Pierleone Porcu

Viaggio nell’occhio del ciclone

1987

    Nota introduttiva alla seconda edizione

    Nota introduttiva alla prima edizione

    La metropoli post-industriale tra rassegnazione e nuovo antagonismo

      La gabbia di vetro

      Il vecchio accentramento industriale

      La fine di una mentalità

      La classe operaia ai margini

      Il capitale e il controllo qualitativo

      Sradicamento proletario dal centro della metropoli

      La socializzazione forzata

      Spoliticizzazione e degrado sociale

      Per un salto quantitativo dell’antagonismo diffuso

    Dall’azione politica all’azione insurrezionale

      L’azione politica

      L’azione diretta simbolica

      L’azione diretta sovversiva

      Azione cosciente insurrezionale

    Il progetto insurrezionale anarchico

      Forzatura e autorealizzazione

    Sviluppo storico dell’insurrezionalismo anarchico

      La Prima Internazionale

      La Banda del Matese

      La posizione di Galleani

      La settimana rossa

      La costituzione dell’UAI

      L’archinovismo

      La costituzione della FAI

      Il 1968 e i limiti storici della FAI

      Le altre esperienze insurrezionaliste

    L’anarchismo insurrezionale oggi

      Le caratteristiche dei gruppi

      Le caratteristiche dell’organizzazione

    Le caratteristiche delle strutture di massa

    Contro l’ecologia e contro la tecnologia

      L’imbroglio ecologico

      La necessità di distruggere la tecnologia

Nota introduttiva alla seconda edizione

Insostituibile colpo d’occhio sull’anarchismo insurrezionalista, teorico e pratico. Una sorta di manuale che, letto attentamente nei suoi tanti dettagli, si rivela come una serie di proposizioni dubitative, non solo sul modo di proporsi dell’anarchismo che qualche volta verrebbe il desiderio di chiamare “conservatore”, ma anche su tutti i tentativi anarchici e rivoluzionari fatti negli ultimi quarant’anni. Quindi, dettagli critici e programmatici che fanno passare in secondo piano l’assetto, se si vuole, didascalico dell’insieme.

Scritto più di vent’anni fa, questo testo mantiene intatta la sua importanza pratica e teorica proprio perché non dà per scontato nessuno sviluppo delle ipotesi insurrezionali di partenza, non assegna a se stesso – né suggerisce al problematico lettore – nessun obiettivo immediatamente tangibile, ma soltanto dubbi e possibilità operative, in altri termini dà l’avvio a intraprendere la ricerca di un possibile progetto rivoluzionario che non si limiti all’assommazione delle forze provviste di contrassegno di autenticità.

Le pratiche insurrezionali che si susseguono dappertutto, nel mentre scrivo queste due righe introduttive, mi confermano sulla validità di scelte che devono ancora vedere non dico la loro applicazione, che forse non la vedranno mai per come sono state formulate, ma la loro corretta comprensione.

Non dispero che ciò possa accadere quanto prima, e con me sono certo che anche l’autore di questo testo non dispera.


Trieste, 25 ottobre 2011

Alfredo M. Bonanno

Nota introduttiva alla prima edizione

Dalle condizioni di vita nelle grandi metropoli post-industriali fino alla critica – radicale e motivata nel dettaglio – della tecnologia e del mito ecologico. Il tutto attraversato da una puntuale analisi dell’anarchismo dalla visione politica della lotta sociale al progetto insurrezionale. Per la prima volta viene qui tentato un abbozzo di ricostruzione storica dello sviluppo della posizione insurrezionalista all’interno del movimento anarchico. Da Cafiero fino ai giorni nostri. Fino alla lotta di oggi.

Alfredo M. Bonanno

La metropoli post-industriale tra rassegnazione e nuovo antagonismo

La gabbia di vetro

Il volto della metropoli sotto la spinta della rivoluzione tecnologica in atto, è andato progressivamente modificandosi, fino a diventare, come luogo, radicalmente altro rispetto a quel che era e significava in origine per una moltitudine di uomini.

Da enorme agglomerato umano, sorto per soddisfare le esigenze di produzione e di sviluppo industriale del capitale, è diventata qualcosa di incomprensibile per la maggior parte di coloro che ci vivono. Milioni di uomini, senza storia, senza cultura, senza un loro scopo che travalichi la sopravvivenza, destatisi improvvisamente da un lungo sonno, si ritrovano ora, come automi, a vagare smarriti all’interno di questa enorme gabbia di vetro e cemento armato che tiene prigionieri, e non sanno coglierne, a quel che sembra, il motivo. Essi non riescono a capire le profonde modificazioni avvenute, per cui, inconsciamente, riflettono quel senso di disagio che provano tutti gli esseri umani quando si sentono ormai estranei alle strutture che li ospitano.

Il vecchio accentramento industriale

Nell’epoca industriale il capitale per produrre aveva bisogno della forza lavoro di milioni di operai. Questi riuscivano così a comprendere le ragioni del loro vivere accatastati nel formicaio della metropoli. L’accentramento industriale li portava a svolgere la loro attività lavorativa all’interno di megalitici stabilimenti di produzione: le fabbriche.

Nella fase di massimo sviluppo dell’elettromeccanica il processo produttivo del capitale era abbastanza semplice, tutto basato sulla catena di montaggio. Gli operai, seppure salariali, coglievano l’importanza del proprio ruolo, sapevano di essere il motore della produzione nel processo di accumulazione del capitale.

Molti di loro capivano le ragioni della propria alienazione e di quella che vivevano i fratelli di sventura, riuscendo persino il motivarsi nella lotta di classe contro il capitale e lo Stato.

La fine di una mentalità

L’epoca post-industriale, inaugurata dall’avvento delle tecnologie di base (elettronica, micro-elettronica, informatica, cantieristica, ecc.), applicate al processo produttivo del capitale non solo sta liquidando il vecchio modo di produrre, ma sta distruggendo il mondo operaio, carico di contraddizioni e alienazioni, perché sta mandando a catafascio tutti i suoi valori fondati sull’etica produttiva. Al lavoro umano, svolto da milioni di operai, il capitale sta sostituendo, nei suoi cicli di produzione, quello svolto ora da migliaia di braccia meccaniche guidate da robot e computer sofisticatissimi, capaci di svolgere tutte le mansioni fino ad ora svolte dagli operai.

Questi ultimi, silenziosamente, nella cinica metropoli post-industriale, vagano senza un lavoro, una meta da raggiungere. Vivono indifferenti, si sentono esclusi, rottami lasciati inutilizzati dal capitale. Alcuni di loro, inconsciamente, iniziano a capire, con rabbia, che non torneranno mai più in fabbrica. Sanno che il capitale ha creato per loro condizioni di non ritorno. Al di là delle fumose chiacchiere dei partiti e dei sindacati sulla “piena occupazione”, essi dovranno partire da questa constatazione per cogliere, in tutta la sua portata, la propria condizione di proletari sociali senza lavoro.

La classe operaia ai margini

Il capitale ha infranto per sempre l’utopia, il sogno di coloro che riponevano le proprie speranze nella classe operaia per far scaturire una rivoluzione sociale proletaria.

Tutto l’evanescente e logoro armamentario teorico e ideologico su cui veniva basata questa ipotesi dovrà essere gettato nella spazzatura. La realtà attuale ci mostra come il capitale, nel suo nuovo processo produttivo, abbia relegato ai margini la classe operaia. Essa è diventata una semplice appendice interna ai suoi cicli di produzione, ridotta ormai ad esigua minoranza. Questo fatto segna la fine del vecchio antagonismo proletario forgiato sulle ideologie operaiste.

Il capitale e il controllo qualitativo

Il nuovo modello di produzione del capitale, attraverso l’impiego massiccio delle tecnologie di base, ha reso possibile il decentramento produttivo con la frammentazione territoriale del ciclo di produzione.

Oggi il capitale non incentra più la sua attenzione sulla semplice nozione di controllo dei cicli e dei rapporti di produzione quantitativa delle merci. Ora punta qualitativamente a possedere un controllo totale che spazi dalla produzione al trasporto, fino al consumo delle merci prodotte.

In questo modo cerca, da un lato, di garantirsi contro tutte le possibili crisi di sovrapproduzione, tanto a livello di mercato nazionale quanto internazionale; dall’altro, cerca di gestire, programmare e pianificare il consumo, modellando, attraverso le sue innumerevoli reti di informazione e distribuzione, le forme di riproduzione sociale.

È su questa linea che il capitale crea nella metropoli i suoi nuovi luoghi di alienazione, catene di fast-food, discoteche, palestre per la cultura del corpo, mode demenziali per riciclati e post-datati.

In questa logica mercantile del capitale si inseriscono le aperture di birrerie e di locali alternativi per i rifluiti della sinistra. Nella metropoli, questi lazzaretti sociali prolificano sulla disgregazione economica, politica e socio-culturale prodotta dalla trasformazione tecnologica che ha investito tutti gli ambiti della società.

Sradicamento proletario dal centro della metropoli

Il ruolo delle istituzioni statali nella metropoli si è notevolmente accresciuto, grazie soprattutto ai processi di riorganizzazione totale dei loro apparati, basati sull’immissione massiccia delle procedure del controllo informatizzato. Le sedi amministrative e politiche, dal Comune, alla Regione, alla Provincia, risiedono sempre nel centro storico della città, fatta eccezione per quella parte di uffici che è stata trasferita nel centro direzionale e commerciale.

Queste strutture si sono estese territorialmente attraverso il vasto processo di informatizzazione che ha portato alla creazione di una miriade di micro-strutture (appendici di questi uffici nei vari quartieri, come l’anagrafe, i comitati di quartiere, i consigli di zona, le strutture assistenziali, ecc.), le quali rendono politicamente e socialmente più organico e razionale il controllo nella metropoli.

Ad esempio, con lo slogan “Milano città europea” è iniziata la massiccia ristrutturazione urbanistica della metropoli lombarda [1987].

L’allontanamento progressivo dei proletari dal centro storico, attuato dalle forze istituzionali cittadine, è servito per avviare senza opposizione un processo di disgregazione attiva di tutti i vecchi rapporti sociali. Questo allontanamento, sradicando i proletari da ciò che era il loro tessuto sociale, sradicava pure tutti quei rapporti antagonisti che i settori proletari e combattivi erano riusciti faticosamente a costruire. Inoltre, avendo relegato i proletari ai margini della metropoli, rinchiudendoli dentro quartieri ghetto, si è raggiunto lo scopo di mostrare la vetrina di una metropoli ripulita dalle scorie sovversive, normalizzata e disciplinata, mentre, lontano da occhi indiscreti, si è nascosto l’aspetto sporco e cinico di questa trasformazione tecnologica avvenuta sulla pelle di milioni di proletari che, in qualità di vittime, ne hanno pagato il prezzo attraverso i licenziamenti. Le istituzioni cittadine, in questo contesto, hanno riciclato centri sociali, comunità alternative, e la maggior parte dei gruppi musicali e teatrali, una volta autonomi dai circuiti di commercializzazione culturale.

La dinamica politica

I partiti e i sindacati assolvono bene al loro compito di sorveglianti e tutori della pacificazione sociale, e all’interno delle strutture su descritte cercano di produrre quel consenso necessario per il mantenimento del presente ordine istituzionale.

Tutto questo lo fanno nascondendosi dietro un cinico discorso politico sul decentramento amministrativo che dovrebbe concedere ai cittadini larghi spazi di gestione dal basso. Questi ultimi si illudono di accrescere la propria autonomia perché, partecipando, possono far pesare le loro decisioni influenzando quelle prese dal potere.

Partiti e sindacati, in qualità di moderne agenzie di marketing del consenso, riciclano, con l’ausilio dei movimenti catalizzatori dell’opposizione di massa fittizia (verdi, pacifisti, ambientalisti, ecc.), tutti i temi su cui potrebbe incentrarsi l’antagonismo sociale.

Tutto viene così riconvertito in istanze che stiano dentro il quadro istituzionale e tutto viene recuperato dal sistema dei partiti. Questa dinamica politica strozza attualmente ogni sussulto di autonomia e di azione antagonista alternative delle masse proletarie fuori dei binari tracciati dai partiti.

La socializzazione forzata

La metropoli militarizzata è il segno evidente di questa trasformazione con le sue innumerevoli reti di informazione, le banche dati, le procedure di controllo con relative schedature di massa. Un insieme che si è centuplicato rispetto al passato. Non vi è edificio pubblico o istituto commerciale che non sia presidiato dalle forze dell’ordine, e dove, al proprio interno, non avvengano procedure di controllo.

Chi vive nelle metropoli si trova, di fatto, compresso tra polizia privata al servizio del capitale e polizia pubblica al servizio dello Stato. Le forze dell’ordine, oltre ad essere state aumentate di numero sono state ristrutturate e adeguate ai tempi.

Come avviene dappertutto, anche nelle scuole di polizia si insegna l’informatica, o quel tanto che basta per mettere in atto le procedure di controllo sui cittadini che una volta potevano essere completate dopo mesi, mentre ora entrano in atto in poche ore. Inoltre, esiste oggi la figura del poliziotto di quartiere di tipo inglese o la volante sul modello americano. Con essi collaborano attivamente nei ghetti della metropoli, psicologi, sociologi, magistrati, tutti dediti alla repressione del soggetto “deviante”.

Tutto questo si traduce in una socializzazione forzata che si manifesta attraverso precise restrizioni della libertà del singolo individuo, misurate in base al suo grado di adesione o refrattarietà al sistema.

Il diritto di manifestare è discriminato socialmente e politicamente in base ai cittadini che lo vogliono attuare. Infatti, chi lotta fittiziamente dentro lo schema delle istituzioni, non ha problema a manifestare. Invece, chi lo fa da un’altra prospettiva, autonomamente e contro le istituzioni, in pratica viene preventivamente represso. La democrazia realizza il suo processo di socializzazione della politica attraverso l’estensione di nuovi istituti di controllo che accrescono il suo dominio indiscusso su ogni piega del corpo sociale.

Allo stesso modo del consenso, la partecipazione promossa dai partiti e dai sindacati si basa su una catena di discorsi che presenta false alternative e i cui sbocchi sono già stati abilmente calcolati dentro questa o quella soluzione prefabbricata. Tutto serve a sottrarre spazio ad ogni possibile organizzarsi di un’opposizione antagonista al sistema.

Spoliticizzazione e degrado sociale

Gli scenari politico-sociali vengono montati e smontati sui grandi teleschermi di vetro, per esigenze di controllo e consenso, dai manipolatori della comunicazione di massa. Gli apparati informativi, dislocati su tutto il territorio, trasmettono migliaia di informazioni che bombardano ventiquattro ore su ventiquattro il cervello di milioni di telespettatori. Nessuno sfugge alla persuasione più o meno occulta dei loro messaggi.

Tutto questo, se da un lato accresce a dismisura il consumo ideologico di informazione, dall’altro genera un processo di saturazione che porta a fenomeni di rifiuto. Molti cercano rifugio nella religione, altri aderiscono alle varie sette orientaleggianti mistico-esoteriche, oppure rifluiscono nel privato della propria famiglia o della propria cerchia di amici. Nella metropoli costoro sono tutti soggetti integrati, che non soffrono affatto di problemi di disadattamento o di emarginazione sociale.

Questa, più o meno, è l’immagine degradata della metropoli attuale. La grande massa dei proletari ristagna, regredisce spoliticizzandosi, e questo non è certamente un male, anche se a tutto ciò non fa riscontro alcuna capacità autonoma di opposizione sociale diffusa sul territorio.

Per un salto quantitativo dell’antagonismo diffuso

Quel poco di movimento antagonista che attualmente si sta agitando nella metropoli, con occupazioni di case, spazi sociali autogestiti e lotta al nucleare, è, in larga parte, composto da giovanissimi compagni che mancano di un sufficiente bagaglio teorico e di capacità critico-analitiche adeguate.

Non riuscendo a comprendere le cause che hanno portato alla frantumazione e alla disgregazione il corpo sociale, questi compagni finiscono per aderire ad ipotesi di lotta e a progetti del tutto superati, come quelli messi in atto da alcuni gruppuscoli sopravvissuti dell’autonomia operaia.

Nel movimento antagonista, al di là di parole d’ordine dichiaratamente libertarie, quali “azione diretta” e “autogestione delle lotte”, si agitano vecchi modelli, dal protopartitismo a sclerotiche schematizzazioni teoriche che non trovano riscontro nella realtà attuale. Ad esempio, il riferirsi costante ad un inesistente soggetto operaio.

Questa incapacità di ripensare oggi, in termini teorici e pratici, la questione sociale, finisce per far esaurire l’azione in una prevedibile e scontata protesta di piazza, che al di là della durezza e della giusta violenza espressa, risulta atto isolato e quindi separato dal tessuto sociale. Questa limitazione permette più del lecito alla marmaglia riformista ed alle forze di polizia di reprimerci impunemente. Allo stesso modo consente ai mass media, secondo un ben collaudato cliché, di criminalizzarci terroristicamente ai fini di spingere la gente verso il consenso istituzionale.

La maggior parte dei compagni anarchici e libertari hanno dato l’impressione finora di disinteressarsi delle lotte in corso. Invece di parteciparvi e dare loro un personale ed attivo contributo in senso sempre più radicale e teoricamente consistente, si sono dedicati ad altre cose.

Nonostante ciò, alcuni compagni sono stati presenti nelle azioni del movimento antagonista. Ma si è in pochi, troppo pochi, per potere influire come si dovrebbe in rapporto alle nostre forze. Auspichiamo che muti l’attuale tendenza. Qualche gruppo di affinità anarchico, molto più radicalmente, ha iniziato in modo informale a battere la strada dell’azione rivoluzionaria, andando a sabotare le strutture-gabbie di cemento armato che circondano i ghetti della metropoli. Ma queste sono tracce, segni, seppure positivi, che non delineano ancora un progetto di possibili trasformazioni sociali in atto.

Pensiamo che alla rabbia, alla voglia sincera di operare, bisogna unire qualcosa di più della semplice buona volontà. Siamo convinti che nessuna prospettiva rivoluzionaria possa imperniarsi sul soggetto operaio, date le profonde modificazioni economiche, politiche, e socio-culturali avvenute all’interno della struttura sociale, come è dimostrato nell’analisi qui esposta a grandi linee.

Bisogna quindi partire da questo dato per riconsiderare globalmente l’attuale condizione proletaria nella metropoli. La soluzione del problema su come fare per rendere irrecuperabile quanto di positivo realizziamo, come esigua minoranza, sta nella scelta degli obiettivi di lotta sul territorio. Se nel nostro agire sociale siamo protesi a ribaltare le logiche dell’integrazione istituzionale, dobbiamo aver chiara la necessità sempre presente dell’attacco in una situazione di permanente conflittualità verso tutte le strutture, grandi e piccole, dello Stato e del capitale, dislocate nel territorio in cui viviamo.

Lo stesso atteggiamento deve aversi nei confronti dei mass media, senza cadere nella trappola del loro potere di persuasione e ciò per non finire vittime anche noi dello spettacolo prodotto.

Alla voglia di lottare bisogna unire una logica distruttiva e conoscitiva che sappia, di volta in volta, vagliare i diversi obiettivi identificando quelli capaci di scuotere le strutture del dominio. Dobbiamo quindi attaccare questi obiettivi facendo, nel contempo, sviluppare fra i compagni e i proletari quel senso di progettualità diffusa ed orizzontale che non consente sul territorio il costituirsi di centri direzionali. Tutto ciò, invalidando, contemporaneamente, le procedure dirette a riprodurre sembianze partitiche all’interno delle lotte che devono sempre mantenere il loro carattere autogestionario. Inoltre è importante impadronirsi dell’informazione e della conoscenza indispensabili a far sì che la comunicazione sovversiva si traduca in un momento di unione fra i diversi spezzoni del movimento antagonista, protesi unitariamente a far fare un salto qualitativo alla propria azione rivoluzionaria.

Con la stesura di questa analisi intendiamo portare un contributo al dibattito in corso all’interno del movimento antagonista.

Dall’azione politica all’azione insurrezionale

Molti compagni – e, per la verità, anche noi – si sono entusiasmati, lasciandosi andare a un trionfalismo fuori luogo, a causa di una sopravvalutazione dei fatti accaduti nel corso della manifestazione a Trino Vercellese del 10 ottobre 1986. [Vedi Passeggiate nel buio. Contro il nucleare, in questa stessa collan].

Come è noto, il movimento antagonista, stravolgendo quanto programmato dagli organizzatori di tale manifestazione (pacifisti, verdi, Lega Ambiente, partiti e sindacati), ha prima spaccato ed incendiato le trivellatrici e le ruspe nel cantiere della centrale nucleare in costruzione, poi si è diretto a Trino. Giunto di fronte al municipio, ha lanciato un cospicuo numero di uova di vernice contro i parlamentari di turno e le forze di polizia poste a difesa dell’edificio. Riguardo a questi avvenimenti vogliamo apportare una critica propositiva, non certo per congelare gli entusiasmi e la voglia manifestati dai compagni né per rinnegare quello che si è fatto, tutt’altro.

È nostro intento ricercare nuove modalità di azione nello scontro sociale, in modo che l’attuale potenziale sovversivo non si esaurisca cadendo vittima di amare disillusioni, come spesso è accaduto nel recente passato.

È utile quindi approfondire le diverse forme di azione, in modo da scartare quelle che riteniamo inopportune per il raggiungimento dei nostri scopi.

L’azione politica

L’azione politica è preferita dagli specialisti della rappresentazione perché è l’azione istituzionale per eccellenza. Essa tende, da un lato, al mantenimento degli attuali rapporti di dominio e, dall’altro, a legittimare e avallare le procedure interne all’apparato statale, rendendo possibile la sostituzione e l’alternanza del personale dirigente.

Quindi, in qualsiasi circostanza venga proposta, l’azione politica, nel corso della lotta, si rivela sempre nociva ai fini di un processo di autoemancipazione proletaria. Una volta attuata, seppure con il pretesto di una triste necessità del momento, finisce per diventare, all’interno delle situazioni di lotta, un ostacolo che blocca la prospettiva rivoluzionaria.

Basta osservare, a questo proposito, quello che spesso accade all’interno del movimento autogestionario per le occupazioni di case e la riappropriazione di spazi sociali. Molti compagni, appena occupato uno spazio, commettono l’errore di preoccuparsi unicamente di correre subito al Comune per intavolare le famose “trattative politiche” con l’assessore di turno. Discutono con costui da una posizione di estrema debolezza, tralasciando del tutto gli aspetti dell’intervento sociale nel territorio, come la controinformazione e la promozione di agitazione sociale da fare nei dintorni del posto occupato. Così, invece di muoversi in base ad una pratica di soddisfazione diretta dei bisogni, finiscono per delegarne la soluzione alle istituzioni cittadine. Tutti i bellissimi presupposti sbandierati all’inizio della lotta, vengono progressivamente accantonati, sotto l’incalzare di una logica politica che li porta a farsi recuperare dai gestori-amministratori della metropoli. La lotta diventa così rivolta esclusivamente all’ottenimento di un contratto di affitto.

Al di là delle chiacchiere fumose, giustificare questa scelta, quello che nella sostanza emerge è il fatto che a questi compagni ciò che ora preme di più non è la lotta e il suo sviluppo, ma il fatto di regolarizzare, da un punto di vista legale, la propria situazione. Quel che si paga a questa logica della mediazione e del compromesso politico, è l’abbandono su tutti i fronti di ogni rapporto conflittuale e di attacco contro le strutture del dominio, la qual cosa porta a rinnegare persino quei contenuti minimali che originariamente avevano motivato la lotta stessa. Ci fanno ridere coloro che parlano di vittoria politica, di strategia vincente ed altre simili amenità, solo perché sono riusciti ad ottenere qualcosa dalla contrattazione con le istituzioni. Bisogna pur sempre valutare a quali condizioni l’hanno ottenuto, per capire se c’è rimasto qualcosa di antagonista una situazione diventata, in questo modo, legale. Molto spesso tali vittorie celano, come prezzo da pagare, una nuova servitù. Molti compagni, una volta entrati nell’ingranaggio istituzionale stritola cervelli, non ne escono più, vi si perdono.

L’azione politica è un surrogato a cui si fa ricorso per faciloneria, per evitare di affrontare le obiettive difficoltà che la lotta sovversiva presenta, per partire ad ogni costo da proposte realiste e facilmente praticabili senza eccessivi sforzi per la massa. È così che all’interno delle lotte si creano i gruppetti dirigenti. Formare delegazioni di compagni per trattare con le istituzioni, è il primo passo in questa direzione.

La logica politica, una volta affermatasi all’interno di una lotta, la fa diventare una lotta morta. Mentre si creano le frazioni, su questa o quella linea politica, la gran massa di compagni e di proletari, da parte attiva, si trasforma in spettatrice passiva di un indecoroso spettacolo di posizioni diretto esclusivamente a dominare l’assemblea, la quale si trasforma così in una piccola palestra parlamentare. Inutile dire che la massa finisce sempre più per dipendere dai capetti che guidano il gruppo politico vincente, una volta che questo è riuscito a prendere in mano la situazione.

L’azione politica si fonda sulla delega che un certo numero di individui dà ad una struttura dirigente, la quale, per così dire, dovrebbe occuparsi dei loro affari. Si chiami essa partito, sindacato o delegazione, la sostanza non cambia. Siamo sempre stati contro le processioni, a maggior ragione siamo contro quelle ritualizzate che si svolgono, di tanto in tanto, davanti al Comune, alla Regione, alla Provincia, all’ufficio di collocamento, alla sede della Confindustria, ecc.; promosse dai partiti, dai sindacati e da altre strutture similari. Fuori ci sta sempre la massa che chiassosamente agita cartelli di protesta, mentre dentro gli edifici vanno i delegati a trattare col personale dirigente.

Invece di sostare davanti pacificamente, si dovrebbe, secondo noi, pensare ai modi possibili per distruggere quei luoghi. Ma questo è un altro discorso, radicalmente diverso da quello politico. Cosa mai potremmo chiedere di fare concretamente alla classe politica, se non suicidarsi?

C’è poi l’azione politica in armi, la quale esprime la concezione, tutta politica, che gli autoritari hanno della rivoluzione sociale. Questi ultimi non hanno certo l’intenzione di abbattere le strutture statali. Essi affermano sempre di volerle conservare transitoriamente e, così dicendo, possono limitarsi a riverniciarle di nuovo. Il risultato di questo modo di pensare il problema rivoluzionario lo conosciamo. Il recente spettacolo armato, inscenato dalle organizzazioni politiche combattentiste, nel suo dissolversi, ha rivelato l’inganno. Dietro le apparenze di una liberazione in vitro esse pretendevano, con la loro azione, non solo di sostituirsi al reale movimento di autoemancipazione proletaria, ma addirittura di ipotecarne lo sviluppo mettendogli al collo la catena del partito guida combattente. Molti di questi attori protagonisti sono divenuti ora patetici fantasmi (vedi i fenomeni di “dissociazione” ed “amnistia”), che per uscire dal carcere vigliaccamente non esitano certo a vendere la pelle di coloro che una volta erano loro fratelli di lotta, i quali ultimi, nonostante tutto, molto più dignitosamente di loro, rifiutano qualsiasi patteggiamento con lo Stato.

Oggi più di ieri, a maggior ragione, riteniamo che nessun sincero rivoluzionario, a cui stia a cuore lo sviluppo del movimento antagonista, possa dare credito alla politica, né cadere vittima degli specialisti della rappresentazione, sia sotto i panni socialdemocratici della politica parlamentare, sia sotto quelli sedicenti rivoluzionari della politica in armi.

L’azione diretta simbolica

L’azione diretta simbolica è diventata oggi il segno più evidente di questa società dello spettacolo, basata sulla perpetua simulazione di atti e rapporti che in assenza di autenticità interagiscono come surrogati sul vivere sociale, alienandoci l’esistenza.

Questa forma di azione teatrale è comunemente praticata dai grandi movimenti pacifisti di massa. Questi vengono sostenuti dai mass media che ne hanno compreso l’importanza all’interno del processo di produzione del controllo e del consenso nella prospettiva del mantenimento di un certo quadro istituzionale. Per tali motivi, all’interno dello spettacolo, i grandi mezzi di informazione amplificano il valore dell’azione simbolica. Ciò consente l’attuarsi di quel processo di massificazione e di appiattimento delle coscienze che, in diverso modo, non sarebbe realizzabile. Infatti, l’azione simbolica porta sempre il segno di una finzione che si è sostituita all’azione trasformativa dei soggetti. Essa è il ripiego migliore con cui fare sfogare le frustrazioni della massa, rendendo innocua la sua potenzialità. Il vero e falso tendono a confondersi nella mente alienata di milioni di telespettatori che nella passività mostrano il segno del loro smarrimento. Tutto sembra verosimile. Le immagini televisive penetrano a fondo nell’inconscio collettivo, causando riflessi condizionati. Il proprio spazio di vita sociale, il proprio movimento si è ridotto di molto, proporzionalmente al numero delle ore trascorse davanti all’occhio magico del televisore. Il proprio mondo sembra ormai racchiudersi fra le quattro mura della moderna e confortevole casa telematica. Alla calda e contraddittoria comunicazione diretta fra gli individui, i gestori della comunicazione strumentale, sostituiscono la fredda mediazione del mezzo meccanico, che porta gli individui a trasformarsi in consumatori terminali passivi della merce-informazione.

Questa è la forma più moderna e raffinata della schiavitù democratica in quanto porta gli individui a vivere per interposta persona davanti ai teleschermi di vetro. Tutto questo ha dato spazio alla teatralità dei gesti simbolici, che oggi permanentemente si sostituiscono a quelli autentici che lo spettatore vorrebbe realizzare. Così gli specialisti della rappresentazione modellano e plasmano su questi gesti, a loro totale piacimento, l’immaginario sociale della massa alienata, la quale sembra identificarsi con tali gesti.

Nella società dell’informazione l’importante è ridurre ogni azione a puro atto simbolico, in quanto lo spettacolo, da un lato, deve gratificare chi lo compie e, dall’altro, deve esaltare la tolleranza dello Stato democratico che lo permette senza reprimerlo. In questo gioco le ideologie esaltano l’arte della finzione, la quale permette agli attori protagonisti dell’azione simbolica, di rappresentare la giusta pantomima come surrogato sostitutivo della lotta. Nelle piazze la protesta sociale si riduce in spettacolo dove si bruciano pupazzi di cartapesta rappresentanti figure dell’oppressione, si fanno volare “creativamente” palloncini colorati, finendo il tutto nel rituale concerto col cantante di grido del momento. I fautori di questa pratica sono per lo più figure divertenti, clown di piazza che conoscono bene l’arte di coinvolgere allegramente la massa. Andare alle loro manifestazioni è meglio che andare a teatro, oltre ad essere uno spettacolo gratuito vi si può direttamente prendere parte in veste d’attore, assumendo il ruolo che si desidera. Non si corrono rischi eccessivi, dato che persino la polizia, che fa parte anch’essa di questa coloratissima coreografia, quasi mai interviene usando le maniere forti.

Questo movimento costituisce l’avanguardia delle forme espressive e di comunicazione massificata del capitale. Per qualche ora costoro rendono allegra la grigia metropoli con le loro carnevalate, ma poi lasciano dietro di sé un grande senso di sconforto nella massa coinvolta. Quest’ultima, quando torna alle sue normali occupazioni, sembra accorgersi dell’inganno dato che si ritrova a fare i conti con problemi concreti che non sono stati certo risolti da simili atti, ma tutt’al più dimenticati per un brevissimo lasso di tempo. Intanto, per conto delle strutture del dominio, gli organizzatori si apprestano ad allestirne altri, in modo da rendere sempre più funzionale il controllo. Là dove esso è ancora debole, cioè nelle fasce del tempo libero.

Come abbiamo visto, l’azione diretta simbolica risulta funzionale al dominio. È quindi del tutto priva di efficacia in una prospettiva concretamente rivoluzionaria in quanto non modifica la realtà ma, al contrario, genera un gran senso di impotenza nella massa che la pratica.

In effetti tale azione è il cavallo di battaglia dell’opposizione fittizia, impiegato per stornare l’attenzione dei proletari dall’intraprendere azioni violente contro le strutture del dominio. Questa pratica serve inoltre per sottrarre preventivamente terreno a ben più serie forme di opposizione sociale, come quelle che il movimento antagonista vuole attuare nel territorio. L’azione simbolica è diventata quindi la valvola di sfogo con cui si può tranquillamente fare esaurire ogni tensione sociale. Inoltre, essa costituisce uno dei puntelli principali dell’azione di recupero e di integrazione sociale attuata dai partiti per conto delle istituzioni. Se ne deve concludere che essa non è solo una forma di azione da scartare ma anche da combattere per gli effetti nocivi e deleteri che produce sugli sfruttati.

L’azione diretta sovversiva

L’azione diretta sovversiva è un atto dirompente che scuote con violenza il corso tranquillo di una data realtà, ma il suo essere un atto basato esclusivamente sulla distruzione momentanea di qualcosa che ci opprime ne segna il limite. Nelle tenebre della metropoli tali azioni sono lampi di luce che lasciano un segno, una traccia del passaggio di gruppi di compagni che si sono rivoltati, ma poi, in assenza di una prospettiva rivoluzionaria e di un progetto che dia loro una continuità, finiscono per perdersi. Tutto ritorna nel grigiore generale e bisogna aspettare parecchio tempo prima di vedere altre tracce.

Tuttavia, l’azione diretta sovversiva è sempre un fatto positivo, perché scuote dall’apatia gli accomodati facendoli sussultare. C’è da dire, comunque, che essa è sempre ben poca cosa nel mare del realismo che ci sommerge. Un esempio significativo è dato dall’azione realizzata a Milano da un gruppo di giovanissimi compagni anarchici e documentata con una “fanzine” intitolata “Spazio Nero”. Questi compagni hanno rivendicato l’incendio di un cantiere edile come protesta contro le gabbie di cemento armato della metropoli la quale si estende, creando ulteriori quartieri ghetto, saccheggiando la campagna. Questa “fanzine” e stata pubblicata integralmente da “Anarchismo” sul numero 53-54.

Per un altro aspetto, l’azione sovversiva di piazza, dai fatti accaduti a Trino Vercellese (menzionati) ad altri più recenti sul fronte della lotta contro il nucleare, porta a trarre alcune conclusioni. La prima è che questa forma di azione, a lungo andare, finisce per esaurirsi in una sterile e rituale contrapposizione fra antagonisti e forze di polizia. La seconda considerazione è che questa azione, seppure espressa in forme contestative violente e di attacco diretto alle strutture del dominio, per mancanza di un discorso legato a determinati contenuti e progettualità, può prodursi e riprodursi all’infinito, in uno scontro che risulta separato da ragioni sociali legate al coinvolgimento immediato degli sfruttati. Infine, la terza è che tale azione, risultando facilmente prevedibile, è meglio gestibile a livello repressivo da parte dell’apparato di controllo dello Stato.

Tutto questo porta a vedere sfumare questa azione in un nulla di fatto, restando con l’amaro sapore della disillusione in bocca per non essere riusciti a darle alcun esito positivo. E poi, come accade di solito in questi casi, caduto l’entusiasmo iniziale, i molti delusi si allontanano. Non ci si diverte più. Anche volendo considerare questo tipo di azione sotto la luce migliore, cioè ritenendo che possa sfociare in un sommovimento di massa, in assenza di prospettive rivoluzionarie, essa finisce, anche in questo caso, per bruciarsi in un nulla di fatto, come del resto è già accaduto. Vedere, a questo proposito, le diverse rivolte avvenute nel quartiere ghetto di Brixton a Londra, finite tutte in questo modo.

È importante, allora, trasformare l’azione diretta sovversiva in un’azione cosciente insurrezionale. Ne facciamo una questione di fondo, una necessità qualitativa che, nel corso della lotta, si inserisce come inderogabile desiderio e bisogno trasformativo che legano insieme le nostre istanze di liberazione totale, una volta che queste siano rivolte veramente al radicale cambiamento e intendano porre fine a questa putrida società del dominio.

Azione cosciente insurrezionale

Siamo disabituati a pensare, a riflettere fuori dei luoghi comuni. Ci è difficile immaginare che possano esistere forme di azione capaci di travalicare il limitato significato che diamo loro nelle contingenze del momento.

La maggior parte delle nostre azioni mancano di prospettiva. Pensare all’azione diretta in termini insurrezionali comporta un notevole sforzo in quanto significa dotarla di prospettiva. Infatti, per comprendere l’azione insurrezionale, bisogna cogliere la relazione che la lega ad un progetto di radicale trasformazione sociale. Essa è l’espressione diretta di una teoria e di una pratica rivoluzionarie che si riassumono nell’anarchismo.

L’azione insurrezionale è, di per sé, azione che non si può materialmente delegare, in quanto atto che comporta, in ogni circostanza, concorso attivo e diretto dell’individuo che la mette in pratica, sia singolarmente che insieme ad altri. Essa, meglio di ogni altra forma di azione pratica, rispecchia i moventi ed il senso dell’azione anarchica rivoluzionaria. L’azione insurrezionale, all’interno dello scontro di classe, si propone, nel suo realizzarsi, il coinvolgimento diretto di strati proletari sempre più ampi, portandoli ad insorgere violentemente contro tutte le condizioni sociali date, il tutto attraverso una pratica selettiva per obiettivi da vagliare nel corso della lotta. La sua importanza non è mai data dalla limitatezza dell’obiettivo scelto, ma da ciò che quest’ultimo, una volta messo in funzione, è in grado di produrre all’interno della lotta stessa. Infatti, tale meccanismo può portare, nel corso della lotta, a travalicare e superare gli stessi scopi limitati che i suoi promotori si erano proposti. La lotta può così divenire più radicale ed avere un suo sviluppo autonomo del tutto imprevisto.

È in questa prospettiva che l’azione insurrezionale si inserisce nelle lotte intermedie, per costruirvi progressivamente quelle condizioni sociali indispensabili a far scaturire l’insurrezione sociale armata generalizzata su tutti i territori del vivere sociale. Questo è il passo necessario da fare, dato che un’insurrezione generalizzata di punto in bianco è poco probabile che si realizzi, ma qualora, per un caso qualsiasi, si verificasse, tutto il lavoro fino ad allora fatto si rivelerebbe molto utile, dato che il bagaglio di esperienze accumulato ci permetterebbe di non trovarci impreparati, ma, al contrario, pronti a coglierla come è nelle nostre più vive aspirazioni. L’agire insurrezionale si incentra sempre su una tattica e una strategia offensive portate contro le strutture del dominio. Per queste sue particolari e dirompenti caratteristiche, l’agire insurrezionale è votato all’attacco, in quanto agita sempre contenuti di rottura con l’ordine costituito. Intendere l’azione insurrezionale come un’azione di difesa è un modo preventivo per condannarla alla sconfitta. Noi non riflettiamo solo su noi stessi, ma volgiamo lo sguardo, per la riuscita dei nostri scopi, verso quelle che potrebbero essere le possibili strade per realizzare quell’indispensabile rapporto di coinvolgimento diretto della massa degli sfruttati, che come noi vive e sente su di sé il peso dell’oppressione e dello sfruttamento. Per queste e per molte altre ragioni, anche l’azione violenta e armata la inseriamo in questa prospettiva, perché per noi non può mai trovarsi disgiunta dalla questione sociale che l’ha provocata. Pensandola diversamente perdiamo il senso di fondo che l’animava. Infatti, la riproducibilità dell’azione armata sta sempre nella sua capacità di essere facilmente assimilabile e generalizzabile a quanti più proletari possibile.

Quindi, al di là delle fughe in avanti dello specialismo armato che genera ruoli, al di là della bellezza estetica e dell’efficientismo espresso dall’azione spettacolare, dobbiamo considerare sempre se l’azione risulta praticabile ai più. Se non lo è, essa non ha importanza ai fini della lotta che sosteniamo, chiarendo beninteso che ci fa piacere sempre e comunque qualsiasi azione armata attuata contro le strutture e gli uomini del potere.

È un concetto insurrezionalista quello di valutare la validità di un’azione rivoluzionaria non dal semplice grado di violenza o di illegalità espresso dal gruppo di compagni che l’ha attuata, ma dal suo realizzare un effettivo elevamento dello scontro di classe in atto. Questo dato si ricava dalle analisi che si fanno sulle lotte sociali in corso sostenute dagli sfruttati, e non certo dal volere semplicemente dar fuoco alle polveri perché ci si è stufati di non far nulla. L’azione armata di gruppi di difesa offensiva, sorti dalla necessità, sempre esistente, di attaccare uomini e strutture della repressione statale per rintuzzare la loro offensiva, si inserisce in un operare insurrezionalista. Da tutto questo possiamo cogliere il senso dell’azione insurrezionale e le ragioni del perché essa deve essere attuata contemporaneamente in più direzioni. L’azione (individuale o di gruppo, che possiamo definire insurrezionalista, anche se batte strade diverse dalla nostra, si realizza quando viene indirizzata verso gli obiettivi espressi non solo dai singoli individui o dai gruppi agenti, ma da tutto o almeno da parte del movimento di autoemancipazione proletaria. Non abbiamo alcun speciale monopolio di particolare forma di azione. Tutti la possono adottare, anzi questo è il nostro più vivo desiderio, al contrario di quello che molti pensano in modo prevenuto solo perché abbiamo criticato alcune loro proposte di lotta.

Pensiamo che occorra riflettere sul significato dell’azione insurrezionale, abbandonando l’idea ottocentesca di pensarla nei termini della semplice barricata. È qualcosa di molto più complesso di questa stupida asserzione, frutto di luoghi comuni. L’azione anarchica insurrezionale si basa soprattutto sulla conoscenza diretta a suscitare processi di radicale cambiamento sociale, avendo coscienza della necessità della distruzione. E ciò oltre ad avere chiaro che senza il coinvolgimento diretto degli sfruttati non è possibile un materiale sovvertimento di questa società dominata dallo Stato e dal capitale.

Il progetto insurrezionale anarchico

Nello scontro di classe gli anarchici e i libertari non sono soli ad agire a fianco degli sfruttati. Altri rivoluzionari, all’interno delle lotte proletarie, pur affermando di volere raggiungere gli stessi scopi, nei metodi, nell’organizzarsi e nei mezzi che impiegano, divergono da loro radicalmente.

Tutto questo rivela grosso modo l’esistenza di due progetti rivoluzionari distinti ed inconciliabili tra loro. Il progetto degli anarchici si trova su di un terreno operativo qualitativamente diverso e questa incompatibilità spesso si trasforma in aperto antagonismo con il progetto sostenuto dai comunisti autoritari.

A dividere anarchici e autoritari non sono semplici divagazioni su idee astratte riguardanti un ipotetico futuro, ma una teoria e una pratica che nel presente li portano ad operare scelte profondamente diverse. Scelte che rivestono una importanza primaria, dato che su di esse si delineano e si incentrano tutte le modalità d’azione e le finalità operative ritenute indispensabili per lo sviluppo immediato del movimento proletario in senso rivoluzionario.

Tralasciando di parlare del progetto partitico-statuale, sostenuto dai rivoluzionari autoritari, entreremo nel merito di quello che è il progetto più attraente e ricco di stimolanti prospettive per il radicale cambiamento sociale: il progetto insurrezionale anarchico.

Siamo convinti che questo progetto sia oggi l’unico in grado di portarci fuori dalle secche in cui sembra essersi arenato il movimento antagonista. E ciò pone fine a tutte le chiacchiere barbose e a tutte le banalità sostenute dai gruppuscoli partitici, i quali, a parte il loro attivismo militantesco, non mostrano di possedere una concreta prospettiva di cambiamento sociale.

A sostenere il progetto insurrezionale è, in linea di massima, l’insieme del movimento anarchico specifico, anche se al suo interno esiste una ristretta minoranza di compagni (culturalisti, educazionisti, pacifisti, ecc.) che non lo condivide per ragioni legate al problema dell’uso della violenza rivoluzionaria.

Forzatura e autorealizzazione

Nella realtà attuale, il progetto insurrezionale anarchico è l’unico progetto che agita lo spettro sovversivo dell’immediata fine di ogni ordine sociale fondato sul potere, sull’autorità e sulla gerarchia.

Questo progetto indica, nel contempo, le concrete possibilità di azione rivoluzionaria dirette ad autoliberarsi dal peso soffocante della dominazione. All’interno dello scontro di classe tale progetto si caratterizza indicando, come necessità imprescindibile per il cambiamento sociale, l’attacco distruttivo da portare a tutte le strutture del dominio. In queste strutture vanno compresi: lo Stato e il capitale, la Chiesa e ogni altra autorità gerarchica, fino a quelle che i gruppuscoli partitici, all’interno delle lotte, cercano di costituire col pretesto di una necessità politica del momento.

Il progetto insurrezionale anarchico sostiene inoltre i concetti di autonomia ed autorganizzazione proletaria all’interno delle lotte, come idee-forza di un nuovo ordine sociale egualitario-autogestionario, il tutto incentrato sulla messa in pratica del concetto di libertà totale, che dovrebbe permeare di sé ogni aspetto della vita individuale e sociale così come tutti i rapporti che gli individui, nel loro movimento di autoliberazione sociale, sono tesi ad intrattenere fra di loro.

Questo modo particolare di pensare e di agire oggi all’interno della questione sociale, va direttamente contro un pensare in senso limitativo al problema della libertà. Il progetto insurrezionale anarchico destruttura quindi radicalmente l’immaginario sociale degli individui ancorati al tabù dell’autorità, in quanto lo sopprime a tutto vantaggio di uno sviluppo all’infinito della libertà. Tutto questo, nella realtà dello scontro di classe, si traduce nell’affermazione progressiva della libertà totale materialmente intesa, cosa questa che nella lotta dovrebbe portare gli sfruttati a scagliarsi non solo contro ogni idea di dittatura ma anche contro ogni democrazia, identificando correttamente quest’ultima come la forma più attraente, sottile e raffinata su cui si fondano tutti gli attuali rapporti di dominazione.

Inoltre, a determinare il progetto insurrezionale non è solo la minoranza anarchica che lo sostiene all’interno delle lotte, ma sono soprattutto le masse proletarie coinvolte attivamente, dato che nel loro movimento di concreta forzatura in atto della realtà sociale, sono esse a costituire il segno più tangibile del suo essere progetto in corso di realizzazione. Al suo interno, in quanto progetto organizzativo, si fondono spontaneità e consapevolezza, dando modo all’azione di manifestarsi in senso creativo ed imprevedibile, il tutto in un continuo rapporto tra immediatezza e riflessione volto a far crescere, nelle diverse situazioni, l’autorganizzazione e la generalizzazione delle lotte da parte degli sfruttati. È per questo che la minoranza insurrezionale anarchica non ha alcuna necessità di instaurare rapporti pedagogici con le masse proletarie.

Sviluppo storico dell’insurrezionalismo anarchico

In rapporto al mutare degli scenari economico-politici e socio-culturali della società, conseguenti ai processi di sviluppo del capitale, nelle sue fasi industriali, e dello Stato, nei suoi vari regimi politici (monarchia, dittatura, socialdemocrazia); anche il progetto insurrezionale anarchico è andato approfondendosi e modificandosi, nelle sue forme organizzative, pur rimanendo sostanzialmente identico a se stesso nei suoi presupposti e nei suoi concetti di fondo.

In tutto ciò vi è una sostanziale unità logica che mostra l’anarchismo come una teoria e una pratica rivoluzionarie, volte, in ogni epoca, coerentemente, a spezzare la continuità storica del dominio.

Non essendo storici ma militanti anarchici impegnati a sostenere questo progetto all’interno delle lotte, ci limitiamo qui a tracciare un quadro brevissimo delle tappe più significative che nel suo sviluppo storico l’hanno caratterizzato a livello organizzativo, in modo che tutti i compagni possano rendersi conto delle sue forme attuali.

La Prima Internazionale

Come è noto, dopo la fine della Prima Internazionale, il movimento socialista internazionale, fino ad allora unito sulla base generica di un’idea comune legata alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, si trova, sulla questione dello Stato, irrimediabilmente spaccato in due tendenze distinte. Da un lato, gli antiautoritari sostengono la distruzione immediata dello Stato, dall’altro, gli autoritari marxisti sostengono la tesi opposta, quella di conservare lo Stato provvisoriamente nel corso della rivoluzione sociale, utilizzandolo come tappa indispensabile nel processo di emancipazione proletaria, per poi finalmente arrivare alla sua progressiva estinzione (a questo proposito giova ricordare quello che è accaduto nella rivoluzione sociale in Russia: è dal 1919 che i proletari aspettano che lo Stato socialista sovietico si dissolva). La tendenza antiautoritaria ed antistatalista costituisce il movimento anarchico specifico, quella statalista marxista costituisce i primi partiti operai. Queste due tendenze non solo sono divise sul piano teorico ma lo sono, soprattutto, sul terreno delle lotte proletarie. Da ciò un aperto antagonismo.

Il movimento anarchico specifico nasce ufficialmente col primo congresso antiautoritario, tenutosi a Saint Imier il 15 settembre 1872. Qui si gettano le basi teoriche e pratiche dell’anarchismo rivoluzionario insurrezionalista. Infatti, in tale congresso, gli anarchici chiariscono le proprie idee, definiscono i propri scopi e tracciano le linee e i presupposti dell’azione anarchica rivoluzionaria, compresi quelli che dovrebbero essere, in linea generale, i compiti degli anarchici nello scontro di classe a fianco degli sfruttati.

La Banda del Matese

La prima forma di organizzazione insurrezionale anarchica e quella conosciuta come Banda del Matese (1877). A metterla in pratica è un gruppo di compagni internazionalisti che adottano il programma rivoluzionario anarcocomunista tracciato da Carlo Cafiero.

Questa azione insurrezionale è basata su di una tattica ed una strategia tese a provocare la rivoluzione sociale a seguito della “propaganda del fatto”, e confida, per la sua riuscita, nella spontaneità organizzativa delle masse proletarie in rivolta.

La propaganda del fatto è tratta dalle tesi esposte da Carlo Pisacane, nel suo programma insurrezionalista socialista-libertario e federalista, in contrapposizione alle tesi stataliste sostenute dai mazziniani.

La Banda del Matese, come forma organizzativa insurrezionale, viene sconfitta sui monti, con la violenta repressione del moto da parte delle guardie regie che arrestano quasi tutti gli internazionalisti partecipanti. Con essa si conclude l’epopea garibaldina dell’insurrezionalismo risorgimentale.

Dopo questo fatto, Errico Malatesta, che era stato assieme a Cafiero uno dei partecipanti e degli organizzatori più convinti dell’insurrezione, riflette sulle cause di questa prima sconfitta, e arriva alla conclusione che si deve ricercare in una non adeguata preparazione organizzativa e rivoluzionaria, maturata nel corso delle lotte, oltre, naturalmente, ad una scarsissima disponibilità di mezzi materiali e di armi. Inizia così, per Malatesta, una elaborazione autonoma del progetto organizzativo insurrezionale anarchico, che egli svilupperà e sosterrà coerentemente e tenacemente per tutta la vita, senza mai scendere a compromessi o mediazioni.

Quello che gli si può rimproverare sono alcune valutazioni errate sulle dirigenze del partito socialista e la sua centrale sindacale, che egli riteneva, in un dato momento storico, volte anche esse alla rivoluzione sociale. Si veda, in proposito, la sua propaganda diretta a ricercare l’unità fra tutte le forze proletarie, la prima politica dei fronti popolari.

La posizione di Galleani

Mentre dilaga in tutta Europa la “propaganda del fatto” all’interno del movimento anarchico, Malatesta entra in polemica con i noti compagni assertori dell’attentato individuale (si veda, a questo proposito, la sua polemica con Émile Henry, del 1892), giudicando questa azione di ostacolo all’organizzazione del progetto insurrezionale anarchico di massa, progetto da lui sostenuto. In seguito – sullo stesso argomento – guardando con simpatia l’affermarsi del nascente movimento sindacale di massa, invita gli anarchici a prendervi parte attiva, invece di isolarsi battendo la strada dell’attentato individuale.

Altri anarchici insurrezionalisti, al contrario, non vedono in questi atti un ostacolo ma un’avvisaglia dell’azione insurrezionale collettiva e affermano che essi mirano a scuotere l’apatia della massa, incitandola sulla strada della rivolta verso l’azione insurrezionale collettiva che altrimenti potrebbe tardare a venire. A questo proposito sono interessanti le riflessioni e le prese di posizione di Luigi Galleani (La fine dell’anarchismo?), in difesa delle azioni di rivolta individuale contro le osservazioni bigotte dei moralisti insediatisi all’interno del movimento.

Per vizio polemico gli ultra-organizzatori indicavano questi compagni anarchici insurrezionalisti col termine di anti-organizzatori, perché facevano riferimento al giornale “Cronaca Sovversiva”, pubblicato a Boston, negli Stati Uniti, da Luigi Galleani. In tale giornale, a ragione, si sostenevano tesi contrarie all’organizzazione specifica anarchica retta su basi permanenti e formalizzate. Si vedevano infatti in quest’ultima forma organizzativa gli stessi pericoli e gli stessi errori interni al partito, mentre i sindacati non erano visti come strutture rivoluzionarie ma essenzialmente come strutture riformiste che cercavano di legalizzare, sviluppandosi, la classe operaia all’interno delle strutture del dominio.

Molte di queste critiche, come vedremo, si riveleranno giuste anche se allora potevano apparire a molti, compreso Malatesta, eccessive. Questi compagni, a torto definiti anti-organizzatori, avevano un concetto organizzativo informale della lotta proletaria, lo stesso concetto che abbiamo noi oggi nel nostro modo di organizzarci, sia a livello specifico che a livello della costruzione di strutture di massa autogestionarie.

La settimana rossa

I moti antimilitaristi di Ancona, la famosa settimana rossa (1914), sono, per Malatesta, che vi partecipa assieme a molti altri anarchici, un banco di prova di quelle riflessioni iniziate col moto rivoluzionario del Matese. Dalle pagine di “Volontà” (1913-1915), egli traccia un quadro degli scopi che dovrebbero proporsi gli anarchici attraverso l’azione insurrezionale dentro il sommovimento, affinché questo dilaghi. Tali scopi si possono riassumere nella necessità di creare, su di una base permanente, l’organizzazione specifica anarchica insurrezionale, di sostenere e sviluppare le strutture proletarie di massa agenti all’interno, di spingere verso la generalizzazione dello scontro di classe (allora in atto in tutta l’Italia), perché il permanere di questo scontro come fatto circoscritto ad un determinato territorio, l’avrebbe portato inevitabilmente alla sconfitta. Cosa che puntualmente avverrà, anche a causa della nefasta azione del partito socialista che invita i proletari a confidare nell’azione parlamentare più che nell’azione diretta. La piazza inizia così a svuotarsi e la bandiera della rivolta viene, ancora una volta, ammainata ad opera degli sciacalli riformisti.

La costituzione dell’UAI

Dalle riflessioni intorno al moto antimilitarista della settimana rossa, matura, all’interno del movimento anarchico italiano, la seconda e più significativa esperienza organizzativa insurrezionale, quella che vede il costituirsi dell’Unione Anarchica Italiana (1920).

Questa è la prima organizzazione anarchica di tendenza, costituita a livello specifico permanentemente sul territorio nazionale. L’adesione dei compagni avviene su di un programma generale anarchico insurrezionalista basato su strutture di massa derivanti dal sindacalismo rivoluzionario. All’interno dell’UAI si svolse una critica del sindacalismo portata avanti dagli anarchici consiliaristi.

A parte gli errori visti prima, derivanti dalle valutazioni relative al fronte popolare unito, sostenuto da Malatesta, l’UAI finiva per dimostrarsi inadeguata alle esigenze dello scontro di classe allora in atto in Italia, in quanto nel suo agire o andava incontro ad un eccessivo possibilismo, oppure si rinchiudeva in uno sterile massimalismo che la portava a non incidere adeguatamente nelle diverse situazioni di lotta proletaria in cui i suoi militanti erano presenti.

L’Unione Sindacale Italiana, il sindacato anarchico, nonostante la conclamata autonomia, era di fatto una sua cinghia di trasmissione, che peraltro le impediva di svolgere un adeguato intervento all’interno stesso della classe operaia. I militanti dell’USI, invece di adoperarsi all’interno delle lotte per cercare di sviluppare un processo unitario autonomo della classe operaia, finivano per riconoscere quest’ultima come classe divisa sindacalmente fra le diverse centrali sindacali. Inoltre questo fatto non consentiva una reale solidarietà rivoluzionaria fra le masse proletarie occupate e quelle disoccupate.

Il sindacalismo generava interessi e privilegi di categoria, alcuni dei quali analizzati nei suoi scritti dallo stesso Malatesta. Pur nei suoi momenti più alti, la lotta rimaneva circoscritta all’occupazione generalizzata delle fabbriche, dei cantieri navali e delle cave di marmo, in sostanza solo in alcuni posti di lavoro, invece di riversarsi sull’intero territorio sociale. Questa fu una delle cause della sconfitta del movimento autogestionario delle occupazioni nel 1920.

Inoltre, questa forma di organizzazione insurrezionale specifica, pur essendo anarchica, cioè volontaria e basata, nel suo funzionamento interno, sulla responsabilità individuale, finiva di fatto per assomigliare, nel suo muoversi organizzativo, ad un qualsiasi altro partito proletario. I movimenti e le azioni dei suoi militanti, spesso, si traducevano in un porsi nei confronti della massa sfruttata su di un piano non molto differente da quello dei militanti degli altri partiti operai. Anche se tutto quello che facevano era sempre attuato in chiave libertaria, quindi in modo non autoritario, in sostanza il loro operare all’interno delle masse proletarie si traduceva nell’instaurare un preciso rapporto pedagogico. Aggiungendo ancora che le strutture sindacali formalizzate impedivano, di fatto, la costruzione e lo sviluppo, sul piano informale, di strutture autogestionarie sempre nuove nella forma, nate sotto la spinta delle esigenze della lotta, si ottiene il quadro dei limiti interni inerenti a questo modello specifico di organizzazione insurrezionale anarchica.

Alla sostanzialità dei contenuti anarco-comunisti che gli organismi di massa sindacali dovevano riflettere al proprio interno, come nei desideri dei militanti insurrezionalisti anarchici, si era dunque sostituita la buccia vuota della formalità. È su questa strada che si formavano i primi delegati sindacali. Molti compagni dell’UAI finivano spesso per rivestire cariche importanti nella struttura dirigenziale dei vari sindacati di categoria. Questo, nonostante che Malatesta, per primo, avesse affermato la necessità per gli anarchici di evitare, per quanto possibile, cariche sindacali, in quanto convinto del fatto che un compagno diventato funzionario stipendiato fosse un compagno perso per l’anarchismo. Per tutti questi motivi gli anarchici insurrezionalisti, detti anti-organizzatori, polemizzavano aspramente contro la cosiddetta tendenza organizzatrice raccolta nell’UAI. Nel sindacalismo essi non vedevano l’attuazione del progetto anarchico insurrezionalista a livello di massa, ma l’esatto contrario, cioè una teoria riformista volta verso un aggiustamento sociale, con il quale, all’interno dello scontro di classe, si legalizzava la classe operaia, inserendola nel processo istituzionale perseguito dai partiti riformisti.

La maggior parte di questi compagni, vivendo negli Stati Uniti, aveva di fronte quello che andava maturando all’interno del capitalismo più avanzato e da lì traeva spunto per una critica radicale al sindacalismo, compreso quello espresso dai vari sindacati anarcosindacalisti di allora.

L’avvento del fascismo in Italia troncò bruscamente questa contraddittoria e, per certi versi, utilissima esperienza organizzativa insurrezionalista anarchica. A Malatesta va riconosciuto il merito di avere affermato la necessità indispensabile dell’organizzarsi, agli anti-organizzatori quello di avere fatto una critica per rendere l’organizzazione quanto più possibile aderente alla realizzazione dei nostri scopi, evitandoci il rischio, sempre in agguato, di vederla trasformarsi in partito.

L’archinovismo

Le conseguenze provocate dalla sconfitta della rivoluzione sociale proletaria in Russia si ripercuotono, anche se marginalmente, nel progetto organizzativo insurrezionale anarchico.

Il modo di organizzarsi permanente in struttura formale tocca il suo apice degenerativo nelle crisi periodiche che attanagliano l’idea stessa di organizzazione spingendo i compagni a ristrutturarsi fin nel più piccolo dettaglio.

Tutto questo finisce per sconfinare nella creazione esplicita del partito proletario libertario, proposto dalle tesi piattaformiste di Archinov (1926), per fortuna respinte a livello internazionale da quasi tutti gli anarchici. Questa forma organizzativa, in palese contraddizione con quelli che sono i princìpi anarchici, mette fuorilegge la tendenza individualista dell’anarchismo e, nello stesso tempo, si scaglia contro i fautori della pratica anarco-sindacalista.

Per quanto concerne l’anarchismo rivoluzionario, il comunismo anarchico e l’individualismo anarchico, lungi dall’escludersi a vicenda si integrano, in quanto per comunismo gli anarchici intendono il costituirsi di libere e volontarie comunità autogestite, dove ognuno, al di fuori di qualsiasi costrizione, coopera assieme agli altri solidaristicamente alla produzione dei beni materiali, ed egoisticamente vi attinge secondo i propri bisogni con l’unico limite della mutua comprensione che deve esistere fra tutti quando i beni scarseggiano.

L’individualismo anarchico va inteso, per usare un’espressione di Galleani, “nel senso che nessuna autorità di istituti, di maggioranze o di minoranze possa interferire collo sviluppo e la libertà dell’individuo, e comunque attenuarne l’autonomia”.

L’anarcosindacalismo, invece, non è affatto un principio dell’anarchismo, ma un mezzo che molti anarchici credono utile impiegare per attuare i loro scopi. Noi, da parte nostra, non lo riteniamo utile.

L’organizzazione piattaformista, in quanto forma di partito, è una struttura mediata, dirigenziale, che nulla può produrre di positivo da un punto di vista della lotta proletaria correttamente intesa in senso rivoluzionario. Con l’organizzarsi del progetto insurrezionalista anarchico non ha nulla a che vedere. Lo spirito settario che la pervade è lo stesso tipico che si ritrova negli statuti di un qualsiasi partito. La “Piattaforma” costituisce inoltre, più che un certo modo di organizzarsi specifico fra anarchici, un preciso progetto autoritario ed autoritativo con cui imporre terroristicamente il fatto organizzativo. Per gli anarchici che si muovono al di fuori di essa non vi è salvezza alcuna. Pertanto, senza scomuniche o petizioni, la “Piattaforma” si situa, da sola, fuori dell’anarchismo in qualsiasi modo inteso. Tuttavia, per un’ironia della sorte, la deleteria influenza archinovista, trova, per certi versi, proprio nelle strutture anarcosindacaliste spagnole una sua applicazione (vedi, a questo proposito, l’articolo “La parte cattiva di noi stessi”, pubblicato sul numero 53-54 di “Anarchismo”, dove si sottolinea il ruolo svolto dalle dirigenze della FAI-CNT spagnola durante la rivoluzione sociale del 1936-1939).

L’organizzazione anarchica specifica di sintesi deriva da una risposta del 1927 data da alcuni compagni esuli russi, in disaccordo con la “Piattaforma” di Archinov. Ma di ciò parleremo più avanti.

La costituzione della FAI

Un altro progetto organizzativo insurrezionale anarchico viene elaborato in Francia negli anni Trenta, da alcuni compagni rifugiatisi in quel Paese a seguito del fascismo imperante in Italia. Tale progetto non trova tuttavia applicazione pratica al momento della caduta del regime fascista, con lo sbarco degli alleati. Il movimento anarchico italiano, dopo la liberazione, si riorganizza costituendo la Federazione Anarchica Italiana (1945), un’organizzazione specifica di sintesi la quale adotta, come proprio fondamento, il programma di Malatesta, lo stesso che era stato accettato dall’UAI nel 1920.

Tutto il movimento si trova raccolto nella FAI ma, nel suo agire, non fa più alcun esplicito riferimento al progetto organizzativo insurrezionale. Nonostante il programma adottato parli chiaramente di insurrezione, questa viene congelata. Per l’anarchismo italiano sono tempi molto brutti. Il movimento operaio è, in larghissima parte, dominato dagli stalinisti. Molti dei suoi più validi militanti partigiani finiscono in carcere, mentre Togliatti scarcera i fascisti, amnistiandoli.

Il movimento anarchico, dagli anni Cinquanta fino agli inizi del 1968, si trova tutto ripiegato sulle tesi liberal-socialiste propugnate fino alla guerra di Spagna da Berneri e sostenute da coloro che gestiscono “Volontà”, la maggiore rivista teorica anarchica italiana di allora. Questa rivista raccoglie in quegli anni alcuni dei migliori intellettuali di sinistra non stalinisti, come ad esempio, Ignazio Silone. Bisognerà aspettare vent’anni per risentire parlare di anarchismo insurrezionalista, con la contestazione studentesca ed operaia del 1968. Dei vecchi progetti insurrezionalisti non è rimasta traccia nella realtà. Si riparte da zero.

Il 1968 e i limiti storici della FAI

Il movimento anarchico si dimostra nel suo insieme inadeguato a cogliere le istanze più radicali emergenti della contestazione del 1968. La sua maggior struttura, cioè la FAI, è in crisi. Si veda, a questo proposito, il fenomeno del neo-piattaformismo proposto, al suo interno, e si veda anche il fenomeno contrario, per come appare nella durissima requisitoria svolta da Gino Cerrito a Carrara contro Cohn-Bendit e i suoi compagni, convenuti in occasione del congresso. Cerrito non sviluppa la sua critica da un punto di vista della radicalità, ma da quello, meno qualificante, di un generico umanismo libertario che sconfina nella socialdemocrazia liberale.

Tutto questo avviene anche perché, a mio personale parere, l’organizzazione anarchica specifica di sintesi, la FAI, presenta sotto molti aspetti difetti e contraddizioni insormontabili. Il metodo della sintesi, applicato al suo interno, porta ad appiattire o diluire le varie posizioni contrastanti mediandole. Emerge così, come risultato, una nuova posizione che accontenta tutti, ma che non riflette le diversità di fondo dei gruppi che avevano assunto diverse posizioni a seguito della propria specifica situazione nelle lotte.

Così, indifferentemente dalle specifiche situazioni di lotta, i gruppi dell’organizzazione di sintesi si ritrovano ad operare parzialmente vincolati ad una posizione generale scaturita dagli accordi presi nel corso dei congressi periodici che l’organizzazione tiene a livello nazionale. Quindi i singoli gruppi non godono di una adeguata autonomia operativa, cosa che si traduce nella scarsa incisività del loro intervento sociale. Inoltre, a causa del desiderio di non escludere al proprio interno nessuna tendenza anarchica, l’organizzazione di sintesi finisce per nullificarsi operativamente, in quanto nel loro agire i singoli militanti vanno incontro a tantissime contraddizioni, come quelle di conciliare all’interno dell’organizzazione le posizioni culturaliste, le posizioni insurrezionaliste, le posizioni anarco-sindacaliste. Di più, avendo la FAI fatto un principio dell’anarcosindacalismo, anziché un mezzo di intervento, i suoi militanti non possono, anche volendo, abbandonarlo. Al massimo possono limitarsi a criticarlo.

Mentre l’UAI aveva, seppure fra mille contraddizioni, una sua relazione diretta con il vecchio progetto anarchico insurrezionalista, la FAI di oggi, sua erede ideale, non ne possiede alcuna. L’oscillare continuo dei suoi militanti, ora verso le posizioni rivoluzionarie (vedi movimento antagonista), ora verso quelle possibiliste (vedi movimento verde, pacifisti ed ambientalisti), li porta a ritenere utile cercare di coinvolgere queste ultime senza per altro riflettere se queste forze, all’interno dello scontro di classe, abbiano i loro stessi interessi. Questo è il frutto di una costante non chiarezza metodologica che regna all’interno dell’organizzazione di sintesi.

Le altre esperienze insurrezionaliste

Intanto, al di fuori delle organizzazioni anarchiche ufficiali, pur rimanendo dentro il movimento anarchico, molti compagni iniziano la faticosa ricomposizione organizzativa del progetto insurrezionale anarchico, partendo da quelli che sono gli elementi avanzati e radicali che dalla contestazione del 1968 in poi vanno emergendo nelle lotte proletarie.

Azione Libertaria, Sinistra Libertaria sono primi sforzi operati in questa direzione. L’area dell’autonomia proletaria, il maggiore tentativo teorico-pratico di superamento radicale del sindacalismo e (in parte) del consiliarismo, si sviluppa all’interno delle lotte di fabbrica, con un progetto che comunque abortisce in una prospettiva di lotte proletarie sociali più generali, soprattutto per l’eccessivo fabbrichismo.

Questo permetterà ai camaleontici gruppuscoli marxisti-leninisti una calata in massa all’interno di quest’area, fino ad allora realmente autonoma e libertaria, creando sulle sue ceneri una nuova area-movimento protopartitica denominata “Autonomia Operaia”.

In questo frangente i compagni di Sinistra Libertaria si sciolgono, ed alcuni di loro creano la rivista “Anarchismo”. I suoi militanti, nel corso di tutti questi ultimi anni, all’interno dello scontro di classe, avanzano la necessità di ricostruire il progetto organizzativo insurrezionale anarchico. Essi si confrontano sul piano teorico-pratico con tutte le tendenze rivoluzionarie, oltre ad affrontare lo scottante problema della lotta armata.

Tutto questo lo fanno partendo dal rifiuto di operare scelte aprioristiche di tipo ideologico. Queste, se del caso, devono avvenire nel corso della lotta e non a tavolino. Così, senza farsi problemi di coscienza, da un punto di vista anarchico e rivoluzionario essi prendono posizione contro il fenomeno della “dissociazione” ed anche contro le ipotesi di lotta per l’amnistia, vedendole come l’anticamera del cedimento. A questo proposito è utile consultare il bollettino anarchico di controinformazione “Crocenera”. Un primo tentativo di realizzare nei fatti questo progetto insurrezionale si ha con le lotte di Comiso, basate sul modello delle Leghe autogestite, strutture di massa orientate al raggiungimento di un determinato obiettivo in tempi ravvicinati, come l’occupazione della base missilistica per impedirne la costruzione.

Proseguendo su questa strada, si è giunti a polemizzare aspramente sia con coloro che, stendendo un lenzuolo funebre sull’anarchismo rivoluzionario, vanno sostenendo tesi socialdemocratiche (da un lato), sia con i compagni della FAI riguardo le questioni dell’organizzazione specifica insurrezionale anarchica e la questione delle strutture di massa, che per la FAI fanno ancora riferimento all’anarcosindacalismo (dall’altro lato).

Noi riteniamo che il modello organizzativo della sintesi sia non solo superato dalla complessità della realtà attuale, ma lo riteniamo anche di ostacolo a qualsiasi ipotesi di progetto organizzativo insurrezionale anarchico attuale. Le contraddizioni racchiuse al proprio interno non permettono al progetto di sintesi di costruire le strutture di massa autogestionarie che riteniamo siano l’unica strada possibile per arrivare al fatto insurrezionale.

L’anarchismo insurrezionale oggi

Gli attuali gruppi anarchici insurrezionalisti hanno svolto una critica radicale di tutte le forme di organizzazione permanente assunte in passato dal progetto insurrezionale anarchico. Ne hanno messo in luce le debolezze e i limiti, allo scopo non certo di negare l’importanza primaria che il principio organizzativo riveste all’interno di una progettualità rivoluzionaria. Loro intento è stato quello di presentare oggi questo progetto in una veste più critica ed aderente a quelli che sono coerentemente gli scopi di una rivoluzione sociale da realizzarsi qui, nel presente.

Le forme organizzative non possono infatti riflettere esclusivamente quanto è accaduto in passato. Soprattutto dopo avere appreso dalle precedenti esperienze organizzative insurrezionali che gli organismi di massa (sindacati e consigli), costituiti in pianta stabile e fuori delle esigenze dirette della lotta, pur se anarchici in partenza, si trasformano, sotto la necessità di conservarsi, in precisi ostacoli che frenano il libero corso dello scontro e portano chi li ha creati a ricalcare fedelmente il modulo organizzativo degli autoritari.

Questo modo di concepire il fatto organizzativo, non solo vota preventivamente all’impotenza l’azione insurrezionale ma, nella sua logica, costringe a mantenere contraddizioni che si rivelano insostenibili da un punto di vista anarchico e rivoluzionario. Infatti, per sopperire alle crisi ricorrenti che questi organismi formalizzati mostrano nei confronti delle lotte in corso, i loro sostenitori sono costretti a ristrutturarli continuamente. Tutto ciò dà luogo ad un processo di delega delle funzioni tra i militanti interni alla struttura. Dapprima questa delega viene accettata momentaneamente, in seguito, per forza di cose, per la sopravvivenza stessa della struttura, si sarà costretti ad adottarla permanentemente. Ciò dà luogo a forme organizzative protopartitiche, dove l’assemblea viene utilizzata come un piccolo parlamento.

Da questo insieme di considerazioni scaturisce l’interessante ricerca degli attuali gruppi insurrezionalisti, i quali, liberatisi dal peso soffocante delle strutture precostituite, pongono la questione dell’organizzarsi in relazione alle esigenze della lotta sociale rivoluzionaria. Questa posizione teorica afferma che le forme organizzative specifiche, come pure le strutture autogestionarie di massa, si devono definire progressivamente nel corso delle lotte. Gli organismi di massa, attraverso i suddetti obiettivi, devono sempre corrispondere ed aderire ai bisogni reali manifestati dai proletari, che così diventano i reali protagonisti della lotta. Diversamente intesi questi organismi diventano pericolosi veicoli di costruzione politica su cui si può impiantare sempre una nuova oppressione, peggiore di quella precedentemente attaccata, in quanto si presenterebbe in forme più subdole e quindi più difficili da smascherare.

I gruppi anarchici insurrezionalisti non partono oggi dal riconoscersi semplicemente d’accordo su di una metodologia e una pratica insurrezionali. I compagni che li formano si basano su di un riconoscersi progressivamente d’accordo su tutta una serie di problemi. Da questo processo conoscitivo essi fanno scaturire la base dell’agire rivoluzionario. L’affinità di gruppo non viene ricercata quindi sulla base teorica di un programma, come avveniva in passato, ma sul terreno concreto dell’azione operata nel corso delle lotte. L’intervento rivoluzionario mostrerà le attitudini e le inclinazioni dei compagni, i quali, su questa base, daranno luogo a gruppi di azione che si caratterizzeranno attraverso un loro particolare modo di intervenire nella realtà dello scontro di classe.

I compagni che agiscono all’interno di questi gruppi, pur conservando ciascuno la propria individualità mostrano un modo d’azione orientato verso un fine preciso, ben definito dagli obiettivi che si sono proposti di raggiungere. Questo fatto delinea anche la forma organizzativa che il gruppo si è dato, cosa che esso mantiene fino all’esaurirsi dei compiti che, in tempi ravvicinati, si è proposto di assolvere.

Poi il gruppo si scioglie, per ricrearsi su altre basi organizzative meglio rispondenti alle nuove esigenze della lotta. Ciò avviene perché i compagni sono consapevoli che il loro ulteriore sussistere come raggruppamento in una data forma, esaurendosi la spinta propulsiva all’insurrezione, li porterebbe, per spirito di conservazione, fatalmente a cristallizzarsi, storicizzandosi sul terreno miserabile della sopravvivenza. Questi compagni quindi, prima ancora di organizzarsi, sanno che tutto quello che fanno deve essere rivolto verso un’azione insurrezionale, la cui incisività rispecchia sempre il senso di una ricerca costante verso l’agire reale sovversivo, più che accontentarsi di un fare attivisticamente fittizio. Essi sono coscienti che all’interno dello scontro di classe bisogna sempre fornire le risposte precise sul terreno del non conosciuto, dato che la lotta non può trarre alcun risultato dall’adagiarsi su percorsi precostituiti.

Sono questi i gruppi anarchici informali, cioè gruppi che si costituiscono sulla base di una affinità conoscitiva la quale delinea le forme organizzative man mano che si sviluppa l’intervento rivoluzionario stesso nella realtà sociale.

Le caratteristiche dei gruppi

I gruppi anarchici informali specifici insurrezionalisti rifiutano qualsiasi forma autoritaria, disciplinata ed accentrata di organizzazione, allo stesso modo in cui rifiutano qualsiasi modello preconfezionato di forma organizzativa, sia specifica che sociale. Gli individui che li costituiscono, esprimono, in tutta la sua portata, il proprio soggettivismo radicale che sta dietro l’azione insurrezionalista. Un tratto caratteristico della loro azione è il “volontarismo” che porta, dall’interno dello scontro di classe, a superare di fatto qualsiasi posizione fatalista o attendista sull’avvento della rivoluzione sociale, in quanto assumono un atteggiamento critico nei confronti di qualsiasi teoria o analisi poggiante sul determinismo scientifico sia meccanicistico che dialettico.

Questi compagni sono consapevoli che tra la nuda affermazione teorica e il cambiamento radicale della realtà materiale, si situa un elemento cosciente, quello della scelta e della determinazione individuale che deve esistere per battersi con forza per accelerare violentemente la fine dello sfruttamento e dell’oppressione.

Per questo, non solo rivendicano qualitativamente nella lotta la dimensione dell’individualità di ciascun compagno ma, nel processo di coinvolgimento diretto degli sfruttati all’interno del progetto anarchico insurrezionale, rivendicano anche l’individualità di tutti i proletari che partecipano attivamente alle lotte. Essi sanno per esperienza che senza l’espressione individuale di coloro che partecipano alla lotta, non vi è radicalità autentica nello scontro di classe, ma solo appiattimento e massificazione. Solo così si può possedere la consapevolezza che l’azione collettiva cresce e si radicalizza partendo dagli atti di rivolta individuali all’interno del processo rivoluzionario, in quanto sono questi a riflettere la costante misura del cambiamento sociale in atto.

È partendo da questi presupposti di fondo che tali gruppi danno luogo alla loro organizzazione informale anarchica specifica e costruiscono, all’interno dello scontro di classe, strutture autonome di massa. Queste ultime devono essere espressione diretta di quei processi di autorganizzazione sociale proletaria che sovversivamente vanno realizzandosi nel territorio. È l’informalità organizzativa che contraddistingue la lotta sociale insurrezionale, la quale cresce sulla necessità di autorganizzarsi dal basso sotto la spinta inderogabile del soddisfacimento diretto dei propri bisogni.

Così l’organizzazione diventa una necessità che, come fatto, si giustifica da se stessa, ma si basa su metodi precisi. Uno di questi è il metodo insurrezionale, il quale pone l’esigenza imprescindibile di una pratica di lotta tesa al raggiungimento immediato di precisi obiettivi.

Ci si organizza così partendo da quelle che sono le nostre esigenze di autoliberazione sociale all’interno dello scontro di classe. I gruppi anarchici informali non fanno altro che inserirsi all’interno di questa logica, dando corso all’attuazione del proprio intervento sociale insurrezionalista volto esclusivamente a radicalizzare, nelle diverse situazioni di lotta, lo scontro di classe in atto.

Le caratteristiche dell’organizzazione

L’organizzazione anarchica informale è il superamento di tutti i precedenti modelli organizzativi specifici assunti in passato dal progetto insurrezionalista. Essa rifiuta di darsi una forma organizzativa precostituita, preferisce definirsi progressivamente in relazione diretta con i progetti e gli obiettivi che i gruppi e le individualità presenti al suo interno si propongono di raggiungere nel loro intervento sovversivo. È quindi un’organizzazione di progetto, la quale non si fonda su un programma generale, non basa l’adesione dei suoi militanti su regole associative prefissate, non stila documenti costitutivi tesi a giustificare la propria necessità. La sua effettiva utilità viene sempre posta in discussione, dato che i suoi militanti rigettano qualsiasi presupposto teorico sganciato dalla pratica insurrezionalista che stanno portando avanti. È la fine di ogni attività separata, generatrice di ruoli che riproducono sostanzialmente le condizioni autoritarie e gerarchiche del vecchio mondo dominante.

Questa organizzazione, nel suo funzionamento interno, non si propone il raggiungimento di alcuna sintesi teorica ed operativa fra i militanti, dato che, oltre a riconoscere sempre e comunque l’autonomia decisionale dei gruppi e delle individualità presenti al suo interno, tiene conto delle particolarità e complessità che la realtà sociale presenta.

I suoi militanti operano pur sempre in diverse situazioni, la piena autonomia operativa in questo caso si rivela di primaria importanza, consentendo di adeguare sempre alle diverse circostanze le forme organizzative che si ritengono più incisive e congeniali allo sviluppo della lotta.

L’organizzazione anarchica informale specifica costituisce:

a) un modo preciso di coordinarsi fra gruppi ed individualità anarchiche miranti al raggiungimento di determinati obiettivi;

b) un allargamento dei singoli interventi sociali che autonomamente i gruppi portano avanti in quel momento;

c) uno spazio specifico in quanto luogo di dibattito fra diverse realtà di lotta;

d) un mezzo di solidarietà e di disponibilità di mezzi più adeguati per quei compagni isolati che diversamente non sarebbero in grado di attuare un proprio intervento autonomo nel territorio;

e) una modalità di contemporanea azione su tutto il territorio nazionale, dando il giusto peso ai diversi interventi sociali che altrimenti finirebbero per restare circoscritti ad un determinato territorio.

Ogni intervento nuovo proposto all’interno dell’organizzazione informale non significa abbandono degli interventi che i gruppi e le individualità stanno portando avanti separatamente, ma un allargamento che spinge a guardare quanto fatto precedentemente in modo sempre critico.

I limiti e le debolezze del proprio operare possono essere colti solo radicalizzando la lotta con un progressivo allargamento dell’intervento sociale. Solo in tal modo quest’ultimo può diventare più difficilmente integrabile nella prospettiva istituzionale dei partiti.

Inoltre, le nuove proposte possono garantire una maggiore e più efficace continuità delle lotte. Esistono situazioni di lotta avanzate e situazioni arretrate che devono, a nostro giudizio, essere messe a confronto. L’organizzazione anarchica informale, nel dibattito in corso al suo interno, consente ai compagni che vi partecipano, di ricavare vedute più reali e più critiche delle situazioni di lotta. Le lotte avanzate danno modo di constatare come avviene la ristrutturazione interna degli apparati di dominio e offrono la possibilità di trarre utili indicazioni per impedire il recupero delle lotte di retroguardia che, in altre situazioni, i compagni portano avanti.

Non ha fondamento invece la preoccupazione riguardante la possibile cristallizzazione della struttura in forma fissa. In pratica, l’organizzazione anarchica informale è un luogo di dibattito dove vengono presentate analisi e proposte dirette ad allargare il fronte di intervento. Ciò consente di fare corrispondere l’organizzazione, in forme sempre nuove, all’esigenza di trovare risposte concrete per potere realizzare un effettivo allargamento delle lotte. I suoi militanti, pur tendendo a darle una completezza, rifiutano di cristallizzarla in una forma organizzativa conclusa. Questa indeterminazione critica, espressa dai militanti sotto diverse forme, consente di modificare e modellare l’organizzazione, di volta in volta, secondo le diverse esigenze manifestate da tutti i compagni che vi partecipano, portando avanti, nel modo più incisivo, iniziative comuni in tutto il territorio nazionale.

Applicando il criterio che non esiste un campo d’azione privilegiato, ma è la situazione dello scontro di classe ad indicare, di volta in volta, quale intervento accentuare rispetto ad altri in corso, ne deriva che sono i compagni a determinare le scadenze e i tempi di attuazione degli interventi senza inseguire quelli proposti dagli altri. Inoltre, essendo un organismo anarchico specifico, l’organizzazione informale non riproduce burocrazie interne. Tutto il suo funzionamento si basa sull’orizzontalità delle decisioni prese nel corso di assemblee generali, le quali decisioni hanno valore ovviamente solo per chi le ha prese.

In questo senso, responsabilmente, a livello individuale e a livello di gruppo, devono essere rispettati gli impegni liberamente presi. Fuori da ogni formalità, quando non esiste l’opportunità di vedersi tutti, bisogna fare in modo, per quanto possibile, che sia presente almeno un compagno di ciascun gruppo aderente alla organizzazione. Tutto questo per far conoscere le decisioni di ogni singolo gruppo sugli argomenti già trattati e le sue eventuali proposte di azione comune.

Le decisioni prese in tali assemblee devono sempre essere riportate all’interno delle singole situazioni, dove i compagni rimangono liberi di accettarle o respingerle in parte o in tutto. Più che confidare su norme precise, si confida, per il buon funzionamento di tale organizzazione, sulla maturità raggiunta dai singoli militanti, anche se questa soluzione può comportare il rischio di una possibile paralisi organizzativa. Se questa dovesse avvenire, i compagni che hanno realizzato l’organizzazione non sono stati all’altezza dei compiti che si erano prefissati, per cui l’organizzazione stessa è meglio che si dissolva. Se, per dotarla di efficienza, dovessimo, di fatto, abbandonare i presupposti di fondo, il nostro operare andrebbe incontro alle stesse contraddizioni che abbiamo rilevato nelle altre organizzazioni anarchiche specifiche.

Tale organizzazione può quindi essere dissolta dai compagni se, nel momento stesso in cui la si sostiene, non dovesse più esprimere i contenuti che la rendevano necessaria all’inizio.

Sull’organizzazione informale anarchica non è possibile dire di più. Siamo all’inizio di questa, per certi versi, affascinante esperienza specifica che, comunque, muovendosi fuori dei vecchi modi dell’organizzarsi, vale la pena di sostenere. L’importante è non fermarsi né scoraggiarsi di fronte alle prime difficoltà, il cambiamento che desideriamo merita questo sforzo.

Le caratteristiche delle strutture di massa

I gruppi anarchici informali specifici, per costruire all’interno delle lotte le strutture di massa autogestionarie, fanno una critica radicale dell’inefficienza e della scarsa incisività delle strutture di massa dei partiti e dei sindacati.

Questi gruppi propongono agli sfruttati di uscire da tali strutture e di promuoverne autonomamente altre, data l’indispensabile necessità di partire da una base organizzativa precisa se si vuole andare avanti nella lotta e se si vogliono raggiungere determinati obiettivi.

Partendo da una metodologia insurrezionalista questi gruppi indicano agli sfruttati il modo in cui si potrebbe costruire insieme tali organismi. La proposta parte dal rifiuto di qualsiasi modello precostituito, come ad esempio quello sindacale o quello consiliarista, perché le forme organizzative di massa devono essere modellate nel corso dello sviluppo stesso della lotta.

Questo fatto segna una tappa importante nel cammino di una reale affermazione dei processi di autonomia e di autorganizzazione sociale proletaria, in quanto, oltre a dare spazio alla creatività spontanea dei proletari, fa sì che siano questi ultimi, consapevolmente, ad autodeterminare progressivamente tutti i momenti di sviluppo e non come accadeva in passato, quando erano i rivoluzionari ad assolvere a questo compito.

Quindi, le strutture proposte da questi gruppi si basano sulla messa in pratica qualitativa dei concetti anarchici, più che sulla loro accettazione idelogico-formale da parte delle masse proletarie (in questo senso si noti la distanza che passa dalle strutture di massa ideologicamente orientate dell’anarcosindacalismo).

Possiamo così delineare i compiti che il gruppo anarchico informale specifico svolge nel suo intervento insurrezionale a livello di massa:

a) farsi carico, all’interno del territorio, di spiegare agli sfruttati, con strumenti informativi e propagandistici, le ragioni della costituzione di una struttura di massa in alternativa a quelle promosse dai partiti e dai sindacati, chiarendo fino in fondo il ruolo positivo che questa struttura può avere nello sviluppo della lotta;

b) promuovere la nascita di diverse strutture di massa, le quali non si possono rinviare nel tempo, cioè non si può aspettare che siano gli sfruttati stessi a farle sorgere da soli.

Pertanto, il gruppo anarchico specifico, all’interno delle situazioni di lotta dove è presente, promuove queste strutture, sia pure a livello embrionale, cercando di indicare tutti i possibili obiettivi su cui si possono praticamente sviluppare. Infatti, essendo, per l’appunto, strutture di massa, per svilupparsi hanno bisogno della partecipazione diretta ed attiva di quanti più proletari possibile nel territorio in cui sorgono.

Questo è il loro presupposto fondamentale. Ma, il loro diffondersi territoriale, dovrebbe corrispondere sempre a un effettivo allargamento del fronte di lotta, il quale, per logica, si basa sulla partecipazione e il coinvolgimento spontaneo di sempre più larghi strati proletari. Nella prospettiva di un maggiore impulso queste strutture si coordinano nel territorio. Da ciò nasce l’esigenza pratica di dotarsi di alcuni strumenti, giudicati indispensabili per il proprio sviluppo: trovare una sede adeguata dove si riuniranno in assemblea tutti i partecipanti alle singole strutture; costituire una cassa di solidarietà permanente da dove attingere collettivamente per sviluppare le diverse iniziative, sia di propaganda (manifesti, volantini, video, ecc.), sia a livello dell’azione (un campo, quest’ultimo, dove serve disporre oltre che della necessaria determinazione anche di una certa forza pecuniaria).

Tenuto conto di queste esigenze non bisogna però cadere vittima delle facili suggestioni, facendosi coinvolgere dagli interessi sostenuti dalla cosiddetta “gente” (in questo termine, così generico e opinabile, vi rientrano tanto gli sfruttati, quanto gli sfruttatori). Quindi, nessun fronte interclassista da sostenere.

L’analisi deve sempre indicarci correttamente non solo contro quali interessi si lotta, ma anche deve portarci ad inquadrare correttamente chi, in un dato momento, è nostro referente di classe, cioè tutte le categorie degli sfruttati.

Con ciò non vogliamo assumere atteggiamenti marxisti, ma sosteniamo questa tesi perché siamo materialisti convinti e quindi pensiamo che, a parte le nostre belle idealità, esistono interessi precisi che portano gli uomini a schierarsi da una parte o dall’altra della barricata. In questo senso, la nostra azione è tesa a mettere in radicale discussione gli interessi e i rapporti di dominio esistenti.

Le strutture di massa anarchiche all’interno dello scontro di classe si configurano come organizzazioni autonome proletarie che, nel loro particolare modo di sostenere la lotta, non presentano alcuna gerarchia. Esse sono basate esclusivamente sul concetto di autogestione permanente, per cui le decisioni al proprio interno vengono prese sempre nel corso di assemblee generali.

Le forme di lotta scelte rispecchiano sempre le modalità dell’azione diretta e mostrano il rifiuto totale di qualsiasi principio di delega, anche momentaneo.

Non dandosi regole associative precostituite, questi organismi non sentono la necessità di stilare documenti costitutivi che formalmente traccino, nel dettaglio, le modalità di adesione e partecipazione.

Essi si basano sulla conflittualità permanente, data dall’essere strutture di lotta insurrezionaliste volte esclusivamente ad attaccare le strutture del dominio. Questa necessità deriva dal fatto che la lotta deve essere portata avanti con costanza, in quanto dalla sua continuità dipende anche la sua reale incisività.

La partecipazione a queste strutture di massa poggia sui presupposti sopra esposti.

Da sottolineare, infine, che queste strutture non hanno nulla delle strutture sindacali di base, non difendono interessi particolari di categoria o clientelari, né aspirano a trasformarsi in organismi di massa permanenti.

Riguardo queste strutture, che qui abbiamo descritto sommariamente, abbiamo pubblicato una serie di documenti organizzativi, elaborati nel corso delle lotte passate come, ad esempio, il documento riguardante il movimento autonomo ferrovieri del compartimento di Torino, quello delle leghe autogestite di Comiso contro la costruzione della base missilistica, quello dei nuclei autonomi di base autogestionari nel campo della produzione, quello delle strutture astensioniste zonali e, per ultimo, quello delle strutture antinucleari di base. Tutto questo materiale è rintracciabile sulla rivista “Anarchismo”, sul bollettino anarchico “Crocenera” o nel libro di Alfredo M. Bonanno Teoria e pratica dell’insurrezione (seconda edizione, Trieste 2003).

Noi vediamo nell’autogestione generalizzata delle lotte non solo la strada per spazzare via il vecchio mondo, trasformandolo radicalmente, ma anche l’unica garanzia di libertà totale affinché nulla si fermi nella vita individuale e sociale degli uomini protesi verso una trasformazione ininterrotta di se stessi e del mondo in cui vivono.

Contro l’ecologia e contro la tecnologia

Invece di tracciare un qualsiasi bilancio provvisorio, alla fine della presente analisi, preferiamo aprire un ulteriore campo di riflessione riguardo il ventaglio di problemi legato all’ecologia e alla tecnologia. Ciò perché non è nostro interesse quello di fornire soluzioni a tavolino, quanto di invitare i compagni ad approfondire, insieme a noi, i complessi problemi di un concreto agire insurrezionale, il quale ha bisogno di mezzi e di strumenti più incisivi di quelli che attualmente possediamo.

La riuscita di un progetto di trasformazione radicale della società è legata, in gran parte, all’allargamento delle proprie conoscenze, per cui diventa importante aprire un dibattito.

Sarà poi l’intervento nelle lotte a rivelarci la consistenza e l’incisività di quanto qui sostenuto, come pure gli eventuali errori e i limiti.

Sul problema dell’ecologia e della tecnologia siamo all’inizio di una critica, come lo è tutto il movimento antagonista. Le presenti riflessioni vanno quindi considerate come frammenti di esperienza derivanti delle diverse situazioni di lotta. Non essendo poi degli specialisti, queste riflessioni non hanno un carattere di incontestabile validità, ma si presentano come abbisognanti di ulteriori e più sostanziosi approfondimenti analitici.

La nostra posizione è quella degli esclusi, i quali, fuori da un campo interno di intervento, consapevolmente agiscono e si muovono, dall’esterno, in senso insurrezionalista, contro le logiche di dominio che cercano di razionalizzare gli apparati del potere. Le nostre riflessioni sono dirette ad allargare il fronte della lotta sociale rivoluzionaria.

Sulla base di queste motivazioni di fondo, agitiamo lo spettro del radicale rifiuto di tutte le tecnologie di base e, nel contempo, da un punto di vista rivoluzionario e anarchico, ci preoccupiamo di chiarire i problemi posti dall’ecologia sociale. Il tutto per evitare di ripiegare le nostre prospettive insurrezionali dentro soluzioni “alternative” che, in ultima analisi, aiutano il sistema a liberarsi delle sue contraddizioni.

L’imbroglio ecologico

Nei Paesi che si trovano nella fase post-industriale l’ecologia è diventata il fenomeno sociale più rilevante a livello di massa ed anche il più grande affare del secolo per il capitale e gli Stati.

Fuori da ogni mascheratura ideologica di comodo, come pure da ogni idilliaca presa di posizione naturalista, bisogna analizzare il significato della lotta ecologica, sia per coloro che la promuovono, sia per lo Stato e il capitale che vogliono conservare i proprio interessi di dominio.

Siamo giunti a queste conclusioni soprattutto dopo aver compreso che qualsiasi lotta sociale, la quale venga promossa prescindendo dalla distruzione immediata degli attuali rapporti di dominio, finisce per concludersi con un ripristino degli stessi rapporti.

Finora la lotta ecologica ha mirato idealisticamente a far sì che si trovassero soluzioni “alternative”, capaci di riequilibrare il rapporto distruttivo dell’uomo nei riguardi della natura, rompendo così con la logica di uno sviluppo tecnologico votato unicamente al saccheggio e alla devastazione.

Al di là delle giuste aspirazioni degli ecologisti, tutto ciò non è riuscito a mettere in discussione gli attuali rapporti di potere ma, anzi, è tornato utile al potere stesso per presentarsi in una veste più critica e attraente. L’ecologia, separata dalla questione sociale, diventa, per l’organizzazione del potere, una grossa occasione, in quanto su di essa si possono costruire grandi progetti di integrazione sociale sfruttando proprio quel consenso che le masse proletarie mettono a disposizione degli ecologisti.

L’umanitarismo ecologico di coloro che protestano contro il dissennato spreco delle risorse materiali, mentre milioni di uomini muoiono di fame, non intacca gli interessi post-industriali del capitale e degli Stati ma, al contrario, costituisce un incentivo per questi ultimi a migliorare i propri livelli produttivi e organizzativi che spesso risultano arretrati nei riguardi del livello complessivo di sviluppo industriale.

Il capitale è dunque diventato ecologico? Al contrario degli ecologisti noi pensiamo proprio di sì. Infatti, il capitale ricerca attualmente nuove tecnologie che consentano il superamento dello squilibrio ancora esistente all’interno del processo di utilizzo delle materie prime. Tutto ciò viene realizzato attraverso una maggiore razionalizzazione organizzativa dei suoi apparati produttivi. Ciò porta certamente un freno alla distruzione ecologica del pianeta, migliorando lo sfruttamento delle risorse anche grazie allo sviluppo delle tecniche di riciclaggio delle montagne di materiali-rifiuto che giacciono inutilizzate. Nei Paesi tecnologicamente più avanzati si è già a livelli notevoli in questa direzione. Da ciò la creazione di un mercato mondiale legato allo sviluppo delle tecnologie morbide ed ecologiche che rappresentano una nuova frontiera per il capitale.

La rivoluzione tecnologica di questi ultimi anni ha favorito i processi di razionalizzazione dello Stato, a prescindere dalle diverse posizioni ideologiche.

Nei paesi industriali avanzati è lo Stato stesso a promuovere grandi campagne di sensibilizzazione verso i problemi ecologici, dato che dallo sviluppo dell’industria che produce strumenti per ridurre l’inquinamento può ricavare i suoi buoni vantaggi. Un altro motivo è che così lo Stato può garantirsi, a livello sociale, una estensione del controllo sulla società, controllo basato sul coinvolgimento di grandi masse che sembrano aver fatto di questo problema il loro unico motivo di impegno sociale.

Lo sviluppo di una tecnologia ecologica diventa per gli Stati industriali avanzati un ulteriore mezzo per accrescere la dipendenza di quei Paesi economicamente più deboli condizionandone la loro via ad un possibile sviluppo. Da ciò la necessità, per tutti gli Stati e per il capitale internazionale, di finanziare i programmi ecologici, investendo miliardi di dollari.

In Italia lo Stato sostiene – come altrove – le campagne ecologiche, anzi ha creato una vera e propria cultura istituzionale ecologica, presente persino nelle scuole, dove esistono corsi specifici su questo argomento. A sostenere questo progetto sono gli uomini politici più progressisti e sensibili, che non mancano occasione di ripeterci il loro impegno e la dura battaglia parlamentare che conducono contro i conservatori e le loro vecchie logiche di potere fondate solo sul saccheggio sistematico della natura.

A dare una mano al capitale e allo Stato, nell’attuazione dei progetti ecologici, ci sono i verdi, gli ambientalisti, i quali alle rituali proteste contro la devastazione dell’ambiente uniscono proposte costruttive basate su “soluzioni alternative”. In questo modo recitano il ruolo degli oppositori propositivi al sistema, non accorgendosi di essere in questo modo gli elementi compartecipi del suo sviluppo. La loro azione è funzionale al dominio. Pur presentandosi camuffata da alti valori sociali, essa tende sempre al recupero politico delle frange dell’opposizione antistituzionale.

I verdi vorrebbero dare al dominio un volto umano, quindi credono giusto farsi finanziare nei loro progetti dallo Stato o da quelle stesse strutture che stanno devastando la natura. Adesso cercano di entrare a far parte degli enti locali e in questo modo contribuiscono a far sì che lo Stato estenda il proprio dominio anche nelle zone più periferiche.

A chi può mai interessare di fare propria una prospettiva del genere, diretta a fare abbandonare al capitale il suo insensato sviluppo verso le cosiddette tecnologie dure, sostituendole con quelle morbide ed ecologiche, se non a coloro che vogliono conservare, in prospettiva, questo sistema sociale?

A noi non interessa che il capitale persegua un determinato sviluppo, né duro né morbido, ma semplicemente interessa distruggerlo come sistema, assieme agli apparati statali che, in ogni parte del mondo, lo sostengono.

Lo spettacolo ecologista cerca di inchiodarci per sempre alla sopravvivenza, facendoci compartecipi del sistema di morte. È con supina rassegnazione che lo subiamo ogni giorno quando promuoviamo battaglie ecologiche contro l’imminente morte del pianeta.

Non si tratta di una contraddizione, ma dello specchio reale di quello che con tali lotte sosteniamo, quando, per non morire più in fretta, non ricerchiamo altro che ragionevoli moventi di lotta sociale che ci portano a non fare precipitare la situazione e quindi lasciano le cose come stanno.

Occorre, al contrario, fare qualcosa di più. La rottura violenta con l’ordine costituito è per noi una necessità vitale. In questo senso proponiamo di impostare anche la lotta ecologica su basi insurrezionali.

L’ecologia è importante per noi solo se colta dentro un radicale processo di trasformazione sociale in quanto, solo così, essa può costituire un ulteriore elemento su cui spingere per accelerare la fine di questa società del dominio.

Abbiamo quindi due strade: la prima parte dalla distruzione dei rapporti di potere per giungere ad una società libera, egualitaria ed ecologica; la seconda si limita soltanto a volere salvare il pianeta dalla distruzione totale. Scegliendo la prima strada troveremo sempre dei compagni che non mancheranno di appoggiare le nostre iniziative, scegliendo la seconda questi compagni ci sceglieranno come loro nemici.

Siamo anche noi per l’ecologia e contro l’inquinamento a tutti i livelli, solo che vediamo il realizzarsi di una lotta ecologica come inserito nella sovversione sociale e totale di tutti i rapporti e i valori dominanti su cui si regge il sistema. Vogliamo essere noi i padroni del nostro destino di uomini liberi e consideriamo negativo lasciare questo compito agli specialisti del potere. Figurarsi poi se vogliamo delegare a qualcuno la questione ecologica.

La necessità di distruggere la tecnologia

Di fronte ad una prospettiva che si basa sulla necessità di distruggere totalmente la tecnologia, molti compagni rimangono perplessi, e razionalmente si rifiutano di accettarla, dato che trovano più ragionevole e realistico porsi solo il problema di distruggere le cosiddette tecnologie dure, meglio conosciute come produzioni di morte (nucleare, armamenti di ogni specie, amianto, ecc.), salvaguardando invece tutte le altre, considerate morbide (elettronica, micro-elettronica, informatica, ecc.) perché ritenute socialmente utili, pensando, in questo modo, di poterne fare nel futuro un uso rivoluzionario. Cioè come se queste ultime fossero, al contrario delle prime, totalmente sganciabili dalla logica di potere che le ha prodotte e sviluppate.

Questi compagni assumono così, nei confronti della scienza, il classico atteggiamento illuministico-positivista, che si basa sulla pretesa neutralità degli strumenti prodotti dal sapere tecnico-scientifico, per cui criticano solo il cattivo uso sociale che il potere fa di queste tecnologie, impiegate solo a scopi di dominio totale sulla società.

Noi invece pensiamo che gli strumenti creati dal potere, al di là degli apparenti vantaggi che possono apportare qualche volta alla società, non possono che ubbidire esclusivamente alla logica che li ha creati, ed essere quindi totalmente funzionali al raggiungimento dei suoi fini, indipendentemente da chi li impiega.

Noi siamo contro chi cerca di giustificare sempre tutto, dicendo che, in fondo ad ogni cosa che questo sistema di morte produce, ci sia un residuo di buono che merita di essere preservato dalla distruzione. Inoltre, siamo dell’opinione che sia utile insinuare dubbi nella marea di certezze e di luoghi comuni che sono in circolazione. Nei problemi che trattiamo tendiamo sempre ad avere una visione di insieme che lasci spazio a una indeterminazione critica. In questo modo corriamo dei rischi in quanto ci esponiamo a critiche feroci quando commettiamo degli errori. Infatti, chi si pone in senso diverso da quello usualmente accettato, passa spesso per criminale, provocatore o, nella migliore delle ipotesi, per persona irresponsabile, rischiando così il linciaggio da parte dei buoni pensatori domestici che ingombrano il nostro movimento. Costoro non mancano mai di mettere in guardia i compagni con cui entriamo in contatto. Vige così un certo terrorismo intellettuale che non è stato fatto proprio solo da chi domina, ma anche da chi è vittima dei propri pregiudizi e dei propri fantasmi personali, mentre dovrebbe liberarsi del dominio più con fatti concreti che a parole.

Chi indica l’indiscutibile necessità delle attuali tecnologie sono i padroni, i governanti e il numeroso stuolo dei servitori. Tutti costoro hanno senza dubbio buoni motivi per far ciò. I compagni, invece, dovrebbero avere altrettanti buoni motivi per diffidare, sempre, di simili indicazioni. La cosa tragica è che spesso assistiamo a una identità di vedute tra il potere e chi lo combatte.

Tutto il bagaglio di tecnologie di base oggi impiegato in tutti i campi del vivere sociale, proviene dalla ricerca militare. Il suo uso civile ubbidisce a questa logica molto più di quanto non possiamo capire immediatamente. Infatti, tutto quello che siamo riusciti ad evidenziare è stata la messa in pratica di un preciso e scientifico progetto autoritario gerarchico nel modo di organizzarsi, mentre sarebbe stato più importante capire i meccanismi inconsci che a livello di massa consentono al potere di superare l’immediato rifiuto iniziale, da parte della gente, per arrivare, poi, ad un vero e proprio sostegno.

Il comando cibernetico è contestato da pochi, anzi la tendenza generale è quella della inevitabile accettazione. Cosa questa che porta a considerarlo indispensabile e quindi socialmente utile.

Chi indica le ragioni di una totale distruzione degli apparati tecnologici prodotti dal capitale, passa per un irrazionale ed irresponsabile che vorrebbe portare la civiltà indietro fino all’età della pietra.

Ma, riflettendo, ci accorgiamo dell’infondatezza di queste affermazioni che fanno il gioco di coloro che sostengono le logiche di dominio. La tecnologia attuale è, in realtà, il risultato pratico di una forma di conoscenza maturata nel corso dello sviluppo industriale dei processi produttivi del capitale. Essa non è costituita da un bagaglio di pratiche applicate in forma neutrale alla struttura sociale, dato che a motivarla è pur sempre la logica di potere di coloro che sostengono lo sviluppo della società. La preoccupazione di salvaguardare alcune tecnologie rispetto ad altre diventa un modo preciso per ostacolare il processo di distruzione totale dell’intero assetto produttivo del dominio. In più, porta, fin da adesso, a porre limiti alla propria azione rivoluzionaria, oltre ad intrattenere un rapporto sociale ambiguo con le strutture del dominio.

Quindi, coloro che, pur affermando di essere rivoluzionari, sostengono la necessità di salvaguardare una parte della tecnologia prodotta dal capitale, non vedono che in questa posizione danno una mano ai riformisti dichiarati, i quali, più coerentemente, sostengono una modificazione continua di tutti gli organismi del potere in modo che il sistema risulti sempre funzionale ed aderente alle nuove esigenze di dominio e ai cambiamenti della società.

Il nostro progetto radicale e totale di distruzione della tecnologia dovrà certo calarsi all’interno del processo rivoluzionario ma, fin da adesso, manifesta il fatto positivo di non porre alcun limite a priori al corso dello stesso processo rivoluzionario, né di ipotecarlo all’interno delle nostre attualmente limitate conoscenze.

Con ciò vogliamo evitare di cadere nel pregiudizio che per risolvere i problemi di una rivoluzione sociale contemporanea basti il semplice ricorso al bagaglio di conoscenze attualmente acquisito. Siamo contro coloro che manifestano una rassicurante certezza del genere considerando conclusive le attuali conoscenze.

Per come stanno adesso le cose, i cosiddetti scienziati che studiano l’intelligenza artificiale o, più genericamente, l’applicazione delle attuali tecnologie ad altri campi del sapere, in realtà sono operai della scienza. Possiedono una altissima specializzazione in un dato campo scientifico, ma, la maggior parte di loro, ignora cosa succede negli altri settori della ricerca, per non parlare della realtà sociale che spesso trascurano completamente vivendo nel clima asettico ed ovattato dei loro laboratori.

Non dobbiamo dimenticare che i ragionamenti di questi operai della scienza somigliano molto alle macchine che progettano, dato che applicano la logica binaria e sono sostanzialmente incapaci di pensare al di fuori di questo schema. Non sono ragionamenti creativi, non possono apportare alcuno sviluppo del pensiero in nessun campo del sapere. Solo la nostra ignoranza ce li fa considerare come cervelloni. Argomento che andrebbe approfondito per rendersi conto del fatto che costoro costituiscono la nuova classe intermedia prodotta dalla rivoluzione tecnologica.

Il nostro spingere verso un rifiuto conoscitivo dell’intero bagaglio tecnologico è un modo concreto di porsi il problema di ostacolare lo sviluppo produttivo del capitale.

La nostra ricerca di un radicale cambiamento sociale ci ha fatto riflettere sul fatto che, anche in campo scientifico, le più grandi scoperte l’uomo le ha fatte proprio nel momento in cui il principio di autorità è risultato assente o vacillante a tutti i livelli nella società costituita, come è accaduto al principio di questo secolo. Non si può essere rivoluzionari solo in rapporto ad una data struttura sociale che non si accetta, ma bisogna esserlo in tutti i campi, compreso quello scientifico, visto che il compito che si vuole assolvere è quello della radicale distruzione dell’ordine dominante che ha radici ovunque e, di conseguenza, va attaccato ovunque.

Il solo atteggiamento da tenere nei riguardi dei padroni della scienza, è quello di scorgere, in prospettiva, cosa nascondono dietro le cose più innocue ed umanitarie che, di volta in volta, presentano al grande pubblico di profani che si limita ad ascoltare stupefatto.

Questo riveste per noi una grande importanza, dato che siamo abituati quasi sempre ad accorgerci solo delle cose più vistose e superficiali che ci circondano. I padroni, i governanti e i loro servitori si preoccupano molto di evidenziare certe cose, quel tanto che basta per catturare la nostra innata curiosità, spingendoci a guardare verso tutto quello che, in realtà, non riveste concreta importanza. In questo modo ci fanno tralasciare le cose più importanti che vanno poi realizzate a nostra insaputa, sulla nostra pelle.

Non dobbiamo sottovalutare l’intelligenza del nemico, se no si finisce per andare incontro ad amare disillusioni, come è accaduto in un recente passato. Lo scopo di chi domina è quello di impiegare tutti gli strumenti che l’attuale conoscenza scientifica offre, non certo per liberare o alleviare le sofferenze dell’umanità, ma per farla continuare a soggiacere dentro gli attuali rapporti di dominazione che, di volta in volta, vengono modificati. Il capitale e lo Stato si trovano costretti a questa incessante modificazione proprio a seguito delle lotte che i proletari sostengono giornalmente contro di loro. Comunque, nonostante le grandi ricchezze che vengono devolute ogni giorno in questo attacco contro i proletari, la cosa è sempre più difficile e problematica, perché, in fondo, basta poco a chi si rivolta per mandare a catafascio tutti i progetti di una gestione indolore del dominio.

I rivoluzionari partono da questo impercettibile vantaggio nell’attaccare il capitale e lo Stato, una volta però che manifestino l’intenzione di volerli distruggere radicalmente, sulle basi di una lotta sociale globale la quale, per sua natura, non riconosce alcun limite, né tende né vuole concedere al nemico alcuna tregua. Qui stanno racchiuse le ragioni rivoluzionarie del perché bisogna distruggere l’intero apparato tecnologico, al di là dell’uso che molti pensano di farne in futuro. Tutto questo per evitare che la lotta sociale rivoluzionaria cada nella trappola tesa dai radical-riformisti, i quali, della distruzione parziale delle strutture di dominio, hanno fatto il punto di partenza della ristrutturazione.

Siamo quindi contro coloro che sostengono la critica politica, anche nel campo della scienza, poiché tale critica cerca sempre di ridurre le ragioni di un’opposizione radicale ad una semplice questione di dettaglio riguardante certe scelte operative. Così facendo, i sostenitori della critica politica cercano un aggiustamento e un accordo col nemico di classe che si dimostra intelligentemente disposto a modificare formalmente la propria posizione, e ciò allo scopo di ricostruire un nuovo e più razionale consenso attorno alle istituzioni minacciate.

Nessun feticcio deve albergare nelle nostre menti. Se abbiamo avuto la forza di costruirci mille catene, possiamo avere anche quella di spezzarle. Dipende da noi e dalla convinzione che avremo di spingerci coerentemente oltre le barriere dei pregiudizi e dei tabù, costituiti a tutti i livelli.

Il movimento di autoemancipazione proletaria è all’inizio di questa affascinante ricerca di libertà totale, e gli anarchici rivoluzionari sono chiamati a dare a questa ricerca un proprio contributo qualitativo.

L’autoliberazione sociale di ciascuno e di tutti non si improvvisa. Essa è il frutto doloroso di migliaia di sforzi ed errori fatti in questa direzione.

I veri ecologisti sono i distruttori della tecnologia, perché, al di là di quello che sono le convenzioni sociali accettate da tutti, avanzano dubbi, attentando alla comodità e alla tranquillità raggiunta dai rassegnati, creando nuovi problemi invece di accontentarsi di accettare soluzioni, indicando nuovi orizzonti di libertà effettiva invece di subire l’inferno della sopravvivenza che attanaglia tutti.

Il presente lavoro vuole essere un modesto contributo in questa direzione, convinti che la rivoluzione sociale, l’Anarchia, non sono sogni così lontani, ma si possono realizzare qui, nel presente. Bisogna però avere la forza di praticare il disordine dei propri sogni, guardando con occhi diversi dall’usuale quel che accade nella realtà, disposti sempre a battersi e mai a subire passivamente con rassegnazione.

L’ottusità dell’essere sempre disposti a ricominciare sta nelle ragioni di chi non ha mai smesso di farlo, nemmeno nei momenti più bui, cosciente che senza sogni da realizzare o avventure esistenziali da percorrere, da solo o insieme ad altri, non si riuscirebbe a vivere ma solo a vegetare.

Gli uomini mediocri non hanno mai nulla da chiedersi, come non hanno nulla da dirsi, al di fuori di quelle che sono le banalità di una vita spesa al supermarket della miseria che inchioda alla sopravvivenza. Il loro quieto vivere, al caldo delle quattro mura domestiche, è in fondo la più tranquilla e sicura delle prigioni.


Pubblicato su “Anarchismo” n. 56, narzo 1987, pp. 20-45
Prima edizione in volume: novembre 2013
Opuscoli provvisori n. 31