce alla cosa. La malattia mortale è la quotidianità di cui muoio un poco alla volta. Qui annega la scelta nella vacuità della scelta. La volontà presiede al recupero del cadavere. Posso scegliere e scelgo solo quello che mi viene imposto di scegliere. Più mi immergo nella realtà e più perdo di vista il suo contenuto concreto, mille indirizzi mi sospingono all’accumulo, mi sento ricco e sono sempre più povero. È disperante credere fino in fondo in quello che mi circonda, con una fede cieca e vuota. Spazio necessariamente minatorio. L’interpretazione su cui non si può dire nulla in contrario, precipita me stesso nell’oggetto e ne problematizza le conseguenze fattuali. La custodia dell’essere non racchiude che un rimando continuo alla qualità. L’infinità dei tentativi di essere nella qualità rammemora la molteplicità qualitativa come posso coglierla nell’unità inseparabile, molti essendo i modi del mio coraggio che si coinvolge nel micidiale non sapere che si sostituisce al sapere e lo esautora. Ogni tentativo riparte dall’inizio, dalla messa in crisi del competere, è radicale negazione di ogni sicurezza, alla fine potrebbe anche essere oblio. La nuova luce della qualità diventa prima o poi insopportabile e la stessa rammemorazione perde il suo significato se ogni volta non è ulteriore rischio fino in fondo o se cerca di portare qualcosa a casa. Se interviene l’oblio mi chiudo in me stesso in nome della necessità, il centro del mio cuore torna a inaridirsi, l’istante della vita mi sfugge ed è la tenebra della morte. «Cap. XXVI. L’ateo fa paura, è diverso. L’ateo non è empio (difesa). L’ateo può essere pio. La ragione consente di controllare le passioni e di sapere rinunciare. Ateo come chi usa la ragione. Ateo come fisico e scienziato. Ateo come negatore dello spirito. Quasi tutti gli esseri ragionevoli sono atei se non credono in qualcosa che non possono concepire». (Appunti manoscritti di Donatien Alphonse François de Sade sul Vero senso del sistema della natura). L’eterno ritorno è un’idea di abbandono, Nietzsche è uno dei filosofi più vicini alla qualità. Nulla più di uno scheletro suggerisce l’idea del ritorno eterno. Ogni domanda ha sempre la stessa risposta, manca l’ebbrezza dell’identità, della modificazione quantitativa. Gli antichi eremiti, i grandi mistici, e altri, tenevano a portata di mano un teschio, e lo interrogavano di continuo per calmarsi, per persuadersi, per tranquillizzarsi, per non smarrirsi, avevano così una unità di misura fuori misura. *** Capitolo ventisettesimo. L’ateismo è compatibile con la morale? «Se l’ateo nega l’esistenza di Dio, non può negare la propria esistenza e neppure quella dei suoi simili. Non può dubitare dei rapporti che esistono tra quest’ultimi, né della necessità dei doveri che derivano da questi rapporti. Non può quindi dubitare dei princìpi della morale che è la scienza dei rapporti sussistenti tra gli esseri viventi in società. Se qualche volta può dimenticare i suoi princìpi morali, non può dedurne che essi siano falsi. Può essere inconseguente nei suoi princìpi, ma il filosofo miscredente non è temibile come il prete entusiasta. Pensiamo che un ateo, per il fatto di non temere la vendetta di Dio, si permetterà tutti gli eccessi più nocivi a lui stesso e più degni di castigo? «Saremo forse più felici sotto un tiranno che crede in Dio, copre i preti di doni e si umilia ai loro piedi, o sotto un tiranno che si dichiara ateo? Almeno non vi sarà pericolo di vessazioni religiose, almeno questo nome di Dio, di cui il monarca si serve per dare un fulgore divino alla propria persona, non potrà servire come scusa alle persecuzioni del tiranno, Almeno non avrà la speranza dell’espiazione dei suoi crimini che invece la religione gli promette. «Vi sono stati molti inconvenienti a fare dipendere la morale dall’esistenza di un dio. Anime corrotte, venendo a scoprire la falsità di questa supposizione, credettero che la virtù, come gli dèi, non fosse che una chimera, e che non ci fosse bisogno di praticarla. Ma è come esseri viventi in società che la morale ci obbliga, sia che esiste un dio o non esiste i nostri doveri saranno gli stessi. «Quindi, se si trovano atei che negano la distinzione del bene e del male, significa che non ragionano. Questa, infatti, è fondata sulla natura dell’uomo, che obbliga a cercare il benessere e a fuggire il dolore. Domandate a un uomo abbastanza insensato da negare la differenza tra il vizio e la virtù, se non lo disturberebbe essere bastonato, derubato, calunniato, tradito, insultato. La sua risposta vi proverà che egli riconosce una differenza tra le azioni degli uomini, e che la distinzione tra bene e male non dipende dalle convenzioni umane, né dalle idee che si possono avere delle Divinità, né dalle ricompense o castighi nell’altra vita. «Un ateo che non ammette che la propria esistenza presente deve almeno desiderare di vederla felice. L’ateismo, dice Bacone, rende l’uomo previdente, in quanto non vede nulla al di là dei limiti di questa vita. Gli uomini abituati a meditare e a trovare diletto negli studi non sono cittadini pericolosi. «Le persone che la religione fa cadere in errore, credono che questa sia necessaria al popolo, che non potrebbe essere contento diversamente, ma la religione influisce in maniera veramente utile sui costumi del popolo? Essa lo rende servo, senza farlo migliore, ne fa una massa di stupidi che non conoscono altra virtù che quella di una cieca sottomissione a pratiche alle quali attribuiscono molta più importanza che alle virtù reali che non conoscono. Bambini ignoranti non sono intimiditi che per qualche istante da immaginari terrori. È mostrando la verità che si può fare conoscere il valore della virtù e il modo di ottenerla. «Sì trovano molti atei solo nelle nazioni in cui la superstizione, secondata dall’autorità sovrana, fa sentire la pesantezza del suo giogo e abusa impunemente del suo potere illimitato. L’oppressione dà forza all’anima, la spinge ad esaminare da vicino l’origine dei propri mali. La disgrazia è una potente spinta, che porta gli spiriti verso la verità». La nascita delle chimere, e quindi delle ideologie, delle fantasie, della metafisica in generale, è attribuita da Holbach alla incapacità di cogliere le cause e alla naturale tendenza a lasciarsi affascinare dagli effetti. In un certo senso questo pensiero ha avuto uno svolgimento abbastanza importante nei secoli successivi in quanto il concetto stesso di ideologia, come viene vissuto oggi nella sua concezione più moderna, si considera come una copertura della realtà, copertura che non è necessariamente, o almeno che non può essere sempre riportata ad una ortopedia reazionaria, con cui si intende coprire l’effettiva consistenza dei rapporti di forza. Ma più che altro, certe volte, almeno nel significato di fruizione dell’ideologia stessa, assume il senso della involontarietà. L’accettazione delle chimere metafisiche e quindi la chiave per capire le ideologie in senso moderno, è in fondo anche questa, non già soltanto l’aspetto dell’elaborazione, ma anche l’aspetto dell’accettazione passiva dell’ideologia stessa. In questo senso ho un effetto di cui non conosco la causa che viene necessariamente posto in relazione a una causa immaginaria. Ma, secondo Holbach, in natura non possono esistere cause che non abbiano effetti naturali come non possono esistere effetti che non abbiano le loro cause naturali. Esiste quindi una legge necessitante che lega le cause e gli effetti. Oggi so che questo tipo di discorso è abbastanza discutibile. Molte critiche sono state sviluppate a questa concezione meccanicistica della necessità, a questa concezione determinista. Gli effetti non hanno necessariamente cause precise e le cause non necessariamente afferiscono a effetti precisi. Non esiste un concetto di svolgimento necessario della realtà in una certa direzione. Ma ciò non comporta il fatto di potere giustificare attraverso questa valutazione indeterminista del processo sociale una dimensione sovrannaturale. Anche la legge di conservazione dei corpi è chiaramente prodotta dallo stato delle ricerche scientifiche dell’epoca di Holbach, ma per il filosofo il ragionamento si lega ovviamente ai corpi, esso comprende anche gli organismi più complessi come l’uomo. Ora, tenendo conto che adesso si sa perfettamente come l’uomo costituisca non soltanto un organismo e quindi un’organizzazione fisica, biologica, ma anche e principalmente un’organizzazione sociale, la legge di autoconservazione a cui fa riferimento Holbach può essere indiscussamente rivalutata alla luce dell’autoconservazione dell’organismo sociale. Quindi il movimento nello spazio sociale in questo senso avrebbe un’importanza anche come autodifesa, autoconservazione dell’organizzazione stessa, come un tentativo attraverso i rapporti, cioè attraverso il processo di movimento, di autogiustificare l’esistenza stessa dell’organizzazione in quanto tale. È di Holbach una delle affermazioni deterministiche più radicali nella storia del pensiero materialista e meccanicista e come tale in un certo senso oggi ha fatto il suo tempo. La forza con cui la natura va avanti, questa fede che Holbach possiede nelle sorti positive della natura, evidentemente è una molla che muove il pensiero illuminista nel suo complesso. In fondo, l’idea stessa di progresso non avrebbe avuto senso se non si fosse tenuto conto, nella mente dei maggiori pensatori dell’Illuminismo, di questa forza irresistibile, di questa universale necessità che spinge la natura delle cose verso il futuro. «In ogni Stato ben costituito l’obbedienza a un potere legittimo è il dovere più indispensabile dei sudditi. Rifiutare di sottomettersi ai sovrani, significa rinunciare ai vantaggi della società, rovesciare l’ordine e cercar di introdurre l’anarchia. I popoli, obbedendo ai loro prìncipi, obbediscono solo alla ragione e alle leggi, operano solo per il bene della società. Solo dei tiranni potrebbero comandare cose contrarie alla ragione e alle leggi; essi oltrepasserebbero i limiti del potere legittimo, e i popoli avrebbero sempre il diritto di reclamare contro la violenza usata loro. Solo un’adulazione vergognosa, un odioso avvilimento hanno potuto far dire a Tiberio da un senatore romano: Tibi summum rerum judicium dii dederunt, subditis obsequii gloria relicta est. L’obbedienza, dunque non deve essere cieca, non può portare i sudditi a violare le leggi della natura». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Obbedienza). L’importante funzione di cui la coscienza immediata continua a dolersi, e a gloriarsi, è incapace di produrre l’azione, necessita di un perfezionamento, di una pressione artificiosamente costruita attorno alla volontà che la reprime, per evitare gli effetti di controllo, e necessita anche di un accesso personale e senza remore al coinvolgimento, alla lotta di liberazione. Il semplice turbamento non è sufficiente, un accecamento temporaneo non mi catapulta direttamente nel territorio della qualità, mi rende solo uno zombi infelice, tutto qui. Allo stesso modo in cui è infelice l’ansioso che spera di trovare se stesso nel fare genericamente indirizzato verso una critica negativa della immediatezza. Soluzione non solo incompleta, ma quasi sempre tragicamente deludente, provvista come è di un’angustia mentale e conoscitiva da fare rabbrividire. Non si deve mai guardare il dito che indica la luna. Il salto di cui il coinvolgimento è una caratteristica, non ha calcoli né davanti a sé né dietro di sé. Se una strategia può essere ricostruita, questo può accadere sempre a posteriori e appartiene, sia pure impropriamente, all’insieme di sforzi che riassumo nel termine di rammemorazione. Se non apro bene gli occhi in queste prospettive finisco per morire nella condizione irreversibile che mi sta soffocando. Invecchiare senza crescere. La gioia della vita può appartenere solo a chi sa discutere con la totalità. Chi conteggia a priori i limiti e le prospettive, avrà solo briciole da mascherare come abbuffate. La spudoratezza è altro della sincerità, contiene un tocco in disparte di inappagata bramosia che nessuno può guardare senza rabbrividire. Il sincero è spesso roso dalla vergogna di quello che involontariamente nasconde, ecco perché a volte lo si vede insoddisfatto di sé, voglioso di proliferare propagando la sua misera veste bianca sotto la quale pensa di nascondere ciò che risulta evidente a tutti quelli che hanno occhi per vedere attraverso le apparenze e i giochi di parole. «Cap. XXVII. L’ateo nega Dio non i rapporti della realtà, tra gli uomini; non nega i doveri, non nega la morale. Può errare ma non nega la morale (Difesa). Tiranno religioso e tiranno ateo. Discussione. Pericolo per la morale, la religione e Dio». (Appunti manoscritti di Donatien Alphonse François de Sade sul Vero senso del sistema della natura). Una esplosione di rabbia salva le apparenze, dà il segnale di una vitalità che potrebbe non esserci, spesso i più aggressivi sono gli otri quasi vuoti, le zucche più grosse. I più calmi danno altrettanto spesso l’impressione di essere dei mostri, deformi animali a sangue freddo. In genere preferisco gli aggressivi, anche se qualche volta scopro che sotto la parrucca arruffata si nasconde una testa vuota. Gli imparziali mi fanno venire freddo alla schiena, davanti a loro cerco sempre di guardarmi alle spalle. *** Capitolo ventottesimo. Dei motivi che conducono all’ateismo. Questo sistema può essere pericoloso? Può essere accettato dal volgo? «Si chiede quale interesse abbiano gli uomini a non ammettere un dio? Ma le tirannie, le persecuzioni esercitate in suo nome, la schiavitù in cui ci tengono i preti, non sono motivi sufficienti per determinarci ad esaminare l’esistenza di un essere che fa tanto male agli uomini? Vi è un motivo più grande di questa paura irritante che ci viene dall’idea di un dio che si irrita per i nostri pensieri più segreti, che possiamo offendere senza saperlo, che non siamo mai sicuri di accontentare, che ci permette di peccare sciaguratamente per punirci, che si vendica senza fine dei delitti di un momento? «Il deista ci dirà che non si tratta di quello che la superstizione ci dipinge. Ma questa supposizione non prova la sua esistenza. D’altronde, se il dio dei superstiziosi è rivoltante, quello del deista è sempre un essere contraddittorio e impossibile. «Il superstizioso, quando ha il cuore depravato, trova nella sua religione mille pretesti più dell’ateo per nuocere all’umanità. Questi non ha il mantello dello zelo per coprire la propria vendetta e i propri furori. «Mai un ateo di buon senso crederà che le azioni crudeli originate dalla religione possano essere giustificate. Se l’ateo è un perverso, egli sa almeno che fa del male. Né dio, né i preti lo persuaderanno che fa del bene. «Ci dicono che la condotta indecente e criminale dei preti non prova nulla contro la religione. Ma non si può dire lo stesso di un ateo, che può avere una buona morale con una condotta sregolata. Ci dicono che l’ateismo fa sparire la santità dei giuramenti, ma lo spergiuro non è raro nelle nazioni religiose, né presso le persone che si vantano di più di credere in Dio. I re più religiosi osservano i loro impegni? La religione stessa li dispensa spesso, soprattutto quando si tratta dei suoi sacri interessi? I bricconi di tutti gli Stati, si fanno indietro quando si tratta di prendere a testimonianza il nome di Dio? A che servono i giuramenti? Si tratta di una vana formalità che non s’impone agli scellerati e che non aggiunge nulla agli impegni degli uomini onesti. «Si è chiesto se è esistita una nazione senza alcuna idea di Dio, e se un popolo composto di atei possa esistere. «L’uomo, nella sua qualità di animale pauroso e ignorante, diventa necessariamente superstizioso nelle sue sciagure. O si costruisce un dio, o ammette quello che altri vogliono dargli. Ma, dall’esistenza dei suoi dèi, il selvaggio non trae le stesse deduzioni dell’uomo ragionevole. Un popolo selvaggio si contenta di un culto grossolano senza ragionare sulle divinità. Solo presso le nazioni civili gli uomini sottilizzano le loro nozioni. «Non c’è dubbio che una società numerosa, che non ha religione né morale né governo né leggi né princìpi non può sussistere; in quanto non farebbe che avvicinare esseri disposti ad arrecarsi danno. Ma con tutte le religioni del mondo, le società umane non sono forse in questo stesso stato? Una società di atei, governata da buone leggi, invitata alla virtù dalle ricompense, stornata dal crimine dai castighi, sarebbe molto più virtuosa di queste società religiose in cui tutto cospira a tediare lo spirito e a corrompere il cuore. «Non si può sperare di strappare a tutto un popolo le proprie idee religiose, perché gli sono inculcate fin dall’infanzia. Ma il volgo può trarre a lungo andare giovamento dalle fatiche di cui non ha conoscenza. L’ateismo, avendo dalla sua la verità, può insinuarsi negli spiriti e diventare loro familiare». Liberarsi dal bagaglio divino è soltanto il primo passo. Bisogna evitare, dopo, di trasportarlo sulla terra e qui di costruire un dio terreno, un idolo o un fantoccio, capace di impersonare, come in epoca recente ha fatto il partito dei proletari, la divinità spodestata dall’ateismo militante. «È nella natura della cosa – scrive Stirner – che lo spirito che deve esistere come puro spirito appartenga a un aldilà: giacché io non lo sono, non può essere che fuori di me; giacché un uomo non può assolutamente dissolversi del tutto nel concetto di “spirito”, il puro spirito, lo spirito come tale, non può essere che fuori degli uomini, al di là del mondo umano, non in terra, ma in cielo. Il fatto che lo spirito dimori necessariamente nell’aldilà, cioè sia Dio, si chiarisce in modo del tutto tautologico soltanto sulla base di questo dissidio in cui io e lo spirito ci troviamo, soltanto per il fatto che io e spirito non sono nomi che designano una ed una sola cosa, ma nomi diversi per cose totalmente diverse; soltanto per il fatto che l’io non è spirito e lo spirito non è l’io. Da da tutto ciò risulta anche che la liberazione che Feuerbach [Das Wesen des Christentums, seconda edizione aumentata, Leipzig 1843] si sforza di regalarci è puramente teologica, cioè piena di sapienza divina. Infatti egli afferma che noi abbiamo disconosciuto la nostra propria essenza e l’abbiamo perciò cercata nell’aldilà; ma adesso, essendoci accorti che Dio non è altro che la nostra essenza umana, dovremmo riconoscerla nuovamente come nostra e trasferirla dall’aldilà nell’aldiqua. Il Dio che è spirito viene chiamato da Feuerbach “nostra essenza”. Ma noi dobbiamo accettare che la “nostra essenza” venga messa in opposizione a noi stessi, dobbiamo accettare di venir spaccati in un io essenziale e in un io inessenziale? Non ricadiamo così nel triste e miserevole destino di venir esiliati da noi stessi? Che cosa ci guadagniamo se, per cambiare, spostiamo il divino da fuori di noi a dentro di noi? Siamo noi ciò che è in noi? Tanto poco quanto siamo ciò che è fuori di noi. Io sono così poco il mio cuore quanto sono la mia amata del cuore, che pure è “un altro me stesso”. Proprio perché noi non siamo lo spirito che abita in noi, abbiamo dovuto porlo fuori di noi: non era noi, non faceva tutt’uno con noi e perciò non abbiamo potuto pensarlo esistente se non fuori di noi, al di là di noi, nell’aldilà. Feuerbach, con la forza della disperazione, afferra l’intero contenuto del cristianesimo, non per buttarlo via, ma per trarlo a sé (giacché a lungo l’abbiamo desiderato, ma è sempre rimasto lontano), per strapparlo, con un ultimo sforzo, dal suo cielo e per tenerlo eternamente presso di sé. Non si tratta forse di un ultimo gesto di disperazione, col quale si decide la vita e la morte, e non si tratta al tempo stesso del desiderio struggente, dell’anelito cristiano verso l’aldilà? L’eroe non vuol partire per l’aldilà, ma vuole attirarlo a sé e costringerlo a diventare aldiqua! E da allora non grida tutto il mondo, con maggiore o minore consapevolezza, che ciò che importa è l’“aldiqua” e che il cielo deve venire sulla terra, affinché possiamo viverlo già da adesso? Mettiamo brevemente a confronto il punto di vista teologico di Feuerbach e la nostra confutazione! “L’essenza [Wesen] dell’uomo è l’essere [Wesen] supremo dell’uomo; esso viene sì chiamato Dio dalla religione e considerato un essere oggettivo, ma in verità non è che l’essenza propria dell’uomo. Questo è perciò il punto di svolta della storia universale: d’ora in avanti per l’uomo Dio non apparirà più come Dio, ma sarà l’uomo ad apparire come Dio”. [Cfr. L. Feuerbach, op. cit., p. 402]. Noi replichiamo: L’essere supremo è certamente l’essenza dell’uomo, ma appunto perché è la sua essenza e non lui stesso è perfettamente identico che noi lo vediamo fuori di lui e lo consideriamo “Dio” oppure che lo troviamo in lui e lo chiamiamo “essenza dell’uomo” oppure “l’uomo”. Io non sono né Dio, né l’uomo, né l’essere supremo, né la mia essenza e perciò in fin dei conti non cambia niente se io penso l’essenza in me o fuori di me. Infatti noi pensiamo effettivamente già da sempre l’essere supremo in un doppio aldilà, interiore ed esteriore al tempo stesso: lo “spirito di Dio”, infatti, è secondo la concezione cristiana anche il “nostro spirito” e abita in noi! [Cfr. Romani, 8, 9; Prima Corinti, 3, 16; Giovanni, 20, 22 e innumerevoli altri passi]. Lo spirito dimora in cielo e dimora in noi; noi povere cose non siamo appunto nient’altro che la sua “dimora” e se Feuerbach adesso distrugge la sua dimora celeste e lo obbliga a trasferirsi con armi e bagagli da noi, ho paura che noi, suo alloggio terreno, saremo un po’ sovraffollati. Ma dopo questa digressione, che avremmo dovuto rimandare a dopo, se ci preoccupassimo in genere di procedere dritti, evitando le ripetizioni, torniamo alla prima creazione dello spirito, allo spirito stesso. Lo spirito è qualcos’altro da me. Ma che cos’è mai questo qualcos’altro?». (M. Stirner, L’unico, tr. it., Trieste 2003, pp. 30-32). Qui si è fatto un passo in avanti nei riguardi della posizione strettamente materialista dell’Illuminismo francese. L’intermediario di questo movimento è, ancora una volta, Hegel. Così Karl Rosenkranz: «La filosofia hegeliana ha superato l’opposizione tra il pensiero puro, ossia astratto, che prescinde dall’intuizione, e l’intuizione pura, ossia astratta, che prescinde dal pensiero; essa ha effettivamente superato, dal punto di vista dei princìpi, anche l’opposizione di ragione e di realtà effettuale, di teoria e di prassi, di idealità e di realtà sensibile, di pensiero e di essere, di soggetto e di oggetto, di speculativo e di empirico, di idea e di storia, e tutto questo anche se l’applicazione del suo metodo a tutti i campi del sapere abbia dato origine a delle lacune ed a vari errori nelle questioni particolari. Una posizione ostile nei confronti dell’ontologia e dell’empiria, della teoria e della prassi, non è più possibile da parte della filosofia, ma da parte loro contro la filosofia sì, in quanto continueranno ad avere delle rappresentazioni antiquate del filosofare e a sognare per esso un procedimento esoterico e miracolistico. La filosofia non deve decadere nuovamente dal suo concetto di più semplice ed ultima forma della scienza in generale. Senza predilezione per alcun oggetto, essa deve esplorare l’universo con uguale giustizia, poiché, nel sistema del Tutto, il Tutto è connesso con il Tutto. Dio è tanto un grande geometra che un buon moralista. Hegel dovette perciò creare un’Enciclopedia delle scienze filosofiche ed elaborare successivamente tutti i momenti fondamentali del suo sistema, chiudendo con la filosofia della storia. Ma i suoi scolari dovettero dapprima provare le proprie forze nella trattazione delle singole scienze, per cui la scuola si venne frantumando nel movimento del nostro tempo e si divise fino all’estremo in tutte le tendenze possibili. Nel campo dell’arte cominciò con l’essere romantica e finì ultra-moderna, in politica apparve dapprima aristocratica fino alla giustificazione del conservatorismo inglese, poi democratica fino alla sfrenatezza utopistica del comunismo francese; nella teologia e nella valutazione della Chiesa, dapprima ortodossa fino alla cieca aderenza alla lettera, poi eterodossa fino all’ateismo. Coloro che non hanno esperienza storica possono meravigliarsi di fronte allo sviluppo di tali estremi e non riconoscere la loro intima unità, che deve comportarsi negativamente nei riguardi delle correnti, nella misura in cui esse pretendono di erigersi al rango di princìpi centrali». (Vita di Hegel, tr. it., Firenze 1966, p. 14). Se la storia non ammaestra, sulla cui implicita affermazione posso essere d’accordo, è comunque la storia del fare, o se è storia dell’agire viene prima ridotta a rammemorazione e quindi a parola. Se è storia del fare non può non avere dimensione produttiva, essere nel senso della realtà. Non è la storia che viene al fare, ma il fare che getta la sua luce, limitata eppure efficace, sul passato. La storia è figlia di questa luce, quindi della dimensione conoscitiva, con tutte le limitazioni che ne derivano e con l’implicito difetto della incompletezza. Questo fare universale è semplice somma di aggregazioni di fatti, non ha un meccanismo interno, uno spirito universale, uno spirito oggettivo, che Hegel aveva magistralmente individuato, precisando i limiti del suo racconto filosofico e del suo viaggio metafisico all’interno della coscienza. In Croce persiste questa contraddizione tra l’urgenza della specificazione degli opposti e dei distinti e l’unità irrisolta dell’idea, lo spirito che vuole attingere il sole e il logico aristocratico che vuole scendere con i piedi per terra. L’energia vitale non accetta il matrimonio con l’afflato della totalità, ci sarà sempre questo bisticcio in tutta l’opera filosofica di Croce e, in fondo, è per questo che torno, di tanto in tanto, a rileggere le sue pagine che tanto mi avevano affascinato da ragazzo. Anche l’ignominia è un luogo dello spirito, non trova riscontro in qualcosa di concreto, o almeno non sempre. Eppure preferirei morire che essere ignobile. Dove si dimostra quanto valgono i desideri e quanto poco la vita. Non so se morendo è facile continuare a pensarla allo stesso modo. Tutti i sarcasmi sono un modo piuttosto ingenuo di mascherare la propria debolezza, e ogni debolezza è una indulgenza verso me stesso. Poiché l’indulgenza è sempre un lusso ecco che sento la necessità di nascondere questo lusso con un sogghigno. L’animo forte deve andare a cercarselo il sarcasmo, non gli viene mai spontaneo. In fondo il passo tra sarcasmo e abiezione non è lungo, per questo motivo si tratta di un difetto non facile da nascondere. «Caucaso. Catena di montagne che comincia a Nord della Colchide e finisce sul Mar Caspio. Qui Prometeo in catene ebbe straziato il fegato da un avvoltoio o da un’aquila. Gli abitanti del Paese, prendendo – se vogliamo credere a Filostrato – questa favola alla lettera, facevano guerra alle aquile, rapivano dal nido i loro piccoli e li trafiggevano con frecce ardenti, o interpretandola – secondo Strabone – come un’allegoria dell’infelice condizione umana, prendevano il lutto alla nascita dei bambini e ne celebravano con gaie feste la morte. Non v’è cristiano veramente penetrato della verità della sua religione che non debba imitare l’abitante del Caucaso e rallegrarsi alla morte dei suoi piccoli. La morte assicura al bambino appena nato una felicità eterna, mentre la sorte dell’uomo che sembra vissuto più santamente è ancora incerta. Com’è terribile e nello stesso tempo consolante la nostra religione!». (Denis Diderot, Enciclopedia, voce Caucaso). La lima di Diderot scava in profondità, cogliendo l’occasione di una voce anodina, di semplice indicazione geografica, eccolo passare all’attacco. È nel seno del fare stesso che custodisco la tensione adeguata all’oltrepassamento, non nell’esistenza oggettivamente individuabile di qualità e quantità, ambedue operanti nel mondo da me creato. Questa custodia, nell’animo coraggioso, finisce per esplodere, mi convinco che niente può venire da un meccanismo funzionante al posto mio, nessuna fede, né divina né meccanica. Intuisco la strada, dunque questa strada esiste, lancia i suoi segnali all’interno del campo, ma dall’altro lato si immerge nel territorio desolato della qualità, dove la voce dell’uno che è mi conferma, senza che io possa udirla distintamente, che l’intuizione sta cogliendo proprio la tensione giusta. Rivendico quello che non ricordo e che qui non sono in grado di rammemorare, lo rivendico perché mi appartiene, fa parte della qualità e sono io quell’assenza non appena avanzo un passo nel suo itinerario desolato. Disgregato nell’organico, dissipato, negato, questo enorme tutto mi attira e mi respinge mentre insisto nel transitorio. Vorrei oltrepassare l’inerte e il falso, fare svanire l’opacità che mi circonda, raccogliere ciò che è disperso, ricondurmi all’unità del tutto. Banalmente penso di essere sulla buona strada, ma qui non c’è strada, non c’è drago da sconfiggere né transitorietà da fissare con palafitte. Accelero i movimenti che mi fanno allontanare da ogni possibile fondamento certo, come un nuotatore in preda ai crampi il quale non si rende conto che più veloce si muove e più rischia di annegare. Non mi dispiaccio della mia sorte perché questa, altrimenti chiamata destino, è stata costruita da me, non voluta e nemmeno cercata, ma indirettamente costruita con l’arte della ricerca qualitativa. «Cap. XXVIII. Gli atei che negano la distinzione bene/male non ragionano. Fondamento della morale naturale. Analisi del primo stadio della sofferenza. Desiderio della felicità. Ateo prudente. Ateo come cittadino non pericoloso. La religione rende servo il popolo, non lo migliora, fabbrica stupidi sottomessi ciecamente, bambini intimiditi. Mostrando la verità si fa conoscere la virtù. Gli atei sono contro l’oppressione». (Appunti manoscritti di Donatien Alphonse François de Sade sul Vero senso del sistema della natura). Intuire il perché di un processo non è possibile, posso solo conoscerlo. Dietro una perfetta corrispondenza quantitativa, a esempio una bella donna, non devo cercare di intuire quello che c’è, putrefazione e morte, ma la qualità sua e per fare questo devo indirizzare altrove la mia facoltà intuitiva, nella qualità mia che solo io posso vivere e riverberare così su quella perfetta conoscenza quantitativa, qualificandola nella donna amata. Invertire il processo significherebbe cercare di intuire per conto terzi, e la qualità della conoscenza non può essere altro, per me, che una ulteriore penetrazione quantitativa, il segreto di un segreto non è più un segreto. Rigirare in se stesso questo pensiero fino in fondo alle budella, poi metterlo da parte per sempre. Potrebbe rivelare svolte labirintiche. *** Capitolo ventinovesimo: Compendio del codice della natura «O voi, dice la natura, che a seguito dell’impulso che vi do tendete verso la felicità in ogni istante della vostra durata, non resistete alla mia legge sovrana. Lavorate alla vostra felicità, gioite senza paura, siate felici. «O superstizioso, ritorna alla natura: essa ti consolerà, caccerà dal tuo cuore queste paure che ti opprimono. Cessa di contemplare l’avvenire, vivi per te e per i tuoi simili. Approvo i tuoi piaceri quando, senza nuocere a te stesso, essi non saranno nemmeno funesti ai tuoi fratelli, perché sono necessari alla tua felicità. «Che l’umanità ti interessi per la sorte dei tuoi simili. Pensa che puoi essere oppresso come colui che oggi opprimi. Asciuga le lacrime dell’innocente oppresso, della virtù nell’angoscia. Che il dolce calore dell’amicizia, la stima di una cara compagnia, ti facciano dimenticare le pene della vita. «Sii giusto, perché l’equità è il sostegno del genere umano. Sii buono, perché la bontà incatena i cuori. Sii indulgente, perché debole tu stesso ti trovi davanti ad altri esseri altrettanto deboli. Sii dolce, perché la dolcezza attira l’amore. Sii riconoscente, perché la riconoscenza alimenta e nutre la bontà. Sii modesto, perché l’orgoglio rivolta agli esseri innamorati di se stessi. Perdona le ingiurie, perché la vendetta eternizza gli odi. Fai del bene a chi ti oltraggia, allo scopo di mostrare che sei più grande di lui e di fartene un amico. Sii riservato, moderato, casto, perché la voluttà, l’intemperanza e gli eccessi distruggono il tuo essere e ti rendono disprezzabile. «Sii cittadino, perché la patria è necessaria alla tua sicurezza, ai tuoi piaceri, al tuo benessere. Sii sicuro l’uomo che fa felici gli altri non può essere infelice lui stesso. Comportandoti così rientrerai con piacere sempre in te stesso e non troverai nel fondo del tuo cuore né odio né terrore né rimorso. Se il cielo si occupasse di te sarebbe contento della tua condotta come lo è stata la terra. «È me stesso che punisco in modo più certo di quanto non facciano gli dèi i crimini della terra: il cattivo può sfuggire alle leggi degli uomini, mai alle mie. Se ti abbandoni all’intemperanza, gli uomini non ti puniranno ma io ti punirò, abbreviando i tuoi giorni. Se sei vizioso, le tue abitudini funeste ricadranno sulla tua testa. I prìncipi, che la loro potenza mette al di sopra delle leggi umane, sono obbligati a tremare sotto le mie: sono io che li castigo, che li riempio di sospetti, di terrori. Discendo nel fondo del cuore di questi criminali, il cui viso contento copre un’anima straziata. Vedo l’avaro gemere estenuato sotto l’inutile tesoro che a sue proprie spese ha avuto cura di ammassare; vedo il voluttuoso così contento gemere segretamente sulla sua salute prodigata; la divisione e l’odio regnano tra questi sposi adulteri; il bugiardo è privato di ogni fiducia; l’impostore trema al solo nome della verità; il cuore dell’ingrato ghiaccia e niente lo può riscaldare; l’anima di ferro di quel mostro che i sospiri dello sfortunato non ammorbidiscono; quell’uomo vendicativo che si nutre di fiele e di serpenti, divora se stesso. Invidia, se osi, il sonno dell’omicida, del giudice iniquo, dell’oppressore, il cui letto è infestato dalle furie. Ma no, l’umanità ti fa condividere i loro tormenti meritati. Se ti paragoni a loro sarai contento di ritrovare sempre la pace nel tuo cuore. Infine, vedi compiuto su di loro e su di te il decreto del destino, che vuole che il crimine sia punito da se stesso e che la virtù non sia mai privata della propria ricompensa». Il politeismo mitologico non è simultaneo, non indica una contemporanea pluralità di divinità a cui un popolo è vicino religiosamente, o l’insieme degli dèi venerati nelle diverse mitologie, esso è essenzialmente cronologico, cioè propone un susseguirsi storico di déi che si succedono nel vincolare a sé la coscienza umana, ciò lascia intendere, dice Schelling, che le mitologie hanno come proprio presupposto un monoteismo originario. Il politeismo delle mitologie è quindi il processo necessario, naturale, subìto dalla coscienza umana, vissuto con angoscia e coscienza generica di essere frutto di un peccato originale, cioè del distacco dell’uomo dalla immediata unità con Dio. Ricollegando l’inizio del processo mitologico a questo che è il primo di tutti gli avvenimenti, a questa catastrofe originaria della coscienza umana, si spiega nello stesso tempo il processo mitologico come un destino universale, al quale era soggetto l’intero genere umano. La mitologia non è sorta da ipotesi accidentali, empiriche quanto irresolute, per esempio invenzioni di singoli poeti o filosofi, e neppure da confusioni o fraintendimenti, essa si perde, con le sue più remote radici, in quel fatto iniziale senza il quale non ci sarebbe in generale storia umana. Il sentimento della divinità ritengo comporti stati diversi, molteplici, elementi di contrasto, perfino cliché da cui non sono riuscito a sbarazzarmi, ma nello stesso tempo la sua pregnanza non può essere cancellata con la stessa facilità con cui faccio scomparire dalla lavagna una traccia di gessetto. Non sono docile alla voce del ferro, non accetterei mai una critica fatta su ricetta del potere dominante. La mia lavagna personale non accetta cancellature facili, del tipo di quelle immaginate dall’Illuminismo. Un piccolo accadimento, fattualmente assimilabile a tanti altri, improvvisamente mi stringe il cuore, ed è notte dentro di me, notte piena di risonanze. Nella lunga lotta che conduco per apprendere a morire, lotta che mi consente di vivere e di realizzare, nella realtà, quello che sono, colloco le occasioni della vita, occasioni, nulla di più. Spesso mi rattrappisco per paura, legandomi all’immediato, all’attingibile per gli altri, anche se per me quello scopo non ha più senso. Chiedo che gli altri mi riconoscano per quello che a loro sembra importante, e nel gioco ripetuto finisco anch’io per illudermi di questa importanza. Ma quando l’ho concluso, il gioco cessa di essere tale e si trasforma in tragedia, la mia tragedia della vita. Ciò accade quando da tempo mi sono rinchiuso nell’accumulazione e ho scordato il dispiegarsi della realtà. Allora sono stato abile costruttore di illusioni, ho accettato i valori di un mondo a mia misura trasformati in oggetti fabbricati in serie. La vita mi emoziona non perché la posso vedere, nelle sue modalità di fruizione. La quotidianità e l’immediatezza si rimpallano processi percettivi di orientamento che alla lunga danno impressione di consistenza alla mia capacità di fare. Produco continuamente questa impressione e mi convinco che io stesso sono una consistenza certa e catalogabile. Ogni volta che scopro l’inganno che sta dietro tutto questo mi emoziono e mi dispongo a cogliere qualcosa che sta dietro lo specchio inquietante, una pienezza forse priva di senso, che però mi prospetta un lungo percorso tutto da scoprire. A partire da questo punto, cioè dalla scoperta dell’inganno, non mi faccio più affascinare come uno stolto dalla semplice apparenza e la mia vita diventa un calvario. Il fare non mi soddisfa, inizia la mia passione per la qualità. «Cap. XXIX. Perché l’ateismo. Contro le persecuzioni, i tiranni, la schiavitù dei preti. Contro la paura di qualcosa che vuole penetrare i nostri pensieri, che vuole vendicarsi. Contraddittorietà del deismo. L’ateo perverso non ha la scusa della religione. Superstizione e paura = Dio. Selvaggio = Dio grossolano. Cultura = approfondimento e sottigliezza. Confusione su società senza governo, ecc. (chiarire). Esempio di una società di atei. Società progressivista, condanna della società dei tiranni. Non si possono impedire ad un popolo le idee religiose, perché diffuse fin dall’infanzia. L’ateismo può diffondersi perché ha la verità. Preghiera dell’ateo. Progressivismo. Moderatezza. Felicità». (Appunti manoscritti di Donatien Alphonse François de Sade sul Vero senso del sistema della natura). Adesso lo sforzo della concentrazione non è più quello della percezione, ma quello di individuare la saggezza nella conoscenza, cioè quello che può costituire un punto di appoggio prima per il coinvolgimento nell’azione e poi nel coinvolgimento per approfondire la parola che consentirà di dire la rammemorazione. Il sogno complessivo del conoscere è quindi raggiungere la conoscenza del proprio destino, non conoscere la contingenza che continuamente si modifica nella produzione. La conoscenza del proprio destino comincia con la quantità e si conclude con la rammemorazione, ciò che la parola dice riguardo l’azione. Questo dire è raccolto e capito da me e dal mio destino, ma per essere una messe deve prima avere avuto la possibilità che la conoscenza sia maturata in saggezza, abbia cioè avuto l’occasione di guardare diritto nell’occhio del demone. È quello che ho fatto io. Guardando diritto ho visto ciò che cosa sono fino in fondo, senza infingimenti e senza giustificazioni, e il mio destino mi ha visto fino in fondo e mi ha soppesato, dandomi sulla voce, non appena cercavo di dire qualcosa in più di quello che veramente mi attiene, attiene al mio essere e alla mia miseria. La percezione con l’allontanamento della qualità, l’avventura della ricerca della qualità, la posizione conoscitiva di fronte alla parola, la conoscenza e il destino che producono la saggezza la quale approfondisce la parola mettendola in grado di rammemorare l’azione e parlare a me e al destino dal quale mi arriverà la nuova possibilità. Non ho decoro, non ho pudore. Tutto un itinerario affannato li ha sostituiti. Ingoio l’ansia come ingoio la voglia di piangere. La barbara forza mai doma potrebbe tardare a venire, tarda, difatti, e non c’è verso di sollecitarla. Alla fine c’è poco da aggiungere. Ridotto con le spalle al muro, racchiuso in una inaspettata cella d’isolamento, mi raggomitolo in me, resisto. Non ho nemmeno una sedia su cui sedermi, peggio del 1972, quando le vecchie brande metalliche, piegandole in due, mettevano a disposizione una sorta di predella. Resisto e quindi mi difendo, un’idea connessa con l’importanza di quello che resta dentro di me. Ieri sera occhi blu ha avuto una crisi di pianto a causa della mia nuova carcerazione che comincia oggi [9 gennaio 2008]. Ancora sento i suoi no, le sue urla disperate, il suo pianto. Mi difendo di fronte ad eventi che non posso fronteggiare direttamente, come amerei. Un gregge urlante di pecore impazzite rende l’isolamento del carcere tutt’altro che un luogo di quiete. Le urla prevalenti sono di un arabo arrochito da ubriaco, sgradevoli oltre che testimoni di una terribile scissione in corso. Giovani che avrebbero potuto correre liberi per il mondo, sono qui rinchiusi in gabbie come cani e abbaiano alle loro paure, terrorizzati di essere soli al mondo. [1972, 2008] ** Saggio di bibliografia generale su Paul-Henry Thiry d’Holbach Avézac-Lavigne Charles, Diderot et la société du Baron d’Holbach, Paris 1875. Bachaumont Louis Petit de, Mémoires secrètes, Paris 1859. Barbier Olivier, Dictionnaire des ouvrages anonymes et pseudonymes, Paris 1822. 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De Neri, Merret e Kunckel, Art de la Verrerie, al quale è stato aggiunto Orschall, Le Sol Sine Vest, L’Helioscopium videndi sine veste solem Chymicum, Le Sol Non Sine Veste, Il capitolo XI del Flora Saturnizans di Henckel, Sur la Vitrification des Végétaux. Mémoire sur la manière de faire le Saffre; Le Secret des vraies Porcelaines de la Chine et de Saxe; Ouvrages où l’on trouvera la manière de faire le Verre et le Crystal, d’y porter des Couleurs, d’imiter les Pierres Précieuses, de préparer et colorer les Emaux, de faire la Potasse, de peindre sur le Verre, de préparer des Vernis, de composer de Couvertes pour des Fayances et Poteries, d’extraire la Couleur Pourpre de l’Or, de contrefaire les Rubis, de faire le Soffre, de faire et peindre les Porcelaines, ecc., tradotto dal tedesco da M. D... 1752, a Paris Durand, rue St. Jacques, au Griffon Pissot, Quai des Augustins, à la Sagesse. Avec Approbation et Privilège du Roi (in quarto). Jean Gotshalk Wallerius, Professeur Royale de Chymie, de Métallurgie et de Pharmacie dans l’Université d’Upsal, de l’Académie Impériale des Curieux de la Nature, Minéralogie, ou description générale des substances du règne minéral. Opera tradotta dal tedesco. 1753 a Paris, chez Durand, rue S. Jacques, au Griffon Pissot, Quai de Conti, à la Croix d’Or. Avec Approbation et Privilège du Roi, 2 voll., in ottavo, pagine XVII + 569 + 284. Seguito da (secondo titolo della pagina) Hydrologie, ou description du règne aquatique, divisés par classes, gendres, espèces et variétés, avec la manière de faire l’essai des eaux, pagine 256. Ibidem. Herissant, Durand, Paris 1759, 2 voll., in ottavo. M. J. F. Henckel, Introduction à la Minéralogie, ou connaissance des eaux, des sucs terrestres, des sels, des terres, des pierres, des minéraux, et des métaux: avec une description abrégée des opérations de métallurgie. Opera postuma pubblicata col titolo: Henckelius in Mineralogia redivivus e tradotta dal tedesco, Paris 1756, chez Guillaume Cavelier, Libraire, rue S. Jacques, au Lys d’Or. Avec Approbation et Privilège du Roi, 2 voll., pagine XXI + 204 + 371, in dodicesimo. M. C. E. Gellert, Conseiller des Mines de Saxe et de l’Académie Imperiale de Petersbourg, Chimie métallurgique, dans laquelle on trouvera la Théorie et la Pratique de cet Art. Avec des Experiences sur la Densité des Alliages des Métaux, et des demi-Métaux; et un Abrégé de Docimastique. Avec Figures. Opere tradotte dal tedesco. Paris 1758, chez Briasson, rue Saint Jacques. Avec Approbation et Privelège du Roi. 2 voll., in dodicesimo, pagine XII + 296 + XVII + 351. Jean Gotlob Lehmann, Docteur en Médecine, Conseiller des Mines de Sa Majesté Prussienne, de l’Académie Royale des Sciences de Berlin et de celle des Sciences utiles de Mayence, Traités de physique, d’histoire naturelle, de minéralogie et de métallurgie, Paris 1759, 3 voll., in dodicesimo. (Titolo generale.) Tome I. L’Art des Mines, ou Introduction aux connaissances nécessaires pour l’exploitation des mines métalliques avec un traité des exhalaisons minérales ou moufettes, et plusieurs mémoires sur differentes sujets d’Histoire Naturelle. Avec figures. Tradotto dal tedesco. Paris 1759, chez Jean Thomas Herrisant, avec Approbation et Privilège du Roi. Tome II. Traité de la formation des métaux et de leurs matrices ou minières, ouvrage fondé sur les principes de la physique et de la minéralogie et confirmé par des expériences chymiques. Tome III. Essai d’une Histoire Naturelle des couches de la terre. Dans lequel on traite de leur formation, de leur situation, des minéraux, des métaux et des fossiles qu’elles contiennent. Avec des considérations physiques sur les causes des Tremblements de Terre et de leur propagation. Opere tradotte dal tedesco e aumentate dalle considerazioni del traduttore, ecc. Akenside, Les plaisirs de l’imaginatio, poème en trois chants, tradotto dall’inglese. Amsterdam 1759, Arkstée et Merkus, et se trouve à Paris, chez Pissot, Quai de Conti (in ottavo). Ibidem. Akenside, Les plaisirs de l’imagination, poème en trois chants, tradotto dall’inglese dal barone d’Holbach, augmenté de Notes historiques et littéraires, de la vie de l’auteur et du traducteur, par Pissot, Paris 1806, Hubert (in diciottesimo). Jean-Frederic Henkel, Docteur en Médicine, Conseiller des Mines du Roi de Pologne, Electeur de Saxe; de l’Académie Imperiale des Curieux de la Nature et de celle de Berlin, Pyritologie, ou Histoire Naturelle de la Pyrite, ouvrage dans lequel on examine l’origine, la nature, les propriétés et les usages de ce Minéral important, et de la plupart des autres Substances du même Règne: on y a joint le Flora Saturnisans où L’Auteur dèmontre l’Alliance qui se trouve entre les Végétaux et les Minéraux; et les Opuscules Minéralogiques, qui comprennent un Traité de l’Appropriation, un Traité de L’Origine des Pierres, plusieurs Mémoires sur la Chymie et l’Histoire Naturelle, avec un Traité des Maladies des Mineurs et des Fondeurs. Opere tradotte dal tedesco [dal baron d’Holbach e da Charas], Paris 1760, chez Jean Thomas Hérissant, Libraire, Rue S. Jacques, à S. Paul et à S. Hilaire. Avec Approbation et Privilège du Roi, in quarto, pagine XVI + 524. Jean-Christian Orschall, Inspecteur des Mines de S. A. S. le Land-grave de Hesse-Cassel, Œuvres Métallurgiques, contenente I. L’Art de la Fonderie; II. Un Traité de la Siquation; III. Le Traité de la Macération des Mines; IV. Le Traité des Trois Merveilles. Tradotto dal tedesco. Le prix est de 50 sols broché et de 3 liv. relié, à Paris, chez Hardy, Libraire, rue S. Jacques au dessus de celle de la Parcheminerie à la Colonne d’Or. 1760, avec Approbation et Privilège du Roi, in dodicesimo, pagine 394. Recueil des mémoires les plus intéressants de chymie, et d’histoire naturelle, contenus dans les actes de l’Académie d’Upsal, et dans les Mémoires de l’Académie Royale des Sciences de Stockholm, pubblicate dal 1720 fino al 1760. Tradotte dal latino e dal tedesco, a Paris 1764, chez Pierre-Fr. Didot, le jeune, Quai des Augustins, à S. Augustin, avec Approbation et Privilège du Roi, 2 voll., in dodicesimo, pp. VIII + 687. Jonathan Swift, Doyen de S. Patrice en Irelande, Histoire du règne de la Reine Anne d’Angleterre, contenente Les Négociations de la paix d’Utrecht, et les démêlés qu’elle occasionna en Angleterre. Opera postuma. Pubblicata sul manoscritto corretto di sua propria mano dall’autore e tradotta dall’inglese da [d’Holbach e Eidous], à Amsterdam, chez Marc-Michel Rey et Arkstée et Merkus, in dodicesimo, pagine XXIV + 416. Traité du Soufre, ou Remarques sur la dispute qui s’est élevée entre les chymistes, au sujet du Soufre, tant commun, combustible ou volatil, que fixe, ecc. Tradotto dal tedesco da Stahl, à Paris, chez Pierre-Francois Didot, le jeune, quai de Augustins à Saint-Augustin, avec Approbation et Privilège du Roi, in dodicesimo, pagine 392. N. A. Boulanger, L’Antiquité dévoilée par ses usages, ou Examen critique des principales Opinions, Cérémonies et Institutions religieuses et politiques des different Peuples de la Terre. Homo, quod rationis est particeps, consequentiam cernit causas rerum videt, earumque progressus et quasi antecessiones non ignorat, similitudines compare, rebus praesentibus adjungit at anectit futuras. Cicerone, De Offic. Lib. I. C. 4, à Amsterdam 1766, chez Marc-Michel Rey, in quarto pagine VIII + 412. Ibidem, 1766, 3 voll., in dodicesimo. Ibidem, 1772, 3 Voll., in dodicesimo. Ibidem, Amsterdam 1777, 3 voll., in dodicesimo, pagine IX + 355 + 391 + 396. N. A. Boulanger, Le Christianisme dévoilé, ou Examen des principes et des effets de la religion Chrétienne. Superstitio error infanus est, amandos timet, quos colit violat; quid enim interest, utrum Deos neges, an infames? Seneca Ep. 12, à Londres 1767, Nancy, Leclerc, in ottavo, pagine, XXVIII + 295. «Piovono libri increduli. È un fuoco rovente che perfora il santuario da tutte le parti... L’intolleranza del governo si accresce giorno per giorno. Si direbbe che c’è un progetto per spegnere le lettere. Minare il commercio delle librerie e di ridurci sul lastrico e nella stupidità... Le Christianisme dévoilé è venduto fino a quattro luigi». (Diderot, Lettera a M.lle Volland, 8 ottobre 1768). «Un apprendista ha ricevuto, in pagamento o per un altro motivo, da un venditore ambulante due esemplari del Christianisme dévoilé e aveva venduto uno di questi esemplari al suo padrone. Questo lo ha denunciato al luogotenente di polizia. Il venditore ambulante, sua moglie e l’apprendista sono stati arrestati tutti e tre, messi alla gogna, frustati e marchiati, l’apprendista è stato condannato a nove anni di galera, il venditore ambulante a cinque anni e sua moglie al manicomio per tutta la vita». (Ibidem). «Mi comunicate che nella vostra società mi si attribuisce Le Christianisme dévoilé di Boulanger, ma vi assicuro che la gente per bene non mi attribuisce per niente quest’opera. Vi confesso che vi è una certa chiarezza, un calore, e qualche volta dell’eloquenza, ma è pieno di ripetizioni, di negligenze, di errori contro la lingua che sarei molto seccato di averlo fatto, non solamente come accademico, ma come filosofo, e ancora di più come cittadino». (Voltaire, Lettera a Madame de Saint Julien, 15 Dicembre 1766). Ibidem, Londres 1767, in ottavo, pagine XX + 236. Stampato nella tipografia privata di John Wilkes’ in George St. Westminster. Ibidem, Londres 1767, in ottavo, pagine 244. Ibidem, Paris 1767, chez les Libraires Associés, in ottavo, pagine XVII + 218. Ibidem, Londres [Amsterdam] 1767, in dodicesimo. [N. A.] Boulanger, Christianity Unveiled; being an examination of the principles and effects of the Christian Religion, dal francese di Boulanger, autore delle ricerche sull’Origin of Oriental Despotism, by W. M. Johnson, New York 1795, stampato dalla Columbian Press da Robertson and Gowan per l’editore e acquistato dalla principali librerie degli Stati Uniti, in dodicesimo, pagine IX + 238. Ibidem,. London 1819, stampato e pubblicato da R. Carlile, 55 Fleet St., in ottavo pagine 98. Ibidem,. The Deist, ecc. Vol. I pubblicato da R. Carlile, 1819, in ottavo, pagine VII + 125. El Cristianismo a descurbierto, ó examen de los principios y efectos de la religion cristiana. Escrito en Francés por Boulanger y traducido al castellano por S. D. V., Londres 1821, nella stamperia di Davidson, in dodicesimo, pagine XXVI + 246. L’Esprit du clergé, ou Le Christianisme primitif vengé des entreprises et des excès de nos Prêtres modernes, tradotto dall’inglese a Londres [Amsterdam] 1767, 2 voll., in ottavo, pagine 2 + 10 + 240. De l’imposture sacerdotale, ou Recueil de Pièces sur le Clergé, tradotte dall’inglese, Londres [Amsterdam] 1767, in dodicesimo, pagine 144. Contiene: 1) Tableau fidèle des papes, tradotto da un opuscolo inglese di Davisson, pubblicato col titolo di A true picture of Popery, pagine 1-35. De l’insolence pontificale, ou des Prétentions ridicules du Pape et des Flatteurs de la Cour de Rome. Extrait de la Profession de Foi du célèbre Giannone, di Davisson, pagine 36-54. Sermon. Sur les fourberies et les impostures du Clergé Romain, tradotto dall’inglese da un opuscolo pubblicato a Londra nel 1735 da Bourn Birmingham, col titolo di Popery a Craft, pagine 55-84. Le Prêtrianisme opposé au Christianisme. Ou la Religion des Prêtres comparée à celle de Jésus-Christ, ou examen de la différence qui se trouve entre les Apôtres et les Membres du Clergé moderne, pubblicato in inglese nel 1720 col titolo di Priestanity. Or a View of the disparity between the Apostles and the Modern Clergy, pagine 85-108. Les Dangers de l’Eglise, tradotto dall’inglese da un opuscolo pubblicato nel 1719 da Thomas Gordon, col titolo di Apology for the danger of the Church, ecc., pagine 109-128. Le Simbole d’un Laïque, ou Profession de Foi d’un homme désintéressé, tradotto dall’inglese da Th. Gordon da un opuscolo pubblicato nel 1720 col titolo The creed of an independent Whig, pagine 129-144. Ibidem,. Pubblicato col titolo: De La Monstruosité pontificale, ou Tableau fidèle des Papes, tradotto dall’inglese, Londres 1772, in sedicesimo, pagine 55. Examen des Prophéties qui servent de fondement à la religion chrétienne, con un Essai de critique sur les Prophètes et les Prophéties en général, opere tradotte dall’inglese, Londres 1768. In ottavo, pagine 234. Contiene: Discours sur les fondements de la religion chrétienne, pagine 1-111. Estratto dell’opera che ha per titolo: Examen du Septème de ceux qui prétendent que les Prophéties se sont accomplies à la lettre. The Scheme of literal Prophecy considered, ecc., 1727, pagine 118-234. David, ou l’Histoire de l’homme selon le coeur de Dieu, tradotto dall’inglese, Saül et David,tragedia in 5 atti, dall’inglese, Londres 1768, in ottavo. Les Prêtres démasqués, ou des iniquités du clergé chrétien, opera tradotta dall’inglese, Londres 1768 in sedicesimo, pagine 180. J. Toland, Lettres philosophiques, sur l’origine des Préjugés, du Dogme de l’Immortalité de l’Ame, de l’Idolâtrie et de la Superstition, sur le Système de Spinoza et sur l’origine du mouvement dans la matière, Opinionum commenta delet dies, naturae judicia confirmat. Cicerone, De Nat. Deor. lib. II, tradotte dall’inglese, Londres [Amsterdam] 1768, in ottavo, pagine 267. Contiene: Préface ou Lettre à un ami, en lui envoyant les Dissertations suivantes, dans laquelle l’Auteur rend compte des motifs qui les ont fait écrire, pagine 12-26. Prima lettera: De L’origine et de la Force de ces Préjugés, pagine 27-44. Seconda lettera: Histoire du dogme de l’Immortalité de l’Ame chez les Payens, pagine 45-93. Terza lettera: Sur l’origine de l’Idolâtrie et sur les fondements de la Religion Payenne, pagine 94-152. Quarta lettera: A un Gentilhomme Hollandois pour lui prouver que le système de Spinoza est dépourvu de fondements et pèche dans ses principes, pagine 154-186. Quinta lettera: Dans laquelle on prouve que le mouvement est essentiel à la Matière, en réponse à quelques remarques qui ont été faites à l’Auteur au sujet de sa réfutation du Système de Spinoza. Nunc quae mobilitas sit reddita Materiai Corporibus, paucis licet hinc cognoscere, Memmi, Lucrezio, lib. II, vers. 142, pagine 187-267. «Piovono bombe sulla casa del Signore. Tremo sempre per qualcuno di questi temerari artiglieri. Mi riferisco alle Lettere filosofiche tradotte, o supposte tradotte, dall’inglese di Toland, all’Esame dei profeti, alla Vita di David o dell’uomo secondo il cuore di Dio, sono mille diavoli scatenati. – Ah! Madame de Blacy, ho paura che il Figlio dell’Uomo sia alla porta, che la venuta di Elia sia prossima, e che arrivi il regno dell’Anticristo. Ogni giorno, quando mi alzo, guardo dalla finestra, se la grande prostituta di Babilonia non passeggi già nelle strade con la sua grande coppa in mano e se non ci siano altri segni nel firmamento». (Lettera di Diderot a M.lle Volland del 22 novembre 1768). Abbé Bernier, Licencié en Théologie, Théologie portative, ou Dictionnaire Abrégé de la Religion Chrétienne, Audite hoc Sacerdotes, et attendite Domus Israël, et Domus Regis auscultate; quia vobis Judicium est, quoniam Laquens facti estis Speculationi et rete expansum super Thabor. Osée, Cap. V, vers. I, Londres [Amsterdam] 1768, in dodicesimo, pagine 243. Ibidem, Londres [Suisse], 1768. Ibidem, Roma 1775, in ottavo, pagine 213. Ibidem, Aumentato di un volume, Roma 1776, col permesso e il privilegio del Conclave, due volumi, in dodicesimo. Ibidem, Abbé Bernier, Semza titolo. Manuel Théologique, en form de Dictionnaire. Ouvrage très utile aux personnes des deux sexes pour le salut de leurs âmes, Roma 1785, in Vaticano dalla stamperia del Conclave, 2 voll., in ottavo. Ibidem, 1802. R. P. Malebranche, Prêtre de l’Oratoire, Le Militaire philosophe, ou Difficultés sur la Religion, proposées au Par un ancien Officier, Londres [Amsterdam] 1768, in ottavo, pagine 193. Ibidem, 1770 in ottavo. Ibidem, 1776 in ottavo. Ultimo capitolo di Holbach. La Contagion sacrée, ou Histoire Naturelle de la Superstition, opera tradotta dall’inglese, prima mali labes, Londres [Amsterdam] 1768, 2 voll., rilegati in unico tomo, in ottavo. Ibidem, Avec des notes relatives aux Circonstances, Nouvelle Edition, a Paris 1979, nella stamperia di Lemaire, rue d’Enfer n. 141, anno V de la Republique, 2 voll., in unico tomo, in ottavo, pagine 179-190. Ibidem, El Contagion sagrado, ó Historia natural de la supersticion, Paris 1822, Rodriguez, 2 voll., in ottavo. Lettres à Eugénia, ou Préservatif contre les préjugés... Artis Relligionum animos nodis exsolvere pergo. Lucrezio, De rer. nat., Lib. 4, vv. 6-7, Londres 1768, 2 voll., in ottavo, pagine XII + 188 + 167. Ibidem, Œuvres de Nicolas Fréret, t. I, pagine 1-359, Paris 1792, in ottavo. Nicolas Fréret, Cartas á Eugenia, Paris 1810, stamperia di F. Didot, in ottavo, pagine VIII + 358. Letters to Eugenia on the absurd, contradictory and demoralizing Dogmas and Mysteries of the Christian Religion, nuova traduzione ma che si suppone siano state scritte dal Barone Holbach, autore del System of Nature, Christianity Unveiled, Common Sense, Universal Morality, Natural Morality. The Deist, ecc., 1819, in ottavo, pagine 185. Cartas à Eugenia, Madrid 1823, per Don Benito Cano, 2 voll.. Letters to Eugenia on the absurd, contradictory and demoralizing Dogmas and Mysteries of the Christian Religion, by Baron d’Holbach, New York 1833, pubblicato da H. M. Dubecquet, n. 190 William Street, in dodicesimo, pagine 236. Letters to Eugenia ecc., tradotte da Anthony C. Middleton, M.D. Boston 1857, Josiah P. Mendum. De la Cruauté religieuse, Londres 1769, in sedicesimo, pagine 228. Ibidem, Amsterdam 1775, in dodicesimo. De la Tolérance dans la Religion, ou de la Liberté de conscience par Crellius. L’Intolérance convaincue de crime et de folie. Opera tradotta dall’inglese, Londres 1769 in dodicesimo, pagine 174. Contiene: De la Tolérance dans la religion, ou de la liberté de conscience (Crellius). De l’Intolérance dans la Religion (d’Holbach), pagine 88. Enfer détruit ou Examen Raisonné du Dogme de l’Eternité des peines, opere tradutte dall’inglese, Londres 1769, pagine 150. Dissertation critique sur les tourmens de l’enfer. Tradotto dall’inglese, pagine 96 (Whitefoot). Ibidem, Hell destroyed! Nuovamente tradotto dal francese di d’Alembert senza alcun taglio, London 1823, stampato e pubblicato da J. W. Trust, 126 Newgate St., in ottavo, pagine 47. (Seguito da Whitefoot’s Torments of Hell, nuovamente tradotto dal francese, a p. 83). L’Esprit du judaïsme, ou Examen raisonné de la Loi de Moyse, et de son influence sur la Religion Chrétienne. Atque utinam nunquam Judaea sub acta fuisset Pompeii bellis, imperioque Titi. Latius excisae pestes contagie serpunt, Victoresques suos natio victa premit. Rutilio, Itinerar. Lib I, v. 394, Londres 1770, in dodicesimo, pagine XXII + 201. Examen critique de la vie et des ouvrages de saint Paul, avec une dissertation sur saint Pierre, Londres 1770 in ottavo (di Peter Annet). Ibidem, Nouvelle Edition, Londres 1790, in ottavo. N. A. Boulanger, Critical Examination of the Life of St. Paul. Tradotto dal francese, Paul, thou art beside thyself, much learning doth make thee mad, Acts, cap, 26, v. 24. London 1823, stampato e pubblicato da R. Carlile, 5 Water Lane, Fleet St., in ottavo, pagine 72. Histoire critique de Jésus-Christ, ou Analyse raisonnée des Evangiles. Ecce Homo. Pudet me humani generis, cuius mentis et aures talia ferre potuerunt. S. Agostino (senza data e luogo di stampa [Amsterdam 1770?], in sedicesimo, pagine VIII + XXXII + 298.) Ecce Homo! or a critical enquiry into the history of Jesus Christ, being a Rational Analysis of the Gospels. Edimburg 1799. Ecce Homo! or a critical enquiry into the history of Jesus Christ, being a Rational Analysis of the Gospels, 2a ed., London 1813, stampata, pubblicata e venduta da D. I. Easton. Histoira critica de Jesus Christo, o anáilisis razonado le los evangelios, tradotta dal francese da P. F. de T. ex-gesuita. Ecce Homo. Vel. aqui el hombre. Giovanni, cap. 19, v. 5. Londres 1822, nella tipografia di Davidson, 2 voll., in dodicesimo, pagine XIII + 200 + 280. Contiene avvertenza del traduttore. Tableau des Saints, ou examen de l’esprit, de la conduite, des maximes, et du mérite des personnages que le Christianisme révère et propose pour modèles. Hoc admonere simplices etiam potest. Opinione alterius ne quid ponderent. Ambitio namque diffidens mortalium aut gratiae subscribunt, aut odio suo. Erit ille nottis, quem per te cognoveris. Fedro, Lib. III, Fab. 10, a Londres 1770, 2 Voll., in dodicesimo, pagine XXIII + 280 + 286. Recueil philosophique, ou Mélange de Pièces sur la Religion et la Morale. Par différents Auteurs (ed. Naigeon). Ovando enim ista observans quieto et libero animo esse poteris, ut ad vem gerendam non Superstionem habeas, sed Rationem ducem. Cicerone, De Divinat., Lib. 2. Londres 1770, 2 voll., in dodicesimo. Vol. I, Réflexions sur les Craintes de la Mort, pagine 129; Dissertation sur l’Immortalité de l’âme, pagine 34. Traduzione dall’inglese. Vol. II, Dissertation sur le suicide, pagine 50; Problème important. La Religion est elle nécessaire à la Morale et utile à la Politique? di Mirabaud, pagine 70; Extrait d’un Ecrit Anglais qui a pour titre le christianisme aussi ancien que le monde, pagine 125. Essai sur les préjugés, ou De l’influence des opinions sur les moeurs et sur le bonheur des hommes. Opera contenente Apologie de la philosophie di D. M. Assiduite quotidiana et consuetudine oculorum assuescunt animi, neque admirantur, neque requerunt rationes earum rerum quas vident. Cicerone, De Nat. Deorum, Lib. II. Londres 1770, in ottavo, pagine 394. Ibidem, Paris 1792, Desray an. 1 due voll., in ottavo. Ibidem, Paris 1822, Niogret. Dumarsais, Essayo sobre las preocupaciones ó del influjo de las opiniones en las costumbres y felicidad de las hombres. Paris 1823, Hallase en la casa de Rosa, Librero. Gran pacio del Palacio Real, in ottavo, pagine 391. Essai sur les Préjugés. Précédé d’un Discours préliminaire et d’un Précis historique de la vie de Dumarsais par le citoyen Daube. Paris 1886, Librairie de la Bibliothèque Nationale, Rue de Richelieu 8, près le Théâtre Francais, ci-devant rue de Valois, tutti i diritti riservati, 25 centesimi. Mirabaud Jean-Baptiste, Secrétaire Perpétuel et l’un des Quarante de l’Académie Française, Système de la Nature, ou Des Loix du Monde Physique et du Monde Moral. Natura rerum vis atque majestas in omnibus momentis fide caret, si quis mode partes ejus, ac non totam complectatur animo. Plinio, Hist., Lib. VII, Londres 1770, 2 voll., in ottavo, pagine 370 + 412. Ibidem, Londres 1770, seconda edizione, 2 Voll., in ottavo, pagine 366 + 408. Contains Discours préliminaire de l’Auteur (p. 16). Avis de l’Editeur. Préface de l’Auteur, ecc. Abrégé du Code de la Nature, Secrétaire Perpétuel et l’un des Quarante de l’Académe Française. Londres, 1770, in ottavo, pagine 16. Ibidem, Nouvelle Édition augmentée par l’auteur à laquelle on a joint plusieurs pièces des meilleurs Auteurs relatives aux mêmes objets, ecc., (ed. Naigeon), Londres 1771, 2 voll, in ottavo, pagine 397-500. Contiene nel secondo volume a p. 455: Réquisitoire, sur lequel est intervenu l’Arrêt du Parlement du 18 Août 1770 qui condamne à être brûlés, differens Livres ou Brochures, intitulés: 1. La Contagion sacrée... 2. Dieu et les hommes. 3. Discours sur les Miracles. 4. Examen des Apologistes. 5. Examen impartial des principales religions du Monde. 6. Christianisme dévoilé. 7. Système de la Nature. Imprimé par ordre exprès du Roi. Ristampato nel 1774, 1775-1777. Ibidem, nuova edizione, Londres 1780, in ottavo, pagine XII + 371 + 464. Contiene: Sentiments de Voltaire sur le Système de la Nature. Séguier’s Réquisitoire and Holbach’s Réplique. Ibidem, nuova edizione. Londres 1781, 2 voll., in ottavo, pagine 316 + 385. Ibidem, traduzione tedesca, Schreiter, Leipzig und Frankfurt 1783. Ibidem, Paris, An. III (1795), 3 voll., in ottavo. Mirabeau, The System of Nature, tradotto dal francese, London 1797, stampato da G. Kearsley. Ibidem, Philadelphia 1808, pubblicato da R. Benson. Nature and Her Laws, as Applicable to the Happiness of Man Living in Society, Contrasted with Superstitions and Imaginary Systems, dal francese, London 1816, W. Hodgson. Système de la Nature... avec notes de Diderot, nuova edizione, Lemonnier, Paris 1820, B. Roquefort, 2 voll., in ottavo. The System of Nature, or the Laws of the Moral and Physical World, tradotto da Samuel Wilkinson dall’originale francese da Mirabaud, stampato e pubblicato da Thomas Davison, London 1820, 3 voll. in ottavo, pagine XI + 348-311-273. Contiene Life of Mirabaud, vol. 3, pp. 263-273. (Voll. 2, 3, R. Helder, 1821). Ibidem, Système de la Nature... nuova edizione con le correzioni e le note di Diderot, Paris 1821, Etienne Ledoux, 2 voll., in ottavo, pagine XVI + 507 +502. Contiene estratti di Grimm’s Literary Correspondence, 10 Agosto 1789. Ibidem, Système de la Nature, ou des lois du monde physique et du monde morale, nuova edizione con le correzioni e le note di Diderot, Domère, Paris 1822, 4 voll., in dodicesimo. Contiene Avis de Naigion. Avertissement du nouvel éditeur, pagine 11-29. Pièces diverses, pagine 30-46. Ibidem, Sistema de la Naturaleza, con notas y correcciones por Diderot, tradotto in castigliano da F. A. F., Paris 1822, Masson hijo, 4 voll., in diciottesimo. Ibidem, Selections from Mirabaud’s System of Nature in the Law of Reason, ecc. London 1831, in sedicesimo, pagine 231. Selections from Bon-Sens, pagine 39-81, 82-112. Ibidem, Nature and her Laws, as Applicable to the Happiness of Man Living in Society, Contrasted with Superstitions and Imaginary Systems, dal francese, London 1834, James Watson, 2 voll., in dodicesimo, pagine XXIV + 287 + 320). Contiene: 1. Publisher’s Preface, di James Watson. 2. Preface. 3. A short account of the life and writings of the Baron d’Holbach, di Julian Hibbert. Ibidem, System of Nature, nuova edizione con le note di Diderot, tradotta da H. D. Robinson. New York 1835, pubblicata da Matsell. Ibidem, System of Nature, or the laws of the moral and physical world, dal francese, nuova edizione, London 1840, pagine 8 + 520. Ibidem, System der Natur, traduzione tedesca annotata da Biedermann, Leipzig 1841, in ottavo, pagine 604, editore Georg Wigands. Ibidem, System der Natur, tradotto da Schreiter, 1843. Ibidem, System of Nature, nuova e corretta edizione con le note di Diderot, tradotta da H. D. Robinson, edizione stereotipica, Boston 1848, in ottavo, pubblicata da J. P. Mendum. Ibidem, System der Natur, traduzione Allhusen, 1851. Ibidem, System of Nature, traduzione Robinson, Boston 1853, pubblicato da J. P. Mendum. Ibidem, System of Nature or The Laws of the Moral and Physical World, originariamente attribuito a Mirabaud con memoria di Charles Bradlaugh, ristampato verbatim dalla migliore edizione, London 1884, pubblicato da E. Truelove, 256 High Holborn, in ottavo, pagine XI + 520. Ibidem, Le Bon-sens ou idées naturelles opposées aux idées surnaturelles. Detexit quo doloso vaticinandi furore Sacerdotes mysteria, illis saepe ignota, audacter publicant, Petronio, Satyricon, Londres [Amsterdam] 1772, in ottavo, pagine XII – 515. Ibidem, Le Bon-sens du curé Meslier d’Etrépigny, Rome [Paris] 1791, in ottavo. Ibidem, altra edizione, 1792, in ottavo, pagine X-250. Ibidem, Londres [Amsterdam] 1774, in sedicesimo, pagine XII-302. Ibidem, Le Bon-sens du curé Meslier d’Etrépigny, Rome [Paris] 1791, in ottavo. Ibidem, nuova edizione, seguita dal Testament du curé Meslier, a cura di Bouqueton, Paris l’an I de la République, 1792, 2 voll., in dodicesimo. Ibidem, Le Bon-sens du curé J. Meslier seguito dal suo Testament, Paris 1802, in ottavo, pagine 380. Ibidem, Paris, 1802 [1822], Palais des Thermes de Julien, in dodicesimo. Ibidem, Paris 1830, Guillaumin, in dodicesimo. Ibidem, Paris 1831 Guillaumin, in dodicesimo. Common Sense, a cura di H. D. Robinson, New York (circa) 1833. Le Bon-sens du curé J. Meslier, ecc. Paris 1833, Bacquenois, in dodicesimo. Ibidem, Paris, Guillaumin, 1834, in dodicesimo. Ibidem, Nancy 1834, Haener, in dodicesimo. Der gesunde Menschenverstand, Baltimore 1857. Ibidem, Baltimore 1859, seconda edizione, H. U. Ibidem, traduzione in tedesco di Anna Knoop, s.d., circa 1878. Ibidem, Jean Meslier, Superstition in all ages, con in più alcune pagine intitolate Common Sense, tradotto dall’originale francese da Anna Knoop, New York 1878. Ibidem, New York 1890, Peter Eckler, pagine VI-339. Ibidem, Jean Meslier, Le Bon-sens, Paris 1802, Palais des Thermes de Julien, Garnier Frères. Ibidem, Superstition in all ages, ecc., traduzione dall’originale francese di Anna Knoop, sistemato per la pubblicazione nella presente forma con nuovi titoli di pagina e con prefazione da L. W. DeLaurence. Same to now serve as “text-book” number five for “the congress of ancient, divine, mental and Christian masters” Chicago 1910, Ill., De Laurence, Scott and Co., pagine XX-17-339. Ibidem, De la nature humaine, ou Exposition des facultés, des actions et des passions de l’âme, et de leurs causes, déduites d’après des principes philosophiques qui ne sont communément ni reçus ni connus, par Thomas Hobbes, opera tradotta dall’inglese. Londres [Amsterdam] 1772, in ottavo, pagine IV + 171. Ibidem, Oeuvres philosophiques et politiques de Thomas Hobbes, Londres 1787, 2 voll., in ottavo, traduzione di Sorbière e Holbach. Ibidem, Recherches sur les Miracles, dell’autore dell’Examen des Apologistes de la Religion Chrétienne, A Genus attonitum. Ovid. Metam. Londres 1773, in ottavo, pagine 172. Ibidem, La politique naturelle, ou Discours sur les vrais principes du Governement, di un vecchio magistrato. Vis consili expers mole ruit sua. Orazio, Ode IV, lib. III, v. 65 Londres [Amsterdam] 1773, 2 voll., in ottavo, pagine VII + 232 + 280. Ibidem, Londres 1774, 2 voll., in ottavo. Ibidem, La Politica Naturale: discorsi sui veri princìpi di governo, traduzione di Luigi Salvadori, Mantova 1878-1880, Balbiani e Donelli, 2 voll., in sedicesimo, prezzo L. 5. Ibidem, Système Social, ou principes naturels de la moral et de la politique, avec un examen de l’influence du governement sur les moeurs. Discenda virtus est, ars est bonum fieri; erras si existimas vitia nobiscum nasci, supervenerunt in gesta sunt. Seneca, Epis. 124, Londres 1773, pagine 218 + 174 + 166, in tre parti. Ibidem, Par l’auteur du Système de la Nature, Londres 1774, 3 voll., in ottavo, pagine 208 + 174 + 167. Ibidem, Paris 1795, Servière, 2 voll., in ottavo, pagine 472 + 403. Ibidem, ...par le baron d’Holbach, Paris 1882, Niogret, 2 voll., in ottavo. Jean Gottschalk Wallerius, Agriculture réduit à ses vrais principes, Paris 1774, Lacombe, in dodicesimo. Ibidem, Ethocratie ou le gouvernement fondé sur la morale. Constituit bonos mores civitati princips, Seneca, De Clementia, Lib. I, Amsterdam 1776, chez Marc Michel Rey, in ottavo, pagine 10 + 293 + 2. Ibidem, Morale universelle, ou Les devoirs de l’homme fondés sur la nature. Natura duce utendum est hanc consulit, idem est ergo beate vivere et secundum naturam, Seneca, De Vita beata, cap. VIII, Amsterdam 1776, chez Marc-Michel Rey, 3 voll., in ottavo, pagine 416 + 334 + 364. Ibidem, à Tours, chez Letourmy le jeune et compagnie, à Angers, de l’Imprimerie de Jahyer et Geslin, imprimeurs-Libraries, rue Milton, 1792, in ottavo. Ibidem, Paris 1798, Smith (Rey et Gravier), an. 6, 3 voll., in ottavo. Ibidem, par le baron d’Holbach, Paris 1820, Masson et fils, libraires, Rue de Tournon, n. 6, 3 voll., in ottavo, pagine XXXII + 314 + 266 + 300. Ibidem, Moral universal ódeberes del hombre, fundatos en su naturaleza. Opera scritta in francese e tradotta in castigliano da Manuel Diaz Moreno, Zaragoza 1838, imp. De M. Heras, 3 voll., in ottavo. Ibidem, La moral universel, Madrid 1840, stamperia e libreria del Establecimiento Central, 2 voll., in quarto. Ibidem, tradotto in tedesco da Johann Umminger, Leipzig 1898. Baron d’Holbach, des académies de Pétersbourg de Manheim et de Berlin, Elements de la morale universelle, ou catechisme de la nature, Numquam aliud natura aliud sapientia dicit. Giovenale, Paris 1790, chez G. de Bure, rue Serpente, n. 6, in ventiquattresimo, pagine VI + 208. Ibidem, Elementos de la moral universel, ó catecismo de la naturaleza, Madrid 1820, stamperia del fu Fuentenebro, libreria di Sanchez, in ottavo. Ibidem, Principios de moral, ó manuel de los deberes del hombre fundados en la naturaleza, Obra póstuma del baron de Holbach. Tradotta in spagnolo da D. L. M. G., adoptada en su mayor parte de la escuelas de primera educacion para instruccion de los ninos., Madrid 1837, imp. de Ferrer y compania libreria di J. Sanz, in sedicesimo.